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Covid garden 2BASSA

Lucio Mayoor Tosi, Covid garden 2, acrilico, 2020

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Giorgio Linguaglossa

La poesia come Zona ZTL
La percezione distratta, il frammento, la leggerezza

Il ripristino della percezione distratta e il concetto di immagine come «dialettica della immobilità» (dizione di Benjamin), sono elementi concettuali importantissimi per comprendere un certo tipo di operazione estetica della poesia e del romanzo moderni: Salman Rushdie, Orhan Pamuk, fino alla poesia di Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Marie Laure Colasson…

Come scrive Jacopo Ricciardi:

«Il soggetto stesso è una verità priva di qualsiasi certezza. Il soggetto allora ha una caratteristica oggettuale (ed è vero che si genera una doppia lente: il soggetto che è oggetto, e l’oggetto che è soggetto), e l’io è dissolto.»

Dalla dissoluzione dell’io bisogna pur trarre le conseguenze, la forma di scrittura non può non recepirne le ripercussioni al proprio interno, una nuova forma-poesia e una nuova forma-narrativa non sono cose gratuite, occorre rimettere tutto in discussione, questa è la ragione che ci spinge verso una nuova fenomenologia del poetico. Il mondo sta rapidamente cambiando sotto la spinta della pandemia, sotto i nostri occhi, non possiamo fingere che niente sia accaduto e che niente accada. L’implosione dei 5Stelle e del PD sono qui sotto i nostri occhi, non possiamo guardare al presente con gli occhiali del passato, quelli della decrescita felice che si è mutata in decrescita infelice, come volevasi dimostrare.

Ad un giovane autore che mi ha inviato le sue poesie ho scritto che le sue poesie si riferiscono ad un reale che semplicemente non c’è, che doveva cambiare il reale delle sue poesie prima di poter pensare di cambiare il reale del reale.
È successo che sono decine di anni che la poesia italiana usa il linguaggio invece di im-piegarlo, lo usa come si usa un fazzoletto di carta. Errore madornale, il linguaggio non è un fazzoletto di carta, non puoi usarlo, non puoi fare con il linguaggio il trucco delle tre carte. È il linguaggio che crea il reale.

Ad esempio, la poesia di Mario Gabriele, di Gino Rago, di Marie Laure Colasson è una tipica poesia della percezione distratta, una poesia che ha accettato l’idea della leggerezza, della levità e della superficie.
Io un tempo (nel 1992 quando ho pubblicato il mio libro di esordio, Uccelli), pensavo che le parole della poesia dovessero essere «vere», «pesanti». Errore. Mi sbagliavo, e la mia poesia dell’epoca reca la traccia di quell’errore. Leggerezza, levità e superficie non equivalgono affatto a sciocchezza e banalità, tutt’altro.

Tanto più oggi che viviamo in mezzo ad una rivoluzione permanente (che non è certo quella della dittatura del proletariato ma quella della dittatura delle emittenti linguistiche… anche le immagini sono percepite dall’occhio come icone segniche, immagini linguistiche…), oggi la percezione distratta è diventata il nostro modo normale di interagire con il mondo, anzi, il mondo si dà a noi sub specie di percezione distratta e di immagini in movimento… con buona pace di chi pensa ancora la poesia con schemi concettuali pre-baudeleriani…

Così commenta Alessandro Alfieri nel saggio citato: «I frammenti sono da un lato prodotti della cultura del consumo, della moda, della meccanizzazione dell’agire, ma su un altro livello sono anche promessa di futuro, possibilità offerta agli uomini di scardinare la storia dei vincitori e il tempo mitico del sempre-uguale».

Ecco, io penso invece che il «frammento» della nuova fenomenologia del poetico rifletta proprio la mancata promessa di «Bonheur», nel futuro non c’è felicità alcuna…

La poesia come Zona ZTL

Il governo Draghi è una sorta di Zona ZTL, surroga la disfatta della politica dei partiti con la governabilità garantita dalla Amministrazione ZTL, il che potrebbe anche essere il male minore o il bene massimo possibile oggi. Le Zone ZTL sono ormai diventate una categoria della politica. Ma sono diventate anche la categoria della poesia e della narrativa ufficiale, quella governamentale, che sforna dozzine di romanzi, gialli e poesie selfie ogni giorno per il semplice fatto che la governamentalità si basa e si alimenta sul terreno della riproducibilità delle forme poetiche e narrative, tutte pusillanimi e tutte bacate. Scatole vuote di ogni contenuto.

