
Aspettavamo da venticinque anni la pubblicazione di tutte le poesie di Maria Rosaria Madonna che finalmente vengono in luce con la curatela critica di Giorgio Linguaglossa e un saggio di Domenico Alvino per iniziativa dell’editore Progetto Cultura. Di questa straordinaria poetessa, la pubblicazione di Stige nel 1992 pur con l’autorevole presentazione di Amelia Rosselli, non riscosse particolare attenzione forse a causa della difficillima decodificazione per via di quel linguaggio in «neolatino» come lo definisce la Rosselli, che certo non ne facilitava l’accesso, ma io penso anche per la drastica estraneità con cui quel linguaggio poetico si poneva in quegli anni. Con l’adozione di un geniale mix tra «neolatino» modernizzato e un italiano antichizzato, Madonna opera un vero bypass nel corpo della tradizione novecentesca, inserisce uno shifter, una deviazione stilistica, uno spaesamento, mette di colpo fuori gioco i linguaggi poetici positivizzati di fine novecento. Ecco come commenta nel saggio in calce al volume Domenico Alvino: «Nasce il sospetto che in Madonna siano fusi paradiso e inferno, o del paradiso gran parte consista in quell’inferno in cui il moralismo sacrestano fa consistere il piacere della carne. È la sacralizzazione della lussuria, che così diventa il sommo bene, il luogo mistico al quale si addice stesso il parlare proprio dell’inverso misticismo. E le sofferenze che nel Tudertino erano il prezzo (impagabile) del peccato originale o della irredimibile indegnità, in Madonna servono a frangere il guscio per raggiungere il gheriglio, il cibo dolcissimo che vi è contenuto: sono insomma il titolo di sconto del piacere sensuale. La dedizione alla preghiera, riecheggiata dalla Regola benedettina; la spietata volontà di sacrificio; la continua, feroce vigilanza sopra i movimenti della carne; perfino la determinazione a non cedere al desiderio sempre in agguato e pronto a balzare in ogni occasione ( ecc…), tutti questi proponimenti e determinazioni, a volte anche deliranti, sono i segni della sua brama di arrendersi, di cedere all’idea sottesa che in fondo il bene è quella passione lì, il paradiso in terra è quello che spalanca l’eros».
(Donatella Costantina Giancaspero)
da “Stige”, 1992
Pallebant ora ieunis
et mens desideriis aestuabat
in meo frigido corpore et
mea libidine incendia bulliebant.
*
Sparso crine et scissus vestibus
ex collo auro pendebat ut
mea imago patiat pulcherrima.

Piero Pollaiuolo ritratto
Non coacto, nec castigo.
Alii aedificent ecclesias
ebore argentoque valvas
et gemmis aurea vel
aurata distinguant altaria.
*
Nel buio Tartaro, perturbationibus
libera et sine margaritas,
precipito sine intermissione.
Vigile sensus nec vanis cogitationibus.
*
In coelo fero mea virginitatem.
In illa vasta solitudine
putavo me romanis deliciis.
.
*
.
Et, ut mihi ipse teste est Dominus,
post multas lacrimas, multas difficultatis,
gratia ago Domino quod de amaro
semine vox angelorum capio.
.

foto d’epoca di nudo
.
Fateor imbecillitatem meam
ut ne me capiat oculos meretricis
et ne ad illicitos ducat amplexus.
*
È lecito dopo tanta immoderata
abstinentia, diverticula quaerere?
Diverticula et latronanza…
tota vita mea che fue danza
così passò il bel tempo de la giovanezza
de la mea funesta vedovanza.
Abstinentia et misticanza hodie
in paupertate.
.

foto d’epoca di nudo
.
Castigo corpus meum in servitutem etterna
castigo mei oculis in aeterna culpa
vertigo meae membra in aeterna solitudinem
redigo meae scripta in turpitudine etterna.
.
Castigo et redigo, castigo et religo.
.
*
.
In mei oculi fragmenta et ferramenta
in mei auri tormenta et placenta
in mea vagina turpitudine et abstinentia
in meae tempie rumoresque et ciarpame.
.
Véronique
.
Da la intemperie de l’incontinentia
giunta sunt at paura et maledictione
tota pulchra mea bella inconscientia
toto amaro est desio et perditione.
.
*
.
Oportet agere esperientia de la corruptione
perdimento intra farsanti et servi de la gleba
intra festanti de lo carnovale
romorìo di fantocci, latroni et usurieri
.
*
.
Gallo canente, lux redit.
Sicut haec luminaria igne visibili
depellunt tenebras.
Commento di Domenico Alvino Stige: l’eros sacralizzato
.
