Non comincio subito dai complimenti. Prima, pane al pane. L’elogio, se è meritato, alla fine dell’excursus concernente Capricci, la prima raccolta sagrediana edita in Italia. Col barocco che gli muove le dita sulle pagine, con i libri dei bardi che gli intrugliano le viscere, Antonio Sagredo non presta orecchio alle sirene che ululano da tempo immemore la morte della poiesis.
Sarebbe troppo comodo che la poesia avesse tutti i torti (inattualità, incomprensibilità, minestrina riscaldata in brodo lirico), il guaio è che circolano giudizi su di essa troppo giudiziosi, al limite del sussiegoso. Per questo siamo felici di introdurre una scrittura testarda e impura, immacolata e oscena, profondamente ironica e drammatica, l’uno aspetto e l’altro autentici, l’uno la correzione dell’altro.
Il peso della tragedia, quello no, non riusciamo più a sopportarlo come una volta, come ci hanno insegnato i tragediografi attici nella lontana classicità greca. Attraverso le formule retoriche della reticenza, della litote, delle clausole bonarie, oggi preferiamo che il ghigno sardonico si stacchi dagli stasimi e che inizi una storia parallela, da far scadere presto nella farsa, oppure nel dolore recitato.
Il Nostro invece prova a tenere insieme il fasto e l’infausto, viventi e coevi, corni dialettici di un dilemma esistenziale che non si scioglie, ma che proprio a motivo di ciò non va taciuto. Qui, sulla scena, si accampano tesi e antitesi (ironia e dramma appunto), affabulanti ciascuno a modo suo, capaci di allargarsi e debordare, come in uno stagno, un cerchio dopo l’altro, attraverso simboli non degradati, simulacri pieni, allegorie concrete e metafore infiammate.
I cerchi concentrici della scrittura si allargano con inebriante vitalità in questo libro pentastico, un polittico in cinque sezioni (Poesie dell’anno corrente- 2008, Poesie del secondo anno corrente- 2009, Poesie del terzo anno mediocre-2010, Poesie dell’anno inattuale- 2011, Poesia dell’anno iconoclasta- 2012), incentrate su un caleidoscopio abbacinante di argomenti: la folle incorruttibilità di chi versifica non per gioco, ma perinde ac cadaver; il rapporto tra la verità della finzione letteraria e la falsità della vita ammassata sul dorso di folle anonime e anomiche; l’enciclopedia agghiacciante del mito e la paginetta stinta del pensiero unico dominante alle nostre latitudini. E ancora, il tema logaritmico del doppio annichilito e dello specchio ustorio, il riordino dei concetti di natura naturans e natura naturata (non più fondale passivo delle azioni umane), la pulsazione carnale e iconoclasta per lombi, glutei e reggicalze in ordine a una sensualità accesa e delirante. E per finire, la salute cosmetica dei corpi levigati e la dilagante malattia morale, la reinclusione del trascendente nell’orizzonte empirico come riconoscimento e accoglienza dell’Altro.
Allo stesso modo di un carro di Tespi si susseguono corifei e primi attori, persone incontrate nel quotidiano e personaggi estratti dal tesoretto letterario classico-contemporaneo: il requiem per Orfeo e Euridice con il suggestivo movimento del Lacrimosa; lo strano connubio fra Bruce Chatwin e Cassandra; lo scacco di Giacobbe e i malleoli bolsi di un’Ermione postdannunziana; lo stampo melodrammatico della Casta Diva e i giochi di pensiero di Eraclito. E poi ancora in apparizione disordinata: clown, ventriloqui, il bacchino malato, calpestatori di immagini e disperati ridanciani, tutti avviati loro malgrado lungo il sentiero che separa il Golgota da Valpurga, l’Apocalisse prossima ventura da una fideistica palingenesi.
Alla paura di osare, al bisogno di mettersi al riparo da ennui e idéal, lasciando nelle pagine insegnamenti insignificanti, Sagredo oppone lo studio dell’interiorità: scandaglia, scandalizza, trascina significanti e significati dal sublime al letame, procede per excessus, violentando senza pietà il malcapitato lettore, che non sa di essere ingabbiato fra un passato profetico, un’attualità castrante e un futuro ricattatorio.
