Archivi tag: poesia tedesca

Ingeborg Bachmann, Poesie da Non conosco mondo migliore, con una Nota del traduttore, Silvia Bortoli, con Appunti critici di Steven Grieco Rathgeb e Giorgio Linguaglossa

paul celan ingeborg bachmann

Ingeborg Bachmann e Paul Celan, anni sessanta

Nota del traduttore

I testi della Bachmann* raccolti in questo volume sono prevalentemente abbozzi e frammenti in origine non destinati alla pubblicazione e che non sono passati al vaglio di una cura critica. La loro natura di appunti sparsi, spesso vergati frettolosamente a mano, a volte oscuri, crea non poche difficoltà di lettura, ma ha il grande merito di mostrare la poesia nel suo farsi, nel suo andare a tentoni, trasportando un’immagine o una parola da un testo all’altro, alla ricerca di una destinazione che spesso sarà altrove, in un’altra opera più compiuta e significativa, ma che ha inizio qui, nell’abbozzo e nel tentativo: Questi testi, spesso interrotti, spesso raggrumati in parole dalle quali balugina un senso che resta nascosto e che traspare altrove in modo ancora incompiuto, sono tuttavia di grande interesse perché ci mostrano il laboratorio della poesia di una grande figura della nostra modernità.

Traducendoli ho scelto di seguire il testo senza chiuderne il senso lì dove un’interpretazione troppo esplicita lo avrebbe forzato in modo arbitrario, cercando di offrire una traduzione compiuta ovunque fosse compiuto o largamente plausibile, e accettandone invece la precarietà e la frammentarietà dov’era precario e frammentario, accompagnandolo nella sua incompiutezza anche quando poteva risultare stridente.
Non ho voluto caricare la traduzione di note che per essere esaustive avrebbero dovuto essere moltissime; chiunque conosca un poco la lingua tedesca potrà verificare sul testo originale difficoltà, incongruenze e il modo in cui ho cercato di risolverle.

Tradurre un testo la cui trascrizione è in molti punti ancora incerta e provvisoria non può che essere una proposta, un primo tentativo. In questo primo tentativo mi è stata di grandissimo aiuto Rita Svandrlik, che mi ha confortata nei miei infiniti dubbi con la sua profonda conoscenza della poesia della Bachmann: a lei va tutta la mia profonda gratitudine. Se nonostante il suo aiuto puntuale e generoso vi sono degli errori, la responsabilità è solo mia.

[ndr. Queste poesie sono state scritte a Zurigo, Berlino e Roma, le ultime tappe della vita della Bachmann, nel periodo tra il 1962 e il 1964, alcune anche più tardi]

(Silvia Bortoli)

da Ich Weiss keine bessere Welt, Non conosco mondo migliore, Guanda, 2004 trad. di Silvia Bortoli

Steven Grieco-Rathgeb

21 luglio 2016

 “La realtà acquista un linguaggio nuovo solo tramite uno scatto morale… si ha linguaggio nuovo ogni qualvolta si verifica uno scatto morale, conoscitivo, e non quando si tenta di rinnovare la lingua in sé, come se essa fosse in grado di far emergere conoscenze e annunciare esperienze che il soggetto non ha mai posseduto. Se ci si limita a manipolare la lingua per darle una patina di modernità, ben presto essa si vendica e mette a nudo le intenzioni dei suoi manipolatori.”

Forse noi non useremmo più la parola “morale” in questo contesto. Ma invece la parola è perfetta nel suo senso di “misura”. La parola subito successiva è “conoscitivo”. E qui sta tutto il senso di quello che la poetessa vuole significare: “immorale” giocare con la lingua, “morale” cercare nella lingua una via di uscita dall’atroce e irrisolvibile dilemma del crimine nazista (che in verità solo un lunghissimo tempo può sanare).
Ricordiamo che questa poetessa ha sofferto la storia e il Nazismo quasi quanto Celan.
E Anna Ventura ha un po’ ragione, la poesia di Bachmann è stranamente fredda, talvolta potente, altre volte quasi incapace di risuscitare dal distacco quasi ossessivo da se stessa, dal rifiuto di ogni scrittura che infine diventa scrittura.
E c’è anche in lei un forte rifiuto dell’immagine come evocazione, come spinta per raggiungere una sponda salvifica, un luogo che purifica l’animo. In questo lei appartiene alla schiera di poeti quali Rozewicz, per cui valeva il famoso dictum di Adorno sulla poesia dopo Auschwitz.
Rozewicz ce l’ha fatta, con il suo tenace istinto di sopravvivenza, a superare i terribili anni 1945-1980. La Bachmann no.
Sicuramente lei, austriaca e di lingua e cultura tedesca, ha pagato con la vita l’essere nata fra quel popolo.

