La torre del faro nella pianura di neve. «Il bacio è la tomba di Dio».
C’erano scritte queste insensate parole sopra l’ingresso della torre…
Ma forse non era quella la torre ma un’altra che si trova in Siberia, nei pressi del polo artico
dove sorge un’isba; nell’isba c’è Evgenia Arbugaeva sulla sedia a dondolo, osserva la distesa di neve.
Un pianoforte a coda nella neve suona Lux Aeterna di Ligeti. C’è scritto: «Hic incipit tragoedia» e, nello spartito,
le parole di Ubaldo de Robertis sull’universo ad anelli. [Nell’universo c’è un punto. Uno solo, così trascurabile…]
La musica incontraddittoria si solleva dalla neve eterna. Diventa luce. […] La gondola è vestita a lutto. Carica di morti. Affonda. Nella picea onda del Canal Grande.
Ponte degli Scalzi. L’appartamento di Anonymous sul Canal Regio.
Uno spartito aperto sul leggio: La lontananza nostalgica. Il vento sfoglia le pagine dello spartito. […] Tre finestre. Lesene bianche. Canal Regio. Due leoni all’ingresso divaricano le mandibole.
[Se ti sporgi dalla finestra puoi quasi toccare il filo dell’acqua verdastra. Laguna di vetro.] […] Madame Hanska si spoglia lentamente nel boudoir. Ufficiali austriaci giocano a whist mentre il Signor K. asserisce:
«il tavolo cammina e non cammina perché la contraddittorietà non può violare il principio di non contraddizione.
Il PNC è auto contraddittorio, non potrebbe essere altrimenti; mi creda, Herr Cogito, anche i suoi pensieri,
picchi di luce eterna, sono auto contraddittori, collidono, a sua insaputa, con altri suoi pensieri antecedenti…». […] «L’universo è il cadavere di Dio e noi i suoi vermi. Anche le parole che ora diciamo, il vento nella sua rovina le porta via». […] Sulla parete a sinistra del soggiorno e in alto sul soffitto è ritratta la Peste.
La Signora Morte impugna una pertica che termina con una falce.
Ammassa i morti e taglia loro la testa. E ride.
Ritto sulla prua il gondoliere afferra il remo. E canta. […] Lassù, in alto, strillano gli uccelli e brindano le stelle. Wagner e List giocano a dadi
in un bar nel sotoportego del Canal Grande. Tiziano beve un’ombra con la modella
dell’«Amor sacro e l’Amor profano». […] Madame Hanska al Torcello riceve gli ospiti nel salotto color fucsia.
I clienti della locanda del buio brindano alla felicità i calici di Murano scintillano. […] Dio bussa alla porta d’ingresso; dice: «posso aggiustare il rubinetto,
sistemare la lavastoviglie, riparare il frigorifero, darle l’indirizzo di una casa di appuntamenti,
ho anche dei numeri per il Lotto…». Incredibile, disse proprio così. […] Ed entrammo in una stanza bianca, un pianoforte nero al centro. Un bambino vestito di bianco suonava qualcosa
che i miei cinque sensi non percepivano. Una voce dal parlatorio diceva:
«Il re morto è un dio vivente, il dio morto è un re che vive, la tomba del re è la casa del dio
che si è dimenticato di essere un dio…».
Fu a quel punto che quelle parole inaccessibili risuonarono in me mentre calpestavo il pavimento di linoleum bianco… […] Una grande vetrata si affaccia sul mare veneziano. “Non c’è anima più viva”, pensai, ma scacciai subito
quel pensiero molesto. Una sirena cantava dalla spiaggia dei morti:
«Non c’è più lutto tra i morti». «Non c’è più lutto tra i morti».
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[postilla dell’autore]
Paul Valéry scrive : «le gout est fait de mille dégoûts».
Definizione provocazione choc che ci introduce all’interno del concetto di «gusto», concetto che racchiude in sé la massima incontraddittorietà del contraddittorio, ovvero, il «gusto» è un atto incontraddittorio (Kant parlava del “giudizio estetico a priori”) proprio perché contiene in sé tutte le contraddittorietà possibili e pensabili. Io la metterei così: tutte le contraddittorietà possibili e pensabili formano la incontraddittorietà del giudizio di gusto, il quale è in sé una aporia, ma non per un errore del nostro intelletto quanto perché il suo interno è un «luogo» incontraddittorio che chiama la massima contraddittorietà.
In questa accezione, in questa mia poesia ho tentato la confluenza e convergenza della massima possibile estensione del contraddittorio che dà luogo alla incontraddittorietà complessiva. Non so se ci sono, almeno in parte, riuscito, ma il tentativo andava fatto e l’ho fatto nell’orizzonte di una «nuova poesia», la quale non può essere interpretata con le categorie con cui si è soliti interpretare la poesia del novecento italiano, essendo essa estranea a quelle categorie critiche.
La conclusione mi sembra chiara a questo punto: una poesia se è nuova richiede sempre la costruzione di nuove categorie ermeneutiche, altrimenti diventa incomprensibile. Anzi, la poesia tende a sottrarsi a qualsiasi atto di intellezione che pretenda di inoltrarsi al suo interno. In questo senso, ogni poesia, se è nuova, si presenta con le vesti dell’Enigma, non essendo essa pensabile con le categorie della vecchia metafisica.