Non per nebulia di mente ma con assoluta, pura “trasparenza del pensiero“, l’io poetante si precipita in un “male” che scambia con “l’inequivocabile Empireo“[1]. E il modo in cui ciò avviene è stesso il modo in cui la poesia si concreta in una breve lassa (4 settenari + 2 esometri) che è performativamente un lampo, un accadere improvviso, lama di luce che evidenzia e rompe il buio: come “in un volto / incognito, nell’attimo / di un profilo feroce” vi balena lividamente l’ennemi, il persecutore e il terrore: e poi la resa, l’irriflessa adesione alla violenza erotica. Ora domina la “lingua itala”, che è della coscienza, della piena e gaudiosa consapevolezza con la quale Madonna si getta “nel fiume” dell’esistenza dell’amato “come un albero sradicato / nei vortici, nei refoli / della corrente che trascina” e va incontro al “pugnale / allo scudo, alle sudice / sconcezze, all’irriguardoso / notturno furore“, augurandosi in un ritmo di danza
.
che venga sciagura e il buio Averno
benvenga scherno e dileggio
torni amore di bene in peggio
dal freddo dicembre all’ameno maggio
che il tempo come smeriglio consuma“[2]
.
E si veda come la forza ispirativa non s’allenti, come vuole la Rosselli, ma piuttosto s’intensifichi in un canto puro, in cui si rinfrescano le voci di antichi Jongleurs e cert’aria di rimeria quattrocentesca (laurenziana e polizianea). E rispunta Jacopone, giullare di Dio, con tutti i mali della terra chiamati a raccolta, a sconto della colpa inespiabile che abitava la sua carne: ma lei, Madonna, li implora dall’amato, come una gola secca l’acqua nel deserto, e sono i mali dolci e luminosi della tenzone erotica:
.
puniscimi, incrudeliscimi,
assottigliami, vetrificami
come un lampadario di cristalli
che risplendono nella tenebra“[3]
.
C’è un momento cupo, si spegne lo “splendore nella tenebra“, e lei d’improvviso si sente vecchia e gira solitaria per la città. Momentanea lontananza dell’amato? Ed è per il ritorno, che la poesia di nuovo rompe gli ormeggi e va stordita e libera a cercare mondane corrispondenze?
.
Ne l’aura azzurra l’aquilone vola
tocca una vela che riposa sul mar;
*
Passa l’invidia come gonna gitana“[4]
.
La vita è nominata come un gioco, gli uomini come figure di tarocchi: l’io poetante vi è perso, vede il proprio volto immerso in un acquario cristallino dolcemente “ondeggiare fra i pesci rossi e le alghe” (p. 48). E tale è il modo della poesia qui: trasparenza cristallina, liquida freschezza e dolce ondeggiamento accompagnano il dire che “doglia non viene che lui non voglia”; e la poesia ha qui un altro interessante modo, mitopoietico, giocato sull’asse detto da Saussure paradigmatico: nel noto adagio, al nome di Dio la poeta sostituisce “lui”, che la poesia conseguentemente divinizza; alla foglia viene sostituita la doglia, che ne assume la leggerezza e insieme fa lampeggiare il suo contrario, il piacere. (p. 48).
S’interrompe la storia. La poesia nomina Madonna in un arresto improvviso, toccata da una brezza che l’assimila agli immobili pendii; e poi come uno scoppio di letizia frenetica, lanciata in una “danza della solitudine”, danza che esegue “immersa nel verde fogliame”, proprio all’apparire di un giallo cratofanico annunciante la potenza di un destino ineludibile: il fuggire della vita “fra le mani come anguilla” o come un brillio di passero fra i rami. Restano alcune foglie sparse, la poesia v’induce il vento che “armilla”, infonde barlumi di monili preziosi, luminii, luccichii, ciò che occorre per nomare quanto resta di un amore-luce, o fiamma che consuma, o paura e chiarità di sole, luogo di tutta la possibile felicità (p. 50).
Dissoluzione ed arsura adesso accompagnano l’attesa, dolore e rimpianto corrono in immagini fosche, in una violenza che coinvolge la natura (p. 51). Ed è scomparsa la follia di Eros, la “vera semenza” che ci scioglie dalle cose e ci genera allo spirito, e a quella che è prima dello spirito, la poesia, sconosciuta lingua depositata lungo i tempi da mille civiltà, toccata da mille fedi (p. 52).