Appunto critico di Giorgio Linguaglossa

Scrive la Bachmann:

«Ho smesso di scrivere poesie quando m’è venuto il sospetto di ‘esserne capace’ anche quando non c’era la necessità di scriverne. E non ci saranno più mie poesie, almeno fino a che non sarò convinta che debbano essercene di nuovo, e allora saranno solo poesie talmente nuove da corrispondere veramente a tutto quel che sarà stato esperito fino a quel punto.»[1]

Per la Bachmann la scrittura poetica si configura come esperienza esistenziale, ricerca di parole autentiche. La poesia è un modo di essere, un fare, una praticaun aprire la soggettività alla irruzione di pulsioni, ritmi, parole che implicano e significano la distruzione del linguaggio poetico convenzionale e la creazione di una nuova soggettività in grado di aprirsi al nuovo linguaggio poetico.

La pratica della scrittura poetica è questa assillante fedeltà al farsi e disfarsi dei versi, lavoro minuzioso e diuturno  alle correzioni, alle frasi tronche, lavoro sugli incipit che si ripetono e si riprendono lungo il farsi del linguaggio, è questo lo stadio aurorale del nuovo linguaggio, un linguaggio più aderente alle necessità espressive della ricerca esistenziale. «La loro natura di appunti sparsi […] ha il grande merito di mostrare la poesia nel suo farsi, nel suo andare a tentoni […]. Questi testi, spesso interrotti, a volte raggrumati in parole dalle quali balugina un senso che resta nascosto e che traspare altrove in modo ancora incompiuto,  […] ci mostrano il laboratorio della poesia di una grande figura della nostra modernità.»[2]

Sono scomparse le mie poesie. / Le cerco in tutti gli angoli della stanza./ Per il dolore non so come si scriva / un dolore, non so in assoluto più nulla.// So che non si può cianciare così,/ dev’essere più piccante, una pepata metafora. / dovrebbe venire in mente. Ma con il coltello nella schiena […]// Adieu, belle parole, con le vostre promesse.

In questi versi della Bachmann si profila chiaramente la crisi del linguaggio poetico convenzionale. Cercare le parole senza prima aver aperto la soggettività ad una nuova dimensione spirituale ed esistenziale significa perdere contatto con il linguaggio. Per la Bachmann il linguaggio poetico o lo si ha o non lo si ha, lo si può acquisire soltanto tramite un lungo viaggio di ricerca esistenziale.

[1]  Ingeborg Bachmann, In cerca di frasi vere, Colloqui e interviste a cura di Christine Koschel e Inge von Weidenbaum, tr. it. di Cinzia Romani, Laterza, Bari 1989, p. 57.

[2]  V. Nota del traduttore in Ingeborg Bachmann, Non conosco mondo migliore, cit., p. 4 (corsivo mio).

Ingeborg Bachmann Hans Werner Henze 1952

Ingeborg Bachmann Hans Werner Henze 1952

Poesie di Ingeborg Bachmann da Non conosco mondo migliore (poesie scritte tra il 1964 e il 1967)

La tortura

Chi mangia col mio cucchiaio
chi dorme nel mio letto
chi spende il mio denaro
Ama, chi si gode
il mio sole? E dov’è questo sole?
È lontano.
Infatti io
sono dove
non posso essere.
Ah, lo permette chi
per un breve attimo di anni
non mi ha
amata, lo permette,
non vedete amici
non lo vedete
che dappertutto
incomincio a scavare la mia
mia tomba,
anche in questa carta in-
cido il mio nome e
penso che non vorrei riposare
ancora, che non risposerò
mai, che
persiste, questo ferro
nel corpo, questo pugno sul
cranio, questa frusta
sulla schiena, che fa
scoppiare il Kurfurstendamm
in una risata stridula,
da mille réclame
grida, che il caffè bollente
mi viene versato sulla
mano, che mi tolgono
la pelle, che mi
tagliano la carne,
mi spezzano le ossa,
e mi murano viva,
allora un piccolo squalo sega
allora salto in acqua,
mi divora, mi
divora uno squalo più grande
un pesce predatore che
si chiama dolore.
E io dondolo la testa
senza capirlo. Laggiù
una nave, passa,
la vedo, voi la vedete amici?

