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Raffaele Urraro, Eugenio Montale, La Poesia: Che cos’è la poesia secondo Montale? – La genesi della poesia – Il fare poetico – Metodo compositivo – forme chiuse e forme aperte – Il linguaggio poetico – La dimensione musicale del verso

 

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 Che cos’è la poesia secondo Montale?

 1 – Premessa

 Eugenio Montale non ha lasciato nessuna trattazione organica sulla poesia e sul fare poetico. Ha lasciato invece un considerevole numero di articoli pubblicati nel tempo su giornali e riviste, parte dei quali – i più importanti – sono stati raccolti da Giorgio Zampa in un volume che può ritenersi la summa del pensiero poetologico del più grande poeta italiano del Novecento. (Eugenio Montale, Sulla poesia, Mondadori, Milano 1976).

Su questo testo abbiamo condotto la nostra indagine estrapolandone i passi utili alla trattazione dell’argomento che affrontiamo in questo nostro lavoro. Sono i passi nei quali più direttamente Montale affronta il tema della poesia e del poiein, e cioè quello del rapporto tra il poeta e il tempo storico, quello della poesia e della sua genesi e del suo farsi, quello del linguaggio. Relativamente ad ognuno di questi argomenti abbiamo selezionato, raggruppato e analizzato i vari passi.

2 – Che cos’è la poesia?

 Che cos’è la poesia secondo Montale?

L’11 aprile 1954 il poeta, in una lettera – a quanto pare ancora inedita –  inviata a Vittorio Masselli, che si accingeva a curare l’Antologia popolare di poeti del Novecento assieme a Gian Antonio Cibotto pubblicata l’anno seguente da Vallecchi, formulò un concetto di poesia con il quale mirava a coglierne l’essenza stessa. Ma, ahimè!, come spesso capita alle formulazioni più note e famose, il concetto non è stato compreso da tutti nel suo vero significato, tanto che ancora oggi risulta spesso travisato, distorto, maltrattato. E difatti, nella più gran parte delle citazioni, si fa passare Montale per il teorico di una poesia volutamente e programmaticamente oscura, incomunicabile, la cui funzione fondamentale sarebbe proprio quella di non essere capita.

Ebbene, a parte il fatto che una tale dichiarazione di principio risulterebbe inspiegabile e assurda, tuttavia spesso ci si è presa la libertà di banalizzare e travisare un principio poietico di grande momento. Affermava, dunque, Montale nella succitata lettera:

Nessuno scriverebbe versi se il problema della poesia fosse quello di farsi capire. Il problema è di far capire quel quid al quale le parole da sole non arrivano. Ciò non accade solo ai poeti reputati oscuri. Io credo che  Leopardi riderebbe a crepapelle se potesse leggere ciò che di lui scrivono i commentatori.

Certo, se ci si ferma alla prima proposizione – e purtroppo molti lo hanno fatto, precludendosi la possibilità di comprendere veramente il senso delle dichiarazioni del poeta –, si potrebbe avere l’impressione che Montale veda la poesia come un’attività che si consuma nella chiusa bottega alla lucerna, e il poeta vien visto come incurante degli altri ai quali non si degnerebbe di comunicare le verità o i pensieri elaborati. Ma ad una lettura più attenta si coglie già in questa espressione un principio più profondo e serio: non è quello di “farsi capire” il problema che deve affrontare il poeta nel suo lavoro creativo, nel senso che, se questo fosse il suo scopo fondamentale farebbe ricorso ad altre forme comunicative. Il problema non riguarda la “comunicazione”, ma l’essenza stessa del fare poetico e le modalità del suo realizzarsi, come risulta dal prosieguo del discorso di Montale che non si può ignorare se si vuol penetrare a fondo e compiutamente il suo pensiero. E infatti il poeta aggiunge subito che il “problema” vero del fare poetico è di “far capire quel quid al quale le parole da sole non arrivano”. Che cosa significa questa seconda, importantissima, proposizione? Significa che il problema della comunicazione è ben presente al poeta, ma che viene spostato su altri aspetti ed è incentrato non sull’intenzione di comunicare le cose con i versi, ma sulla finalità del poeta di “far capire” ciò che le parole “da sole” non avranno mai il potere e la forza di trasmettere. Un esempio concreto può servire a far comprendere ancor meglio il senso delle affermazioni di Montale. Vogliamo riferirci, visto che il Montale subito dopo cita scherzosamente  Leopardi, proprio al poeta di Recanati. Ebbene, se  Leopardi avesse voluto esplicitare e “far capire” agli altri il suo concetto di “infinito”, non avrebbe avuto bisogno di scrivere il famosissimo idillio in quanto egli aveva formulato tale concetto in diversi luoghi dello Zibaldone, e quasi con le stesse parole usate nel componimento poetico. Ma Leopardi – come del resto tenta di fare ogni vero poeta – voleva proprio “far capire quel quid al quale le parole da sole non arrivano”; e quel quid egli raggiunge con la forma poetica, e quindi con l’elaboratissima struttura generale del testo, con il ritmo dell’endecasillabo, con l’armonia della versificazione, con la selezione e combinazione originali dei segni, con la struttura retorica che egli realizza, con la stessa creazione di un’atmosfera fatta di sospensione e di attesa, con la configurazione di uno spazio-tempo immaginoso e pur reale che egli riesce a creare. Sicché alla fine il poeta, con i suoi versi, dice altro rispetto al concetto di “infinito” filosoficamente espresso nello Zibaldone.