Si tratta di un «polittico», parola che ritengo idonea, la poesia si compone di più poesie tenute insieme da un misterioso filo conduttore presente nella mia mente.
Ed ora un aneddoto: cinque anni fa fui trasferito in un ufficio nel circondario del carcere di Rebibbia di Roma. L’ufficio era situato molto lontano, all’interno del circondario del carcere e dovevo ogni giorno fare a piedi un lunghissimo percorso all’interno del comprensorio del carcere, tra il muro di cinta e l’inferriata che dà sulla strada pubblica. E così, ogni giorno camminavo avendo alla mia sinistra il lugubre muro di cinta grigio di calcestruzzo con le torrette di avvistamento, e a destra il prato che confinava con la lunghissima inferriata che perimetra il complesso carcere, il più grande complesso carcerario d’Italia perché comprende ben 4 carceri con 4 direzioni distinte. Camminare accanto a quel muro lunghissimo è stata una esperienza fondamentale, con il sole e con la pioggia, sentivo il freddo del grigio del muro di calcestruzzo, di là i dannati, i detenuti, di qua gli uomini liberi…
All’improvviso, un giorno mi viene in mente il verso di inizio della poesia «Il bacio è la tomba di Dio» che non capii da dove fosse uscito, ma lo capii in seguito: il verso era la risposta che la mia mente dava per documentare la condizione spirituale del lunghissimo muro di calcestruzzo alla mia sinistra. La risposta mi era stata data con il verso di inizio; poi tutto il seguito della poesia non è altro che una serie di cripto citazioni e di rimandi a versi di altri poeti che nei successivi cinque anni mi venivano in mente, in modo da costituire un vero e proprio polittico, con salti spazio temporali, interventi di personaggi veri e di fantasia. La poesia – posso dirlo – si è venuta costruendo da sola, senza l’intervento del mio «io», o meglio, io mi sono occupato soltanto della regia esterna, tutto ciò che c’è dentro alla composizione si è formato da solo. Penso che ad un certo punto la poesia abbia iniziato ad esercitare una forza di attrazione verso tutto ciò che essa riteneva di dover attrarre ed ingurgitare, e così spezzoni di citazioni, frasi e icone immaginarie sono state attratte dalla frase di inizio: «il bacio è la tomba di Dio» che, in sé non significa un bel nulla perché vuole significare qualcosa che sta oltre le possibilità espressive del linguaggio ma che è contenuto nel linguaggio.
In un certo senso, la poesia non sarebbe venuta fuori se non avessi accettato di far fare al mio «io» un passo indietro e di porre come orizzonte della significazione e del senso l’indicibile come compito precipuo della poesia. Soltanto qualche giorno fa il mio ultimo tocco è stato di suddividere la poesia in distici. E il lavoro lo considero ormai ultimato. Dunque, cinque anni di lavoro.
Riflessione di Giorgio Linguaglossa in margine alla musica di Gyorgy Ligeti e Giacinto Scelsi
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Proviamo a pensare la poesia come una «composizione musicale», come una «polifonia», come un «polittico», o come un «sistema polifonico», con voci di contralto, di tenore, di basso etc., con «voci» interne ed esterne, dell’io e di altri; proviamo a pensare di rimodulare i «toni» a secondo della posizione delle «parole» all’interno di un sistema dinamico qual è il verso; proviamo a pensare questo sistema dinamico come «sistema in movimento»; proviamo a immaginare la composizione non come un sistema statico-lineare. Se pensiamo alla cosa chiamata poesia in termini di polifonia entro un sistema spaziale, ed anche di organizzazione formale ma all’interno di un sistema spaziale… ecco che il tempo verrà da sé. In fin dei conti, lo spazio e il tempo (lo afferma Einstein) sono correlati. Proviamo a pensare al poeta come un compositore di musica in uno spazio vuoto, in uno spazio in espansione. Proviamo a pensare alla parola in termini di «massa sonora», e di inserire questa «massa» in un circuito orbitale che ruota attorno ad un astro anch’esso in movimento… Insomma, io credo che abbiamo molto da imparare dalla critica musicale e da musicisti come Ligeti e Scelsi. Un grazie ad Antonio Sagredo per averci dato con questo post la possibilità di intensificare il nostro pensiero poetico.
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Ancora la parola a Federico Favali:
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Ligeti in questa composizione recupera, quella dimensione nella quale la parola perde la sua funzione referenziale, ossia in essa non c’è alcuna funzione dialettica tra significante e significato.
La parola si sgancia dal “sistema” della lingua per assumere una “entità sonora” unica e libera. Ligeti rimarca questo aspetto precisando in partitura, ad esempio, che alcune consonanti non vanno articolate, perché ostacolerebbero il flusso sonoro. Altrove addirittura viene cantata solo una sillaba della parola, cosicché non è possibile riconoscere la parola col suo significato. La scelta del testo, poi, è significativa: i riferimenti all’eterno si sposano perfettamente con la costante ricerca del continuum sonoro. In questa ottica la “musicalità” insita nelle parole è al servizio del continuum. In questa sede, dunque, la parola è “il luogo del suono”.