C’è una metafora, quella della mossa del cavallo, cui si ricorre. Della mossa capace di sbaragliare il campo del conformismo immobile del letterario poetico. In questo caso, il ricorso ad essa è pertinente. La mossa aprirebbe una diversa prospettiva, brucerebbe ogni rendita di posizione, compresa quella delle attuali istituzioni letterarie, impedirebbe di sostituire alla ricerca di una linea politica assente la ricerca delle alleanze, delle affiliazioni e delle cooptazioni per continuare governare la scatola vuota; manderebbe in soffitta i feticci delle immagini dei padri scelti (Sereni, Sanguineti, Penna, Raboni e minori), per avvallare una nuova proposta di politica estetica, quella della poetry kitchen e della nuova fenomenologia del poetico. Quelle immagini, quei feticci, quelle narrazioni ora sono diventate di comodo, da promettenti all’origine, si sono rivelate laterali e conformiste, prodotto di una storia conclusa, a cui non si può più attingere.

Lucio Mayoor Tosi

Si gioca sul filo della perdita di senso. Dopodiché viene naturale che si incontri, con Marie Laure Colasson, la leggerezza. Diversa da Alice nel paese delle meraviglie; futura, nel senso che futuro è il tempo spensierato dell’infanzia… che ricordiamo e non ricordiamo, ma sappiamo di averla misteriosamente compromessa. Sogniamo, qui, un mondo libero che assomigli almeno un poco al mentale. E voilà!

Sono aghi di pino, quelli che servono al pittore
per dipingere graffi; con questi sperando

di aggirare il lettore occidentale.
Le sue morbide clavicole. Il Passamontagna.

«Nella Bibbia, già si parlava del festival di Sanremo».
«In case basse riposano ghiande e porcospini».

(May, mar 2021)

Due.

Erano creature dantesche, si dileguavano nella notte
senza preavviso neanche un sospiro senza quiete.

Si sarebbero sposati di lì a poco: corno di rinoceronte!
Ma intanto erano due, di cui uno cieco l’altro sordo.

Mentre uno si mette in mostra, l’altro sogna.
Dice che è la variante 117. Per caso una bella caviglia.

Qui è tutto bianco. Il mare tranquillo, l’alba dei giorni
si è fermata, il capitano ha offerto il caffè;

ci siamo detti la vita, scambiati i quaderni. Poi come arbitri
fuori dal campo di calcio, ci siamo salutati.

«Tutto finisce» disse uno all’altro. Perché erano sempre due.
E non c’è verso, o verbo, che possa cambiare.

Lo spazio espressivo integrale

Lo spazio espressivo integrale di ogni testo poetico lo puoi intendere, in accezione epistemologica, soltanto quando si comincia a pensare l’idea di un ancoraggio ontologico per guardare alla poiesis come a un campo di tensioni linguistiche essenzialmente storiche, come un sistema instabile di tensioni dove ciascuna cerca di prevalere sulle altre in vista del raggiungimento dello stato di quiete del dominio sulla materia linguistica avversa, in parole povere, sugli altri registri linguistici. Lo stile altro non sarebbe quindi che la risultante di queste forze in gioco che si contendono l’egemonia e la preminenza sulle forze soggiogate e vinte.
In altre parole, un testo poetico è vivo e vitale soltanto quando questo campo di tensioni linguistiche e stilistiche si mantiene in vita e si alimenta di sempre nuove forze in gioco come un campo aperto tra i vari contendenti.

Vorrei segnalare un tentativo poetico di una giovane poetessa nata a Bari nel 1979.