*

Ich trete aus mir
hervor, aus meinen Augen
Handen, Mund, ich
trete hervor aus
mir, Gute und Göttlichem
die diese Teufeleien
gut machen Muss,
die geschehen sind

*

Esco fuori da me,
dai miei occhi
mani, bocca,
esco fuori da
me, una schiera
di bontà e divino
che deve rimediare
alle malvagità
accadute

Gloriastrasse

Per sorella Ammeli

In un letto
in cui sono morti molti
senza odori, in camicia bianca
curati, come una
conversazione infinita,
in una casa in cui
si mangia puntualmente, in cui
la padrona di casa
si chiama morte e molti di più
soffrono ancora. E in molte migliaia
hanno versato il deposito

Nell’estasi della morfina
tra i dolori che
non richiedono nessuna ferita,
nessun inchino, nessun
autografo, nessuna umanità
nessun trionfo, un folle spettacolo che grida vendetta [ – – ]
Tra visite
visite, ma
visitatemi
voi che gridate vendetta

Nel vuoto, quando il
telefono non squilla mai, quando
la conversazione sterilizzata
somministra dosi, supposte, fasciature,
gocce, dosi, dolore che
però non ha dose,
Quando c’è un’unica parola
che a volte un poco
una fessura dell’inferno
ha aperto, sorella, e sorella,
E un viso
ha che ti da
da bere,
e tu ti chini
sulla sua
mano e non
osi dire
quale opera buona
tra le infime
è la più grande,

Gloriastrasse

La grazia morfina, ma non l’opera buona di una lettera.
Domande, massime a fin di bene di amici e sconosciuti.
Arrivano fiori via Fleurop. Un interminabile
telegramma richiede presenza, lontano, chissà perché

Visitatori siedono, condannati, sulla sedia dei visitatori, raccontano
guardando intensamente l’orologio davanti alla sputacchiera e alla vernice chiara,
sputano fuori la buona volontà e una vecchia battuta.

È uscito un nuovo studio sui cacciatori di teste.
Averlo sottomano e già le mani prudono.
La visita importante, introdotta dal camice bianco. dalla notte
è in piedi nella stanza, sola e solleva il bisturi, sempre la notte.

Nel tale e tale anno di questo letto ortopedico, nell’anno della fama
delle vie piramidali e delle eredità dei due sistemi nervosi.
del liquor uno e trino, con cui vengono nutrite le colombe dell’odio,
nel midollo, che resterà,
nel liquor uno e trino e nel midollo, che resterà,
e cosa fonderà la mia fama, e cosa la fama, cosa la fonderà,
qui dove mi alzo in piedi e dico alle mie province, mie
province, voi aspettate, e aspettate dove?
Nel midollo che mi resterà, nel tremore
di questa mano, io lo eseguo, io uccido, io
estraggo il mio cuore da me, lo spedisco
più lontano, è un muscolo selvaggio, dicono,
batte e sbatte le porte e
batte
dove non sono, mi trovano
nella pozzanghera in cui nuotano riso e sapienza.

e cercano un cuore, nelle piccole sfere,
nei tubi di vetro, in una melma di
sangue e una vomitata a fatica una
rigurgitata tra aghi e
bottiglie e bende,
cercano
cercano, il camice bianco cerca,
visita, e io gli regalo
vuoi? voglio
regalarti il tuo cuore.

Tessiner Greuel

Ich hatte da ein schönes Haus.
Dann wurde der Zugang gesperrt.
Die Kleider habe ich aus dem Staub
habe ich aufgehoben, einem armeren geschenkt,
die Bloss Kleider brauchen.
(Steht mir nicht, kein Zynismus.)

Enteignet, Zugug gesperrt.
Baustellen, keine Einfahrt.
Kleider nachgeworfen, ein
Teller dazu, danke gesagt,
obwohl wegen harter Erdberuhng
alles zerbrochen.

Bluhender Bezirk, auf
der Durchreise ein totes Kind,
rash beerdigt, wegen Sommergasten.
In den prachtigen Obstgarten
haben die Freunde sich rechtzeitig
zu Ruhe gesetz.

Orrore ticinese

Avevo una bella casa.
Poi è stato vietato l’accesso.
Dalla polvere ho raccolto i vestiti
raccolti, regalati a uno più povero,
di quelli che hanno bisogno solo di vestiti
(Non mi dona, niente cinismo.)

Espropriata, accesso bloccato.
Lavori in corso, vietato l’ingresso.
Lanciati dietro i vestiti, un
piatto in aggiunta, detto grazie,
benché per il duro impatto sia andato
tutto in frantumi.

Quartiere fiorito, durante il
passaggio un bambino morto,
sepolto in fretta, causa ospiti estivi.
Nei frutteti magnifici
gli amici sono andati in pensione
per tempo.