Proviamo a pensare ad una composizione poetica come ad una macro metafora che all’interno contiene una miriade di frammenti, di parti del tutto, di metafore, di immagini, di luoghi, di personaggi, di citazioni, di ready made dove tutti quanti hanno un loro posto, o si scambiano di posto; in tal modo, all’interno della poesia i luoghi, i personaggi diventano interscambiabili, dove tutto è in movimento in tutte le direzioni. Proviamo a pensare una poesia come un polittico, una polifonia dove una immagine contiene all’interno tutte le altre immagini, un cosmo intero in traslazione in tutte le direzioni. Lo so, forse chiedo troppo. Ma proviamoci.
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Ecco cosa diceva Giacinto Scelsi. Così scrive il musicista:
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“La mia musica non è né questa né quella, non è dodecafonica, non è puntillista, non è minimalistica…Cos’è allora? Non si sa. Le note, le note non sono che dei rivestimenti, degli abiti. Ma ciò che c’è dentro è generalmente più interessante, no? Il suono è sferico, è rotondo. Invece lo si ascolta sempre come durata e altezza. Non va bene. Ogni cosa sferica ha un centro: lo si può dimostrare scientificamente. Bisogna arrivare al cuore del suono: solo allora si è musicisti, altrimenti si è solo artigiani. Un artigiano della musica è degno di rispetto, ma non è né un vero musicista né un vero artista. […] Non avete idea di cosa sia un suono! Vi sono di contrappunti (se si vuole), vi sono sfasamenti di timbri diversi, armonici che producono effetti del tutto diversi fra loro, che non solo provengono dal suono, ma che giungono al centro del suono; vi sono anche movimenti divergenti e concentrici. Esso allora diventa grandissimo, diventa una parte del cosmo. anche se minima c’è tutto dentro. […] Ribattendo a lungo una nota essa diventa grande, così grande che si sente sempre più armonia ed essa vi si ingrandisce all’interno, il suono vi avvolge. Vi assicuro che è tutto un’altra cosa: il suono contiene un intero universo, con armonici che non si sentono mai. Il suono riempe il luogo in cui vi trovate, vi accerchia, potete nuotarci dentro. […]Quando si entra in un suono ne si è avvolti, si diventa parte del suono, poco a poco si è inghiottiti e non si ha bisogno di altro suono. […]Tutto è là dentro, l’intero universo riempe lo spazio, tutti i suoni possibili sono contenuti in esso.
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Ecco cosa scrive Antonio De Lisa della musica di Scelsi:
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Aion si pone per molti versi come la trasfigurazione musicale in senso cosmico dello “sperimentalismo metafisico” di Scelsi. Siamo qui infatti al cuore del suo nucleo teoretico, la cui incomprensione o mistificazione ha prodotto non pochi (e inutili) rituali polemici sull’autenticità della sua musica. Sta di fatto che la sua musica, per come la conosciamo, non poteva che essere così, dato il legame indissolubile tra quelle “scelte formali” e l’universo metafisico dell’autore, che in Aion si fa scoperto.
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Il richiamo all’esperienza del brahman è rivelativo. “Tutto questo [universo] è in effetti il brahman“, recita un’affermazione della Chandogyopanisad, con una trasparente allusione al fondamento ultimo di tutto, ciò di cui ogni essere è fatto: l’Essere in quanto tale (Sat, lett. “l’Ente”). L’identificazione con l’atman, il puro soggetto, è decisiva: l’uomo è chiamato a riconoscere il fondamento della propria esperienza, la nuda coscienza testimone degli eventi mentali, come formante tutt’uno con il fondamento di tutto. L’Essere, in questa prospettiva, è inattingibile dal linguaggio e dal pensiero: esso si presenta come il “né così, né così” (Neti neti), raggiungibile solo attraverso la negazione di ogni modalità determinata e di ogni nome e forma. Da qui all’annullamento nominale e formale delle strutture musicali della tradizione, nell’opera di Scelsi, il passo è breve; come pure è comprensibile come egli tenti di sottrarsi a ogni altra incipiente tradizione, anche se avversa ma basata sulle stesse categorie (in particolare quelle che fanno capo a un concetto dialettico di tensione). In questo modo non fa scandalo trovare nella musica scelsiana, insieme, le ottave e i quarti di tono (la massima conferma e la minima soglia della diffrazione dello spazio prospettico temperato della musica occidentale); in questo modo si capiscono gli scivolamenti microtonali, i glissandi sospesi, la scoperta della profondità del suono nella bidirezionalità degli armonici, la pulviscolarità micromelodica e microritmica dei battimenti; si spiegano anche il “vuoto intervallare” e la circolarità formale.