Teodora Mastrototaro
da Legati i maiali

In fondo al muro l’intonaco ha una muffa che sembra essersi smarrita,
la stessa forma irregolare delle macchie sul culo di certi bovini.
Sul bordo del canale di scolo l’acqua che sbatte sembra il lamento smarrito di certi maiali.

La falena che vola impazzita intorno alla luce della lampadina
ha lo stesso movimento smarrito vibrante e scalpitante di certi puledri.
Uno schizzo di sangue incrostato da tempo si è smarrito sgorgando dal collo di certi montoni.

A fine giornata chiudiamo la porta e dentro la stanza rimane la morte
che resta da sola a giocare con l’occhio schizzato dalla cavità orbitale
del cavallo in fila.

Il destino aporetico della nuda vita degli uomini del nostro tempo è ben indicato da un libro di Teodora Mastrototaro (Marco Saya Editore, 2020), nel quale si narra della vicenda della macellazione dei maiali (allegoria della condizione umana) con un linguaggio crudo e diretto di marca espressionistica. L’allegoria degli umani sotto indicati dalla rappresentazione dei maiali condotti ad esecuzione, riesce convincente. L’idea di scrittura che sta alla base del libro è un modello di realismo espressionistico.
Gli uomini «nel luogo stesso – la nuda vita – che segnava il loro asservimento» (1) politico – vivono inconsapevolmente (al pari dei maiali) la nuda violenza che assurge a vigenza vuota e incondizionata in un mondo in cui le categorie giuridiche «non rispecchiano più alcun comprensibile contenuto etico» (2). L’autrice investiga il fondo animale cui è stata ridotta la nuda vita degli umani sotto l’imperio del capitalismo di oggi. Che cos’è questo dispositivo?, la questione della nuda vita si fa tangibile: che cos’è, infatti, «quel che definisce i dispositivi con cui abbiamo a che fare nella faseattuale del capitalismo». (3), se non l’odierno assurgere della nuda vita ad assolutezza, ad in-differenza, a radicale de-soggettivazione ad opera di una proliferazione sempre più asfissiante di dispositivi tecnico-social-governamentali, nella loro «immane parodia dell’oikonomia teologica» (4). «Nella non verità del soggetto [contemporaneo] non ne va più in alcun modo della sua verità».(5), scrive Agamben e, come si vede, il compito affidato al pensiero è proprio quello del tentativo d’assunzione e revoca di questo vacuum etico-veritativo.
Il campo è per Agamben il luogo assoluto edemblematico del consolidamento della nuda vita e dello stato d’eccezione in quanto tali, il
paradigma biopolitico del moderno, dove la nuda vita satura interamente il luogo della politica. Analogamente, per la Mastrototaro, il campo di concentramento dei maiali che sono ammassati in vista dell’esecuzione capitale, è affine al campo di concentramento degli umani, anch’essi ammassati nell’oikonomia in vista del compimento del sacrificio della propria nuda esistenza. Ma ciò, sapientemente, nel libro, non è mai detto, l’autrice fa silenzio intorno a questo evento.

1 Cfr. G. Agamben, Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, 1996, pp. 13.
2 Ibidem p. 103.
3 G. Agamben, Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Roma 2006, p.30
4 Ibidem p. 34.
5 Ibidem p. 31.
6 Ibidem p. 36.

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Poesie di Giuseppe Talia, Roberto Bertoldo, Gino Rago, Mauro Pierno – La nuova poesia richiede un nuovo linguaggio critico – Dimorare nella ontologia debole implica la costruzione di una percezione distratta, diffratta, dislalica, disfanica. Il naufragio del linguaggio – Dialoghi e Commenti

 

Foto Famiglia Adams

porsi in diagonale, in posizione scentrata rispetto all’oggetto, scegliere un punto di vista non esplicito, marginale, laterale, costruirsi una percezione distratta, diffratta, dislalica, disfanica,

Giuseppe Talia

Parto per un viaggio.
Volo con una Musa Low Cost.

Destinazione l’immaginazione.
Un’applicazione ferma. Dove siamo?

Nel trittico del cane. Io, Es e Sé.
Nell’alternativo concept tra pianeti nani;

nella perduta via degli anelli planetari;
nel viaticum della storia allucinata.

