Archivi tag: Paolo Lagazzi

Paolo Lagazzi e Giancarlo Pontiggia: I VOLTI DI HERMES – In margine a una nuova collana di critica, con una  riflessione di Giorgio Linguaglossa

Foto Man Ray Still life auto portrait

Man Ray,  foto, Still life con autoritratto

  Inventare una collana di critica dedicata al dio Hermes (I volti di Hermes, Moretti & Vitali Editori) ci è sembrato più che un piccolo gioco; o, se gioco era, la sua posta ci appariva piuttosto diversa dalle solite. Se non fosse che Hermes non ama il parlare atteggiato, diremmo quasi che a guidarci era il bisogno di offrirgli un risarcimento. «Un risarcimento a un dio? e per cosa, poi?»: non è difficile immaginare perplessità del genere. Il fatto è, crediamo, che Hermes è stato troppo a lungo sottovalutato, trascurato, vilipeso: o addirittura dimenticato, rimosso, cancellato – come se non fosse colui che ha inventato la lira e la magia, il fuoco domestico e l’arte dei legami, e che dai tempi di Omero illumina la fantasia degli uomini dandole insieme penetrazione e ali, permettendole di muoversi fra la terra e il cielo, tra il reale e i sogni, fra il visibile e l’invisibile; come se non fosse il dio d’ogni guizzo creativo in cui, al fondo d’una sovrana leggerezza, brillano le rivelazioni decisive, le chiavi che ci schiudono i passaggi per l’Altrove (chi più di Mozart è, sulla soglia del moderno, fatalmente “ermetico”?); come se il suo sguardo obliquo e inafferrabile non fosse ciò che può meglio liberarci dalle trappole dell’ideologia e dalle strettoie del pensiero categorico, rigettandoci sempre, di nuovo, verso l’avventura infinita dell’universo.

  Benché nei nostri anni i discorsi sul fare critica colmino sempre più numerose pagine di riviste, di giornali e di libri, una grande, sempre meno mascherabile stanchezza sta invadendo tutti i luoghi tra cui circolano queste parole: redazioni e bar, aule e  librerie, TV e siti Internet. Presumendo di affidare i propri destini al dio delle distinzioni chiare e rigorose – Apollo, da troppo tempo ridotto a patrono degli ingegneri –, ormai lontani gli orizzonti entro cui era piuttosto l’“oscuro” Orfeo a orientare le pulsioni interpretative, la pratica critica attuale non fa, in realtà, che produrre strumenti, articolare analisi e sbandierare idee che hanno come principalissimo effetto il dilagare d’un’ombra depressiva, d’una noia, d’un grigiore assai prossimi alla terra desolata di Eliot. Quanti professorini addobbati da buoni esegeti, quanti ragionieri o notai delle lettere curvi sui loro registri o sui loro file diligenti hanno mai sospettato che l’esercizio critico può essere anche (o meglio, dovrebbe essere prima di tutto) gioco, gioia, immaginazione, invenzione? Quanti lettori “professionali” sono mai stati attraversati da quel brivido leggero e pungente, da quella fiamma rapinosa e aerea, da quella circolazione energetica che è il sangue, la linfa e il respiro di Hermes?

  Presa in questa spirale di seriosità, la critica vacilla, annaspa, soffoca; e non le serve molto fingersi in buona salute, tentando a getto continuo di rifarsi il look attraverso nuove parole d’ordine o “dibattiti” montati ad hoc: trovate tanto efficaci quanti iniezioni ricostituenti, terapie fisiatriche o lampade abbronzanti somministrate al capezzale d’un moribondo. D’altra parte, nemmeno compiangersi serve molto alle schiere dei critici. «C’era una volta la critica…»: quante volte non abbiamo udito questa specie di favola triste dalla bocca di esegeti tutt’altro che privi di responsabilità riguardo ai più giovani, tutt’altro che immuni da scelte improntate, per anni e anni, allo spirito dell’aridità? Ciò che questi studiosi non osano ammettere è che la rottura-chiave, la linea di non ritorno nella vicenda critica dal Novecento a oggi va colta, semplicemente, nel calo di fantasia creativa, cioè nell’idea che il movimento della scrittura sia del tutto secondario, e in fondo irrilevante, rispetto alla capacità di cogliere la “verità” dei testi. L’Hermes maestro nell’arte dei nodi, degli intrecci e dei legami ci insegna ben altro: ci ricorda che ogni autentico confronto con quelle reti di senso che sono le opere non può fare a meno di mettere a frutto una profonda sapienza linguistica, una conoscenza non teorica ma “artigiana” di come le parole si legano tra loro, di come l’ordito e la trama delle frasi si generano sulla spola mobile della sintassi: di come il senso sia  anzitutto “ritmo”, battito, pulsazione: di come ogni stile vitale nasca da un diverso movimento della mano o da un affondo originale del piede nel terreno plastico dell’esperienza. Da questo punto di vista, è chiaro che la critica è scrittura oppure non è nulla; o essa continua, con altri mezzi, la letteratura di cui si occupa, o la interrompe, la frena, la spegne, la castra: ne ottunde il respiro, ne comprime le potenzialità proprio mentre pretende di farsene garante, di fornirle la presa rigorosa delle proprie analisi. Capire, ci sussurra Hermes se sappiamo ascoltarlo, non significa in letteratura circoscrivere il senso, cercare di intrappolarlo nel nostro sguardo, nella luce immobile della nostra volontà di possedere il testo.

  Come Eros di fronte a Psiche mentre tenta di guardarlo – di inchiodarlo nella sua nudità –, il senso sfugge se cerchiamo di fermarlo. Ogni ermeneutica vitale deve, viceversa, sposare il volo di Eros fra l’evidenza sensibile e la trasparenza, tra il concreto e il fantastico, tra la notte dei segreti cruciali e l’alba delle sorprese e dei doni: deve sapersi fare “erotica”: deve osare abbandonarsi al flusso, irriducibile alle teorie, del desiderio creativo. Solo nel coraggio di questa leggerezza, in questo abbandono alla grazia e alla necessità della seduzione, l’esercizio critico può ritrovare la sua anima: può riscoprire i fondamenti sacri, misterici, sapienzali della letteratura, della poesia e dell’arte.

Foto Man Ray Linda Lee

Man Ray, foto, Lee Miller

  In volo, Hermes si affianca a Eros, e ci invita a non sigillare la pratica interpretativa in qualche secco, borioso rituale mondano. Mentre la critica contemporanea è quasi sempre un lavoro da geometri o da burocrati della precisione – o uno scavo da chirurghi, da disossatori, da detective –, Hermes ci esorta a moltiplicarci, a osare ruoli, percorsi e racconti diversi, a capire che un critico può riconoscersi, con gioia, in tanti volti, differenti tra loro come i  colori dell’arcobaleno: può essere via via un affabulatore, un conoscitore di grandi storie, di miti, di leggende e di fiabe (al modo d’un Gaston Bachelard o d’un James Hillman); un maestro dell’intuizione fulminante, dell’aforisma, del paradosso e dello humour (sulla linea Wilde-Cioran); un pasticheur, un goloso praticante di sapori, un degustatore di combinazioni linguistiche e sinestetiche (giusta l’esempio del sommo Praz); un navigatore, un esploratore, un avventuriero, un “corsaro” (come l’ultimo Pasolini, ma anche come il Parise dei viaggi in Giappone); un artigiano del legno, dell’ebano, della creta, della stoffa o dei gioielli (si pensi alla funzione del tatto nelle ricognizioni testuali d’un Jean-Pierre Richard); un mago, nel senso ampio d’un praticante le vie diverse e complementari dell’alchimia, della Cabala, dell’astrologia, o anche quelle della prestidigitazione (osserviamo in Citati la capacità di riprendere e rilanciare gli insegnamenti di Goethe, questo innamorato di tutte le forme e le esperienze del magico); un ritrattista, un pittore verbale, un allievo di Sainte-Beuve, di Giovanni Macchia o di Giacomo Debenedetti, e della loro inesausta scommessa di disegnare destini in forma di parole; un giardiniere, teso con le sue antenne sensibili a riconoscere le linfe circolanti tra i rami, gli steli e le foglie delle opere… Continua a leggere

17 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, Senza categoria

Donatella Bisutti: Un itinerario attraverso la mia poesia: Relazione tenuta al Laboratorio di Poesia L’Ombra delle Parole, Roma, Libreria L’Altracittà l’8 marzo 2017

Laboratorio di poesia 8 marzo 2017

Laboratorio di Poesia L’Ombra delle Parole, Roma, Libreria L’Altracittà l’8 marzo 2017, in primo piano, Donatella Bisutti