In questo mareggiare istantaneo di tempi l’io lirico si apre spazi ove lenire il dolore dell’attesa. Percorre luoghi ed epoche in cerca di esperienze forti. È una paideia interiore, una preparazione al ritorno dell’amato. La memoria lo rifulmina in un’immagine di torvo aspetto, che per poco non dissolve la paideia e lei stessa (“io ero” – p. 53), ma non la nostalgia, la brama del ritorno, che la poesia nomina come un vortice che trascina giù (p. 54). Comincia da una astratta volontà di vivere, simile a quella che suole conseguire alle lunghe malattie. Questa non ha tempo di tradursi in versi, balza e si rifrange nella musica, quella atonale del tempo dell’attesa che è duro a passare, e nelle esometrie sillabiche si frantuma infinitamente in giorni, in minuti, in faccende distornanti e deleterie (dēléomai: “offendo, danneggio”). Poi, approssimandosi il ritorno, in quella musica a massacro irrompe la gioia del ritorno, e l’amore alleggerisce il corpo traendone la fantasia di un “vascello dalle ali spiegate”, in un reciproco dire e raccontare, per ferire e penetrare fino al fondo buio, dove nasce Eros, dolcissimo e feroce.
Segue un po’ di minutaglia senza vita. Senza Eros c’è il grigiore e la tristezza, che sono le propaggini allungate dalla morte. La salvezza è solo in Eros, che muove la natura ad operare. Così noma la poesia il nostro essere nel mondo: si sta in bilico, si è un equilibrio instabile, un grumo d’essere dal quale può nascere il moto dello spirito ad esistere, o si può precipitare in assoluta inerzia, che è l’inesistenza. E l’anima è un brivido di carne. E stesso un equilibrio è il rapporto d’amore, ché se uno è luce di ragione in moto, l’altra si lascia muovere dalla luce e si libera del peso della terra. Altrimenti coglie rose senza più passione, si addentra nell’interno di giogaie e di convalli, luoghi remoti, ove “il senso della vita incontrollata, / senza freni, senza binari” le appare “un gioco falso e avvilente”.
.
(Domenico Alvino)
«Poiesis», anno V, n. 13, Maggio – Agosto 1997, p. 26.
[1] Ivi: p. 44.
[2] M.R.Madonna, Stige, cit., p. 45.
[3] Ivi: p. 46.
[4] Ivi: p. 47.
Domenico Alvino ASCESI ED EROTISMO NELLA POESIA di MARIA ROSARIA MADONNA – con scelta di poesie da “Stige” (1992) Parte III ora in Stige Tutte le poesie (1990-2002) >Progetto Cultura, pp. 140 € 12
Aspettavamo da venticinque anni la pubblicazione di tutte le poesie di Maria Rosaria Madonna che finalmente vengono in luce con la curatela critica di Giorgio Linguaglossa e un saggio di Domenico Alvino per iniziativa dell’editore Progetto Cultura. Di questa straordinaria poetessa, la pubblicazione di Stige nel 1992 pur con l’autorevole presentazione di Amelia Rosselli, non riscosse particolare attenzione forse a causa della difficillima decodificazione per via di quel linguaggio in «neolatino» come lo definisce la Rosselli, che certo non ne facilitava l’accesso, ma io penso anche per la drastica estraneità con cui quel linguaggio poetico si poneva in quegli anni. Con l’adozione di un geniale mix tra «neolatino» modernizzato e un italiano antichizzato, Madonna opera un vero bypass nel corpo della tradizione novecentesca, inserisce uno shifter, una deviazione stilistica, uno spaesamento, mette di colpo fuori gioco i linguaggi poetici positivizzati di fine novecento. Ecco come commenta nel saggio in calce al volume Domenico Alvino: «Nasce il sospetto che in Madonna siano fusi paradiso e inferno, o del paradiso gran parte consista in quell’inferno in cui il moralismo sacrestano fa consistere il piacere della carne. È la sacralizzazione della lussuria, che così diventa il sommo bene, il luogo mistico al quale si addice stesso il parlare proprio dell’inverso misticismo. E le sofferenze che nel Tudertino erano il prezzo (impagabile) del peccato originale o della irredimibile indegnità, in Madonna servono a frangere il guscio per raggiungere il gheriglio, il cibo dolcissimo che vi è contenuto: sono insomma il titolo di sconto del piacere sensuale. La dedizione alla preghiera, riecheggiata dalla Regola benedettina; la spietata volontà di sacrificio; la continua, feroce vigilanza sopra i movimenti della carne; perfino la determinazione a non cedere al desiderio sempre in agguato e pronto a balzare in ogni occasione ( ecc…), tutti questi proponimenti e determinazioni, a volte anche deliranti, sono i segni della sua brama di arrendersi, di cedere all’idea sottesa che in fondo il bene è quella passione lì, il paradiso in terra è quello che spalanca l’eros».