Sagredo aggancia le sue vertebre alla poesia con durezza e severità. In qualità di scrittore non si perdona niente, affronta la composizione dei testi a occhi asciutti, perseguendo come un imperativo categorico la sincerità. Questo spiega perché fischia alla vita come uno storno e la divora come una torta di noci (Mandel’štam).
Antonio Sagredo si aggira in stiffelius (prefettizia o redingote), tornando dal secolo decimonono con il taglio dell’abito lungo virato al nero, petto unico e revers slanciati. Pronto con il suo sparato a districarsi fra Colombina e maschere ferrigne, Lazzari felici e fughe per pianoforte di Čiurljonis. Pronto a rimettersi in gioco e a rimettere in gioco canoni e paradigmi, il dove e il non-dove, la mollica rafferma della banalità e una diversa visione delle cose.
L’autore di Capricci formula con determinazione le proprie regole versificatorie, pur sapendo che il lettore italiano non è abituato a intrattenere un rapporto attivo –interpretativo con ciò che legge. E invece in queste pagine viene chiamato a rischiare in proprio comprensione e emozione, senza l’assistenza della solita voce autorevole esterna, che stabilisce una volta per sempre segni e segnali, messaggi e probabile universalismo del testo in oggetto.
Le istruzioni per l’uso convergono verso una scrittura concitata, rabdomantica, insofferente alla rappresentazione univoca, sottoposta a un esplosivo cortocircuito di immagini e pensiero, di tagliente riflessione e di ridefinizione del contorno dei fatti e delle cose. Accettata l’insufficienza del minimalismo da camera, putrido e stagnante, si viene immessi in una energica condizione di movimento: chi scrive scruta in ogni direzione, tratta con flessibilità gli angoli delle figure geometriche, stratifica con abilità sentimenti a perdita d’occhio.
Il linguaggio sintetico della poesia e quello analitico della prosa confluiscono nel main stream di una nuova modalità del discorso poetico che illumina, a sua volta, un particolare metodo di destrutturazione del reale, oltre che un modo tutto personale di insufflare nelle composizioni poetiche un’autentica vitalità, evitando la riproposizione di versi asfittici e autoreferenziali come usa adesso.
Perentorio e feroce, Antonio Sagredo aggredisce le parole, le dispiega in uno spazio scrittorio originale, all’interno del quale le frasi selvagge e scoscese, spesso oscure e avvelenate, non rifuggono mai da una logica rigorosa.
Sembra che la tensione barocca della versificazione vada a insaccarsi nella complicanza fine a se stessa, così da impregnare e appesantire i testi, e invece la tara del cerebralismo viene azzerata, dando a intendere che anche un frutto amaro può essere assaporato senza pericolo, purché si impari a gustare il lato oscuro della vita, quello che le anime timorose seppelliscono sotto la superficie tediosa della lirica monocorde.

Roma, 31 gennaio 2018, Presentazione di Capricci, da sx Laura Canciani, A. Sagredo, G. Linguaglossa, S. Grieco Rathgeb
Qui esplodono avventure dentro lande urbane e paesaggistiche inesplorate e il lettore si trova a sbattere i tacchi più volte, messo di fronte alla scelta di volgersi indietro alle rassicuranti buone poesie di pessimo gusto, oppure di precipitarsi in avanti a cogliere in anticipo l’ambrosia più o meno acerba del futuro.
Poesia sui generis dunque, perché fonda le sue premesse su una azzardata weltanschauung con la quale viene frantumato l’intero ontogenetico per elencare, catalogare, stipare frammenti in uno spazio non più tridimensionale e in un tempo non più lineare.
Lo spazio-tempo tradizionale metamorfosa in un quasi nulla e in un pressoché tutto, locus horribilis et amoenus per un verso, d’altra parte un festina lente temporale come si conviene a una dimensione esperienziale che manifesta in concreto le sue leggi a uno sguardo indagatore, segnato dalle leggi combuste della verità:
(Il Disturbatore)
Sagredo non usa schemi per separare apparenza e essenza, taglia e cuce pagine di prosa e poesia in stile fenomenologico.