*

Ich bin ganz wild von
Tod, von dem Taft –
rauschen, von
den Wasserruschen,
ich trag ihn schon
angezogen, das kleine
Kraglein, damit das
Beil weiss, wo mein
Kopf vom Körper
zu trennen ist. Hab ich
das noch, Kopf und
Körper, oh nein,
so tausch ich del Tod,
ich habe meinen Kopf
verschenkt, hingegeben
an die Meute, aber
meinen Körper hat
niemand gehabt, der
wurde am Eingang zuruck-
gewiesen. Ein Herr sagte
mir, sagte nicht einmal, das

*

Vado davvero pazza per la
morte, il fruscio
del taffetà, le
ruches dell’acqua,
l’ho già indosso,
il piccolo colletto,
perché
la scure sappia
dove va staccata
la mia testa dal corpo. Li ho
ancora, testa e
corpo? oh no,
così inganno la morte,
ho regalato
la mia testa, l’ho gettata
al branco, ma il mio corpo
non l’ha avuto nessuno,
all’ingresso l’hanno
respinto. Un signore mi ha detto,
non ha detto neppure, questo

Ingeborg Bachmann cover

Veder nero

Arriva il giorno in cui si vede nero
si fa colazione coi morti
dalla finestra sale la nebbia
tu [ – – ] la chiave perduta

Giorno in cui si vede nero
la colazione con il lezzo scialbo favorisce pensieri di morte
dalla finestra sale la nebbia.
la mattina è spezzata da chiamate
intercontinentali e pensi tremando
al lavoro (Ma quale?)
Fai qualche commissione e corri a perdifiato
per la città. Mezzogiorno [ – – ] dolori
e stanchezza, pranzo per noia
e a minuti il sole. Vorresti
amare qualcuno ma nessuno di «loro»,

 

Anni di lutto

Gli anni non passano, c’è sale
nel caffè e sul pane imburrato,
dev’essere questa la ragione.
I miei vicini malati, neppure a loro
si può portare aiuto,
suonano, non posso aprire,
aspetto qualcun altro.

 

Addio

La carne, ben invecchiata con me,
la mano di pergamena che teneva fresca la mia
deve poggiare sulla coscia bianca,
la carne ringiovanire, a tratti,
perché più rapido si faccia qui il declino.
Sono arrivate in fretta le linee, un po’ infossate,
già tutte sulla muscolatura soda.

Non essere amati. Il dolore
potrebbe essere più grande, sta bene colui la cui porta si chiude.
Ma la carne, con la linea di sfondamento sul ginocchio,
le mani grinzose, tutto accaduto nella notte,
la scapola disfatta su cui non cresce un filo d’erba,
Una volta ha tenuto nascosto il viso.

Invecchiata di cent’anni in un giorno.
Sotto la scudisciata l’animale fidente
ha perduto
l’armonia prestabilita.

 

Memoriale

Gli oggetti
il cestino del pane
l’abbiccì del mattino
e le due tazze
conosci ancora l’abbiccì
del mattino
chi ti porge la mano
oltre il tavolo
dov’è tenuto in serbo?

Nelle mie notti insonni
disinfesto la casa
coi chierichetti
do sempre le mance
e tengo
lontane le tempeste
il temporale si scatena ancora
solo nei miei ricordi
arriva la nettezza urbana
e lava un vicolo
che porta in alto
ma le tue mani sul mio
collo e la terra dei fiori
sul mio viso,
qualcuno chiama la polizia
io invoco il cielo
perché si allentino le mani
che soffocano le mie grida

Cos’è successo al mio
giardino, chi ha
strappato i miei fiori,
quelli azzurri soprattutto, che
stavano per fiorire,
e forse i miei bambini
li avrebbero visti.

