
la poesia narra questo paesaggio innevato che è la memoria – Roma, 26 febbraio 2018, vista Quartiere Ostiense Piramide, foto di Donatella Costantina Giancaspero
Donatella Costantina Giancaspero vive a Roma, sua città natale. Ha compiuto studi classici e musicali, conseguendo il Diploma di Pianoforte e il Compimento Inferiore di Composizione. Collaboratrice editoriale, organizza e partecipa a eventi poetico-musicali. Suoi testi sono presenti in varie antologie. Nel 1998, esce la sua prima raccolta, Ritagli di carta e cielo, (Edizioni d’arte, Il Bulino, Roma), a cui seguiranno altre pubblicazioni con grafiche d’autore, anche per la Collana Cinquantunosettanta di Enrico Pulsoni, per le Edizioni Pulcinoelefante e le Copertine di M.me Webb. Nel 2013. Di recente pubblicazione è la silloge Ma da un presagio d’ali (La Vita Felice, 2015); fa parte della redazione della Rivista telematica L’Ombra delle Parole.
Mi rendo conto che mi manca il linguaggio per entrare dentro una poesia,
mi accorgo soltanto adesso che io, che provengo dal lontano Novecento, non ho più un linguaggio per fare della critica letteraria e sono costretto ad entrare in un linguaggio necessariamente filosofico. Il linguaggio della critica letteraria è diventato obsoleto, e, a volte, anche ridicolo. Non avendo più un linguaggio critico sono stato costretto ad andarlo a cercare, e non è un caso che io (noi), della generazione degli anni ’40 e ’50, io (noi) della nuova ontologia estetica, che abbiamo vissuto in pieno sulla nostra pelle la crisi di quegli anni e che quindi deteniamo la memoria storica della crisi, dicevo, io (noi) possiamo pensare ad una via di uscita da quella crisi… trovo però che sia oltremodo difficile e problematico che autori più giovani di noi che non hanno vissuto nella propria carne e nella propria memoria storica quella crisi, possano, siano in grado di elaborare una piattaforma di rifondazione come quella che abbiamo messa in campo, cioè la nuova ontologia della forma-poesia, per il semplice fatto che, per motivi biografici, non sono i possessori-detentori di quella memoria storica.
È molto tempo che noi parliamo di un «nuovo paradigma della forma-poesia» (la «nuova ontologia estetica», nella sostanza è questo), di un nuovo modo di intendere alcune categorie fondamentali della forma-poesia. Molti interlocutori si sono spaventati e irrigiditi. Lo so, lo capisco, forse è difficile accettare di dover cambiare i significati delle parole d’ordine ai quali ci ha abituato un pensiero estetico obsoleto. Io porto molto spesso l’esempio dei fisici cosmologi, la fisica del cosmo sta facendo un balzo stratosferico, da far rabbrividire; il fisico teorico Verlinde, forse il più acuto fisico teorico del mondo, ha capovolto e dissolto i concetti della fisica cui eravamo abituati e ha indicato un nuovo «modello teorico» per la lettura dell’universo; il fisico tedesco ha dichiarato candidamente che la materia oscura dell’universo non esiste mettendo in subbuglio la comunità scientifica, ne deduco che non c’è affatto da spaventarsi per il nostro modo di proporre un nuovo paradigma delle categorie estetiche della forma-poesia.

Roma innevata, Campidoglio, nevicata del 9 febbraio 1965
Abbiamo perduto la patria metafisica delle parole
Mi sia consentito dire che non è possibile alcun oltrepassamento della metafisica se non c’è stata una metafisica, e per metafisica intendo delle parole vere, pesanti, pensanti, una patria di parole comuni. Per tanto tempo la poesia italiana ha smarrito la sua patria metafisica delle parole, almeno, a far luogo da Le ceneri di Gramsci (1956) di Pasolini, lì le parole abitano mirabilmente un’unica patria. Se mettete in fila tutte le parole del lessico di quella raccolta, vi accorgerete che tutte quelle parole abitano una medesima Grundstimmung, una medesima tonalità dominante. Dopo di allora la poesia italiana perderà progressivamente il vocabolario della poesia; ci saranno a disposizione, utilizzabili, molte, troppe parole dissimili e variegate e si perderà addirittura la memoria della loro comunanza gemellare. Non dico che dopo di allora non siano apparse opere significative nella poesia italiana, dico una cosa diversa, dico soltanto che nelle opere che sono venute dopo si andrà indebolendo ciò che tiene insieme le parole comuni di un’epoca e di una lingua dentro una cornice, una rete tono simbolica, che è la cornice di una lingua e di un’epoca; qui non si tratta della cornice di un quadro di proprietà privata che può essere alienata a piacimento o che i singoli poeti possano alienare liberamente, essa è inalienabile e inalterabile, al massimo, i poeti la possono condividere quando si creano delle situazioni storiche e spirituali singolarissime, quando in taluni rari momenti della storia vengono a coincidere distinti momenti dello spirito di un’epoca, allora viene ad esistenza, diventa percettibile la struttura trascendentale di una patria linguistica.