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A questo serve la poesia. E perciò tutti i poeti tendono a dire l’oltranza delle parole, non ad essere oscuri. Ed allora è vero che se il “problema” della poesia fosse soltanto quello di “farsi capire”, cioè di comunicare concetti, nessuno scriverebbe versi per il semplice motivo che non sarebbe necessario né indispensabile far ricorso alla poesia: basterebbe esprimersi oralmente a parole, oppure con un articolo di giornale, con un saggio specialistico o con un’altra delle tante possibilità comunicative. La poesia è altro e serve ad altro. Ed anche se si fa con le parole essa vuole giungere a ciò che è inesprimibile con le parole. Al quid di cui si è parlato.

Con questo si risponde alla domanda sull’essenza vera della poesia. Ma ci sono altri interrogativi relativi al problema di che cosa essa sia. E infatti nell’Intervista immaginaria del 1946 (1) il poeta le riconosce innanzitutto una grande importanza per chi l’esercita: essa “è una delle tante possibili positività della vita”, un valore, un mezzo per realizzare sogni e illusioni o, più semplicemente, per dare comunque un senso alla propria esistenza. Tanto che Montale confessa di avere approfondito il rapporto vita-poesia e di essersi anche impadronito di “un’infarinatura di psicanalisi” per comprendere meglio l’essenza del problema.

Pervenne così ad una conclusione, “che l’arte sia la forma di vita di chi veramente non vive: un compenso o un surrogato”.

Si potrebbe, quindi, pensare al poeta come ad un uomo che non può o non sa vivere, un “separato”, uno che cerca di realizzare nell’arte, e quindi nella poesia, ciò che non riesce a realizzare nella vita. E qui l’influenza di Freud è palese e innegabile. Ma Montale, a scanso di equivoci, si preoccupa subito di aggiungere che “ciò peraltro non giustifica alcuna deliberata turris eburnea: un poeta non deve rinunciare alla vita. È la vita che si incarica di sfuggirgli” (2).

Come a dire che il poeta non abbandona mai il tentativo di vivere, né quello di vivere con/tra gli altri uomini i problemi di tutti, neanche quando egli si accorge che è la vita che continuamente si incarica di tradirlo non consentendogli di realizzare ciò che egli vorrebbe.

Nella stessa Intervista, però, Montale riconosce che la poesia stava diventando “più un mezzo di conoscenza che di rappresentazione” (3). Ma di quale conoscenza si tratta? Si tratta della

ricerca di una verità puntuale, non di una verità generale. Una verità del poeta-soggetto che non rinneghi quella dell’uomo-soggetto empirico. Che canti ciò che unisce l’uomo agli altri uomini ma non neghi ciò che lo disunisce e lo rende unico e irripetibile (4).

E perciò egli sembra proiettato verso l’affermazione di un concetto di poesia che coniughi le esigenze e i problemi del poeta-soggetto con quelli degli altri. Sono esigenze e problemi reali, colti nella loro vera consistenza. E difatti Montale dichiara apertis verbis di non pensare “a una poesia filosofica” perché, come afferma in un suo Dialogo, “la poesia filosofica esprime idee che sarebbero valide anche se espresse in altra forma. In certi casi (Lucrezio) questa poesia è vera poesia. Ma lo stesso non può dirsi di tanti filosofanti in versi (5).