Ingeborg Bachmann

Ingeborg Bachmann

Ingeborg Bachmann (1926-1973) nasce in Carinzia, nel cui capoluogo, Klagenfurt, trascorre l’infanzia e l’adolescenza. Dopo i primi studi, negli anni del dopoguerra frequenta le università di Innsbruck, Graz e Vienna dedicandosi agli studi di giurisprudenza e successivamente in germanistica, che conclude discutendo una tesi su Martin Heidegger, dal titolo “La ricezione critica della filosofia esistenziale di Martin Heidegger”. Il suo maestro e’  il filosofo e teoretico della scienza Victor Kraft (1890-1975), ultimo superstite del Circolo di Vienna. Al tempo degli studi ha modo di intrattenere contatti diretti con Paul Celan, Ilse Aichinger e Klaus Demus. Diviene redattrice radiofonica presso l’emittente viennese “Rot-Weiss-Rot” (Rosso-Bianco-Rosso), per la quale compone la sua prima opera radiofonica, Un negozio di sogni (Ein Geschäft mit Träumen, 1952). È tuttavia in occasione di una lettura presso il Gruppo 47 che si ha il debutto letterario. Già nel 1953 riceve il premio letterario del Gruppo 47 per la raccolta di poesie Il tempo dilazionato (Die gestundete Zeit). In collaborazione con il compositore Hans Werner Henze produce il radiodramma Le cicale (Die Zikaden, 1955), il libretto per la pantomima danzata L’idiota (Der Idiot, 1955) e nel 1960 il libretto per l’opera Il Principe di Homburg (Der Prinz von Homburg). Nel 1956 vede la pubblicazione invece la raccolta di poesie Invocazione all’Orsa Maggiore (Anrufung des Großen Bären), conseguendo il Premio Letterario della Città di Brema (Bremer Literaturpreis) e iniziando un percorso di drammaturgia per la televisione bavarese. Dal 1958 al 1963 Ingeborg Bachmann intrattiene una relazione con lo scrittore Max Frisch. Nel 1958 appare Il Buon Dio di Manhattan (Der Gute Gott von Manhattan), insignito l’anno successivo del Premio Audio dei Ciechi di Guerra (Hörspielpreis der Kriegsblinden). Nel 1961 vede la luce la raccolta di racconti Il trentesimo anno (Das dreißigste Jahr), contenente numerosi elementi autobiografici e a sua volta insignito dal Premio per la Critica della Città di Berlino (Berliner Kritikerpreis). Nel 1964 le viene consegnato il premio Georg Büchner (Georg-Büchner-Preis), un anno prima della pubblicazione del saggio La città divisa (Die geteilte Stadt, 1964), ed e’ la stessa repubblica austriaca a onorarne il valore intellettuale e creativo conferendole nel 1968 il Premio nazionale austriaco per la Letteratura (Großer Österreichischer Staatspreis für Literatur). La produzione di Ingeborg Bachmann prosegue con la pubblicazione nel 1971 del romanzo Malina (Malina), prima parte di una trilogia concepita sotto il nome di “Cause di morte” (Todesarten) e trasposta nell’opera cinematografica di Werner Schroeter interpretata da Isabelle Huppert, Mathieu Carrière e Can Togay nel 1991. Solo in forma di frammenti rimangono tuttavia la seconda e la terza parte, Il caso Franza (Der Fall Franza) e Requiem per Fanny Goldmann (Requiem für Fanny Goldmann). Dopo che ancora nel 1972 viene data alle stampe la raccolta di racconti Simultan (Simultan), a cui viene attribuito il Premio Anton Wildgans (Anton-Wildgans-Preis), un incendio avvenuto durante il soggiorno nell’appartamento romano nella notte tra il 25 ed il 26 settembre 1973 la porta alla morte, che avviene il 17 ottobre. Ingeborg Bachmann e’ sepolta dal 25 ottobre 1973 nel cimitero di Klagenfurt-Annabichl. A lei è dedicato oggi il concorso letterario che annualmente si tiene nella città natale in coincidenza della ricorrenza della nascita.

 

11 commenti

Archiviato in Poesia tedesca del Novecento, Senza categoria

ERNST MEISTER  POESIE SCELTE (1911–1979) a cura di Paola Palestro Dall’introduzione alla mia tesi di laurea La poesia di Ernst Meister – La minima lyrica delle ultime opere -, Università degli Studi di Genova, Anno accademico 1992/’93

Parlare di Ernst Meister non è certo cosa facile. La facilità d’altronde non faceva parte del suo essere, né come uomo né tanto meno come poeta. Non ha mai tenuto ad essere compreso da tutti, non è sceso a compromessi, non ha mai seguito mode letterarie. Ha seguito solo se stesso, la sua poesia, le cose in cui credeva. Che non comprendevano né partiti né ideologie. Ernst Meister non ha mai fatto parte di un partito, non è stato un autore “impegnato”, non ha mai scritto poesie che riguardassero problemi sociali o avvenimenti storici. Per questo è stato definito un Außenseiter, un “élitario”, ma soprattutto un “ermetico”, troppo lontano, in quanto tale, da un’effettiva comunicazione con un pubblico che non fosse “eletto”. La sua poesia era per lo più considerata difficile, incomprensibile, inaccessibile al lettore comune; un’arte per adepti, per iniziati, nella migliore tradizione dell’ermetismo, appunto. Una poesia “pura”, “assoluta”, fuori dalle regole non solo in senso formale, ma anche nei contenuti, nei temi, che non erano certo attuali o vicini ai tempi. Meister, al contrario, non si è mai considerato “difficile”, ermetico o élitario. Non pensava che la sua poesia fosse complicata, incomunicabile; per questo amava dire che le sue poesie “si comprendevano da sé”, senza che vi fosse un reale bisogno di interpretazioni ardue o di chiarimenti. Non era propenso alle spiegazioni, le riteneva in certo qual modo superflue, inutili, non necessarie ai fini di una vera comprensione; poteva anche arrabbiarsi se non si sentiva corrisposto in questa sua visione. A Meister non importava di scrivere poesie che “piacessero” necessariamente a tutti; la sua poesia non si limitava a “parlare” di qualcosa: “diceva” cose, semplicemente, con la lapidari età e la purezza con cui si dicono le cose più difficili, le cose più importanti dell’esistenza di ognuno. Ma il detestare le spiegazioni non significava, da parte sua, un rifiuto di comunicazione con i suoi lettori, un “rinchiudersi “ nella torre d’avorio” del letterato che scrive esclusivamente per se stesso: per Meister era essenziale la comunicazione, il rapporto con l’altro, il non sapersi solo nell’avventura che è l’esistenza umana. E la poesia è lo strumento privilegiato di questa comunicazione, una comunicazione muta, che usa parole sovente inconsuete, non comuni; parole che costruiscono e vogliono essere un legame con l’altro, con chi legge: “Mein Gedicht sagt Dir/was ich weiß,/es fragt Dich,/was Du weißt.”