La ruvida eleganza di questi versi dipende dall’intelligenza dell’autore, ma anche dalla necessità di conciliare in un punto esteriorità e interiorità in perenne conflitto tra di loro: eleganza e ruvidità si combinano in una passione espressiva cupa, dolorosa, ilarotragica, eroica, spavalda (in senso intellettuale), in virtù della quale ogni accostamento semantico diventa possibile, così come ogni descrizione e registro linguistico, ogni coesistenza in totale libertà di elementi etici e dianoetici, di frantumi empirici e metafisici.
Strofe belle e nere, dilatate fra volontà e voluttà, si rovesciano sul proprio ventre e si strofinano sui bordi lucidi dei congegni meccanici di questo mondo schifoso e insulso.
Respirare l’eterno, sarebbe questa la meta poetologica di Capricci, se le narici dell’Oltre restituissero un minimo fiato di ciò che costituisce l’ignoto. Se le froge dell’Oltre sfiatassero rumorosamente e intensamente, dovrebbero arrivarci odorosi profumi e incensi, scie magnifiche di letizia, l’estasi ineffabile dell’assoluto, tuttavia il sogno viene subito abbattuto e ricondotto alla sua condizione di pura evanescenza psichica.
A dispetto dell’inevitabile fallimento programmatico (intendo l’approdo nel non visibile), vale la pena di salire sulla stessa carrozza di Sagredo e viaggiare con la coscienza del rischio e di una possibile composita bellezza.
Non abbandoniamo il Tempo al suo corso tumorale,
prendiamo possesso delle sue inquietanti traiettorie,
le nostre passioni battono destinazioni ignote
e sapremo allora quanto vale l’essere qui e non altrove.
Le Tavole sono imbandite da Tarocchi straniati
che fanno l’occhiolino ai presagi e agli epitaffi.
Le carte impazzano, danzano con la mia ombra,
perché non leggano, sazie del giudizio, il tuo delirio!
(una finestra, un molo)
Il Nostro non si muove solo nell’ordine umanistico, secondo un accanito recupero delle fonti (grecolatine, mitteleuropee, russe, anglofone e quant’altre), ma in una concezione olistica dell’esistenza, per questo intreccia l’intonazione e la linea melodica delle frasi, il grafico armonico e l’oggetto scenico. La peculiare combinazione di elementi sonori e visivi compensa la deterritorializzazione dell’io poetico, non più centro unificante psichico e sensoriale, né più misura del reale. Al posto della soggettività di tipo cartesiano compaiono al proscenio eteronimi frantumati, disgregati, privi di acclamate verità. Difficile non avvertire come la lacerazione dell’io possa condurre all’ininterpretabilità dei suoi atti, al suo ammutolire definitivo, al suo provvisorio acconciarsi alla bruttezza. Il soggetto razionale si macchia di apparenza, divenendo un punto-massa afasico.
Il tentativo di superare una simile straniante condizione avviene attraverso l’associazione di vari strati culturali in contesti simultanei, attraverso la fusione di diverse epoche in un amalgama di vari filoni letterari e sociali, trattandosi di pezzi, elementi, brandelli di mondi avvicinati e volti a sé: squarci, brandelli, lacerti e residuati prendono forma secondo una precisa strategia prosodica e si trasformano in percorsi, tracce di ricerca, buone narrazioni e agili passaggi, frammenti e focalizzazioni.
Ne consegue una scrittura viva, con le vene aperte, vissuta diversamente dai soliti scartafacci intellettualistici.
Sagredo rivede il mondo, lo rivisita con furia e lentezza, con ripensamenti continui e solide idealità. Non un semplice poiein, ma un farsi continuo e creativo sotto gli occhi del lettore attonito:
Il traguardo è già dietro alle tue spalle ed è un luogo
conquistato, ma altri luoghi affollano nuovi pensieri
e molteplici spazi aspettano i soggetti: quante filosofie
ancora abbiamo da conquistare! Le Muse vogliono baciare
l’ultimo frammento, invano! Brunite sono le parole nei cieli!
L’imperfezione giuliana trionfa sul concetto monolitico:
spazza via l’assoluto indegno, le totalità inutili!
(Fragment…azione)

Roma, 31 gennaio 2018, Presentazione di Capricci, da sx A. Sagredo, G. Linguaglossa,