Donatella Bisutti è nata e vive a Milano. È giornalista professionista. Ha collaborato in particolare alla collana I grandi di tutti i tempi (Mondadori) con volumi su Hoghart Dickens e De Foe e ha tenuto per otto anni una rubrica di poesia sulla rivista Millelibri (Giorgio Mondadori editore). Nel 1984 ha vinto il Premio internazionale Eugenio Montale per l’inedito con il volume Inganno Ottico (Società di poesia Guanda,1985). Nel 1990 è stata presidente della Association Européenne pour la Diffusion de la Poésie a Bruxelles. Di poesia ha poi pubblicato Penetrali (ed.Boetti & C 1989), Violenza (Dialogolibri, 1999), La notte nel suo chiuso sangue (ed. bilingue, Editions Unes, Draguignan, 2000), La vibrazione delle cose (ed. bilingue, SIAL, Madrid, 2002), Piccolo bestiario fantastico,(viennepierre edizioni , Milano 2002), Colui che viene (Interlinea, Novara 2005, con prefazione di Mario Luzi). È in via di pubblicazione a New York l’antologia bilingue The Game tradotta da Emanuel di Pasquale e Adeodato Piazza Nicolai (Gradiva Publications, New York). La sua guida alla poesia per i ragazzi L’Albero delle parole, è stata costantemente ripubblicata e ampliata dal 1979 e attualmente edita nella collana Feltrinelli Kids (2002). Il saggio La Poesia salva la vita pubblicato nei Saggi Mondadori nel 1992 è negli Oscar Mondadori dal 1998. Nel 1997 ha pubblicato presso Bompiani il romanzo Voglio avere gli occhi azzurri. Fra le traduzioni il volume La memoria e la mano di Edmond Jabès (Lo Specchio Mondadori 1992), La caduta dei tempi di Bernard Noel (Guanda 1997) e Estratti del corpo sempre di Bernard Noel (Lo Specchio Mondadori 2001).Il suo testo poetico “L’Amor Rosa” è stato rappresentato come balletto al Festival di Asti con musica del compositore Marlaena Kessick. Ha curato per Scheiwiller l’edizione postuma delle poesie di Fernanda Romagnoli, dal titolo Il Tredicesimo invitato e altre poesie (2003). È nel comitato di redazione della rivista «Poesia» di Crocetti per cui cura la rubrica «Poesia Italiana nel Mondo», nella redazione delle riviste «Smerilliana» e «Electron Libre» (Rabat, Marocco), tiene una rubrica di attualità civile, «Il vaso di Pandora», sulla rivista «Odissea» e una rubrica di interviste «La cultura e il mondo di oggi» sulla rivista di Renato Zero «Icaro». Collabora a diversi giornali e riviste, tra cui l’Avvenire, Letture e Studi Cattolici, Fonopoli, Leggendaria, La Clessidra, Semicerchio. È membro dell’Associazione Culturale Les Fioretti a Saorge in Francia. Tiene corsi di scrittura creativa per adulti, corsi di aggiornamento per insegnanti anche a livello universitario e laboratori di poesia per le scuole. Ha ideato e dirige la collana di poesia autografata “A mano libera” per le edizioni Archivi del ‘900 in cui sono apparsi finora testi di Luzi , Spaziani e Adonis. È tra i soci fondatori di “Milanocosa”.

Donatella Bisutti 1

Donatella Bisutti

Donatella Bisutti

AMBIGUITA’/ ENIGMATICITÀ/IMPOSSIBILITA’ DELLA CONOSCENZA

La mia poesia si muove in diverse direzioni, temi esistenziali che comprendono:

poesie d’amore
poesia ispirata alla natura, agli animali, agli oggetti
poesia civile
poesia mistica

ma dietro c’è una visione comune: la poesia come mezzo per raggiungere una zona psichica profonda dove conscio e inconscio si possono incontrare. Questa è soprattutto la zona dell’inconscio collettivo junghiano e quindi dei simboli: è qui che il significato di una poesia può diventare universale.

Il mio metodo di lavoro consiste nello scrivere solo quando mi viene la cosiddetta “ispirazione” cioè un incontenibile spinta interiore verso la scrittura, e nel non forzarla mai: è la condizione necessaria per raggiungere questa zona profonda. Successivamente, dopo un intervallo di tempo anche molto lungo,  lavoro sul testo per portarlo a una possibile perfezione. In una poesia come Oedipica l’inconscio viene affrontato di petto. Ma anche qui il linguaggio è fortemente simbolico:

Oedipica

Ancora oggi voglio un uomo diverso da te:
non credi all’ondeggiare dello Spirito
sulla punta della fiamma, ad ogni soffio
che l’inclina
come una foglia di luce, più salda
delle ombre,
più
testarda.

Invecchiando – più frivolo, più
infantile.
Ormai privo di doveri, giochi.
I tuoi occhi azzurri
che vedono meno bene
ritornano a stupirsi,
interrogano.

A desso non so cosa fare con te.
Non ti odio più.
Ti accarezzo la mano come a quel figlio maschio
che non ho avuto.
Forse sono diventata un po’ tua madre.
Ma siamo stati mai negli anni
semplicemente e solo
padre e figlia?
Oppure inevitabile
quell’affollato palcoscenico
quella patetica tragedia?

La fiamma è qui concretamente quella di una  candela (e si riferisce in realtà a una circostanza reale, la morte di mia madre), ma è anche uno dei simboli più forti dello Spirito, che si contrappone all’Ombra che, per parte sua, è un altro archetipo.  La fiamma secondo  varie tradizioni esoteriche simboleggia lo Spirito divino, la fiamma verticale della candela che tende all’al di là è uno dei maggiori simboli della trascendenza  Ma simboleggia anche l’anima. Anche la speranza. È d’altra parte anche  la fiamma dell’eros, o la fiamma del rogo che brucia le streghe. È dunque qui un simbolo fortissimo, posto subito all’inizio, doppio e ambiguo: Dio e Diavolo insieme. Così l’opposizione edipica  si configura  anche come opposizione fra spirituale  e il terreno. La seconda strofa rappresenta questo spazio del terreno.

Laboratorio 1bis febbraio

Laboratorio di poesia dell’8 marzo 2017, da sx Giorgio Linguaglossa, Salvatore Martino, Gabriele Pepe

Laboratorio di Poesia L’Ombra delle Parole, Roma, Libreria L’Altracittà l’8 marzo 2017

La poesia si costruisce in particolare su una serie di opposizioni:

invecchiando/infantile: opposizione sottolineata anche dalla doppia in iniziale che collega le due parole;

e anche: frivolo/infantile; dovere/gioco ;stupirsi(passivo)/interrogare(attivo); odio/accarezzo ;figlio/madre ; padre/figlia; figlio/non avuto.

In particolare, è da osservare la doppia opposizione incrociata : figlio/madre e padre/figlia.

Inoltre,  sono frequenti gli accenti sdruccioli (sempre nella mia poesia) che imprimono un ritmo al tempo stesso rapido e come di sottrazione, di fuga.: spirito, frivolo, interrogano, inevitabile, palcoscenico

Ci sono poi suoni aspri, che richiedono uno sforzo di pronuncia: maschio madre accarezzo

C’è un ripetersi della sillaba ma:  che unisce  e ribatte l’unione maschio/madre, poi anche mano mai ma assonanze anagrammate: siamo stati mai; percussività: te /più; altre assonanze con la t e il ta: diventata stati e in generale una presenza molto tagliente della t: te ti avuto diventata stati semplicemente inevitabile affollato patetica

È tutto un linguaggio simbolico: la t tagliente indica la frattura, le sdrucciole e le altre gli altri suoni aspri indicano la difficoltà del rapporto.

Anche un verso come: “oppure inevitabile” è altamente percussivo.

Nel rapporto col padre l’immagine centrale è dunque il fuoco, che rappresenta  insieme lo spirito e l’amore, il sacrifico e la ribellione; mentre in quella della madre in Anniversario dei morti sarà la neve, che è simbolo di morte.

Questa simbologia (involontaria, scaturita direttamente dall’inconscio) è per me una riprova della validità  della poesia in questione.

Anniversario dei morti è tutta giocata sulla i:come una serie di singhiozzi. È una poesia che per molto tempo mi sconvolgeva leggere in pubblico.  Anche qui i ruoli si invertono e la madre diventa  la bambina. C’è l’evocazione di un corpo vivo le cui parti vengono nominate: braccia piedi labbra mano

Anche qui simboli: la falce delle labbra e la falce della morte.

Anniversario dei morti

Tu che con braccia severe
mi allontanavi
e mi atterrivi con storie di fantasmi
ora t’affacci timida da sopra il muro
per timore di essere scacciata.
Nevica
e i tuoi piedi freddi in una
vaga foschia lasciano impronte.
Inconsolata mi tendi
la mano, ché la speranza è anche dei morti.
Così madre bambina percorri i viali
tu che dominavi, incerta,
finalmente un sorriso
sulla chiusa falce delle labbra.
Ma nevica e la giornata
volge alla sua fine – nemmeno questa volta
apportando il perdono
o l’oblio.