(Pitture di Mario Gabriele)

La sua poesia usa termini non comuni, come abbiamo detto. Parole che non fanno parte del linguaggio quotidiano, ordinario. Parole che si oppongono al “chiacchiericcio”, al rumore, all’affollamento di suoni. Il linguaggio doveva salvarsi dall’assurdo, dal non-senso, dal vuoto che si nasconde dietro il chiasso, dietro la bellezza apparente di complicati arabeschi linguistici privi di sostanza; doveva tornare ad essere un vero mezzo di comunicazione, doveva essere riportato alla sua integrità, alla sua funzione originaria. Per questo andava riscoperto il valore semantico della parola, la sua origine, il suo significato al di fuori dell’uso comune: come scrive Helmut Arntzen, “Il compito che la lirica di Ernst Meister richiede alla critica è quello di intendere queste poesie come un invito a superare la deficienza del nostro linguaggio comune, la sua tendenziale assenza di lingua, la sua violenza latente, e di iniziare a pensare linguisticamente, cioè a pensare, soprattutto”.
Nella poesia di Meister la parola si fa assoluta, pura; ricondotta al suo valore primario, è re-inventata, ricreata nello spazio della poesia; così liberata, essa viene enfatizzata e sottolineata da una progressiva riduzione linguistica, dalla densità, dalla concisione. Una sola parola può costituire un verso, diventare pura forma, contorno che trascende il suo oggetto, linea precisa, geroglifico. Segno. La parola si fa cifra, enigma, e nella sua riscoperta il linguaggio riacquista tutto il suo valore, il suo vero significato, le sue radici. La lingua della poesia di Meister vuole porsi al di fuori di spazio e tempo, di ogni contingenza. Al pari della sua poesia, è atemporale, più che meta temporale: giunge a noi come una lingua perduta, come scrive Nicolas Born, una lingua remota, distante, e proprio per questo magica, evocativa. Da immense distanze arriva al nostro tempo, e nel presente, nello spazio della poesia, ripete l’incanto: crea la bellezza. Ci dona un bagliore di eterno, di immortalità: il canto puro, il canto che canta se stesso.

(Paola Palestro)

Poesie di Ernst Meister con le mie traduzioni tratte dalla tesi di laurea:

Da Zeichen um Zeichen

.
Nichts
dir so bekannt,
wie daß
auch Vernunft
sterblich sei.

Sie, des Traums
Seherin.

*

Niente
a te così noto,
che
anche la ragione
è mortale.

Lei, veggente
del sogno.

O Sonne, Hades!

Das Licht:
ein Augenblick.

*

O sole, ade!

La luce:
un attimo.

Wisse, der Buchstab
ist tödlich.

Der Leib hat gehabt
seine Zeile,
langsame Zeit
und Spur.

Seine Vernunft
endet
im Seufzen
der Augen.

*

Sappilo, la lettera
è mortale.

Il corpo ha avuto
la sua riga,
tempo lento
e traccia.

La sua ragione
finisce
nel sospiro
degli occhi.

Am Ende wird
zum Menschen der Mensch;
er vergißt,
verläßt, was er war –
frei in den Himmeln.

*

Alla fine
l’uomo diventa uomo;
egli dimentica,
abbandona ciò che era –
libero nei cieli.

Sich nicht
noch einmal
erfinden.

Eine Weile
noch gehen
zwischen blinder Luft.

Sein ist schrecklich
neben dem Augen
der Blume.

*

Ancora una volta
non
inventarsi.

Camminare ancora
un momento
tra aria cieca.

Essere è orribile
accanto all’occhio
del fiore.

.
Da Es kam die Nachricht

.

Lange vor
Christus geboren
und die Segel gesetzt
gegen Gott.

Deine Hand war
unglaublich wenig
an meiner Schulter,

Wind genug
an einem Tage
der Meere und des
Himmels.

*

Nati molto prima
di Cristo
e le vele issate
contro Dio.

La tua mano era
incredibilmente poco
sulla mia spalla,

abbastanza vento
in un giorno
dei mari e del
cielo.

Es kam die Nachricht
zu gehn an die See,
nördlich, und ich
wollte auch wissen
unterdes, was es
sei mit dem Anfang
der See, Ende oder
Mitte (die schwerste
Betrachtung).

Es erkannten einander,
die kamen
in gleicher Absicht.