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Ad Aion l’autore ha sotteso un “programma”, si tratterebbe di “quattro episodi in una giornata della vita di Brahma”. Brahma – il cui nome significa etimologicamente “essere immenso” e che deriva dal tema nominale sanscrito brahman, designante il principio spirituale assoluto e indifferenziato – è la prima divinità della triade indù (insieme a Visnu e Siva). Gli è stata attribuita l’origine del mondo, essendogli state conferite le caratteristiche del “creatore”, dato che rappresenta il momento di equilibrio fra la forza che conserva l’universo in esistenza (Visnu) e quella che tende al contrario al suo annientamento (Siva). Brahma, come ordinatore del cosmo, è rappresentato con quattro volti che guardano verso le quatto direzioni dello spazio, simboli dei quattro Veda, o dei quattro varna, o delle quattro età del mondo. Reca in mano un karmandalu (vaso d’acqua per le abluzioni) e cavalca un’ oca selvatica (hamsa). Scaturita dall’idea di un essere immenso concepito come “embrione d’oro” (Hiranya-garbha) o come “protettore-signore dell’umana progenie” (Prajapati), la figura di Brahma comincia a delinearsi all’epoca delle Upanisad. La sua vita – come quella di tutte le divinità indu – non è eterna, ma ha una durata, sia pure immensa nel tempo. Nasce all’inizio di ognimahakalpa (“grande era cosmica”), poi comincia a recitare i Veda, enunciando così i principi di verità che costituiscono la norma di una nuova manifestazione del mondo.
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Scelsi usava dire che per capire la sua vita e la sua musica bastava vedere dove abitava, nei pressi del Foro romano. Da lì passava il confine tra Occidente e Oriente. Uno dei sensi possibili di questa affermazione risiedono nei due punti in cui siamo andati articolando questo discorso: l’affermazione del “né così, né così” fino all’”annullamento della presa” (l’inattingibilità dell’essere se non attraverso la sua pulsione ritmico-onirica) vissuta (intuita, forse) attraverso le esperienze euro-colte del Surrealismo e sfociate nell’adesione al respiro orientale del brahman.*
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«Le parole (le note) non sono che dei rivestimenti, degli abiti. Ma ciò che c’è dentro è generalmente più interessante, no? Il suono è sferico, è rotondo».
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Protagonista è il Tempo, l’Aion di Scelsi,(la lontananza nostalgica) il Tempo eterno, da cui Cronos, per Aristotele l’«immagine mobile dell’eternità», il tempo ciclico che appare nel presente. Da notare come gli strumenti musicali a percussione ad esempio nelle poesie di Grieco Rathgeb traccino i movimenti ondulatori del testo, che sembra immobile, eppure questa immobilità è composta da una miriade di micro movimenti di traslazione, ondulatori quasi che l’autore li avesse scritti sotto l’influsso della musica di Scelsi. Le poesie sono inquadrate da un’unica inquadratura della macchina da presa che circonda l’oggetto profondo da tutte le posizioni, lentamente, con un movimento ondulatorio, avvolgente, con progressivi scivolamenti microtonali, con i glissandi sospesi.
. * da inpoesia.me . Ed ora una mia poesia sull’Isola dei morti (nuova versione).
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Giorgio Linguaglossa in-campagna 2013
Giorgio Linguaglossa
Le Isole dei Morti
I Chiatta sullo Stige .
[…] Chiatta sullo Stige. Luttuose gondole fluttuano cariche di morti. Piceo fondale. Il barcarolo canta a squarciagola. Il gondoliere traghetta le anime ancora pesanti dei morti. E canta. Essi si chiedono: «Siamo morti? Veramente morti?». «Siete morti per sempre – risponde il gondoliere – Per sempre e mai più». […] Ricordai Evgenja Arbugaeva, la sua casa in Siberia. La porta dell’izba aperta sulla neve, e la Torre costruita con i prosperi e l’orologio da tasca. La Torre del faro e l’osservatorio sul tetto dell’izba. India. Anni Novanta. Traffic of Sakurabana. Luci che si accavallano su altre luci. Steven Grieco Rathgeb è là, prima della lontananza nostalgica. Madrigale per violino solo con otto nastri magnetici.1 […] Una grande ombra sulla chiatta. Bianca. Dritta sulla prua. Odore di nafta. A poppa il vogatore che voga verso l’isola dei morti. Rocciosa a strapiombo un’isola montuosa nel mare plumbeo. Attracchiamo sulla sabbia nerastra. «Questa è l’isola dei morti», disse un gendarme ma la voce si perse nel luteo fogliame della sponda. […] Un altro gendarme gridò: «Elpenore, anche tu qui?».2 «C’era una reggia sontuosa. E tanto vino». «E poi?». «Devo esser caduto nel sonno».*
[…]
Sono stato dio, filosofo ed eroe.
Sono Agrippa postumo, l’ultimo sostenitore della repubblica.
E adesso sono qui, in esilio su quest’isola maledetta.
Il che è un modo complicato per dire che non sono.