(Donatella Costantina Giancaspero)
da “Stige”, 1992
Pallebant ora ieunis
et mens desideriis aestuabat
in meo frigido corpore et
mea libidine incendia bulliebant.
*
Sparso crine et scissus vestibus
ex collo auro pendebat ut
mea imago patiat pulcherrima.
Piero Pollaiuolo ritratto
Non coacto, nec castigo.
Alii aedificent ecclesias
ebore argentoque valvas
et gemmis aurea vel
aurata distinguant altaria.
*
Nel buio Tartaro, perturbationibus
libera et sine margaritas,
precipito sine intermissione.
Vigile sensus nec vanis cogitationibus.
*
In coelo fero mea virginitatem.
In illa vasta solitudine
putavo me romanis deliciis.
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Et, ut mihi ipse teste est Dominus,
post multas lacrimas, multas difficultatis,
gratia ago Domino quod de amaro
semine vox angelorum capio.
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foto d’epoca di nudo
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Fateor imbecillitatem meam
ut ne me capiat oculos meretricis
et ne ad illicitos ducat amplexus.
*
È lecito dopo tanta immoderata
abstinentia, diverticula quaerere?
Diverticula et latronanza…
tota vita mea che fue danza
così passò il bel tempo de la giovanezza
de la mea funesta vedovanza.
Abstinentia et misticanza hodie
in paupertate.
.
foto d’epoca di nudo
.
Castigo corpus meum in servitutem etterna
castigo mei oculis in aeterna culpa
vertigo meae membra in aeterna solitudinem
redigo meae scripta in turpitudine etterna.
.
Castigo et redigo, castigo et religo.
.
*
.
In mei oculi fragmenta et ferramenta
in mei auri tormenta et placenta
in mea vagina turpitudine et abstinentia
in meae tempie rumoresque et ciarpame.
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Da la intemperie de l’incontinentia
giunta sunt at paura et maledictione
tota pulchra mea bella inconscientia
toto amaro est desio et perditione.
.
*
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Oportet agere esperientia de la corruptione
perdimento intra farsanti et servi de la gleba
intra festanti de lo carnovale
romorìo di fantocci, latroni et usurieri
.
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Gallo canente, lux redit.
Sicut haec luminaria igne visibili
depellunt tenebras.
Commento di Domenico Alvino Stige: l’eros sacralizzato
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Non per nebulia di mente ma con assoluta, pura “trasparenza del pensiero“, l’io poetante si precipita in un “male” che scambia con “l’inequivocabile Empireo“[1]. E il modo in cui ciò avviene è stesso il modo in cui la poesia si concreta in una breve lassa (4 settenari + 2 esometri) che è performativamente un lampo, un accadere improvviso, lama di luce che evidenzia e rompe il buio: come “in un volto / incognito, nell’attimo / di un profilo feroce” vi balena lividamente l’ennemi, il persecutore e il terrore: e poi la resa, l’irriflessa adesione alla violenza erotica. Ora domina la “lingua itala”, che è della coscienza, della piena e gaudiosa consapevolezza con la quale Madonna si getta “nel fiume” dell’esistenza dell’amato “come un albero sradicato / nei vortici, nei refoli / della corrente che trascina” e va incontro al “pugnale / allo scudo, alle sudice / sconcezze, all’irriguardoso / notturno furore“, augurandosi in un ritmo di danza
.
che venga sciagura e il buio Averno
benvenga scherno e dileggio
torni amore di bene in peggio
dal freddo dicembre all’ameno maggio
che il tempo come smeriglio consuma“[2]
.
E si veda come la forza ispirativa non s’allenti, come vuole la Rosselli, ma piuttosto s’intensifichi in un canto puro, in cui si rinfrescano le voci di antichi Jongleurs e cert’aria di rimeria quattrocentesca (laurenziana e polizianea). E rispunta Jacopone, giullare di Dio, con tutti i mali della terra chiamati a raccolta, a sconto della colpa inespiabile che abitava la sua carne: ma lei, Madonna, li implora dall’amato, come una gola secca l’acqua nel deserto, e sono i mali dolci e luminosi della tenzone erotica:
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puniscimi, incrudeliscimi,
assottigliami, vetrificami
come un lampadario di cristalli
che risplendono nella tenebra“[3]
.
C’è un momento cupo, si spegne lo “splendore nella tenebra“, e lei d’improvviso si sente vecchia e gira solitaria per la città. Momentanea lontananza dell’amato? Ed è per il ritorno, che la poesia di nuovo rompe gli ormeggi e va stordita e libera a cercare mondane corrispondenze?