Che ce ne facciamo di una patria sempre più lontana, estranea e indifferente, di cui non conosciamo il suo contenuto, il suo indirizzo e i suoi abitanti, una patria che ci fa sentire inidonei e inospitati abitanti della «casa dell’essere»? Quella «casa» ormai appare essere sempre meno la nostra «casa» ma un «appartamento» ammobiliato, con suppellettili a noi estranee, indifferenti, che si presenta sempre più come un luogo indisponibile, inaccessibile e irriconoscibile.
Mi sorge il sospetto che quella «casa dell’essere» sia ormai divenuta qualcosa che non sappiamo più riconoscere, che quella lingua che si parla laggiù è una lingua straniera, dai suoni imperscrutabili e incomprensibili. Mi sorge il sospetto che con quella lingua sia ormai improponibile scrivere poesia, non abbiamo più il lessico, non abbiamo più una grammatica e una sintassi che ci possa accompagnare nel nostro viaggio, mi sorge il sospetto che abbiamo perduto la nostra patria metafisica delle parole.
Che cos’è una patria metafisica?
Una patria metafisica delle parole la si costruisce in piena consapevolezza, e la può costruire soltanto una civiltà, non un singolo. È soltanto quando una patria metafisica delle parole inizia a declinare che si aprono delle «falle» e si inizia ad intravvedere un’altra luce, e con essa altre «cose» che prima non vedevamo. Non si tratta soltanto di una fotologia o di una riforma ottica, ma di un vero regno delle «cose» che viene avvistato. Solo a quel punto sorgono, possono sorgere le parole nuove. E allora non resta che ricostruire ciò che è stato decostruito, raccogliere i frammenti di quelle parole morte che sono state calpestate, e indugiare, prendere una distanza, rallentare e, se del caso, fermarsi. Perché noi siamo sempre in cammino verso una nuova casa dell’essere, dobbiamo sempre istituire un rapporto amicale con il linguaggio, quel linguaggio che è stato fatto sloggiare dalla casa ed è rimasto preda delle intemperie, del gelo e del raffreddamento delle parole. Quelle parole raffreddate sono le sole parole che abbiamo, non ne disponiamo di altre, sono loro che ci possiedono… E allora bisogna scaldarle, bisogna trovare una nuova abitazione riscaldata, con una buona stufa… Forse, questo cammino altro non è che un momento del Ge-Schick dell’essere, un tratto di quella peripezia dello Spirito che occorre perseguire.
Il mondo di retroscena custodisce le parole seppellite
vive in quanto quelle parole possono tranquillamente dormire dietro una scena, dietro un sipario, al riparo dell’ombra, separate dal mondo di avanscena illuminato dalla luce diurna del giorno. Allora, questo sforzo di oltrepassare la metafisica si rivela un vano tentativo se lo facciamo in nome e per conto della luce del giorno, perché siamo ancora e sempre prigionieri del linguaggio della metafisica del giorno, ciò che appare in quella luce sarà figlia del giorno ed esonererà ciò che dimora nell’ombra; la patria del giorno non coincide per niente con la patria dell’ombra, quella esautorerà quest’ultima. È questo governo delle parole ciò a cui dobbiamo rinunciare, le parole non vanno governate, sono loro che ci governano, la loro insubordinazione spesso si converte in ammutinamento, e tacciono, possono tacere per lunghi decenni, restando acquattate nel recinto del mondo di retroscena entro il quale si sentono al sicuro, perché lì non c’è alcun governatorato, alcuna imposizione, alcuna tassa da pagare, non c’è alcuna istanza superiore che dirige il traffico delle parole da adoperare come se fossero degli utilizzabili, le parole non sono degli utensili e noi non abbiamo alcun potere su di esse.