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3 – La genesi della poesia

 Prima di affrontare lo specifico argomento della genesi della poesia, è necessario chiarire preliminarmente taluni aspetti del problema.

Innanzitutto Montale, come afferma in un suo articolo (6), non crede alla figura del poeta-vate, già caduta, agli inizi degli anni ’30 del secolo scorso, in una crisi inevitabile e meritata: i poeti “hanno da tempo rinunziato al loro «ruolo» di annunziatori e di profeti, almeno nel vecchio senso della frase, e credo sia un bene. Pensate al Pascoli «poeta civile» e ne sarete persuasi. E difatti erano cambiati i tempi, e quindi era inevitabile che cambiassero gli atteggiamenti dei poeti di fronte al reale e, di conseguenza, le modalità stesse del fare poetico:

ho seguito la via che i miei tempi m’imponevano, domani altri seguiranno vie diverse; io stesso posso mutare. Ho scritto sempre da povero diavolo e non da uomo di lettere professionale. Non posseggo l’autosufficienza intellettualistica che qualcuno potrebbe attribuirmi né mi sento investito di una missione importante. Continua a leggere

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POESIE SCELTE di Giovanni Parrini da “Valichi”, Moretti&Vitali, 2015 con un Commento di Giorgio Linguaglossa

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 Giovanni Parrini è nato a Firenze, dove vive. Ha una laurea in ingegneria meccanica. Ha pubblicato le raccolte di poesia Nel viaggio (prefazione di Neuro Bonifazi, Lietocolle, 2006), Tra segni e sogni (prefazione di Maurizio Cucchi, Manni, 2006), Nell’oltre delle cose (prefazione di Giovanna Ioli, Interlinea, 2011), Le misure del cielo, in rivista Poesia, n° 285, (Crocetti Editore), Valichi (prefazione di Giancarlo Pontiggia, Moretti&Vitali, 2015).

Sue poesie sono presenti nell’ Almanacco dello Specchio 2010-2011 (Mondadori), e in varie riviste, fra le quali Caffè Michelangiolo (di cui è anche collaboratore), Atelier, Il Ponte.

Richard Tuschman interno

Richard Tuschman interno

Commento di Giorgio Linguaglossa

A proposito del precedente libro di Parrini Nell’oltre delle cose  (2012), scrivevo: «Se si dovesse racchiudere in una definizione il lavoro poetico di Giovanni Parrini, si dovrebbe parlare di poesia della disseminazione prosastica in tutte le sue tonalità e modalità stilistiche, da quelle incidentali e laterali così forti da sconfinare nel loro opposto, a quelle, diciamo così, direttrici, alle corsie centrali, che appaiono più limpide, distese, con alternanza di penombre e di chiaroscuri. Da un lato, Parrini preferisce la raffigurazione di un quotidiano dimesso, con illuminazione laterale, direi di transito, temporalità del transito oltre le cose; dall’altro, c’è il progetto di indicare le «cose» come se fossero osservate da un finestrino di un treno in movimento, dove non sai se siano le «cose» in movimento o il punto di vista dell’osservatore. C’è un via vai, un affollamento, un affoltamento delle «cose», un infoltimento delle essenze delle «cose». E qui la gamma stilistica di Parrini mostra una tenuta encomiabile, risponde in modo problematico alle esigenze del canovaccio tematico (mi si passi l’espressione di gergo); a mio avviso, là dove Parrini introduce una maggiore variabilità  sintattica e stilistica con inserti metaforici e polinomi perifrastici la poesia ne guadagna in incisività e mordente. Potrebbe essere questa la direzione da seguire nel futuro dell’autore.Il titolo non casuale Nell’oltre delle cose  vuole richiamare il lettore ad una migliore attenzione, intende richiamarci alla esistenza di ciò che sta oltre le cose del quotidiano e dell’apparenza. Parrini impiega un linguaggio basso-colloquiale, cerca di tracciare un colloquio con il lettore, di metterlo a suo agio senza precludersi però la possibilità di introdurre delle sottili variazioni interne, dei distinguo, delle eccezioni. Il noto assioma secondo il quale «il linguaggio esiste indipendentemente da noi» ha il suo correlativo nell’altro: «le cose esistono assolutamente e indipendentemente da noi, per esse non si pone il problema del senso e neppure quello della significazione», stanno lì, al di fuori di noi. Esse sono. Ecco il punto. Per Parrini una visione trans-oggettuale e trans-soggettuale del linguaggio è il criterio che lo guida in questa ricerca del senso (il significato delle cose); Parrini non indica mai in modi prescrittivi là dove ci sono le cose ma le lascia intendere, le lascia nel luogo dove la loro presenza ne tradisce l’esistenza. Certo la posta in gioco è alta e impegnativa: narrare il quotidiano da un punto di vista che sta oltre le cose significa adottare un linguaggio idoneo alle premesse da cui parte. La scelta del verso libero è in tal senso azzeccata, come azzeccato è l’alternarsi di versi brevi, brevissimi e lunghi come ad indicare quella irregolarità e dis-continuità di cui il «reale» si fa porta-voce e che la poesia deve raccogliere se vuole essere all’altezza del suo compito. Ma è un processo ancora in fieri questo, e vedremo nelle prossime opere la direzione che adotterà l’autore. C’è ancora tempo».