. II
La città degli Immortali
[…] Ricordai le parole di Borges: «Esiste un fiume le cui acque danno l’immortalità; in qualche regione vi sarà un altro fiume, le cui acque la tolgono. Il numero dei fiumi non è infinito; un viaggiatore immortale che percorra il mondo, finirà, un giorno, con l’aver bevuto l’acqua da tutti». […] Giunsi alla Città di Bronzo. Scorgevo capitelli e astragali, frontoni triangolari. E vidi la Città degli Immortali. Il Labirinto. Vi erano tante porte quante ne contò la mia fantasia. Provai ammirazione e recrudescenza per Asterione, l’ultimo abitante del Labirinto, l’ultimo rappresentante degli Immortali. Egli era irripetibile, e quindi immortale, messo in cattività dagli dèi perché il principio delle cose avesse un termine. […] “Marco Flaminio Rufo è la dentro”, pensai, “prigioniero del suo destino”. Singhiozzai di stanchezza e mi ritrovai sul ponte della nave ammiraglia, ad Azio… In un tempo infinito tutte le cose accadono di nuovo. Nella mischia della battaglia, caddi nel mare, e rinacqui in un altro mare eguale al primo ma diseguale nel dolore. Trovai la morte per il gioco imperscrutabile dei dadi. La morte è democratica, rende tutti gli uomini felici della loro condizione di fantasmi. […] Avevo percorso tutti i sentieri del Labirinto attraverso corridoi senza sbocchi, impalcature di asimmetrie, capitelli sbreccati, scale rovesciate e finestre cieche. La Città degli specchi mi restituiva il mio volto moltiplicato. La Città degli Immortali m’impaurì e ripugnò. Là gli uomini diventavano eterni. Alla periferia della città, vidi un corso d’acqua limpida. Bevvi. Io, Marco Flaminio Rufo, ero diventato immortale. Senza saperlo, senza volerlo. […] Forse, il principio delle cose e Dio stesso è il nulla. Il corpo degli Immortali è un docile strumento, gli basta un sorso d’acqua e una pozione di acedia per vivere in eterno. Ignorai se fossi divenuto ospite del sonno. Gli uomini ignorano la vera natura del sonno, questo lo appresi quando naufragai nell’isola dei fiori di loto, alla corte di Antinoo. Compresi allora che gli Immortali bramavano la morte, l’elemosina di qualche istante di morte apparente, il risveglio dei sensi nella pioggia… […] Vidi la reggia di alghe, di acacie e di araucarie. Vidi un muro monumentale. Vidi morire tutti i miei marinai della malattia del sonno. Mi accorsi di aver ignorato tutto. E mi risvegliai… tra i gentili, la guardia dell’imperatore Giuliano ferito a morte dai sicari di Jehshua, sotto le mura di Ctesifonte. Bevvi in quel fiume e ritornai mortale; vidi una goccia di sangue spuntare dalla ferita che mi inferse un cristiano. Sono di nuovo mortale, mi ripetei, sono di nuovo simile a tutti gli uomini. Tornai ad essere felice. Provai l’antico godimento della pioggia. E fuggii. Le navi erano nella rada. I remi erano alla fonda, nel mare… […] Lo so, la storia che ho narrata è irreale, perché vi sono molte storie che confluiscono in essa. Vidi la Città dei morti. Il muro perimetrale. Gli specchi. Il Palazzo vertiginoso, con le scale che salgono all’infinito. Ormai non so più cosa è reale e cosa è simulacro… Alle porte di Hardrada mi separai da Omero e ripresi la mia immagine di fantasma… Io, sopravvissuto di Pompei, sono Nessuno, abito nel palazzo degli Immortali, vivo come una immagine nello specchio, ogni atto è l’eterna ripetizione di un altro che abbiamo dimenticato, irrecuperabile e casuale, effimero e inconsistente. In un prisma, vidi il catalogo delle navi degli achei, con rimorso e riprovazione. Tutto, tra i mortali, ha un nome, è definito da un evento, dal tempo e dallo spazio; tra gli immortali è assurdo parlare del punto e della linea e dell’amore, se non per antonomasia o paronomasia, o metafora, poiché tutto è vento… […] «Quando si avvicina la fine… restano solo parole. Io sono stato Omero; tra breve, sarò Nessuno, come Ulisse; tra breve, sarò tutti: sarò morto».
Ubaldo de Robertis
Ubaldo De Robertis A Robert Musil
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Ruota la porta girevole in senso antiorario la successione di vuoto crea la distanza tra chi precede e chi segue immagini in sovrapposizione atti rallentati attese quale diabolico diletto l’espressione cortese del poeta istituzionalizzato in quella permanenza ineluttabile medita di smantellare la porta /o l’attesa?/ trasfigurandola in metafora qualcosa che accoglie respinge cattura e libera sgomenta in quella luce mistica potrebbe imitare l’uccello leggendario piumaggio caldo arancione testa d’uomo coda di pavone vedendosi riflesso nella lastra di vetro contemplandosi da il là ad un canto tristissimo e… muore il Simurg/o il poeta?/ dominio del tempo scenico l’indugio in un gioco di quinte d’angolo sul fondalino l’inattesa svolta inelegante ordinario l’uomo avanti a se non c’è davvero nessun altro dentro il tempio pagano perde coscienza il vate declama l’altro neppure alza lo sguardo peggio per lui esclama in questo frammento /di tempo/è il momento più alto la mia poesia tragedia della porta girevole la testa calva perdura a declamare con Artaud: Ahimè un poeta non può rinchiudersi vigliaccamente in un luogo da cui non uscirà più il tempo si dilata sull’orlo dell’istante si riapre la porta continua a ruotare L’uomo senza qualità un avventore inquietante.