.
Ne l’aura azzurra l’aquilone vola
tocca una vela che riposa sul mar;
*
Passa l’invidia come gonna gitana“[4]
.
La vita è nominata come un gioco, gli uomini come figure di tarocchi: l’io poetante vi è perso, vede il proprio volto immerso in un acquario cristallino dolcemente “ondeggiare fra i pesci rossi e le alghe” (p. 48). E tale è il modo della poesia qui: trasparenza cristallina, liquida freschezza e dolce ondeggiamento accompagnano il dire che “doglia non viene che lui non voglia”; e la poesia ha qui un altro interessante modo, mitopoietico, giocato sull’asse detto da Saussure paradigmatico: nel noto adagio, al nome di Dio la poeta sostituisce “lui”, che la poesia conseguentemente divinizza; alla foglia viene sostituita la doglia, che ne assume la leggerezza e insieme fa lampeggiare il suo contrario, il piacere. (p. 48).
S’interrompe la storia. La poesia nomina Madonna in un arresto improvviso, toccata da una brezza che l’assimila agli immobili pendii; e poi come uno scoppio di letizia frenetica, lanciata in una “danza della solitudine”, danza che esegue “immersa nel verde fogliame”, proprio all’apparire di un giallo cratofanico annunciante la potenza di un destino ineludibile: il fuggire della vita “fra le mani come anguilla” o come un brillio di passero fra i rami. Restano alcune foglie sparse, la poesia v’induce il vento che “armilla”, infonde barlumi di monili preziosi, luminii, luccichii, ciò che occorre per nomare quanto resta di un amore-luce, o fiamma che consuma, o paura e chiarità di sole, luogo di tutta la possibile felicità (p. 50).
Dissoluzione ed arsura adesso accompagnano l’attesa, dolore e rimpianto corrono in immagini fosche, in una violenza che coinvolge la natura (p. 51). Ed è scomparsa la follia di Eros, la “vera semenza” che ci scioglie dalle cose e ci genera allo spirito, e a quella che è prima dello spirito, la poesia, sconosciuta lingua depositata lungo i tempi da mille civiltà, toccata da mille fedi (p. 52).
In questo mareggiare istantaneo di tempi l’io lirico si apre spazi ove lenire il dolore dell’attesa. Percorre luoghi ed epoche in cerca di esperienze forti. È una paideia interiore, una preparazione al ritorno dell’amato. La memoria lo rifulmina in un’immagine di torvo aspetto, che per poco non dissolve la paideia e lei stessa (“io ero” – p. 53), ma non la nostalgia, la brama del ritorno, che la poesia nomina come un vortice che trascina giù (p. 54). Comincia da una astratta volontà di vivere, simile a quella che suole conseguire alle lunghe malattie. Questa non ha tempo di tradursi in versi, balza e si rifrange nella musica, quella atonale del tempo dell’attesa che è duro a passare, e nelle esometrie sillabiche si frantuma infinitamente in giorni, in minuti, in faccende distornanti e deleterie (dēléomai: “offendo, danneggio”). Poi, approssimandosi il ritorno, in quella musica a massacro irrompe la gioia del ritorno, e l’amore alleggerisce il corpo traendone la fantasia di un “vascello dalle ali spiegate”, in un reciproco dire e raccontare, per ferire e penetrare fino al fondo buio, dove nasce Eros, dolcissimo e feroce.
Segue un po’ di minutaglia senza vita. Senza Eros c’è il grigiore e la tristezza, che sono le propaggini allungate dalla morte. La salvezza è solo in Eros, che muove la natura ad operare. Così noma la poesia il nostro essere nel mondo: si sta in bilico, si è un equilibrio instabile, un grumo d’essere dal quale può nascere il moto dello spirito ad esistere, o si può precipitare in assoluta inerzia, che è l’inesistenza. E l’anima è un brivido di carne. E stesso un equilibrio è il rapporto d’amore, ché se uno è luce di ragione in moto, l’altra si lascia muovere dalla luce e si libera del peso della terra. Altrimenti coglie rose senza più passione, si addentra nell’interno di giogaie e di convalli, luoghi remoti, ove “il senso della vita incontrollata, / senza freni, senza binari” le appare “un gioco falso e avvilente”.
.
(Domenico Alvino)
«Poiesis», anno V, n. 13, Maggio – Agosto 1997, p. 26.
[1] Ivi: p. 44.
[2] M.R.Madonna, Stige, cit., p. 45.
[3] Ivi: p. 46.
[4] Ivi: p. 47.
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