Una toccata e fuga fugace.
Un pacchetto, una combinazione

sul planisfero di misura in misura.
Un raid in moto su Marte.

Una foto condivisa su Android.
Villaggi globali di misere capanne.

Un campo di guerra, d’ogive e di speranza.
Un resort di lusso con l’alluce sul capezzolo

di una qualsivoglia Venere o a stritolare ossa
Di bimbi-bambù. In ogni cosa che finisce

e inizia nel Mar Morto come un profugo.

.
Roberto Bertoldo

A tutte le donne che non ho potuto amare
dedico la miseria delle mie poesie
cosicché non abbiamo rimpianti –
le poesie sono la prova della mia mediocrità, lo spasimo ultimo
delle parole che restano nel fodero,
astratte, negli archivi della notte, sfibrati tuoni
della tempesta che mi ha reso l’amore
una querelle infinita. E ora raccontate
la povertà del mio cuore senza sapere lo stupro
che ha screziato di gabbia la pelle di un bimbo,
senza sapere del sole tramortito nelle mie vene.

.
Gino Rago

21ma Lettera a E. L. 

[Dismatriati]

cara Madame Hanska,

ieri ho parlato a lungo con la donna di Somalia
giunta da noi chissà per quali vie.

Se potesse prenderebbe un panno,
pulirebbe tutta la sua vita, cancellerebbe il viaggio,

getterebbe a mare la valigia che l’ha portata fin qui,
dice che ha perso in un sol colpo tutto il suo capitale.

Dio invece non è più tornato dal mio amico di Roma,**
dice di non sentirsi in forma, o forse si vergogna

perché se la spassa tutte le notti con Madame Jovanka,
e le sue damigelle presso l’albergo della felicità.

Si lamenta perché il mio amico**
si è rifiutato di scrivere la recensione sulla creazione…

ma, in fin dei conti, neanche lui si sente troppo bene,
e così prende la tintarella sulla spiaggia sul Tevere

dove l’amministrazione capitolina ha edificato uno stabilimento balneare,
dice che vuole ascoltare le parole del fiume,

quelle sì molto più interessanti della mega creazione.

(** È Giorgio Linguaglossa)

giorgio 1998

da sx Giorgio Linguaglossa, Antonella Zagaroli, Roma, pub di San Lorenzo, 1998 – Questo significa dimorare nella ontologia debole del nostro orizzonte degli eventi

Commento di Giorgio Linguaglossa

Dimorare nella ontologia debole non significa fare una poesia debole, significa porsi in diagonale, in posizione scentrata rispetto all’oggetto, scegliere un punto di vista non esplicito, marginale, laterale, costruirsi una percezione distratta, diffratta, dislalica, disfanica, osservare le cose come di sfuggita. Ecco, per esempio introdurre «Dio» nella poesia come fa Gino Rago e farlo andare in giro a chiedere una «recensione» al suo «amico di Roma», presentare «Dio» in vesti dimesse non significa dimidiarlo o mancargli di rispetto, anzi, il contrario, implica una restituzione di senso, un accettare la realtà delle cose, il reale pensiero degli uomini del nostro tempo i quali hanno retrocesso «Dio» sullo sfondo, in serie B. «Dio» non è più importante di qualsiasi altro disgraziato che calpesta il suolo della terra, ormai «Dio» può essere anche un nostro vicino di casa, ci possiamo anche andare al bar a prendere un caffè.

Questo significa dimorare nella ontologia debole del nostro orizzonte degli eventi.