Laboratorio di poesia 8 marzo 2017 G. Linguaglossa prospettiva

Laboratorio di Poesia L’Ombra delle Parole, Roma, Libreria L’Altracittà l’8 marzo 2017

Enigmaticità  degli oggetti

Un tema che mi ha sempre affascinato è quello degli oggetti e della loro enigmaticità. Gli oggetti, gli esseri inanimati, ma anche le piante, gli animali – non tanto per ritrovare in loro una dimensione antropologica, quanto al contrario per individuare attraverso di essi una zona altra rispetto alla nostra umanità, il loro margine enigmatico di realtà altra. Da questa realtà altra ci vengono dei segnali che la poesia deve cercare di decifrare.

Esempio: La sfera   (da Inganno ottico):

La sfera

La sfera ci insegna questo:avere
Il proprio centro in sé,
nel punto
da cui ogni altro punto
– galassia –
Si allontna.

Questa enigmaticità si ritrova nel Lo Sguardo del gatto (Rosa Alchemica):

Lo sguardo

Il gatto
apparve dal fondo del giardino
leccò un po’ dalla ciotola
poi sedette immobile
lo sguardo diritto fisso
le sue pupille nelle mie pupille
senza ringraziare né chiedere
solo guardare.
Ed io fui intera nelle sue pupille
interamente dentro quello sguardo
senza giudizio senza attesa
quietamente fui.

Ma questa realtà altra non credo che la poesia debba pretendere di raggiungerla: fondamentale per me la grande lezione di Jabès, che ho tradotto: quello che è importante è la domanda, non la risposta.
In questa direzione per esempio va la serie dedicata alla Luna (Divagazioni sulla lunaRosa Alchemica): “a che tu non m’afferri” e “si provarono in tanti a disegnarla”.
Tuttavia per me la poesia rappresenta soprattutto uno strumento di conoscenza. Conoscenza un po’ particolare: cfr. la Conoscenza in Inganno ottico:

Conoscenza

La conoscenza avviene per semplificazione. Non è un
aggiungere, ma un togliere, fino alla perfetta trasparenza.
Lasciare depositare in fondo al vaso i detriti, il pulviscolo
inutile che si è mescolato all’acqua trasportando il vaso da
una parte all’altra dell stanza, Anche vivere non è aggiun-
gere tempo al tempo accumulato, ma sottrarre l’ecceden-
za del tempo fino alla perfetta consumazione. Anche in
questo caso il pulviscolo inutile viene depositato in un
vaso.

C’è nella mia poesia un’influenza molto forte dello zen, che è stata notata per esempio dal critico Paolo Lagazzi il quale mi ha definito tempo fa l’unico poeta zen italiano. Nei miei testi si possono trovare molti riferimenti allo zen per esempio questo: il macrocosmo è contenuto nel microcosmo come in Briciola (Inganno ottico):

Briciola

Una briciola contiene il pane.
   Una goccia
      l’acqua della ciotola
.        Non
             viceversa.

Per me  è importante in ogni caso che la poesia colga una rispondenza fra microcosmo e  macrocosmo: ritengo che questa sia la nostra verità psichica. La mia poesia è ricerca, domanda, relatività: l’assoluto della poesia è non può essere che un assoluto relativo: anche in questo c’è una forte influenza zen.  Molto importante come dichiarazione di poetica è la poesia Eternità  (Rosa Alchemica), in cui si fa tra l’altro allusione all’aneddoto zen del coltello: il bravo macellaio è quello che non consuma mai la lama del suo coltello perché lo infila nell’impercettibile spazio vuoto fra l’osso e  la carne: è questo un invito alla passività attiva, cioè all’armonizzarsi con la direzione della vita, del divenire, senza farvi opposizione, ma trovando in esso gli spazi per la propria realizzazione.  Un adattamento che l’uomo deve avere nei confronti delle energie cosmiche. Ma il tema di questa  poesia,.oltre  a questa passività attiva, è proprio quello della relatività dell’assoluto: le faville sono altrettanto eterne, o non eterne, che le stelle, ma entrambe hanno nell’attimo una loro eternità, di diversa lunghezza secondo la nostra misura del tempo, ma di uguale valore rispetto all’assoluto: microcosmo e macrocosmo condividono  una stessa eternità  dell’attimo, che per me è quella stessa della poesia.

Eternità

Tu sarai il coltello che affonda
nei bui interstizi del cielo.
Io sarò la tua notte silenziosa
affinché tu penetri
negli interstizi del silenzio e accenda
un alfabeto di faville.

Aperto dal coltello il frutto del cocco
gocciola il suo denso latte.
Una stessa luna racchiude falce e frutto,
ma guarda alla docilità del coltello.

Una stessa docilità accomuna
la lingua della mite candela che divora il buio
e la favilla che si affida.
E’ il cielo che si spoglia per la luna
o è nuda la luna per il cielo?

Albero della mia nave
la tua punta squassata infilza il vento.
Nell’oscurità del legno il fuoco sale
fino alla fredda luce quieta delle stelle.
Non ricomporrai il filo
delle perle che la notte ha sparso,
a quella sempiterna, a quella chiara
luce ordinando il cosmo.
L’inquieto sciame ogni notte divora
il madido frutto della luna.

Sii legna e taglialegna.
dalla circoncisione del tronco
alto si leva lo sciame delle lettere.
Più vicino – per questo solo più ardente alfabeto
firmamento più effimero
di quello delle stelle.

                                          Sola
eternità è la docilità che si consuma.

Laboratorio 8 marzo 2017 Donatella Bisutti

Laboratorio di Poesia L’Ombra delle Parole, Roma, Libreria L’Altracittà l’8 marzo 2017, Donatella Bisutti

Da tutto questo, e da altri testi, si può concludere che attraverso la poesia io vado scoprendo e confermando una visione metafisica, esoterica, e anche mistica della realtà   che è poi quella in cui credo nella mia vita. Tutto il contrario del nichilismo, ma piuttosto qualcosa che si rifà, oltre che allo zen e allo yoga, alle varie correnti esoteriche  più o meno sotterranee che si sono avute anche in Occidente nel corso dei secoli: dai misteri di Eleusi all’ermetismo, al neoplatonismo , alla ricerca alchemica.

In questa poesia Eternità ci sono alcuni simboli archetipi che vengono alla superficie, del Maschile e del Femminile : la luna e il cielo/ l’albero e la nave: questo è anche un altro aspetto della mia ricerca: cercare di fare affiorare glia archetipi, i simboli nascosti profondamente nel nostro inconscio. Per questo sono molto affascinata dagli studi di Hillman: cerco di fare con la mia poesia l’esperienza della scoperta di una simbologia del profondo che  di solito mi è ignota e viene alla luce solo dopo , anche molto tempo dopo, la scrittura. Si tratta spesso di simboli che proprio non conoscevo affatto, come per Ireos (Inganno ottico):

Ireos

Intrepidi
finché il colpo luttuoso della spada
non penetri lo squarcio delle foglie.

Ho scoperto solo dopo per caso che l’ireos è per i giapponesi un simbolo della forza virile e questa è simboleggiata dalla spada.
Questo di scoprire che una certa immagine corrispondeva a un simbolo, magari di altre culture, a me sconosciuto, mi è successo diverse volte.
Io cerco sempre di perseguire questo tipo di scrittura ai limiti dell’inconscio e a volte la scrittura è stata un vero e proprio happening come nel caso di Ballata della nascita e della morte (Dal buio della terra)

Ballata della nascita e della morte

Separata da quel ventre
di umori e succhi
che fu la mia casa
e volendo dimenticare mi rifiuta
pezzetto di carne sanguinosa
piombo
nel precipizio oscuro della notte.

Ti capovolgi e ruoti
precipitando fra le stelle
perfori
la chiusa volta celeste
nel cunicolo del sangue e delle feci
pezzetto di carne sporca
ora puoi solo esplorare il buio
e perderti.

La notte non ha appigli
non sai se precipiti o sali
e le tue dita battono sul vetro
quando dal nero abisso d’acqua
affiori a respirare.

Tu non sei nulla.

Proiettata fuori da quel corpo
che ora ad altri si dà
il tuo solo legame è con ciò
che odi.

Ed ora questo grande corpo morto davanti a me
ha lasciato l’ormeggio
allontanandosi immenso
– quella parte di me che è morta.

Aprite questa bara
ancora non ho conosciuto il mondo.
Questo corpo che mi è stato caro
dovrà dunque disfarsi?

I morti

I morti uccidili di nuovo
strappali come male erbe
da dove stanno sospesi
e ci minacciano –
nel tempo sospesi come
vessilli spezzati
i morti ridenti
i morti dai denti lucenti
ci incalzano a nostra volta a morire
così i morti seppelliscono i morti.
Ma tu amore perdonali
e perdonando infilza il coltello
nelle loro gole di vento
strappa loro un grido
come le sirene notturne strappano gridi alla nebbia
e poi strappati gli occhi
guarda finalmente senz’occhi.

A questo proposito ho fatto anche l’esperienza dell’affioramento di quella che vorrei chiamare “memoria genetica”  prenatale come in Reticolato (Inganno ottico).