Antonio Sagredo teatro politecnico-1974
Antonio Sagredo da “La gorgiera e il delirio” (opera inedita)
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Accattone d’amore
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Dai moli irriverenti io vidi il sorgere di visioni eterogenee e specchi invitare gli occhi ad un incubo speculare, le orbite marcire alla deriva e i pensieri non incisi su tavole d’argilla… e tutto era smarrito fra quei corpi in disuso, come in un arsenale desolato avanzi di epoche mai nate e intatte. . Non avevo che fiumi di madreperla da mirare e quel morire degli oceani avvitarsi in ciambelle sfatte nei tramonti inaciditi, e come una marionetta d’altri tempi, senza nervi e rauche parole, fra merletti delle torri saracene sognavo invano navigli e vele biancoavane… un orientale esistere non c’è più. . Nostra Signora del Lutto rifiutò il sacrificio dell’agnello e crocefisse l’innocente leopardo. Lei che era tutto il Canto non divise la mia nascita con le parole beate e il sapere di tutta la materia oscura vomitò sulla scena i gesti e l’ombra generò un’assenza d’aurore per la scosciata Europa. Celebravo dei roghi la mia assenza . in fiamme e tu giocavi ai miracoli sui patiboli, e non avevi nemmeno un gesto per me fra spazi scellerati e infernali amori… non volevo abbandonare il paradiso al suo destino, temevo delle mie lacrime il suo benestare al riso e il calibrato furore delle mie mani sui gradini di un sacrario. Accattone d’amore! . Il delirio di una gorgiera di rose fu una vigilia pagana, un assemblea plenaria, un arazzo floreale ibernato dal gelo delle mie visioni… pregavo la soglia di un qualsiasi cottolengo per negare alla santità dei miei atti un sigillo o un sacrificio l’attesa fra risa e singhiozzi… andiamo a morire da Poeti, allegramente! . Dai padiglioni ascoltavo le suppliche di Chinoneri, i singulti e gli sbocchi di sangue crollare sul volto tumefatto della Supplica – Ti ho sentito piangere dalla camera dove non ci sei… raccoglievo i tuoi resti, confondevo le trame e le scene. Citera m’aspettava con tutte quelle maschere che si somigliano, l’accidia che cantava la sua . ofidica tranquillità, le note di Federico dissolversi sulle strade di Varsavia. Dal ponte delle mie legioni gli antichi versi svanire con gli scabrosi epitaffi del mio sublime recitar cantando un miserere o un Te deum come un severo Farinelli fra turrite troie e rosse lanterne. Affilare a dismisura la soglia come una lama nella mia gola? . La Morte ho spremuto come un limone di primavera, in fiore! … sangue catramoso come succo di mirtillo dalle croci, barocca mistica depravazione, alziamo i calici, sui patiboli ! Asciugati la maschera con le lacrime! E io che mi lasciavo andare sul Ponte delle Lamentazioni, consumato, iniziato ai ricordi come alla morte di una Poesia mostruosa. . Inedito, Roma, 31 ottobre 2015 (dall’ora quarta alla sesta)
L’uomo abita l’ombra delle parole, la giostra dell’ombra delle parole. Un “animale metafisico” lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l’ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l’uomo legge l’universo.
«Quegli sguardi dall'abisso... noi guardiamo dentro quelle pupille enormi, nere, lucenti come sfere d'ossidiana, e vediamo l'abisso. Ma loro verso cosa guardano? Verso di noi guardano. E vedono in noi l'abisso»
Il Mangiaparole – Come abbonarsi alla rivista, Quota ordinaria € 25, Quota sostenitore € 50 + copia di un Libro in omaggio a scelta della collana Il Dado e la Clessidra
Trimestrale di Poesia Critica e Contemporaneistica Il Mangiaparole n. 1
La Nuova Ontologia Estetica, Poetry kitchen – La parola kitchen è da pensarsi come evento linguistico: quindi evento dell’altro proprio perché si annuncia in quanto irruzione di ciò che è per venire, ciò che è assolutamente non riappropriabile; in quanto unico e singolare l’evento linguistico sfida l’anticipazione, la riappropriazione, il calcolo ed ogni predeterminazione. L’avvenire, ciò che sta per av-venire può essere pensato solo a partire da una radicale alterità, che va accolta e rispettata nella sua inappropriabilità e infungibilità. La contaminazione, l’impurità, l’intreccio, la complicazione, la coinplicazione, l’interferenza, i rumori di fondo, la duplicazione, la peritropé, il salto, la perifrasi costituiscono il nocciolo stesso della fusione a freddo dei materiali linguistici, gli algoritmi che descrivono la non originarietà del linguaggio, il suo esser sempre stato, il suo essere sempre presente; una ontologia della coimplicazione occupa il posto della tradizionale ontologia che divideva essere e linguaggio, la ontologia della coimplicazione ci dice che il linguaggio è l’essere, l’unico essere al quale possiamo accedere. Non si dà mai una purezza espressiva nel logos ma sempre una impurità dell’espressione, un voler dire, un ammiccare, un parlare per indizi e per rinvii.
La storia letteraria è un libro di ricette. Gli editori sono i cuochi. I filosofi quelli che scrivono il menu. Gli scrittori e i preti sono i camerieri. I critici letterari sono i buttafuori. Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina.
Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura
Al posto del problema gnoseologico kantiano, come sia possibile la metafisica, compare quella di filosofia della storia, se sia possibile comunque un’esperienza metafisica
Ogni felicità è frammento di tutta la felicità che si nega agli uomini e che essi si negano
Gli uomini vivono sotto il totem di un sortilegio: che la vita abbia un senso o che non ne abbia alcuno
Pura immediatezza e feticismo sono ugualmente non veri
Così anche la disperazione è l’ultima ideologia, utilissima per l’autoconservazione
Un angelo zoppo ci venne incontro e disse, senza guardarci: “malediciamo il nome di Dio.”