Accedere alle cose stesse non significa aver da fare con esse come con oggetti, ma incontrarle in un gioco del naufragio del linguaggio nel quale l’esserci esperisce anzitutto la propria mortalità. Si accede alle cose per via della accettazione della propria finitudine, quando scopriamo il nostro essere relittuali, il nostro naufragio di relitti quali siamo. E questo lo testimonia lo Zerbrechen (l’infrangersi della parola) mediante il quale noi esperiamo la caducità e la finitezza del nostro essere mortali e l’essere la poesia un effetto di silenzio, tanto più quanto più il tono è sardonico e metaironico, come in questa poesia di Gino Rago, dove c’è un personaggio, nientemeno che «Dio» il quale interviene negli affari correnti dei mortali, e se la prende con «l’amico di Roma» che «si è rifiutato di scrivere una recensione sulla creazione», sommo oltraggio per il «Dio» il quale non è affatto «morto» come idiosincraticamente edittato da Nietzsche due secoli or sono ma è resuscitato ed ha preso luogo come mortale tra i mortali e costretto a mendicare una «recensione» al pari di un qualsiasi postulante di questo mondo.

«Le tecniche delle arti, ad esempio e prima di tutte, forse, la versificazione nella poesia, possono esser viste come accorgimenti – non a caso tanto minuziosamente istituzionalizzati, monumentalizzati anch’essi – che trasformano l’opera in residuo, in monumento capace di durare perché già fin dall’inizio prodotto nella forma di ciò che è morto; non per la sua forza, cioè, ma per la sua debolezza».1] Non accade a caso che una poesia riesca ad essere «monumento» (in senso heideggeriano) quando viene edificata con le parole anti monumentali, residuali, con situazioni e stati di cose corrivi, quando la paradossalità viene consegnata al lettore nella veste dimessa del relittuale, del residuo, del rimosso. La poesia riesce tanto più significativa quanto più appare dimessa, apatica, anti enfatica, come un accadimento casuale, un infortunio del pensiero distratto, una distrazione del pensiero.

  1. Vattimo La fine della modernità, Garzanti, 1985, p. 95

*

Franco Fortini La città nemica, 1939

Gino Rago

11 agosto 2018 Continua a leggere

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Massimo Morasso POESIE SCELTE da L’opera in rosso (Passigli, 2016) Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa. L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità

foto-web_c_pierre_sauvageot_champ_harmoniqueMassimo Morasso è nato a Genova nel 1964. Germanista di formazione, è poeta, saggista, narratore, traduttore, critico letterario e d’arte. Nel 1998, ha curato la riedizione del “Supplemento Letterario del Mare”, il foglio italiano di Ezra Pound. Nel 2001 ha scritto la “Carta per la Terra e per l’Uomo”, un documento di etica ambientale declinato in tesi che è stato sottoscritto anche da 6 premi Nobel per la Letteratura. Ha collaborato a molte riviste, letterarie e non solo, e ne dirige una. Tradotto in più lingue, è presente nei cataloghi di editori quali Jaca Book, Marietti, Einaudi, Nutrimenti, Raffaelli, Moretti & Vitali, Passigli. Fra le altre cose, ha pubblicato il ciclo poetico de Il portavoce (1995-2006) e due libri apocrifi nel segno unico dell’attrice Vivien Leigh. I suoi ultimi libri editi sono Il mondo senza Benjamin (Moretti & Vitali, 2014), un ampio zibaldone metaletterario, L’opera in rosso (Passigli, 2016) e Fantasmata (Lamantica, 2017).

Onto Linguaglossa triste

Giorgio Linguaglossa, grafica Lucio Mayoor Tosi

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: «l’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità»

Cosa non deve essere riconosciuto delle parole?
Il loro senso completo.
Solo l’ombra deve essere riconoscibile.
Il resto lo fa il poeta.
Quindi la parola arrivi al lettore rallentata,
e quindi velocissima…

(Steven Grieco-Rathgeb)

 

Adorno, ha scritto: «l’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità», «veri sono solo i pensieri che non comprendono se stessi», «il tutto è falso», «non si dà vera vita nella falsa».1 Mi sembra una buona piattaforma per introdurre il libro di Massimo Morasso.