In foto: Steven Grieco Rathgeb e Vincenzo Mascolo

Una lettura  di Inganno ottico e oltre

La prosa iniziale, che dà il titolo al libro, può essere letta come un manifesto di poetica. Il suo tema è infatti un rovesciamento della visione che si produce per eccesso di concentrazione visiva sull’oggetto. Non è un ragionamento astratto, ma come sempre una mia personale esperienza: .la realtà appare come uno schermo: quello che consente di passare al di là di esso- al di là di questa realtà per trovarne un’altra, è un capovolgimento improvviso. Ma questo non ha niente a che fare per esempio con quello del dadaismo: capovolgimento della logica nell’assurdo. Qui non esiste un passaggio a una surrealtà, invece il rovesciamento della visione si identifica con il vuoto, il nulla. Questo nulla non è tuttavia quello del nichilismo. A questo proposito ci sono stati dei  fraintendimenti sulla mia poesia. Qui il nulla  è quello dello zen: un nulla colmo, una nozione positiva anche se non antropocentrica: una nozione che contiene senza volerla definire la complessità e ambiguità del reale e della vita senza inseguire spiegazioni razionali, senza ricondurla a parametri umani, ma piuttosto tentando di ricondurre l’uomo a parametri a lui esterni , se non quasi estranei, non necessariamente trascendenti, ma ignoti. Questo è qualcosa in cui io credo profondamente, la potrei forse definire una specie di metafisica preclusa. Raggiungere questo spazio è in fondo il tentativo che io faccio scrivendo poesia.

Inganno ottico

Se fissi un punto, quello soltanto, e su di esso ti concentri
intensamente, ciò che lo circonda, fosse pure un orizzonte
sterminato, diventerà semplice cornice di quel punto.
Se continui a fissarlo concentrando su di esso tutta la for-
za del tuo sguardo, insensibilmente anche la cornice intor-
no sparirà e quel punto solo rimarrà davanti ai tuoi occhi,
sempre più luminoso anche se su di esso non cade alcuna  luce.
Sarai preso allora da amore sempre più intenso per quel
punto, ch è unico, finché sarai capace di vedere il mondo
intero contenuto in esso.
Allora sarai pronto per l’ultima ineffabile rivelazione per-
ché il tuo sguardo si farà confuso e non riuscirai più a
fissarlo, non vedrai più nulla di nitido davanti a te, non
vedrai più nulla.

Questa impossibilità di arrivare alla conoscenza è detta ne Il punto  (Inganno ottico). Per la positività del vuoto si può leggere anche Gesti (Inganno ottico). Il vuoto è dunque positivo, e così l’allontanamento: anche l’allontanamento positivo della Sfera  (Inganno ottico).È questo il rifiuto di una ricerca consapevole e volontaria, di una progressione come comunemente si intende. Qui il capovolgimento  è solo un salto di percezione: cfr. Non ci chiede di avanzare  (Inganno ottico). Il modo di arrivare alla verità non solo metafisica ma anche della scrittura poetica è da un  lato quello della semplificazione e dall’altro  quello della passività: Conoscenza e Corpo e acqua (Inganno ottico):

Corpo e acqua

Più uno lotta contro le onde, più l’acqua gli invade la boc-
ca, gli occhi, se ne appropria, lo incorpora. L’acqua cessa di
essere un fuori, per penetrare dentro, diventare dentro. Ma
questa fusione è apparente: il corpo diventa totalmente
acqua solo per ricostituirsi corpo al termine di ogni ondata.
Mentre se si abbandona, l’acqua cessa di essere ostacolo
per divenire veicolo: gli scorre intorno, lo accarezza, lo
delimita in un disegno, ne fa un’isola che va galleggiando
con dolcezza nel giro infinito dei mari, trasportata dalle
correnti.

Questa idea della passività , o ottusità c’è anche in Su una stampa di Chahine (Inganno ottico) e in Eternità (Rosa Alchemica). Essa unisce l’idea di rischio a quella di vulnerabilità: La cascata (Dal buio della terra):

La cascata

Quello che persuade nella cascata è il coraggio
con cui affronta il vuoto.
Così è generata la bellezza:
nell’assoluta indifferenza dell’economia di sé.
Come tutto ciò che è pronto a perdersi, incute timore.

Al di là dei suoi velari
intravvediamo non più la misura del Tempo
ma la sua sostanza.

Il tema della luna che ricorre spesso rappresenta il femminile, quello di tutti noi in quanto zona inconscia, junghiana. A questa zona si riferisce anche Selbst (Rosa Alchemica):

Selbst

La stanza
la voglio monacale:
una precisa
porzione di infinito.
Ed io
dentro
a risuonare il vuoto.

Ricorre anche il tema della notte .Il mio tentativo è quello di collegare la zona dei significati alla zona inconscia, di operare dei collegamenti, dei passaggi profondamente intessuti nella trama del testo: Plenilunio (Dal buio della terra):. Anche di operare a livello psichico profondo provocando una reazione fra le parole, e anche una semplificazione estrema che però raggiunga insieme la massima profondità e la massima ambiguità.

Plenilunio

Questa è l’ora in cui
il diritto è rovescio
e chiaro ciò che di giorno nasconde
oscure
profondità.
Nere serpi opprimono la notte
gli occhi acceca il pallore del mondo.
Il silenzio scivola
sull’acqua calma.
Ora vivrò della dolcezza immateriale e paurosa
dei cespugli.
Vivrò delle pallide ombre della luna
della silenziosa attesa.

4 commenti

Archiviato in discorso poetico, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Paolo Valesio “Il servo rosso (The red servant) Poesie scelte (1979-2002)” puntoacapo, 2016 a cura di Graziella Sidoli traduzione inglese di Michael Palma e Graziella Sidoli (puntoacapo, 2016) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa “La poesia incivile di Paolo Valesio”; “Il percorso dall’assenza all’essenza

foto palazzo illuminato

palazzo con finestre illuminate e buie

Paolo Valesio è nato nel 1939 a Bologna. É Giuseppe Ungaretti Professor Emeritus in Italian Literature all’Università di Columbia a New York e presidente del “Centro Studi Sara Valesio” a Bologna. Oltre a libri di critica letteraria e di critica narrativa, a numerosi saggi in riviste e volume collettivi, e a vari articoli in periodici, ha pubblicato: Prose in poesia (1979), La rosa verde (1987), Dialogo del falco e dell’avvoltoio (1987), Le isole del lago (1990), La campagna dell’Ottantasette (1990), Analogia del mondo (1992, Premio di poesia “Città di San Vito al Tagliamento”), Nightchant (1995), Sonetos profanos y sacros (originale italiano e traduzione spagnola, 1996), Avventure dell’Uomo e del Figlio (1996), Anniversari (1999), Piazza delle preghiere massacrate (1999, Premio “DeltaPOesia” – rappresentato in versione teatrale a Roma e a New York), Dardi (2000), Every Afternoon Can Make the World Stand Still /Ogni meriggio può arrestare il mondo (originale italiano e traduzione inglese, 2002, seconda edizione 2005 – rappresentato in versione teatrale a Forlì e a Venezia), Volano in cento (originale italiano, traduzione spagnola e traduzione inglese, 2002), Il cuore del girasole (2006, Premio “Colli del Tronto”, 2007), Il volto quasi umano (2009) e La mezzanotte di Spoleto (2013). È autore di due romanzi: L’ospedale di Manhattan (1978) e Il regno doloroso (1983); di una raccolta di racconti, S’incontrano gli amanti (1993), di una novella, Tradimenti (1994), e di un poema drammatico in nove scene, Figlio dell’Uomo a Corcovado, rappresentato a San Miniato (1993) e a Salerno (1997). Da anni Valesio è impegnato nella scrittura parallela di quattro romanzi diari, ovvero, romanzi quotidiani, che costituiscono una quadrilogia narrativa ancora per la maggior parte inedita (a eccezione di alcune anticipazioni su riviste).

pittura Mark Baum (American, 1903–1997). Seventh Avenue and 16th Street, New York, 1932. The Metropolitan Museum of Art, New York. Edith C. Blum Fund, 1983

Mark Baum (American, 1903–1997). Seventh Avenue and 16th Street, New York, 1932. The Metropolitan Museum of Art, New York

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: La poesia «incivile» di Paolo Valesio

Scrive Mark Strand (19 settembre 2015, da “Il sole 24 ore”):

«La poesia sembra perpetuamente in crisi, eppure senza meravigliare nessuno, riesce sempre a sopravvivere. (…) Tuttavia, se vogliamo dare un giudizio sul valore della poesia contemporanea, non dobbiamo basarci sui suoi esempi più deboli, così come non lo facciamo per quella del passato. Dovremmo tenere a mente che ogni epoca ha criticato la propria poesia, dicendo che non reggeva il confronto con le grandi opere dei secoli precedenti; chi si lamenta della poesia di oggi, quindi, non fa altro che portare avanti questo stesso rituale di accuse.