Nella «nuova ontologia estetica» non c’è nessun pathos delle parole o del tempo o della perdita, tutto ciò è impallidito e si è allontanato, è ormai una galassia che non ci interessa più; l’oggettività della nuova poesia nasce non da una acquisizione ma da un allontanamento, da una dismissione di gravezza, da un alleggerimento dalla pesantezza.
Può darsi che la nuova ontologia della parola poetica sia destinata ad attraversare il deserto di ghiaccio della dissoluzione delle Forme di un tempo, della tradizione, può accadere che quelle Forme adesso ci parlano dal loro irrigidimento in una lingua morta che non comprendiamo più, può darsi che anche questa gigantesca dissoluzione delle Forme sia un momento necessario del Ge-Schick dell’essere di cui ci ha narrato Heidegger e che questo allontanamento sia stato salutare, ci abbia fortificati, fortificati nella debolezza e nell’impallidimento.
E adesso leggiamo una poesia della nuova patria delle parole.
Donatella Costantina Giancaspero
La neve a Roma, 9 febbraio 1965
È già dentro la notte la sospensione
della neve.
Il sonno tende l’orecchio al di là del calorifero,
in cerca di una vibrazione.
Da una fessura filtra la sequenza in controcampo
dei nastri viola e gialli di Carnevale,
legati al vento della finestra.
Su, c’è ancora neve:
si specchia in quella che resta a terra
e sulle case di periferia.
“Ma’, posso scendere giù?”
Gli stivaletti da donna, modello sportivo
senza tacco,
di camoscio marrone, con finiture in pelle gialla,
numero 35, possono adattarsi al piede più piccolo.
Affondano fino a un angolo di marciapiede,
davanti al capolinea del bus in sosta.
L’autista e il bigliettaio si scaldano con le sigarette.
Forti della divisa grigia. Fumano
come una pattuglia a difesa del mezzo
– verde scuro schizzato di fango –
e di questo confine della città.
È dissacrante il gioco della neve contro la lamiera.
L’ultimo colpo cade a vuoto.
*
The snow in Rome, 9 february 1965
Already inside of the night is the suspension
of snow.
Sleep lends its ear beyond the radiators,
searching for one vibration.
From a crack, a countervailing sequence filters
from violet and pink Carneval ribbons,
tied to the wind of the window.
There is snow: farther above:
reflecting itself with the one on the ground
and upon suburban homes.
“Mamy, can I go down?”
The lady’s small boots, sport-model
without heel,
of brown chamois, with finishes of yellow skin,
size 35, adaptable to the tiniest foot.
Sinking up to the angle of the sidewalk,
in front of the parked bus at the end of the line.
Driver and ticket-taker warm up with a cigarette.
Proud of their gray work uniform. They smoke
like a patrol defending the vehicle
–dark green, mud-splashed –
for this end of the city.
Outraging the playing of snow against the steel.
The final pounding falls in the null.
© 2018 English translation by Adeodato Piazza Nicolai of the poem The Snow in Rome, 9 February 1965, by Donatella Costantina Giancaspero. All Rights Reserved.
*
Una poesia inedita di Donatella Costantina Giancaspero da Al quadro manca una ragione con il commento di Gino Rago e una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
Da qualche giorno, il sospetto che il mare è là dietro
Costantina Donatella Giancaspero vive a Roma, sua città natale. Ha compiuto studi classici e musicali, conseguendo il Diploma di Pianoforte e il Compimento Inferiore di Composizione. Collaboratrice editoriale, organizza e partecipa a eventi poetico-musicali. Suoi testi sono presenti in varie antologie. Nel 1998, esce la sua prima raccolta, Ritagli di carta e cielo, Edizioni d’arte Il Bulino (Roma), a cui seguiranno altre pubblicazioni con grafiche d’autore, anche per la Collana Cinquantunosettanta di Enrico Pulsoni, per le Edizioni Pulcinoelefante e le Copertine di M.me Webb. Nel 2013, terza classificata al Premio Astrolabio (Pisa). Di recente pubblicazione è la silloge Ma da un presagio d’ali (La Vita Felice, 2015).
*
Da qualche giorno, il sospetto che il mare è là dietro.
Dietro lo schermo sbavato di case.
Tra loro si afferrano ai fianchi, come sostegno.
Qui, la persiana ha una fessura puntata sulla scala di ferro battuto.
Sale a chiocciola. Dal cortile, al terrazzo condominiale – testimonia la foto
scampata al massacro dei ricordi –.
Una perfezione fonda, inconoscibile, è forse oltre.