Und es wurde
mit Gischt der Wogen
(schön und atmend das Wetter)
Lust gewebt zur Nacht.
Nicht gewußt, daß mir Liebe
geweissagt war
aus der Liebe.

*

Giunse la notizia
di andare al mare,
a nord, ed io
volli anche sapere
nel mentre, cosa
fosse dell’inizio
del mare, fine o
mezzo (la più difficile
riflessione),

Si riconobbero l’un l’altro,
venivano
nella medesima intenzione.

E
con la schiuma delle onde
(il tempo era bello e respirava)
il piacere fu tessuto nella notte.
Non ho saputo che l’amore
mi era predetto
dall’amore.

(Edward Hopper sulla spiaggia)

Das war der
Sand und der Rand,
zartes Verebben
der Wassertiefe,
Ende und Anfang des Meers.

Du sagtest,
meinen Blick lenkend
gegen die hohe Sehe:
Wohin auch man sieht,
alle die Schiffe kentern.

So fabeltest du.

*

Era la
sabbia e la riva,
tenero morire
delle acque profonde,
fine e inizio del mare.

Tu dicevi,
guidando il mio sguardo
verso il mare aperto:
Ovunque si guardi,
ogni nave si rovescia.

Così narravi fiabe.

Das Denken,
die Rose,
tödlich blühend,
weilt es.

Und es ist
Traum
in den Stacheln,
und es
liebt dich.

*

Il pensare,
la rosa,
fiorendo mortale
si ferma.

Ed è
sogno
nelle spine,
e
ti ama.

Sinnwind entriegelt,
ein Gewitter wirft
funkelnde Schlüssel
ins Zimmer.

Das ist
der Augenblick.

*

Liberato il vento del senso,
un temporale getta
chiavi scintillanti
nella stanza.

Questo è
l’attimo.


Da Sage vom Ganzen den Satz

Viele
haben keine Sprache.

Wär ich nicht selbst
satt von Elend, ich

bewegte
die Zunge nicht.

*

Molti
non hanno linguaggio.

Se io stesso non fossi
sazio di miseria, io

non muoverei
la lingua.

Da keineswegs
bei dir
das Meer das letzte Wort hat

(sondern von nun
das Trockene
dir zum Trank dient),

so müßt ich
deinen Namen tilgen
am Grund des Sees.

Das aber
kann ich nicht…

Ich bleibe
dort beim Grund
mit deinen Augen,

gesunkenem Gebein
und Zeug
der Oberwelt.

*

Poiché in alcun modo
in te
il mare ha l’ultima parola

(bensì da ora
l’aridità
ti serve da bevanda),

io dovrei
cancellare il tuo nome
in fondo al lago.

Questo però
non posso farlo…

Io rimango
là sul fondo
con i tuoi occhi,

scheletro affondato
e testimone
del mondo emerso.

Sage vom Ganzen
den Satz, den Bruch,
das geteilte Geschrei, den
trägen Ton, der Tage
Licht.

Mühsam
im gestimmten Raum
die Zeit in den Körpern,
leidiges Geheimnis, langsam.
Tod immer.

(Und ich wollt doch
das Auge nicht missen
entlang den Geschlechtern nach uns.)

Sage: DIES ist kein anderes.
Sage: So fiel, in gemeiner Verwirrung,
der Fall. Sage auch immer:
Die Erfindung war groß.

Du darfst nur nicht
Liebe verraten.

*

Del tutto
dì la frase, la frazione,
l’urlo diviso, il
monotono suono, la luce
dei giorni.

Faticoso
nello spazio accordato
il tempo nei corpi,
triste segreto, lento.
Morte sempre.

(E pure non volevo
esser privo di occhi
lungo le generazioni dopo noi.)

Dì: QUESTO non è altro.
Dì: Così accadde, in comune smarrimento,
il caso. Dì anche sempre:
L’invenzione era grande.

Solo non devi
tradire l’amore.

(Ernst Meister)

Da Im Zeitspalt

Und was
will diese Sonne
uns, was

springt
aus enger Pforte
jener großen Glut?

Ich weiß
nichts Dunkleres
denn das Licht.

*

E perché
questo sole vuole
noi, cosa

sgorga
dalla stretta porta
di quel grande calore?

Io non conosco
niente di più buio
della luce.

Im Zeitspalt
ein Gedanke gewesen,
bis der Ewigkeitsschrecken
ihn umwarf.

Was folgt,
ist nicht Schlaf,
sondern Skelett.

Das wissen
die Verständigen aber.

*

Nella fessura del tempo
è stato un pensiero,
fino a che il terrore dell’eternità
lo travolse.

Quello che segue
non è sonno,
ma scheletro.

Questo però
lo sanno i ragionevoli.

.
Da Wandloser Raum

.

Wir leben
von den Entfernungen.