Non c’è ragione di credere che la poesia odierna sia in declino, che sia arrivata al capolinea e che sia ormai condannata al l’irrilevanza. Non so in Italia, ma negli Stati Uniti il numero di persone che scrivono poesie è più alto che mai, e questo nonostante il fatto che le distrazioni che ci allontanano da noi stessi siano oggi molto più numerose e potenti che non in passato. Ma forse è proprio questa la ragione della crescente popolarità della poesia: gli uomini vogliono ricordarsi chi sono, vogliono fare esperienza della loro umanità, ossia della loro capacità di provare sentimenti. La poesia rappresenta quindi una difesa contro la dipendenza anestetizzante dagli slogan e dai cliché che contraddistingue la società, contro la povertà di linguaggio dei nostri politici e dei nostri telegiornali. In ogni epoca, essa offre nuovi modi per dire ciò che ha sempre detto e per ricordarci che, ieri come oggi, siamo sempre esseri umani».

Oserei dire che la poesia di Paolo Valesio proviene da una metafisica, da una Idea piuttosto che da un «tema», da una Idea di stile piuttosto che da uno «stile»; ai suoi occhi l’«Idea» precede sia il «tema» che lo «stile». Ad un poeta come lui non può essere sufficiente adeguarsi ad una procedura sperimentale fine a se stessa o un linguaggio poetico stilisticamente stabilizzato, Valesio deve ancorare l’epifenomeno del linguaggio ad una dimensione extramondana duratura, stabile che trascenda il presente per collocarsi nell’«infinito» del passato e del futuro. Il filologo Carlo Diano parlava di un periechon, di un infinito, un «divino», posto nel futuro, da cui, nella concezione greca, proviene l’«evento». Si può dire che Valesio ha cercato per tutta la vita l’«evento» della poesia, trovandolo infine nella «conversione» al cattolicesimo, dove la sua scrittura ha potuto alloggiare, dopo un lungo peregrinare, con saldezza di fondamenta. Per il cristiano il percorso umano è un camminare peregrinando, un pellegrinaggio alla ricerca del fondamento. Questo spiega, come scrive Peter Carravetta, «l’incamminarsi verso una scrittura della memoria, del tempo, del vissuto da un lato, e una seconda strada che s’interroga in maniera più meditata di prima sul sacro (e naturalmente sul suo antinomio, il profano…). Si comprende come questa poesia, che superficialmente può essere considerata religiosa, ha poco a che vedere con manifestazioni chiesastiche e catechistiche», suo tratto distintivo è lo «sviluppo di una dialettica tra profano/ mondano e sacro/ spirituale all’altezza di una quête  teologica pura, tensione all’alto, a un Dio o a una Idea di dio che non può in nessun senso raffigurarsi o concepirsi».1

Scrive Paolo Lagazzi: «Tutte le parole di Valesio nascono da un’indisponibilità intima alle scelte fondate su una presunta facilità espressiva, in realtà corrive verso il già detto; tutto il suo linguaggio tende a un dialogo amoroso col silenzio… Nutrire la parola di silenzio non vuol dire per Valesio risalire alle matrici storiche del modernismo, cioè all’ineffabilità in versione simbolica o ermetica. La sua ricerca comporta anzitutto un lavoro sul corpo concreto della lingua, fuori da ogni pratica orfica, da ogni ideologia dell’aura o della vaghezza lirica, e solo poi una messa a fuoco della parola in quanto esperienza di soglia, in quanto tensione… all’altro da sé. Non c’è infatti parola vivente, per Valesio, che non sia innervata dal bisogno di confrontarsi con tutto quanto sta prima e dopo la sua presa: il silenzio, appunto, e i rumori del mondo; il vuoto e il pieno dei fenomeni; il lato prelinguistico e quello post-linguistico dell’esperienza. Punto d’approdo di questa riflessione è lo straordinario Dialogo coi volanti, testo in prosa… Qui il confronto con i suoni, i fruscii e i segnali di cigni, fringuelli, scoiattoli e procioni diventa l’occasione di un serrato corpo a corpo con i limiti e le potenzialità del linguaggio umano: solo piegandosi, con attenzione e flessibilità, a una “logica” del silenzio, a un drastico ridimensionamento delle pretese registiche dell’io, solo facendosi obbediente a ciò che sfugge alla presa delle categorie mentali… la nostra lingua può rinnovarsi, può ritrovare la freschezza e il calore della vita, dell’essere […]

Da un punto di vista formale l’alterna tensione tra il “fuori” e il “dentro” porta la scrittura del poeta a scelte in apparenza opposte: a un recupero di modelli “chiusi” della tradizione come il sonetto, ma anche a un dispiegamento delle forme libere dell’oralità».2

 La chiave ermeneutica della poesia di Valesio verrà individuata da Giorgio Luzzi «tra basso corporale e alto spirituale» e nella «padronanza delle misture mistilinguistiche».3 Guido Guglielmi dirà che la sua poesia «si costituisce in rapporto alla prosa. Per scrivere poesia Paolo Valesio ha bisogno di contaminare poesia e prosa, poesia e racconto. E ciò lo porta coerentemente a tendere verso la forma del poemetto, o verso la prosa-in-poesia, che egli stesso ha assai bene teorizzato, o, comunque, verso una poesia di situazioni».4

Tutto vero, se si tiene conto che la poesia di Paolo Valesio si presenta, fin dalle prime opere: Prose in poesia (1979), La rosa verde (1987), Dialogo del falco e dell’avvoltoio (1987), come una traduzione del discorso sacro nel discorso poetico profano, un discorso traslato, «interrotto» e subito ripreso sulla presenza del messaggio evangelico nel tempo della scomparsa del divino, nell’epoca della povertà dello Spirito. Un percorso assolutamente singolare di costruzione di una spiritualità stilistica ottenuta senza l’ausilio di alcuna stilizzazione, tanto meno di alcuna metaforizzazione prestabilita o normativa. Macrometafora di questa poesia è la metafora della ricerca dell’Assoluto nelle condizioni del vivere mondano. Di qui le contraddizioni e il dramma di cui la sua poesia si nutre. Una ricerca portata avanti con l’umiltà e la dedizione di un «servo rosso», rosso perché il colore segna un abito spirituale, una condizione esistenziale di dubbio e di ribellione. La poesia di Valesio si costituisce e si costruisce nel tempo come una riflessione sul deragliamento costante della condotta dell’uomo dalle sue idee. Una delle interpretazioni più suggestive e sorprendenti della poesia italiana del secondo Novecento: la perdita della Memoria, che va assieme a quell’altro fenomeno epocale che va sotto il nome di «oblio dell’essere». La poesia di Valesio è una riflessione, sul percorso dall’assenza all’essenza; ed è anche un prezioso documento per poter ricostruire, ex post, la geografia della poesia dagli anni Novanta ai giorni nostri. Penso che un filologo del futuro dovrà rileggere la poesia italiana del secondo Novecento dal punto di vista della autenticità della dimensione poetica, sfrondando quelle scritture che adottano un punto di vista privilegiato, da porto sicuro, che scelgono un terreno linguistico sicuro e stabilizzato.

Valesio risolve a suo modo le problematiche che stanno al fondo della crisi della forma lirica mediante l’adozione di un discorso poetico mondano integralmente laicizzato. Posto che la poesia è tradimento di una tradizione, anche il suo percorso poetico sarà la traduzione e la registrazione di un «tradimento», meditazione che si appropria dell’istituto della variatio per svilupparsi seguendo una logica analogica e secondo una struttura retorica dello stile che corrisponda a quella premessa, diciamo, ideologica. Le figure retoriche della ripetizione, dell’elencazione, della variazione, della metafora referenziale, della inerenza denotativa svolgono un ruolo preponderante accanto alla digressione e al «ritorno»; i verbi sono spesso risolti all’infinito e al riflessivo, come azioni che avvengano all’insaputa e contro le attese del soggetto, il quale è partecipe di un generale moto di dissoluzione e di deragliamento. Lo stile non può che registrare questo «tradimento» e questa «traduzione», attraverso la rinuncia alla tradizione apollinea, per dirla termini metaforici, che preferisce una sorta di procedura a freddo, una fusione a freddo di materiali freddi, gelatinosi, di un sostrato «numinoso». In Valesio la parola poetica si fa veicolo del Verbo, la poesia si fa singolare meditazione poetica a latere del Vangelo di Giovanni e sul Qohèlet. Operazione tipicamente post-moderna: il messaggio dei messaggi. Il verbo divino diventa a sua volta oggetto traslato del messaggio poetico. Prosaicizzazione del «divino» in chiave affatto demotico-populistica, né stilistico-olistica; la poesia di Valesio è una rilettura e uno scavare, con la sonda del veicolo poetico, dentro il tunnel della fede e del mistero. È il segreto della forza e dell’originalità della rilettura laica del messaggio testamentario che distingue l’operazione di Valesio, in senso post-moderno del termine, la capacità di rilettura postuma dei versetti del Vangelo di Giovanni e del Qohelet:

Tripersonare Iddio, sbreccia il mio cuore:
fino ad oggi hai tentato di emendarmi
ma ora abbattimi e piega, per alzarmi,
la forza tua a rinnovarmi in ardore.

