Cari interlocutori,
In Italia si assiste da tempo ad una grande confusione. Ad esempio, mi meraviglia che il ministro della cultura italiano Dario Franceschini abbia dichiarato, nel silenzio generale, il suo favore acché nei libri di testo della scuola italiana vengano ammessi come poesie anche i testi di cantautori e di canzoni famose sulla base della presunzione che anche i testi delle canzoni siano testi poetici a tutti gli effetti e con l’argomentazione che comunque le giovani generazioni riconoscono quei testi come testi letterari, anzi, come i soli testi poetici.
Affermazione scandalosa non solo in sé ma per l’implicito giudizio di disvalore che accompagna oggi i testi poetici prodotti negli ultimi 50 anni. Quei testi non sono più riconosciuti quali depositari di una cultura, anzi, sono respinti ai mittenti, cioè ai loro autori.
Mi meraviglia soprattutto che da parte dei cosiddetti “poeti” non sia stata sollevata una sola frase di stigmatizzazione per questa affermazione del ministro, non un solo critico letterario statutario o intellettuale riconosciuto abbia fatto presente al ministro la goffaggine della sua affermazione. Il tutto è stato passato sotto silenzio.
Mi meraviglia la non-meraviglia della cosiddetta comunità letteraria la quale ha sommessamente sollevato le spalle.
Mi meraviglia ad esempio il silenzio che da oltre 50 anni ha circondato l’opera di un poeta non allineato come Alfredo De Palchi, quel medesimo silenzio che ha accompagnato la improvvida esternazione del ministro Franceschini.
Mi meraviglia la non-meraviglia.
(Giorgio Linguaglossa)
L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ(non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).
Letizia Leone ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce (2000); L’ora minerale (2003), (seconda edizione 2004); Carte sanitarie (2008); La disgrazia elementare (2011). Presente in numerose le antologie; Geografie Poetiche, ac. di W. Mauro, Giulio Perrone Editore, Roma, 2005; Sorridimi Ancora, (dodici storie di femminilità violate) Giulio Perrone Editore, Roma, 2007. Da quest’ultima raccolta è stato messo in scena “Le Invisibili” (regia Emanuela Giordano) Teatro Valle, Roma, 2009. Tiene un “Liceo di poesia” presso l’editore Giulio Perrone di Roma.
Appunto di Letizia Leone
Un luogo utopico? È la Foresta ormai…
Tra gli appunti del Leopardi spicca un progetto mai realizzato di Poema in forma didascalica sulle selve e le foreste, sebbene nelle intenzioni del poeta si configurasse come opera densa di informazioni mitologiche, storiche e scientifiche.
Questi appunti poetici sul paesaggio fragile nascono dall’urgenza di un’ispirazione che prende le mosse dallo stesso sentimento “sincronico” di inquietudine per la perdita delle antiche foreste, ormai definitivamente dissodate nella loro inviolata immensità.
Come i pezzi di un puzzle si raccolgono i reperti di un mondo sacro e generoso, che troppo tardi abbiamo capito essere parte del nostro corpo più vanitoso, quando ormai sedotti dall’istinto proditorio, non restava altro alla nostra schiatta che iniziare a catalogare simboli e virtù vegetali su lavagne di cemento: “…la infinita materia poetica che le foreste e le selve somministrano, toccare le antiche ninfe driadi amadriadi napee, le molte superstizioni degli antichi intorno alle selve, gli alberi consacrati agli dei, gli uomini mutati in piante, le querce fatidiche, le selve sacre… i timori panici degli antichi riguardo alle foreste, i fauni i satiri i silvani i centauri i tanti mostri de’ quali le popolavano…”. (Leopardi)
Quando l’armata napoleonica durante l’invasione di Russia si smarrì per tre giorni in una folta foresta…
*
Un pensiero
all’immensa Selva Ercinia.
Certe querce
nate in uno con il mondo
organismi quasi immortali
erano argani
dello sradicamento
con le radici toro e i forti rami
macchine enormi delle ombre
dalle virtù spiritiche. Si aggiunga il freddo.
Di regioni germaniche.
L’armata impaurita esita
-e il timore è benedizione-
davanti al portale degli alti fusti
Selve oracolari
impraticabili
con alberi che sono visioni fiammeggianti
una Foresta
disossata nei fianchi
del Cerro e del Rovere
i brividi delle sue matasse robuste
sono nel tempo, linee del lutto
iniziando adesso
le crude magie di distruzione
quasi fossero i pezzi di coralline resine
a minacciare,
effervescenze incontrollabili di cuori strani.
……………………………………………………………
Ancora a un passo dalle cattedrali
Adamo cuoce noci
nei blocchetti di fuoco
e si inchina alla Foresta , al suo accesso,
immensa e infittita di spiriti.
Ancora un passo e si squarcia ogni radice
con gli aratri pesanti.