Il suo [di Massimo Morasso] voler perseguire l’inautenticità, la menzogna, la falsità della dimensione estetica dell’«io», il suo voler evitare a tutti i costi il teologismo della «verità» della sfera estetica dell’«io», il suo aderire ad una sintassi spezzata e frammezzata non sono episodi desultori dovuti al capriccio, si tratta di una precisa petizione di poetica. Non v’è chi non veda che il soggetto non può essere reperito nel suo semplice voler dire, nel suo dirsi, senza che nel frattempo qualcosa non abbia già minato, con la sua presenza, con la sua traccia di presenza-assenza nel soggetto, la sua stessa intenzionalità espressiva. Quel soggetto è piuttosto rintracciabile negli inter-detti, nei retro pensieri, nei quasi pensieri. È questa la problematica che sta al fondo de L’opera in rosso, al pari della poesia più evoluta di oggi. Nella misura in cui qualcosa si articola in parole e perviene alla coscienza linguistica, qui si consente l’articolazione del discorso, ovvero, l’articolazione delle rappresentazioni linguistiche. La percezione di idee, immagini, pulsioni cieche devono traslare in un universo metafisico-simbolico, ciò diventa essenziale affinché sia possibile qualcosa come un processo di pensiero linguistico conscio, e quindi un discorso dell’«io»ۛ. L’Io diventa così quell’istanza che prende luogo nello spazio che si apre tra percezione e coscienza linguistica.

Lo scetticismo di Morasso io lo interpreto così,  è, a mio avviso, una reazione agli indirizzi degli ultimi lustri della poesia italiana maggioritaria, compromessa con un apparato neo-musical-pittorico integralmente nomologico e narrativizzato; scetticismo che non si acquieta in esiti neomanieristici come avviene in molte componenti della poesia di oggidì. Certe dichiarazioni lasciate cadere opinatamente nei testi sono indicative di una precisa posizione di poetica: «L’ultima notte? Ci sono molti modi per descriverla»; «Ci sono nove modi di guardare una finestra». Morasso si muove con decisione verso una poesia che abiti stabilmente una molteplicità di punti di vista, una poesia della relatività allargata, dove lo spazio e il tempo si scambino spesso di ruolo. Quello che ne risulta è un dettato poetico stabilmente desultorio, con movimenti frastici sussultori e ondulatori che frammentano e inficiano l’ipoteca stilistica pregressa inscritta in un endecasillabo sottoposto alla severità della custodia vigilata. Il mio augurio è che questa sia la via del futuro prossimo venturo della poesia morassiana.

Gillo Dorfles ci dice che oggi «ci troviamo di fronte al più colossale e ubiquitario inquinamento immaginifico cui la nostra civiltà abbia assistito». Preso atto di ciò, forse la strada giusta è questa de L’opera in rosso dove tutti i linguaggi poetici del secondo Novecento sono  rinvenibili, ma come in «vitro», in plexiglass, in una forma biodegradata e commutata in un linguaggio di inedita fattura morfosintattica.

Da lungo tempo nella poesia italiana recente, dalle Alpi alle Piramidi, vale il motto: Loquor ergo sum, parlo dunque sono, le cose esistono in quanto le pronuncio, le pronuncia quell’«io» che si auto produce e si riproduce nella illusoria convinzione di essere il centro attorno a cui ruoterebbe la poesia posta sul basamento dell’«io».

gif-maniglia

Ecco, possiamo dire che Massimo Morasso liquida questa petizione e parte invece dal punto di vista opposto, da una visione «ontologica» e morfologica della poesia nella quale il locutore ha cessato di essere il fondatore di alcunché e si rivela essere un semplice fonatore, un postino della parola nella quale il «reale» è dato da «nove modi di guardare una finestra / o addirittura dieci se a guardarla sono i morti». Questo è l’assunto dal quale anch’io partivo nella mia ricognizione della «nuova poesia» di questi ultimi anni, esperienza poi confluita nella Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016), e mi fa piacere constatare ogni giorno di più che, fuori della Antologia, c’erano e ci sono poeti che si muovevano (e si muovono) nella direzione che avevo anch’io individuato dopo la dissoluzione e disfunzione di tutti i «modelli» e i «canoni» che le istituzioni poetiche maggioritarie avevano tentato di statuire in questi ultimi quaranta anni. Con la dissoluzione dei «canoni», in Italia come in Europa, anche la forma-poesia andava di pari passo dissolvendosi in una nuvola di gassosità narrative e di minimalismo acrilico. Non è per caso che un autore avvertito come Massimo Morasso, prenda atto di questo processo di irreversibile degrado delle forme estetiche e tenti una inversione di rotta imboccando corsie laterali e, infine, una vera e propria inversione ad “U”, come si dice nel gergo del codice della strada.