Scrive Paolo Valesio: «Il matrimonio in quanto unione “incivile” è analogo alla poesia che – nella sua relazione profonda con la vita – è sempre in qualche misura un discorso “incivile”; in opposizione alla poesia cosiddetta “civile”, la quale ha più a che fare con l’ideologia che con la poesia».5

Al fondo delle cose, dunque, la poesia di Valesio è profondamente «incivile» nella misura in cui parla un «altro» linguaggio, molto diverso dai linguaggi «civili» che appartengono al corpo politico-letterario, che hanno il compito di incentivare la persuasione. Di qui la convinzione di Valesio secondo cui la funzione del linguaggio poetico è la dissuasione «incivile».

1 Paolo Valesio “Il servo rosso (The red servant) Poesie scelte (1979-2002)” puntoacapo, 2016 p. 303

2 Ibidem, p. 307

3 Ibidem p. 293

4  Ibidem p. 283

da paolovalesio.wordpress.com

Nota della curatrice Graziella Sidoli

… I lettori troveranno in calce a ogni poesia le sigle M.P., per Michael Palma, e G.S. per Graziella Sidoli; scopriranno così il loro lessico, il loro modo di esprimersi – insomma, la diversità delle loro interpretazioni e versioni. In bene o in male – e certamente il confronto tra noi due si sbilancerà sempre dall’uno verso l’altra – Michael ed io abbiamo pensato che questo esperimento sarebbe stato interessante e utile.

L’esperimento serve anche a ricordare ai lettori che la traduzione è qualcosa di complesso e problematico. La traduzione più onesta è quella che non offre illusioni ai suoi lettori: è chiaro che queste versioni mostrano i versi originali di Paolo Valesio ma nella resa e voce poetica di Palma e della Sidoli – i quali avevano già indipendentemente pubblicato due libri di Valesio: Volano in centro (Sidoli) e Ogni meriggio può cambiare il mondo (Palma).

La nostra traduzione, concepita e conclusa come un concerto a quattro mani, implica un dialogo continuo e uno scambio di idee su ogni poesia di questa scelta antologica che copre l’opera di Paolo Valesio dal 1979 e arriva al 2002.

Paolo Valesio COP IMG_0830Da LA ROSA VERDE (1987)

Vedi?
Qui c’era una bella prigione…

La gabbia era dorata era sospesa
e sotto: Terra terra terra, vola!
Una prigione dorata? Magari …
(« la dorata prigione del vizio»,
disse un papa al bambino nell’udienza;
e quel sottile, quell’eretto e bianco
offriva — non già la salvezza
ma la speranza di una nobiltà
a lui plebeo confuso che guardava).
Ma qui non c’è l’oro matto del vizio;
nemmeno l’oro puro della gioia.
È solo la indoratura
della umana ragione.
Adesso l’aurea crosta si è staccata,
e tra le sbarre della gabbia fradicia
la scimmia del pensiero è ormai fuggita.

Piazza del Duomo, Milano
From THE GREEN ROSE (1987)

Do you see?
A beautiful prison once was here…

The cage was gilded and it was suspended
and underneath: Land land land, fly away!
A gilded prison? Would that it were so…
(“the gilded prison of depravity,”
a pope told a little boy at his audience;
and that upright, that pale and slender fellow
was offering – not salvation all at once,
but instead the hope of a nobility
to the boy, a confused plebeian who stared at him).
But here there is not depravity’s mad gold,
nor is there even the pure gold of joy.
There’s only the gilding
of human reason.
The golden crust has all come off by now,
and from between the bars of the rotted cage
the monkey of thought has long since fled away.

Cathedral Square, Milan

[MP]

Da IL DIALOGO DEL FALCO E DELL’AVVOLTOIO (1987)

Il pasto dell’avvoltoio

Morire è facile.
Ma essere sepolti: è un’arte filosofica.
Bisogna farsi seppellire
col vestito del dì delle nozze.
Tu riaffermi la linea di una vita
con un solo vestito buono
dallo sposalizio alla terra.
Sperando che così ritroverai –
al taglio decisivo, e sopra l’ultima
lama della luce di coscienza –
i padri dei padri dei tuoi padri.
Le madri dovrebbero
sopravvivere ai figli per poterli
piangere degnamente. Solo esse
esperte in corruzione delicata
in cure morbide
in vizio dolce dei figli,
solo le beneficamente corrotte
sanno fare il corrotto sul cadavere.
Il vestito all’antica è un argine di stoffa.
Ma non è semplice
la vita che così muore.

Troppe radici terrose
s’intralciano a fiore di terra.
Caccia alle nicchie libere,
gara di cadaveri ammonticchiati
che attendono i turni.
Tutta la terra dunque è sconsacrata
da cupidigia di picchetti e pali.
Territorio vien da terrore.
La spada scava terra
poi subito scava il collo.

Dicono i Parsi:
la terra è sacra –
dunque non può essere polluta
dal cadavere;
l’acqua è sacra –
e non può essere
intorbidita da carcasse;
Il fuoco è sacro –
dunque non può esser profanato
bruciando un corpo;
l’aria è sacra –
non può essere offuscata da ceneri.
Quale luogo, allora, al cadavere?
La tomba semovente che preclude
tutti gli elementi, li taglia
fuori dalla sua angusta volta buia:
l’avvoltoio.

A volte ho pensato il contrario:
terra e acqua
fuoco e aria –
sono tutti polluti e bruttati,
nessuno degno più di ospitare
l’unico simulacro di purezza:
il corpo umano.
Ma –
mentre cammino lungo il viale grande
(Bombay ai piedi sotto la collina)
osservando le Torri del Silenzio
comprendo di dover tornare
alla chiara visione dei Parsi:
l’avvoltoio.
Angusti pozzi profondi
torri rovesciate
dentro il ventre dentro la terra.
Là sono gettati i cadaveri.
E su tutte le palme intorno,
gli avvoltoi ristanno.
Grandi, cùprei, calvi,
con i colli incassati tra le spalle.
Gli avvoltoi son filosofi nudi
(mostrano quanto assurdo
sia il filosofo vestito).
Gli avvoltoi sono critici:
prima d’ogni altro membro,
ingoiano gli occhi.

Nel loro stomaco
la morte si purifica,
la ruota si riavvia.

From THE DIALOGUE BETWEEN THE HAWK AND THE
VULTURE

The Vulture’s Feast

Dying is easy.
But being buried is a philosophic art.
A man ought to be entombed
in his wedding day apparel.
You avow the course of a lifetime
with just one good suit
from wedding to funeral.
With the hope of finding then –
at the decisive breach, and on that final
blade of the light of consciousness –
the fathers of your forefathers’ fathers.
Mothers should outlive
their children so as to properly
mourn them. For only they
understand the subtlety of the passing,
the tender care and
the habits of nourishment of children,
only they, charitably aged,
know how to wail over the body.
The traditional garments are fabric retainers.
Yet it’s not a simple matter
for a life to pass away.
Too many earthen roots
entangle just above ground.
The hunt is on for available nooks,
piles of corpses
waiting their turn.
Earth itself is thus profaned
by greed for posts and stones.
Territory comes from terror.
The spade digging the soil
digs then right into the neck.
The Parsis say:
The earth is sacred –
therefore it cannot be polluted
with cadavers;
the water is sacred –
so it cannot be fouled
with carcasses;
the fire is sacred –
therefore it cannot be profaned
by a burning corpse;
the air is sacred –
it cannot be darkened by ashes.
Where, then, is the place for the dead?
In the self-propelled tomb that rules out
all the elements, that shuts them off
in its narrow black vault:
the vulture.
Sometimes I think the opposite:
earth and water
fire and air –
they are all polluted and soiled,
no longer worthy of hosting
the only simulacrum of purity:
the human body.
Yet –
as I walk along the wide avenue
(Bombay at my feet below the hill)
observing the Towers of Silence
I realize I must return
to the lucid vision of the Parsis:
the vulture.
Narrow deep wells
upturned towers
inside the womb inside the earth.
There, corpses are discarded.
Perched atop the palm trees all around,
the vultures wait.
Large, coppery, bald,
with necks shunted into their shoulders.
The vultures are naked philosophers
(showing how absurd
the robed philosopher is).
The vultures are critics:
before any other part,
they swallow the eyes.
In their viscera
death is purified,
the wheel keeps going round.

[GS]

 

Da ANNIVERSARI (1999)

Il servo rosso

Stamattina ha cavato fuori l’anima.
Era prima del sole
(se non si desta nel vibrar del buio
perde il suo appuntamento con l’alba).
Ha affondato pian piano la mano
dentro la gola
per alcuni minuti: dolore
(gli sembrava di mordersi la gola
con i suoi stessi denti),
e ha posato il minuscolo uomo
rosso come lacca
(era unto di sangue)
sul tavolo; l’ha ripulito,
quasi fosse cornice d’argento,
con un lembo di pelle di camoscio.
Al momento di riporlo,
le mani hanno un poco tremato:
se non avesse più trovato il posto?