Lo lasciano intendere i gabbiani – stanno qui, da poco tempo, dentro i muri
Più grandi, sul terrazzo condominiale. Sforano la luce.
Ma non è concesso di seguirne i voli. Dall’alto ci sorvegliano.
Se intuiscono uno sguardo intento, scendono in picchiata.
Rasentano gli occhi.
***
Commento di Gino Rago
“La remora, piccolo per statura e grande per la Potenza, costringe le superbe fregate del mare a fermarsi; avventura che, come ci racconta Plinio, toccò alla quinquereme dell’imperatore Caligola.
Mentre questi ritornava dall’Astura ad Anzio, il pesciolino, lungo mezzo piede, si attaccò succhiando al timone della nave, provocandone l’arresto.
Plinio non finisce mai di stupirsi del potere della remora.
La sua meraviglia evidentemente impressionò gli alchimisti al punto di indurli a identificare il pesce rotondo del nostro mare proprio con la remora.
La remora divenne così il simbolo dell’estremamente piccolo nella vastità dell’inconscio.
Che ha un significato tanto fatale: esso è infatti il Sé, l’Atman, quello di cui si dice che è il più piccolo del piccolo, più grande del grande.”
Carl Gustav Jung, Ricerche sul simbolismo del Sé
In questi tuoi versi recentissimi, Costantina cara, mostri di avere sconfitto la remora. Brava.
Qui, la persiana ha una fessura puntata sulla scala di ferro battuto.
Sale a chiocciola. Dal cortile, al terrazzo condominiale
Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
L’enigma non può essere sciolto da un atto di padronanza categoriale, può solo essere rivissuto.
La poesia è un enigma ma un enigma è un labirinto che contiene innumerevoli percorsi, che non può essere sciolto da un atto di padronanza categoriale ma può soltanto essere percorso. La poesia indica questo, indica il percorso da seguire per risolvere l’enigma. Ed il percorso ha la struttura dell’esistenza, una struttura labirintica, soltanto esistendo si può sciogliere l’enigma. L’esistenza è sostanzialmente un vedere, capacità visiva, potenza della capacità visiva. Non è un caso che la poesia termini con l’accenno ai «gabbiani» i quali «sforano la luce», essi che «dall’alto ci sorvegliano», che hanno una suprema capacità di visione, e «scendono in picchiata», ci «rasentano gli occhi».
La poesia rappresenta l’impossibilità di vedere l’Altro,1] di vedere, afferrare il reale con occhio frontale. L’Altro come luogo della parola, è il luogo del reale. È impossibile vedere il reale guardandolo dritto negli occhi, previo il suo svanire. Non si può cioè fare del linguaggio l’oggetto di una visione diretta in quanto «il linguaggio è esso stesso quel presupposto che consente la visione». Il linguaggio, ci dice Giorgio Agamben,2] è ciò che deve necessariamente presupporre se stesso. Il che significa che, come tale, esso è ciò che in ultima istanza manca di presupposto, e questo mancare si dà come esperienza irriducibile, come condizione stessa affinché via sia linguaggio. Dire che non c’è metalinguaggio significa così affermare che ogni dire – e lo stesso ordine significante – si smarrisce una volta posto di fronte ai suoi presupposti.
È qui che ci viene in aiuto la nozione lacaniana di «fantasma», nozione singolare e alquanto oscura che Lacan introduce per descrivere la natura più profonda del desiderio umano, e cioè quel suo essere «desiderio di nulla» che presto si rovescia in un «nulla di desiderio», quel nulla in cui la parola scava la sua dimora e in cui il soggetto fa esperienza della sua propria mancanza a essere. Il soggetto della poesia scopre il proprio svanire come soggetto nel momento in cui vede per la prima volta il «reale», ma, per farlo deve necessariamente sogguardarlo da «dietro lo schermo», dal riparo di un nascondiglio.
Un pensiero ricorrente, ricorsivo, si presenta, anzi, si insinua nella soggettività «da qualche giorno», e con esso il «sospetto che il mare è là dietro», che la soggettività sia un nonnulla, un vuoto che si riempie con gli sguardi. E infatti, l’io si trova a sbirciare da dietro una «persiana»: «qui, la persiana ha una fessura puntata sulla scala di ferro battuto». La poesia ci dice che c’è una «scala di ferro battuto [che] sale a chiocciola». È un preciso frammento di realtà. Una indicazione segnaletica. Soltanto un frammento può illuminare un altro frammento. È possibile sogguardare un frammento di «reale» sostando in un altro frammento del «reale». Tra i due «reali» c’è un collegamento: il soggetto, che si scopre vuoto, che evanesce una volta posto sotto l’imperio dello sguardo, del significante. La poesia deve sfuggire all’imperio dello sguardo-significante e, per far questo, deve procedere come se la parola fosse muta, come un sogno, o meglio, un incubo silenzioso.