Mi sembra che quanto scrivevo nel 2012 intorno alla difficoltà di oltrepassare questa prosasticità del dettato poetico, valga anche per questa raccolta di Parrini, fermo restando che la via da percorrere per la poesia italiana può essere percorsa non solo da un autore, per quanto dotato egli sia, ma da una continuità di tentativi collettivi.

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Giovani Parrini da Valichi Moretti&Vitali, 2015

Una di queste mattinate qui
dure come l’acciaio
ci sarà l’occasione da prendere al volo
sono certo sarà meraviglioso perdersi noi due soli
io e il navigatore
non avere alcun luogo.
Display grigio
occhi calmi.
Io da una parte che non mi risolvo mai completamente
fra perdita e memoria
da un’altra lui sbadato
radioso senza il software new release che m’ero scordato.
Beffando coordinate andremo a giro assieme
flâneur complici
circuiti e cuore in ascolto
in attesa di niente. Vinceremo.
*

Avevo molto spesso un pensiero. Dicevo, forse è per via del lavoro. Anni dopo anni su cantieri enormi, e quando bucavamo la montagna, guardando nella polvere, pensavo che quando cade l’ultimo diaframma succede al limite dello sconforto, e ti pare che il ferro della talpa pure lui sia sfinito. Ma in un soprassalto di follia, o perché ognuno ha dentro l’infinito, ti dici che non tutto può finire lì, nell’avanzare cupo ora per ora, e poi un crollo finale. Non sai perché ti ritrovi a sognare una via invisibile, parallela e vicina. Eravamo agli ultimi duecento metri, gneiss e calcescisti, distanza piena d’intimo silenzio, di ricordi e sudore. Duecento metri accanto gli uni agli altri e quella montagna col suo corpo umido, fitto di fibre. Io sono uno qualunque, uno dei tanti. Di me, di noi, mi chiedo cosa resterà in questo buio violato: forse la pena, oltre che nostra, quella incomprensibile che sento del monte agonizzante, povero come noi. Mi fermavo ogni tanto – un mezzo lavativo, dicevano – guardando quel tormento di materia, che sembrava sognasse voli e azzurro, e soffrendo spedisse tanta vita in superficie, con una forza timida, settecento ottocento metri sopra, dove tutto scorreva inconsapevole. Tra poco ci sarebbe stata luce improvvisa, un boato, qualche sorriso piegato. Poi avremmo ricominciato altrove, a tracciare altre strade, diverse e tutte eguali, che a volte dentro il sonno si confondono, si sommano, ne fanno una soltanto, che dondola, va su. Va verso l’alto. Dove non lo so.

*

L’inverno è ritornato
sembra diverso però questa volta
quasi da strabiliare
sgominare l’indifferenza.
Fino a qui è arrivato dalla dimora del gelo
che tentano situare col satellite ultimo
quello che vede bene
anche i dettagli di tanta perenne magnificenza
che invece ci resiste
non avrà traduzione
resta nel bianco lascito cui attinge il cielo per rifare la neve
o nel bulino fine del tramonto
che fa i rami gioielli
nudità le montagne
in questo lancinante addio
che natura perdona sempre al fato.
Saremo ancora qui sperduti
mai sicuri
daccapo in questo freddo
che sente tanta povera speranza e ne fa primavera.