Nessuno capace di amare e così ciascuno crede di essere amato troppo poco
Le epoche della felicità sono i suoi fogli vuoti (Hegel)
Sortilegio e ideologia sono la stessa cosa (T.W. Adorno) Si può dire… che l’uomo è l’essere che progetta di essere Dio. Dio, valore e termine ultimo della trascendenza, rappresenta il limite permanente in base al quale l’uomo si fa annunciare ciò che è. Essere uomo significa tendere ad essere Dio, o, se si preferisce, l’uomo è fondamentalmente desiderio di essere Dio (J.P. Sartre)
Alfredo de Palchi monografia – Adesso diciamo una cosa tremendamente reale, che siamo entrati tutti in un Grande Gelo, in una nuova epoca, nell’epoca della piccola glaciazione dove le parole le trovi sì, ma raffreddate se non ibernate
Donatella Costantina Giancaspero
Vincenzo Petronelli La tecnica pone fine alla metafisica dell’occidente assegnandole un compito diverso in concomitanza con la dissoluzione della struttura denotativa che ha caratterizzato le lingue umane
la tecnica pone fine alla metafisica dell’occidente assegnandole un compito diverso in concomitanza con la dissoluzione della struttura denotativa che ha caratterizzato le lingue umane
La poesia è scrittura della nostra preistoria
Il soggetto non è mai del tutto soggetto, l’oggetto oggetto
Le cose si irrigidiscono in frammenti di ciò che è stato soggiogato
Il piacere sensoriale, a volte punito da un misto di ascetismo e di autoritarismo, è divenuto storicamente nemico immediato dell’arte: l’eufonia del suono, l’armonia dei colori, la soavità sono divenute pacchianeria e marchio dell’industria culturale (Adorno)
L’io penetra l’oggetto pensandolo e immaginandolo
Helle Busacca La disintegrazione della «struttura tragica» della poesia di Maria Rosaria Madonna segna la pre-condizione di possibilità per la nascita della poetry kitchen.
Edith Dzieduszycka. Avevano corso,/ di giorno e di notte,/ poi di nuovo di giorno,/ e ancora di notte./ Avevano corso/ come bestie assetate,/ in cerca del ruscello al quale abbeverarsi
Letizia Leone: Il diavolo indossa un camice bianco/ E stacca pezzi di carne dalla carne/ Del mondo/ Con aghi, occhi a punta, lame, rasoi // Non affonda la mano/ ma ferro disinfettato./ Non si sporca
Su di un cerchio ogni punto d’inizio può anche essere un punto di fine (Eraclito) – Roma, 1997, Giorgio Linguaglossa e Antonella Zagaroli
Cara Signora Schubert, mi capita di vedere nello specchio Greta Garbo. È sempre più simile A Socrate. Forse la causa è una cicatrice sul vetro (Ewa Lipska)
La casa pare ormeggiata nel cassetto di una vecchia scrivania./ “Mi chiedevo dove avessi lasciato le scarpe”./ La donna guarda attraverso le fessure della tapparella./ Ha sentito sbattere la portiera (Lucio Mayoor Tosi)
Anna Ventura conserva le parole tra le righe della sua scrittura come si mette un cibo in frigorifero
Domando al piombo perché ti sei lasciato fondere in pallottola? Ti sei forse scordato degli alchimisti? (Ch. Simic)
La precarietà del pensiero non identificante che indugia sulle cose. La tranquilla consapevolezza che ciò che possono dare le parole poetiche forse non è granché ma è pur sempre qualcosa di importante
Il mio amico [di Roma]*, quello che si occupa del Signor Nulla, litiga di nascosto con lo specchio (Gino Rago)
Le parole sono i raggi ultravioletti dell’anima
Maria Rosaria Madonna, cover 1992
Iosif Brodskij Le immagini rappresentano il contro movimento delle parole. C’è un rapporto debitorio tra le immagini e le parole, o un rapporto creditorio, uno squilibrio della contabilità, della partita doppia
Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente
Trattare tutte le cose come un terzo pensiero che ci osserva
Edith Dzieduszycka
Alfredo de Palchi, a 12 anni/ meschino nella tuta lurida di grassi/ per motori a nafta/ consegno 5 lire/ (la settimana—domenica compresa)/ nella busta troppo larga al nonno anarchico/ mangiato dal cancro
Mauro Pierno, Compostaggi – Così anche la disperazione è l’ultima ideologia, condizionata storicamente e socialmente. Il contenuto di verità dell’assente è indifferente (T.W. Adorno)
La poesia di Giuseppe Talia proviene da una grande deflagrazione delle parole e della stessa tradizione del ‘900
Perdita dell’Origine (Ursprung) e spaesatezza (Heimatlosigkeit) si danno la mano amichevolmente. Se manca l’Origine, c’è la spaesatezza. E siamo tutti deiettati nel mondo senza più una patria (Heimat). Ed ecco l’Estraneo che si avvicina. E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich) le nottole del tramonto singhiozzano [Maria Rosaria Madonna]
in cover Maria Rosaria Madonna
La poesia di Mario Gabriele è un film, una successione di fotogrammi in un orologio senza lancette. «Una vita che avesse senso non si porrebbe il problema del senso: esso sfugge alla questione» (T.W. Adorno)
Un gendarme della RDT, lungo la Friedrichstraße,/ separava la pula dal grano,/ chiese a Franz se mai avesse letto Il crepuscolo degli dei./ Fermo sul binario n. 1 stava il rapido 777./ Pochi libri sul sedile. Il viso di Marilyn sul Time. (Mario Gabriele)
Gezim Hajdari, Il poietès è il più grande positivo perché porta le cose all’essere dal nulla
Ci sono dei pensieri che hanno una carica elettrica, uno di questi sono le cose della vita, gli eventi che ci accadono, gli eventi omnibus»diceva Ortega y Gasset
Perché le parole sono sagge, loro lo sanno di essere melliflue e superflue
Un Enigma ci parla, ma noi non comprendiamo quella lingua. L’Enigma non può essere sciolto, può solo essere vissuto
Quante parole dobbiamo usare per avvertire il silenzio tra le parole?