Il novilunio agricolo nel febbraio d’erbe
mozza cippi e ciglia:
tre giorni interi per ritagliare un crollo
sgombrare le giostre di foglie da ogni superstizione,
il lavoro sporco degli eserciti
la croce porta una lama
vicino alla testa di cristo, si potessero
inchiodarne le spine e farne mazze!
È una guerra dei pidocchi
su suoli argillosi di vegetazioni vergini.
Questi gli eventi che occorsero di distruzione
in Anno domini.
*
Non per sola reverenza o timore
al cospetto dei Sicomori imponenti
i pilastri d’immortalità
ma per
terrore
arretrarono le legioni napoleoniche,
per panico sacro di un rumore
(impercettibile magari)
innanzi al portale delle Querce teutoniche
tra isole di rami
e l’umido freddo ombrello
che riparava fino a trecento uomini a cavallo
ora e là
prendevano il largo fantasmi silvestri
o demoni dilaniati, furono uomini
squartati per lavare col sangue fumante
la spina dorsale di alberi
divini. Corteccia rossa e acida scintillava al sole
in trasparenza beveva
e non era bastato spaccare un toro
sacrificarne il calore
e tenersi capre e puledri la notte per riscaldarsi
ne avevano usato anche il midollo.
Perché quello era legno speciale
carnivoro (si sarebbe detto)
e non colonna d’acqua e luce
nascoste.
Le truppe disobbedirono.
Rotte le righe
galopparono indietro.
*
La foresta è dimora dei morti
– si sussurrava tra i soldati ubriachi-
infinita di mani e braccia smembrate
che adesso crescono rami
e corrono corpi cupi
intagliati nelle vibrazioni del muschio.
Nessuno osava allora togliersi dal fuoco.
Allontanarsi dagli altri.
Il passaparola:
domattina bisogna sprofondare
nell’immenso Averno
abbarbicati ai nostri cavalli
incatenarsi ai passi. Lenti.
Dopo una notte nelle gole del vino
la fila di guerrieri procede piano
sono uomini e tremano
queste belve da stupro.
Si son detti:
la foresta va forzata come femmina maligna
ma intorno niente è immobile
dalle cime degli alberi ai raggi d’oro
che sfondano il tetto gigantesco
dei nidi
pipistrelli implorano tutti insieme
che stridore è questo?
Urla l’ultimo della fila e va dappresso
cavalcando confuso
quei fili di sole -ho visto!- erano capelli
di donna-fuoco!
Si scompiglia il plotone.
Qualcosa di acquattato spia gli intrusi.
……………………………………………………..
Indifeso un mercenario
è sceso da cavallo
nudo si riprende la forza della terra
ulula all’atlante verde del pianeta
il suo è il richiamo fallico
delle cacce. Agita
gli esseri lunari in agguato.
Gli altri lo inseguono.
.
(Pubblicato in Registro di Poesia del Premio Edizioni D’If – Napoli 2010-’11)
Flavio Almerighi SEI POESIE INEDITE SUL TEMA DELL’UTOPIA O DEL NON-LUOGO con un Appunto critico impolitico di Giorgio Linguaglossa
pappagallo del Costa Rica
L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’utopia (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ(non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).
Flavio Almerighi è nato a Faenza il 21 gennaio 1959. Sue le raccolte di poesia Allegro Improvviso (Ibiskos 1999), Vie di Fuga (Aletti, 2002), Amori al tempo del Nasdaq (2003), Coscienze di mulini a vento (Gabrieli 2007), durante il dopocristo (Tempo al Libro 2008), qui è Lontano (Tempo al Libro, 2010), Voce dei miei occhi (Fermenti, 2011) Procellaria (Fermenti, 2013). Alcuni suoi lavori sono stati pubblicati da varie riviste di cultura/letteratura (Foglio Clandestino, Prospektiva, Tratti). Dieci sue poesie sono comprese nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016).
Toshiko Hirata Bicchiere
Appunto critico impolitico di Giorgio Linguaglossa
Il principio di esposizione paratattica regna sovrano nella poesia di Flavio Almerighi. I frammenti aforistici indicano che è imminente un sisma le cui avvisaglie si lasciano intravedere in queste scaglie, in queste tracce di un linguaggio ridotto a lacerti pseudo aforistici, si tratta di paralipomena, di frammenti conflittuali che non chiedono più di essere pacificati e composti. Forse, nel principio costruttivo di questo sistema instabile e conflittuale qual è la poesia di Almerighi, si può rintracciare una sorta di scorporazione da un testo originario che è stato rimosso. Di qui le sue tipiche domande: «Amore, / cosa faremo dopo l’amore?». È chiaro che per Flavio Almerighi si può poetare soltanto con un linguaggio sobrio e sgombro di petali o di smottamenti del cuore; si può poetare intorno al «non-luogo», cosa non diversa che poetare intorno ai «luoghi», entrambi dissestati e s-postati altrove, secondo il disegno razionale (e irrazionale) che l’economia globale assegna loro. I «luoghi» quindi sono per Almerighi traslocabili ed «affabili», come gli «oggetti», «disciplinati» alquanto che «chiedono educatamente scusa» in quanto «protagonisti» del nostro tempo «d’erotica scolastica». La sopraffina ironia di Almerighi chiama le cose con il loro nome: «mi piacciono le donne quadrate…», comprime gli oggetti e le parole che parlano degli oggetti, perché sa che soltanto tenendole/i insieme mediante un collante si può sperare che esse/essi durino almeno il tempo della loro fruizione da parte degli utenti; anche l’«utopia perduta» è uno di questi «oggetti» e, come tale, dotato di valore e messo sul mercato dei non-luoghi sfitti. Nella asciutta poesia di Almerighi puoi notare in filigrana l’economia delle parole non educate e non amministrate che il poeta lascia filtrare con ironica disinvoltura occupato nelle sue faccende intorno agli «oggetti» (ovvero, l’ottimo luogo «utopia imbottita d’erotica scolastica»), tra scoppi di risa compressi e l’ironico motteggiare del cicaleccio di un quotidiano ormai denaturato, insignificante (il nessun luogo).