Der Tod
kommt uns vor
so weit wie der höchste
Stern.

Ein Geschäftiges der Natur
setzt Maße in uns.

*

Noi viviamo
delle distanze.

La morte
ci sembra
lontana come la più alta
stella.

Una faccenda della natura
pone misura in noi.

Wie es einer
gedacht hat,
Sterben:

Sich drehn
von der Seite der
Erfahrung auf die

der Leere, un-
geängstet, ein
Wechseln der Wange,

nichts weiter.

*

Come uno
ha pensato
il morire:

Voltarsi
dalla parte
dell’esperienza a quella

del vuoto, senza
paura, un
cambio della guancia,

nient’altro.

Weder Tag noch Nacht,
weder Stein noch Stern…

Das Außerste und
das Schwerste ist,

Nicht-da-sein
denken zu müssen.

Wie soll ein Bewußtsein
zu sterben lernen,

sich schicken in seinen
Gegensatz?

*

Né giorno né notte,
né pietra né stella…

La cosa estrema e
la più dura è

dover pensare
non-essere-qui.

Ma come può imparare a morire
una coscienza,

rassegnarsi al suo
opposto?

Spät in der Zeit
wirst du sagen,
du seist

ein Mensch gewesen.

Du sagst es nicht,
kannst es nicht sagen –
du sagst es jetzt.

*

Tardi nel tempo
tu dirai
che sei

stato un uomo.

Tu non lo dici,
non puoi dirlo –
tu lo dici ora.

Paola Palestro nasce il 14 luglio 1967 a Genova, città in cui tuttora vive. Dopo il diploma al Civico Liceo Linguistico Grazia Deledda si iscrive alla Facoltà di Lingue e Letterature Straniere Moderne (allora parte della Facoltà di Lettere e Filosofia) dell’Università di Genova, dove studia Storia della Letteratura Francese e Storia della Letteratura Tedesca, completando il suo percorso di studi con Storia della Letteratura Italiana, Glottologia, Storia dell’Arte Medievale e Moderna, Storia della Critica d’Arte, Storia dell’Arte Orientale, Storia del Teatro e dello Spettacolo, Storia del Cinema e altri corsi. Parallelamente continua a frequentare i corsi di lingua tedesca al Goethe-Institut di Genova conseguendo il diploma GDS nel 1990. Nel novembre 1993 compie un breve viaggio a Münster per partecipare all’Ernst Meister Kolloquium, invitata da Else Meister, vedova del poeta su cui sta scrivendo la sua tesi, e dove incontra il figlio Reinhard e amici del poeta, accademici, ricercatori, letterati e non, esperienza bellissima e importante per il lavoro su Meister. Si laurea con lode nel dicembre 1993 con la tesi La poesia di Ernst Meister – La minima lyrica delle ultime opere, in appendice una traduzione della penultima raccolta di poesie Im Zeitspalt.
Prima di laurearsi da lezioni private di lingue e lavora come traduttrice per varie agenzie, e per una casa editrice genovese, traducendo un saggio del regista e sceneggiatore tedesco Hans-Jürgen Syberberg, Die freudlose Gesellschaft. Sfortunatamente il saggio non verrà pubblicato, e l’esperienza con l’editoria non sarà delle migliori. Dal 1993 al 2008 membro dell’AITI (Associazione Italiana Traduttori e Interpreti), dopo la laurea continua con le traduzioni, lavora come interprete di trattativa in brevi viaggi in Germania, e come bibliotecaria per un progetto di recupero testi con archivio informatizzato presso la Sezione di Germanistica della Facoltà di Lingue, Università di Genova. Nel giugno 1995 traduce poesie di giovani poeti tedeschi – fra i quali Henry-Martin Klemt, Steffen Mensching, Annerose Kirchner e Anne Kretschmar – in occasione del Festival Internazionale di Poesia Genovantacinque, esperienza tra le più belle. Impiegata dal luglio 1995 presso una società di navigazione, ha alcuni scritti incompiuti che vorrebbe ultimare, tra cui racconti, un romanzo appena iniziato, e poesie che negli anni ha tenuto per sé. L’unica data alle stampe fa parte di una piccola antologia, Poesie alla spina, pubblicata in occasione dell’omonimo Happening di Poesia tenutosi sulla Nave Italia all’Expo di Genova nell’agosto-settembre 1994. Nel 2006-2007 segue un corso di fotografia con Alberto Terrile, Dai Sali d’Argento ai Pixel, ed espone sue fotografie in occasione della mostra collettiva fotografica Percorsi magici, organizzata da Alberto Terrile a conclusione del corso. Dalla fotografia è passata poi al pianoforte, che ha iniziato a studiare solo pochi anni fa, e che caparbiamente cerca di portare avanti.

2 commenti

Archiviato in critica della poesia, Poesia tedesca del Novecento