25 gennaio 1995

The Red Servant

This morning he took out his soul.
It was before sunrise
(if he doesn’t wake in the humming of the dark
he misses his appointment with the dawn).
He ever so slowly and gently sank his hand
into his throat
for a few minutes: pain
(he seemed to bite his throat
with his own teeth)
and he placed the tiny little man
red as lacquer
(he was oily with blood)
on the table: he cleaned him up,
rubbing him with a strip of chamois
as if he were a silver picture frame.
But when he put him back,
he felt a bit of a tremor in his hands:
what if he were not to find his place again?

January 25, 1995

[MP]
Da VOLANO IN CENTO (2002)

Dardo 1

Mi dicon che sei Cristo di dolore
ma per me sei qualcosa come un sole
impassibilmente ardente.

Dardo 1

They say you are a Christ of grief,
yet for me you are something like a sun
forever burning unperturbed.

.
Dardo 2

Ti prego prego prego, prego prego:
portami all’ombra delle tue candele.

Dardo 2

I pray and pray and pray and pray to you:
I beg you take me please
into the shadow of your candles.

.
Dardo 3
Per Bonnie Müller

Ti regalo la ira mia o Signore
(trasformala in passione non furore)
come in punta di spada s’offre un fiore.

Dardo 3
For Bonnie Müller

I offer you my wrath O Lord
(may you convert it into fire not fury)
as one bestows a flower on a sword’s tip.

.
Dardo 4
Per Graziella Sidoli

Ascoltami se vuoi: la preghiera
è un intraversabile burrone
e da una ad altra sponda ci intendiamo
a cenni perché le parole
si sfilano nel tempo lasciando unica traccia
smorfie su labbra e come
possiamo intrascoltarci?

Dardo 4
For Graziella Sidoli

Hear me if you wish:
prayer is an uncrossable cliff
and standing on opposite shores
we speak in signs because
words come unthreaded in the wind
leaving a grimace as their sole trace
and how can we
interlace our listening?

Dardo 7: Contra Platonem
(Simposio, 203b)

Se Eros nasce dalle furtive nozze
di Povertà e Ingegno in giardino
quale mai dio scugnizzo e fosco
(dio-demone della mia vita)
nasce dal congiugnimento
del Silenzio e la nuda dei boschi,
la Nulla?

Dardo 7: Contra Platonem
(Simposium, 203b)

If Eros is born of the furtive nuptials
between Poverty and Wit in the garden,
then what sort of dark urchin god
(demon-deity of my life)
is born of the embracement
of Silence and the naked creature in the woods,
Nothingness herself?

Dardo 8
Per Assunta Pelli

C’è chi sotto
lo schiaffo del dolore
socchiude gli occhi e chi grandi li apre.
Lo spirito nei primi
scivola dietro i muri,
nei secondi s’affaccia alla finestra
piano-scostando il vetro delle lacrime.

Dardo 8
For Assunta Pelli

There are some who
beneath grief’s blows
half-open their eyes
while others open them wide.
The spirit of the former
glides and hides behind walls,
the latter leans over windows
softly sliding the glass of tears.

Dardo 65

Nei rari momenti (ad esempio
nello specchio abbrumato di un motel)
in cui lo sguardo declina
verso il corpo in sua povertà
(defoliato dagli anni) e nudità
intorcigliato intorno all’indifeso
oscuro pene contro
il pallore del ventre
dunque in disperata purità
là dove la miseria
escludendo vergogna
è la modesta via maestra
verso la dignità –
ecco io allora scorgo il corpo di Gesù.

Bloomington, Indiana

Dardo 65

In the rare moments (for instance
in a motel’s misty mirror)
when my glance turns
to the body in all its poverty
(parched by time) and its nudity,
twisted around the defenseless
dark penis lying against
the pallor of the belly
hence in forlorn purity
where misery,
having chased shame,
is the modest high road
towards dignity –
then I catch sight of Jesus’ body.

Bloomington, Indiana

Dardo 67: Chirstus Triumphans

Un vincitore
è sempre un macellaio. Non v’è preda
troppo piccola o facile per lui.
Tu dunque trionfi
anche perché ogni giorno mi sloghi.

.
Dardo 67: Chirstus Triumphans

A winner
is always a butcher. There is no prey
too small or too simple for him.
You then prevail
becausse you also dislocate me
every day

.
Dardo 97: Discesa

La umiltà invisibile per esser percepita
è costretta a scoscendere un gradino
e adottare il passo claudicante
e i panni-stracci dell’umiliazione.
Chiunque poi l’abbracci
discende un’altra china:
è subito accusato di arroganza.

.
Dardo 97: Descent

Humbleness invisible is forced
to descend a lower step to be perceived
and it must learn to limp
and wear the ragged cloth of humiliation.
Whoever then will embrace it
descends further down another slope,
and is suddenly accused of arrogance.

.
Dardo 98

Sento a volte una voce di pastora
sull’altra riva del lago – una voce
un po’ roca e velata (è una pastora
che non disdegna il bere e l’abbracciare):
«Fammi morire, che ti voglio bene.»

.
Dardo 98

I hear the voice of a shepherdess sometimes
slightly coarse and veiled, coming
from the other end of the lake
(she does not disdain
drinking and embracing):
«Ravish me, for I do love you so.»

[GS]
Da OGNI MERIGGIO PUO’ ARRESTARE IL MONDO (2002)

Sonetto transtiberino 2:
Villa Medici

Ogni vero giardino è un labirinto
ogni sommersa visita è silente
ogni panca è solenne come un plinto
ogni pianta è un cero verde-ardente

ogni coppia si scioglie in vertigine
ogni pozza può risucchiare al fondo
ogni grata è fiorita di rubìgine
ogni meriggio può arrestare il mondo.

Alla volta di un viale l’ha smarrita
ma ne ha sentito il piede sulla ghiaia:
non-morsa-dal-serpente, è riapparita.

Guardano dagli spalti il Muro Torto
sulla soglia di un’umile legnaia:
eretta, lei; e lui, sull’ombra sporto.

Biblioteca Sterling, 17 agosto 2000

.
Transtiberine Sonnet 2:
Villa Medici

Every true garden is a labyrinth
every underwater call’s a silent scene
every bench sits as solemn as a plinth
every plant’s a candle tipped with firegreen
every couple melts into a vertigo
every pool can swirl down to the depths at will
every grate is blooming with a ruby glow
every afternoon can make the world stand still.
He lost her on an avenue when it turned
but heard her walking on the gravel: then,
unbitten-by-the-serpent, she returned.
From the buttresses they see the Muro Torto, in
the doorway of a very humble woodshed:
she, standing up; he, leaning toward the shade.

Sterling Memorial Library, August 17, 2000

[MP]

 

14 commenti

Archiviato in critica della poesia, poesia italiana contemporanea, poesia italiana del novecento, Senza categoria

QUATTRO POESIE di Kikuo Takano (1927-2006) tradotte da Yasuko Matsumoto e Renato Minore, intervistato da Renato Minore – Incontri – Parla Kikuo Takano, che ha legato nei suoi versi Tao e filosofìa di Heidegger. Il Giappone degenerato in “piccola America” e un auspicio

Toshinobu Yamazaki (1866 - 1903) La festa di fiori di ciliegio di Hideyoshi, a Daigo

Toshinobu Yamazaki (1866 – 1903) La festa di fiori di ciliegio di Hideyoshi, a Daigo

Intervista a cura di Renato Minore (pubblicata su “Il Messaggero il 1 agosto 2004)

Takano, nella sua poesia ri­suona quella schiettezza luci­da e distaccata che si legge nei versi di Eliot: un suo mae­stro?

«Sì, lo considero un maestro della mia poesia. Ho letto le sue poesie tradotte in giapponese, La terra desolata e I quattro quartetti. Soprattutto questi ul­timi mi hanno dato una profon­da emozione. Ricordo ancora i quattro versi del Little Godding: “Mai cesseremo di esplo­rare/ e alla fine dell’intera esplo­razione/ arriveremo dove sia­mo partiti/ e conosceremo per la prima volta quel luogo”».

Quanto ha influito la tradizio­ne Zen nel suo lavoro?