Ecco allora la necessità per Morasso di ricostruire la forma estetica a partire da una diversa morfologia del discorso poetico: il frammento, o la struttura frammentata.

Scriveva Walter Benjamin:

«Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è dialettica nell’immobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso ma un’immagine discontinua, a salti. – Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo, in cui le si incontra, è il linguaggio».2]

Il concetto di «costellazione» è importantissimo anche per la Nuova Ontologia Estetica, le immagini si danno soltanto in “costellazioni”. L’immagine dialettica si oppone alla epoché fenomenologica, è una diversa modalità di percepire gli oggetti attraverso la «fruizione distratta», non più attraverso la «contemplazione» di un soggetto eterodiretto, e la percezione distratta è un fenomeno tipico della modernità, fenomeno ben presente all’alba della poesia del Moderno, ad esempio nella poesia di Baudelaire.

Dal punto di vista della NOE il ripristino della percezione distratta e il concetto di immagine come «dialettica della immobilità», sono elementi concettuali importantissimi per comprendere un certo tipo di operazione estetica della poesia e del romanzo moderni: Salman Rushdie, Orhan Pamuk, De Lillo, Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi…

Tanto più oggi che viviamo in mezzo ad una rivoluzione permanente (che non è certo quella della dittatura del proletariato ma quella della dittatura delle emittenti linguistiche… anche le immagini sono percepite dall’occhio come icone segniche, immagini linguistiche…).

Oggi la «percezione distratta» è diventata il nostro modo normale di interagire con il mondo, anzi, il mondo si dà a noi sub specie di immagine in movimento, immagine dis-tratta… con buona pace di chi pensa ancora la poesia con schemi concettuali pre-baudeleriani…

Così commenta Alessandro Alfieri nel n. 28 della Rivista “Aperture” del 2012: «I frammenti sono da un lato prodotti della cultura del consumo, della moda, della meccanizzazione dell’agire, ma su un altro livello sono anche promessa di futuro, possibilità offerta agli uomini di scardinare la storia dei vincitori e il tempo mitico del sempre-uguale.

La frammentarietà che caratterizza il mondo moderno, oltre ad essere il contenuto, ovvero, il tema di gran parte della produzione benjaminiana, è al contempo anche fondamento formale e stilistico; Benjamin non ha più alcuna fiducia per il trattato esauriente e per il sistema, ed è la sua stessa produzione a essere espressione della medesima frammentarietà di cui parla, prediligendo per esempio la scrittura saggistica su determinati argomenti o autori. Ma è soprattutto nella sua ultima grande opera, rimasta incompiuta, che tale frammentarietà assurge alla sua più piena espressione, ovvero i Passages, un “montaggio” di impressioni, idee, citazioni, “stracci” appunto, che nel loro accostarsi fanno emergere significati inediti, elementi che contribuiscono a sconfiggere quella fantasmagoria seduttiva in grado di anestetizzare il pensiero critico».3]

Stante quanto sopra, non v’è chi non veda la stretta attinenza di questa problematica con il metodo compositivo della NOE, ad esempio della poesia di un Mario Gabriele; la sua  [di Gabriele] strategia compositiva è più simile al mosaicista che sistema con tenacia e pazienza le singole tessere di un mosaico-puzzle piuttosto che ad un amanuense che scrive i suoi endecasillabi sonori e i suoi ipersonetti. Gli «stracci» e i «tagli», le citazioni,, le faglie, le schisi e i titoli da cartellone pubblicitario di Gabriele sono tessere iconiche e semantiche di un mondo frammnentato e frammentario abitato non già da una nicciana «verità precaria» ma dalla stessa precarietà della nozione di verità e della sua umbratile condizione ontologica nel moderno avanzato. Continua a leggere

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