Quando una categoria si modifica muta la costellazione di tutte le altre (Adorno)
Letizia Leone
Giorgio Agamben Da quella lontananza rovesciata raggiungiamo la lontananza nostalgica. Non essere a casa propria ovunque
Critica della Ragione sufficiente
Il postino della verità non passa né due volte né una volta, non passa mai. Non c’è alcuna verità nella soggettività, non c’è alcuna verità nel canto degli uccelli nel bosco che tanto piaceva all’estetica kantiana
Mario Gabriele, Una fila di caravan al centro della/ piazza con gente venuta da Trescore e da Milano ad ascoltare Licinio:/-Questa è Yasmina da Madhia che nella vita ha tradito e amato,/ per questo la lasceremo ai lupi e ai cani
Predrag Bjelosevic
Gino Rago, Alla domanda di Herbert: «Dove passerai l’eternità?»,/ risponde il filosofo Erèsia: «cara Signora Circe, caro Signor Nessuno,/ il poeta da finisterre parla con l’oceano e scrive le sue parole sull’acqua
Le parole che scriviamo ci parlano di altre parole che non conosciamo
Le parole sono finestre che aggettano sul labirinto che noi siamo
Anna Ventura, Finalmente so/ che cosa mi avete insegnato./ Siete nella tazza di caffè/ vuota sul tavolo,/ nelle carte sparse, nel cerchio di luce della lampada.
Era piccola la casa, accanto a un cimitero romano. I suoi vetri tremavano per via di carri armati e caccia (Charles Simic)
Roberto Bertoldo
Donatella Giancaspero, Giorgio Linguaglossa, 2016
Alle 18 torna Milena. Prepara la cena. Il tavolo ha quarant’anni. Sale il fumo fino alla lampada. Andrea rinnova aria fresca (Mario Gabriele)
Poiché solo all’apparire del “perturbante” si dileguano gli idoli. Exeunt simulacra (Giacomo Marramao)
Lucio Mayoor Tosi, – Prenderò del Cornac; con spremuta di pomodori e un Lìsson. – Ci vuole della cannella sul Lìsson? – Sì, perché no./ Lo sai che sono innamorata di te
Gezim Hajdari
Carlo Livia, La prigione celeste
Ewa Tagher
Wystan Hugh Auden
Petr Kral
Michal Ajvaz
Mario Lunetta
Ubaldo de Robertis
Jorge Luis Borges
Giuseppe Talia
Kjell Espmark
Tomas Tranströmer
Salman Rushdie
Osip Mandel’stam
Iosif Brodskij
Boris Pasternak
Cesare Pavese
Georg Trakl
Sabino Caronia
Vladimir Majakovskij
Il Mangiaparole n. 10
Pier Paolo Pasolini
Czeslaw Milosz
Salman Rushdie
Alejandra Alfaro Alfieri
Duska Vrhovac
Fernanda Romagnoli
Antologia della Poetry kitchen – Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’ inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati.
Marie Laure Colasson
Lorenzo Calogero
Predrag Bjelosevic
Petr Kral Il Mangiaparole
Zbigniew Herbert
Bertolt Brecht
Werner Aspenström
Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa
Fernando Pessoa
Giuseppe Ungaretti
Eugenio Montale
Paul Celan
Ezra Pound
Edgar Allan Poe
T.S. Eliot
Samuel Beckett
Franco Fortini
Allen Ginsberg
Charles Bukowski
Agota Kristof
Derek Walcott
Giorgio Linguaglossa e Gino Rago
Marina Petrillo
Charles Simic, Il mostro ama il suo labirinto e abita presso l’Hotel Insonnia
Fernando Pessoa
Jacopo Ricciardi
Jacopo Ricciardi
Samuel Beckett
Anna Ventura, «Tra le parole e le cose occorre una grande distanza»
Guido Galdini, Le parole sono schegge di appunti precolombiani – è uno specchio per le allodole/ o sono allodole per lo specchio/ o le allodole sono lo specchio?
Guido Galdini
Mauro Pierno, Lo statuto recondito delle parole dimenticate
L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.
L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.
La presenza di Èrato vuole essere la palestra della poesia e della critica della poesia operata sul campo, un libero e democratico agone delle idee, il luogo del confronto dei gusti e delle posizioni senza alcuna preclusione verso nessuna petizione di poetica e di poesia.