Davvero, non potremmo definire optima questa poesia di Almerighi, essendosi perduta la chiave ermeneutica per aprirci quei mondi optimi che un tempo lontano definiva il luogo della poesia. È la poesia stessa a reclamare il proprio posto «nel vano degli oggetti», un posto davvero scomodo, e de-territorializzato.
Pappagallo Costa Rica
d’erotica scolastica
riparliamo del vano degli oggetti,
utopia imbottita d’erotica scolastica
indubbiamente affascinate, studenti affabili
disciplinati e in linea
chiedono educatamente scusa,
prima linea primo vagito
poi futuro inarcato da protagonisti
sui colori rampicanti di sbalordite primavere
canzoni del cuore a rima con torpore,
se stessa vissuta più volte
lasciata crescere, annaffiata a sottintesi
come foglia a distico, perfetta
scordata nel vano degli oggetti
.
alla stazione di Viergne
alla stazione di Viergne
ho ritrovato l’utopia perduta,
reperto interrato schiacciato
crivellato di passi
un marzo, nero fino alla cintola,
mi manchi – dico
anche tu – risponde,
ho lasciato decantare
l’inatteso piacere,
quando un cane, sette vite tutte morte
mi ha morsicato più forte,
ha morso dove una lettrice disattenta
muove di getto su una poltrona rossa
mostrando attraverso le ginocchia,
dura un tempo l’armonia.
l’antisemita muore di sete
e una zanzara sculetta
dentro un destino
facilmente spiegabile,
il fuciliere prende la mira
senza mancare un colpo
Toshiko Hirata Bicchiere
Quattordici poemi
mi piacciono le donne quadrate
fanno bambini vestiti,
all’occorrenza sono bionde
ma si lasciano sposare al naturale,
tirano fino a notte fonda
e fanno il bagno spesso,
nonostante quattordici poemi
in teoria mai consegnati
e belli come capelli lisci,
stanotte ne ho sognata una
e come odisseo sono uscito presto,
anzi non sono rientrato
¬tempi minimi nonostante tutto
per prendersi il servizio buono,
quell’altrove è sempre qui
torneremo a casa, lei ed io
.
Nessuna tonalità epica
Un uomo e la sveglia del mattino
che tarda, la suoneria scordata,
l’uomo chiede per quale principio
la giornata sia già fredda, già patita
prende altri cinque minuti,
rivede gli amori della vita,
ne bastano solo due, muove le gambe,
ha freddo non ha più sonno.
La giornata scende a dodici ore,
nessuna tonalità greca
nelle lenzuola sfatte del ritorno
stesso mare mai spostato.
Non c’è sconto
dopo l’inverno altro autunno,
inoccupato dal mestiere di vivere
osserva il cuore – guscio di noce
riparare nel mallo.
Pappagallo Costa Rica
La settima arte
Amore,
cosa faremo dopo l’amore?
Affretteremo l’eloquio, il piacere
autentico. Finto che sia.
Ci fermeremo
come su celluloide la settima arte
per rivederci più avanti a cose fatte?
Gli anni impiccati oscillano,
il tempo misurato a pendolo e baci
corre prima, scompare ladro
e la tristezza un laccio esile lega,
avvince di lacrime fino a riderne.
Del mio riso scorgo la vergogna
abbracciata alla pienezza breve,
su tutto un bisbigliare di farfalle,
e dentro qualcosa lasciato aperto.
Sbatte.
Amore,
cosa faremo dopo l’amore?
.
Nove Maggio 1978
Facevo la Quinta quand’è morto Impastato,
maggio e già era rigido inverno,
stavo abbracciato a un grembo di rose
finendo per pungermi e sanguinare
di tutte le lettere scritte per niente,
sono la più lunga, messo in bottiglia
affidato al mare dal guscio di ceralacca,
arrivo oggi che sono spaccato e vecchio
e voglio per me un po’ d’infinito.
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