La rappresentazione è nitida e precisa come una pittura iperrealista, il lettore deve solo seguire i nessi e ripercorrere il percorso dello sguardo.
Pensiero ed essere sono reciprocamente estranei, non possono comunicare se non da una distanza abissale. La poesia ci narra questa distanza abissale, l’assenza del pensiero. Infatti il pensiero è nello sguardo, fuori dello sguardo il pensiero semplicemente non esiste, non c’è, in quanto l’essere del soggetto appartiene all’esperienza della parola, che è l’esperienza della mancanza. Il soggetto è cioè costantemente rimandato al di là, per la natura stessa del linguaggio, dello sguardo, alla ricerca di una significazione che lo racchiuda. Il suo essere non è, pertanto, lì dove la soggettività pensa, non è lì dove il soggetto si dice e si afferma come cogito, ma lì dove non c’è, dove si dà allo stato come mancanza, come mero sguardo.
[…]
Ecco come risponde Vincenzo Vitiello ad una mia domanda.
Domanda: Lei scrive che «noi abitiamo lo spazio, ma non siamo-nello-spazio; noi abitiamo il tempo, ma non siamo-nel-tempo; e cioè: abitiamo il mondo, ma non siamo-nel-mondo – è ben antica: la si legge in forma concisa e straordinariamente efficace in un testo che è all’origine della nostra civiltà, della civiltà dell’Occidente: «autoì en tô kósmo eisín […] ouk eisìn ek toû kósmou» («essi sono nel mondo […] ma non sono dal mondo»).
Ciò vuol dire che l’uomo è un essere quadri dimensionale, che è il solo essere vivente che vive nelle quattro dimensioni perché si muove nella dimensione temporale della memoria? Ma come possiamo «abitare» il mondo se non siamo nel tempo e non siamo nello spazio?
Risposta: S’aggiunga poi che il mondo moderno, la Neuzeit, l’età nuova – che è pur sempre la “nostra età”, pur quando questa si definisce, per contrasto, “post-moderna” – l’ha ripresa e radicalizzata nella forma di una (metodologica, epperò “possibile”) Weltvernichtung. Quest’ultimo riferimento ci impone di chiarire subito che la tesi, or enunciata, non ha nulla a che fare con la disputa sull’“Io puro”, il “soggetto weltlos”, et similia, non foss’altro perché riteniamo che all’origine di tale disputa vi sia un radicale fraintendimento dell’epoché cartesiana e husserliana del mondo. Anticipiamo pertanto anche la conclusione del saggio: se l’abitare indica la cura per le cose del mondo, quindi il vincolo che ci lega al mondo, il non-essere-nel-mondo sta a significare che questa cura non ci “appartiene”, non è nostra “proprietà” (Eigentlichkeit), non viene da noi, non è-per-noi (ek hemôn), ma viene da “altri”, è per-“altri” (ek állon). Anzitutto: viene da “altro”, è-per-“altro” (ek hetérou).
Se qualcosa non di “nuovo”, ma di “diverso” il lettore può aspettarsi da questo saggio, che riprende questioni antiche e moderne, non è, pertanto, la via percorsa, ma il modo di percorrerla. Diverse non sono le domande. Diversa è la prospettiva da cui vengono poste.
Domanda: Perché il nesso dello spazio col tempo? Perché non possiamo uscire dal circolo dell’interrogazione? Quel circolo dal quale non possiamo uscire con la domanda e la risposta ma che la poesia ci indica allusivamente?
Risposta: Le domande, dunque: a) perché il nesso dello spazio col tempo? b) chi sono gli autoí, i “noi” che abitano spazio e tempo, il mondo, e non sono-per-sé nello spazio e nel tempo, nel mondo? E chi gli “altri”, per i quali abbiamo un mondo, abitiamo spazio e tempo? E chi, o “che” è l’“altro”? La seconda domanda, chiaramente, investe quegli stessi che pongono la domanda. Piega la domanda sull’interrogante. Quanto, allora, la domanda e la risposta, che le vien data, dipendono dallo stare nel circolo dell’interrogazione su se stessa ri-flessa? E non ha senso dire che il problema non è di uscire dal circolo, ma di saper muoversi in esso in modo appropriato, perché anche il giudizio sull’“appropriatezza” del movimento dipende dall’essere-già nel circolo.
