A cura di Donatella Giancaspero
L’assenza di un soggetto grammaticale
Tutti sanno chi è Samuel Beckett (1906 – 1989), il drammaturgo e scrittore irlandese, autore del cosiddetto “teatro dell’assurdo”, noto al vasto pubblico per l’opera teatrale Waiting for Godot (Aspettando Godot, 1952). Però, è assai probabile che non tutti conoscano Morton Feldman (1926 – 1986), il compositore statunitense pioniere, a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, di una estetica musicale che, muovendo da John Cage (suo fraterno amico), introduce molte interessanti innovazioni in merito al suono, al ritmo e alla loro rappresentazione grafica, fino all’acquisizione di una scrittura totalmente indeterminata.
Morton Feldman e Samuel Beckett si incontrarono per la prima volta nel settembre del 1976, allo Schiller Theater di Berlino, durante una prova di The Lost Ones. Feldman stesso racconta il loro particolarissimo incontro. Non fu certo una partenza troppo buona; ebbe perfino qualche risvolto buffo.
Il compositore americano, notoriamente molto miope, dotato di lenti piuttosto spesse, passando dalla luce piena del giorno all’oscurità del teatro, ebbe qualche difficoltà a orientarsi. Venne presentato a “un Beckett invisibile”, come lui racconta; nell’oscurità, stringendogli la mano, Feldman colse soltanto il suo pollice, perse l’equilibrio e inciampò nel sipario. Il ragazzo che lo accompagnava ridacchiò. Ci furono dei mormorii… Insomma, una situazione imbarazzante, a dir poco.
All’uscita dal teatro, Feldman invitò Beckett in un ristorante lì vicino; oltre che per fare un gesto di cortesia, voleva parlare del motivo della sua visita: proporgli di scrivere un testo, un libretto, per un lavoro su commissione ricevuto dal Teatro dell’Opera di Roma. Come ci riferisce il biografo di Beckett, James Knowlson, alla richiesta di Feldman, la risposta dello scrittore fu disarmante: «Signor Feldman, l’opera lirica non mi piace! E non mi piace che le mie parole vengano messe in musica». La replica del musicista fu, se possibile, altrettanto disarmante: «Sono perfettamente d’accordo con lei. Infatti, è raro che io utilizzi un testo. Ho scritto molti pezzi per voce, ma sono senza parole». A questo punto, Beckett lo guardò e gli pose una domanda alquanto ovvia: «Allora, cosa vuole?». Feldman non ne aveva idea. O forse l’aveva ben chiara, poiché, in realtà, lui cercava un testo in cui fosse concentrata “la quintessenza, qualcosa che si librasse appena nell’aria”, come ci informano le biografie.
Alla fine di settembre, Feldman ricevette a Buffalo una cartolina da Beckett: “Dear Morton Feldman. Verso the piece I promised. I was good meeting you. Best. Samuel Beckett”. Sul retro un breve testo scritto a mano, intitolato Neither: ottantasette parole, senza uso di maiuscole, la punteggiatura ridotta a due o tre virgole, gli a capo come se fosse una poesia; in realtà, si tratta di una “short prose”, come Beckett preferiva definirla.
Il testo esprime la problematica dello stare al mondo; dello stare al mondo dell’uomo, in generale: dunque, dell’esserci. E ricordiamo che lo stare al mondo, in Beckett, consiste sempre in una condizione ambigua, oscillante tra l’essere e il non essere, tra l’essere percepito e il suo contrario.
In Neither, il senso di questa condizione è espressa dall’assenza di un soggetto grammaticale preciso, un “io”, un “tu”, e le azioni vengono indicate non mediante verbi di modo finito, ma indirettamente, avvalendosi, ad esempio, del participio e del gerundio. Parla una voce, impersonale, astratta: esprime l’andirivieni tra due ombre, quella interna e quella esterna, “dall’impenetrabile sé all’impenetrabile non-sé“; in ultimo, si arresta, disinteressata “all’uno e all’altro“, raggiungendo così qualcosa di indicibile: “l’inesprimibile meta“.
Neither
to and fro in shadow from inner to outer shadow
from impenetrable self to impenetrable unself
by way of neither
as between two lit refuges whose doors once
neared gently close, once away turned from
gently part again
beckoned back and forth and turned away
heedless of the way, intent on the one gleam
or the other
unheard footfalls only sound
till at last halt for good, absent for good
from self and other
then no sound
then gently light unfading on that unheeded
neither
unspeakable home
*
Nè l’uno né l’altro
su e giù nell’ombra da quella interna all’esterna
dall’impenetrabile sé all’impenetrabile non-sé
di modo che né l’uno né l’altro
come due rifugi illuminati le cui porte
non appena raggiunte impercettibilmente si chiudano,
non appena volte le spalle impercettibilmente
di nuovo si schiudano
si accenni l’avanti e indietro e si volga le spalle
noncuranti della strada, compresi dell’uno o
dell’altro barlume
unico suono passi inascoltati
finché finalmente arrestarsi una volta per tutte,
disattenti una volta per tutte all’uno e all’altro
allora nessun suono
allora impercettibilmente indissolvendosi la luce su tale inosservato né l’uno né l’altro
l’inesprimibile meta
(traduzione di Gabriele Frasca)
Poiché nessuno dei due autori (e qui è proprio il caso di dire “neither”), né Beckett, né Feldman, come abbiamo visto, nutrivano simpatia per l’opera lirica, Neither resterà un caso unico nella produzione musicale del compositore newyorkese. Sebbene, poi, anche questa non possa definirsi “opera”, ma “anti-opera”, a tutti gli effetti: senza trama, senza cambiamenti di scena, senza altri personaggi oltre una cantante priva di nome. Continua a leggere