Giovanni Parrini

Giovanni Parrini

Alla fine
chi lo direbbe
che le cose che la vicissitudine ha messo insieme
rampicando una vita
qua e là per mura accecate
alla fine
le trovi in un armadio
e a contarle ti ci vuole poco
poche ore
una giornata
non ha importanza l’unità di misura
il nodo non è quello
ma solo che decideremo noi che cosa e come scegliere
buttare conservare quello che ci parla di qualcuno
denudare uno spazio
per fare posto a roba nostra
sempre lo stesso spazio
roba al posto di altra che serviva e non serve
adesso che fa quasi preghiera
religione dimessa
nel vuoto rimbombo del legno.

*

Proprio una bella cena
di quelle dove vola la distrazione
l’evasione dal vivere solito
come il vivere è sempre
portare
consumare
digerire
convivio e trauma creaturale ottuso
chiacchierare scempio
che sale alle alte sfere
mezzanotte ammiccante su piatti e su bicchieri
sulle teste travolte dall’algida bellezza
crudele con il vario armamentario di simboli
nero fondo di grilli
abissale inquietudine
o viola incantatore della lampada per gli insetti
dove vanno a un’orribile morte
oppure scampano
e noi iddii superbi per un po’ di potenza
un niente di presenza
che tra poco uno a uno andiamo via alla spicciolata
una notte qualunque.

*

Anche fosse soltanto per la grandine
che corre pazza sulle soffitte
o per l’aurora che posa le labbra sui monti
varrebbe resistere
non chiedendo che cosa mai significhino questi misteri
cosa vogliano da noi.
Che ci arrendiamo?
Sarebbe bello
così potremmo farcene dimora
smettendo di scavare e costruire
arraffare immanenze
per non rendere vana questa notte stremante
e non fallire l’altro fulgido significato
che ci cerca e ci ama come siamo
deboli e belli
ragazzi innamorati d’un poco di poesia
a cui l’anima va
per trovarsi da vivere.

*

Con miliardi e miliardi d’altre eguali
si fa la pioggia
si evapora.
È un fato concavo di cielo il mio
m’ama un cuore di nuvola
ma voi invece no
nemmeno per la testa
non v’accorgete che sono laguna dentro i fornici
cascata oceano assieme alle altre
io di soli tre atomi
che sopra i finestrini faccio fiumi e delta
in certe sere torve
quando sareste in grado di guardare
in un’altra maniera dal chiuso d’abitacoli
nell’urgere dei clacson.
Poi ecco il tergicristallo
netta ananke di gomma. Finiremo da qualche parte
torrente o nebbia
o gemma sopra il dente d’una benna
come successe a me
e c’era uno che stava a guardarmi.
Non so che cosa avesse
rimase lì con gli occhi da bambino per un bel po’
che mi pareva quasi che piangesse mentre andava via.

edward hopper-office-night

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Allora anche un’occasione così in apparenza grigia
servirebbe a dire grazie
eppure a smozzicarne la pronuncia
rimasticandola fra i denti tutta la vicenda nostra
di dettagli da poco
non sapendo che ci ama
che ci vuole invaghiti qui perfino
col tabellone visite cui tiene dietro il fiato
chi sperso dentro una rivista mezzo spaginata
qualcuno in piedi spalle contro il muro goffrato
angeli immensi tutti
in quel fondo di mani
nella piega d’una bocca cui i pensieri s’arenano
o in quel giocare con il calendario dell’i-Phone
millenni uno sull’altro touch leggero
marzo del 5000
dicembre 7500 un lunedì
agenda da riempire
cosa saremo mai
stessa gloria e angoscia andate a perdersi
opacità dove mulina un polline di preghiere
smarrito intanto il nesso d’ogni cosa
mentre scatta il tuo numero.

*

Ci sono chimici vapori lunghi a sfibrare il sole
che ci si immerge stanco
e noi pure lo siamo.
Dovremo traslocare nuovamente domani
per poi acquartierarci
gettando l’inservibile
che ogni volta è maggiore
quasi tutto alla fine
un divario che colma di trasparenza il diario
d’assenza il sasso dell’identità
dopo molti trascorsi
sembrando che l’attesa abbia perduto il suo significato.
Ma se succede è perché quella è altro di quanto immaginiamo
serve affinché dilaghi l’invisibile nelle nostre evidenze
da starcene come isole
che il mare riassapora rende uguali.

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