Non resta, dunque, altro da fare che… iniziare avendo già iniziato. Non resta, cioè, che muoversi nel circolo in cui già da sempre siamo, e da dove siamo. Senza però la pretesa di porsi dal punto di vista del circolo. Come in fondo pretese Heidegger, che si pose dapprima nella prospettiva del “chi” si muove nel circolo, in seguito – un seguito già previsto e annunciato nel primo movimento – nell’opposta “visione” dell’“Es”, del neutro esso che muove il circolo.
Ci stiamo muovendo in circolo. Purtroppo in un circolo non virtuoso, anzi vizioso, viziosissimo.
il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore, volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia – può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia.
***
Dall’alto ci sorvegliano./ Se intuiscono uno sguardo intento, scendono in picchiata./ Rasentano gli occhi.
Gino Rago: La poesia è un Enigma?
(…)
Per J. Derrida «Una poesia corre sempre il rischio di non avere senso e non avrebbe alcun valore senza questo rischio».
In ultima analisi, la poesia è un Enigma. Quando qualcuno parla, parla l’Enigma […] Sicchè nella sua chiosa Linguaglossa traccia un solco fra «poesia-Enigma» e «linguaggio-comunicazione», ovvero l’uso del linguaggio per scopi contingenti o per fini socialmente necessari, utili soltanto alla comunicazione reciproca fra gli uomini di una stessa comunità.
Inoltre, sempre per Derrida «Scrivere, significa ritrarsi… dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola… lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto».3
Risposta di Giorgio Linguaglossa: La poesia è un Enigma. Ogni poesia è il tentativo di impadronirsi di una refurtiva, un tentativo di scasso, e ha senso soltanto se tenta, rischia di sottrarre alle parole del linguaggio comune il senso recondito del significato.
Gino Rago: Da queste premesse alla «metafora silenziosa» (come quel qualcosa che sta prima del linguaggio) il passo è breve. Ci puoi chiarire questo aspetto?
Risposta di Giorgio Linguaglossa: La metafora silenziosa forse è la più alta forma di metafora, la più pura. È quella che non si fa vedere, che preferisce l’inappariscenza, che si mostra simile a ciò che metafora non è. La metafora per Bataille è un «istante privilegiato», l’istante in cui appare il «sacro», che serve a dare «un senso al resto degli istanti senza privilegio» della scrittura. L’apparizione della metafora spezza la normalizzazione del linguaggio. «Questa craquelure spazio-temporale circonda la pointe dell’istante privilegiato, e dimostra in crisi l’ubi consistam, insomma la sostanza, quel qualcosa che sta sotto, a cotesto istante».4
Penso che il linguaggio della nuova poesia sorge quando muore il linguaggio del secondo Montale e di Zanzotto. Penso che questa poesia della Giancaspero sia la sconfessione radicale di quel linguaggio, la sua negazione.
1] Si veda, J. Lacan, Écrits, Édition de Seuil, Paris 1966; trad. it. a cura di G. B. Contri, Scritti 2 voll., Einaudi, Torino 1970; in particolare Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano, pp. 815-16: “Partiamo dalla concezione dell’Altro come luogo del significante. Ogni enunciato d’autorità non trova in esso altra garanzia che la sua stessa enunciazione, perché è vano che la cerchi in un altro significante, che in nessun modo potrebbe apparire fuori da questo luogo. Cosa che formuliamo col dire che non c’è un metalinguaggio che possa esser parlato o, più aforisticamente, che non c’è Altro dell’Altro ”. deve necessariamente presupporre se stesso. Il che significa che, come tale, esso è ciò che un ultima istanza manca di presupposto, e questo mancare si dà come esperienza irriducibile, come condizione stessa affinché via sia linguaggio. Dire che non c’è metalinguaggio significa così affermare che ogni dire – e lo stesso ordine significante – si smarrisce una volta posto di fronte ai suoi presupposti
2] G. Agamben, La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza, Milano 2004, p. 28
3] J. Derrida La scrittura e la differenza trad. it. Einaudi, 2002 p. 177
4] P. Bigongiari La poesia come funzione simbolica del linguaggio, Rizzoli,
Milano, 1972, p.165
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