«Da noi si dice che ci siano una trentina di modi per definire lo Zen. Io penso che lo Zen sia una modalità di attesa molto fervida per rinunziare a se stes­si. Quando viene annullato l’ego, il vuoto è riempito dalla saggezza di Buddha. Mi ha sem­pre affascinato la parola di un maestro: “Se batto le mani giunte, emettono suono. Da quale

 Castelbasso (Teramo).«Sulla terra quello che non siamo riusciti a scio­gliere e a congiungere viene di giorno in giorno accumulato e gettato. Per capire il senso di questa terra che per noi è unica dobbiamo innanzitutto inter­rogare il senso fondamentale del nostro essere e nascere». Sono parole di Kikuo Takano, giapponese dell’isola di Sado nato nel 1927, poeta della gene­razione dell’immediato dopo­guerra. Con la sua vicenda poe­tica e biografica, Takano mo­stra come sia stato influenzato in modo quasi uguale dalla cultura occidentale e dalla tra­dizione poetica della sua terra. Ha guardato ad Occidente leg­gendo i surrealisti più interessa­to alla filosofia che al loro lin­guaggio, è passato attraverso Heidegger e la filosofia del Tao e, poi, attraverso Eliot, accomu­nato a lui da un linguaggio asciutto e metafisico, scabro ed essenziale. Per approdare a una poesia in cui la tradizione resiste soprattutto nella rappre­sentazione del paesaggio con linee sottili e colori tenui, dove palpita una pietà che viene in parti uguali dal buddismo e dal cristianesimo e che ci insegna il valore della pazienza, dell’at­tenzione e dell’ascolto, come può constatare il lettore italia­no nell’antologia Nel cielo alto (Mondadori) curata e tradotta da Paolo Lagazzi e Yasuko Matsumoto. Con Takano, protago­nista di un incontro-recital a Castelbasso, in provincia di Te­ramo, nella manifestazione de­dicata al confronto tra Oriente e Occidente, parliamo dei temi che più ha a cuore: il rapporto con la poesia europea e quella tradizionale, con la musica, la poesia come ricerca e laborato­rio continuo, con le domande essenziali, il suo scavo ontologi­co diffuso in cui il mondo è visto dal poeta come un dono non richiesto, come un bambi­no che riceve un giocattolo del quale sa poco o nulla e si chiede cosa farne. Ma poi comincia a osservarlo, a sventrarlo, a scar­dinarne le parti. E giunge alla conclusione che sì, in fondo, potrebbe essere utile.
.
Gyoshu Hayami ( 1894 – 1935)

Gyoshu Hayami ( 1894 – 1935)

mano è prodotto questo suono e quale produrrà quello generato da una sola mano?”».

E le letture di Heidegger e Montale?

«Per quanto riguarda Heideg­ger, mi ha sempre emozionato il modo con cui egli tentava di dirci, senza scegliere, il silenzio sulle cose inesprimibili. Ho avuto la spinta dalla sua parola “pensare sull’essere è scrivere poesie”. Di Montale vorrei ricordare, Cri­salide. Il poe­ta parla del tempo doloro­so della crisa­lide avvizzi­ta. In realtà è essenziale il tempo in cui scorre la vita, i giorni in cui la vita muta. Sembra di sentire in que­sti versi come un’eco: conti­nuiamo a por­ci la doman­da sul nostro “dove anche se ci trovia­mo immersi nel dolore più profondo”».

Kikuo Takano è nato a Niibo, nell'isola di Sado, Giappone, nel 1927

Kikuo Takano è nato a Niibo, nell’isola di Sado, Giappone, nel 1927

La musica è stata una componente im­portante del suo lavoro. Quan­to e in che misura ha influito sulla sua poesia?

«Per Valéry “la poesia dovreb­be aspirare allo stato della musi­ca”. Nel mio caso non è stato così. Tra chi amava la mia poesia c’erano musicisti che hanno composto musica voca­le e corale con i miei versi. La musica mi ha dato le ali invisi­bili che mi hanno permesso di volare, confortandomi con dol­cezza in un difficile momento quando non potevo andare avanti con le parole».

Lei ha adottato il verso libe­ro, abbandonando gli schemi tradizionali, haiku e tanka. Si è sentito iconoclasta, anti­tradizionalista? Quanto deve alla cultura occidentale que­sta sua scelta?

«Amo i versi come quelli dell’ Imperatore Sutodu e di Matsuo Bashò quando scrive “Si­lenzio alto /frinire di cicale/ penetrale rocce”. Tuttavia non mi sono mai avvicinato consa-pevolemente alla poesia in schemi fissi come lo haiku e il tanka. Ho iniziato con la massi­ma naturalezza a scrivere poe­sie con il verso libero. Era un inevitabile atto espressivo per sopportare la realtà così doloro­sa da affrontare dopo la secon­da guerra mondiale. Sembrava che soltanto il vuoto tra i frantu­mi del senso perduto potesse essere accettato con tenerezza nella mia poesia. Poi lo ho abbandonato per scrivere poe­sie dove più forte è il senso di ricerca sull’essere. Era passato del resto poco meno di mezzo secolo da quando nel 1945 furo­no tradotte in Giappone le poe­sie occidentali di ventinove po­eti, da Dante a d’Annunzio. Noi giovani siamo corsi dietro ad ogni giardino di poesia euro­pea per cogliere fiori di grande fragranza esotica».

Takano ha lasciato il Giappo­ne di recente: mi incuriosisce la tensione che la lega ai luoghi nati.

«La piccola isola dell’Estremo Oriente dove sono nato è una regione lontana dalla cultura e dall’arte. E anche la mia patria non è più quella di cui uno possa vantarsi. E’ il motivo per cui noi giapponesi sogniamo l’Ita­lia, venendo in Italia. Sentia­mo l’anima degli uomini che hanno compiuto il glorioso Ri­nascimento e continuano a far­lo vivere tuttora magnifica­mente. C’è qui una patria di cui l’uomo può essere fiero. Io poi sono molto attratto da Vatti­mo, il teorico del pensiero debo­le. Ponendo l’attenzione sul concetto di “kenosis” egli consi­dera ideale il modello della “debolezza”. Per lui il nucleo del pensiero cristiano è quello in cui la presenza di Dio non è stata integralmente messa di­nanzi ai nostri occhi. E insiste sul fatto che si debba sviluppa­re il pensiero conforme alla debolezza, invece che vincere la debolezza».

Qualcuno ha scritto che lei riesce a far sembrare familia­re una realtà così lontana e così diversa dalla nostra co­me quella giapponese. Ma è davvero così distante?

«Quando il mio traduttore Pao­lo Lagazzi ha visitato Tokyo ha detto: “E’ una piccola New York!”. Ahimé, il Giappone è ormai diventato una piccola America nella confusione e nel­la superficialità. La bomba ato­mica non ha distrutto solo Hi­roshima e Nagasaki, ma ha distrutto l’anima del Giappo­ne. Qui l’uomo comincia a di­struggere se stesso, addirittura rischia di sparire».

Kikuo Takano copSi parla di crescente Asian Power, una sorta di riscossa (economica e sociale) del vo­stro mondo nei confronti del­lo strapotere americano. Co­me considera questa tenden­za?

«Quando ci penso, mi viene un’ansia profonda per la realtà in cui si sta incorporando il sistema strategico mondiale sullo sfondo di una grossa po­tenza militare-economica. Su questa strada il nostro secolo fallisce l’obbiettivo principale, quello per cui l’uomo ritrova l’uomo e approda alla vera cau­sa di rappacificazione. Per sve­gliare la nostra coesistenza vor­rei che questo secolo fosse chia­mato “il nuovo secolo rinasci­mentale”.»

C’è un ruolo del poeta nel mondo di oggi che sembra sempre più lontano dall”‘ascolto” della poesia?

«Ha scritto Patrizia Cavalli: “qualcuno ha detto/ che certo le mie poesie/ non cambieranno il mondo/ Io rispondo che certo sì/ le mie poesie non cambieranno il mondo”. La poesia è sicuramente impotente a cambiare il mondo. Ma non dovrebbe perdere la domanda essenziale, chi siamo e chi dob­biamo essere nel mondo. Se la poesia è lontana dall’ascolto forse è perché troppo spesso è diventata un semplice rumore. Il ruolo del poeta nel mondo è in se stesso, nella domanda severa e autentica: “perché scri­vo poesia?”.

E infine, che rapporto ha Takano con i mezzi di comu­nicazione di massa?

«Io non ho alcun rapporto. Ma credo che ciò che protegge la cultura di alta qualità e la conse­gna al mondo senza errore è proprio un lavoro altamente qualificato, si potrebbe dire co­scienzioso, dei mezzi di comu­nicazione di massa, quando però questi superano la barrie­ra dell’affarismo e dell’opportu­nismo».

Kikuo Takano cop 2

Quattro poesie tradotte da Yasuko Matsumoto e Renato Minore

Non si sa da dove è arrivato nel villaggio
un tranquillo pazzo di mezza età.
e s’è messo in buona lena
con le shinodake1 a tracciare un recinto
intorno al basamento del tempio.
“Ma che voglia allevarci i polli?”
così si mormorava su di lui.
Ma è bastato assai poco e il pazzo tranquillo
è morto dentro il recinto quasi finito.

1 La “shinodake” è una specie di bambù, sottile sia nelle foglie che nelle canne

da L’infiammata assenza cura e traduzione di Yasuko Matsumoto e Renato Minore Edizioni del Leone, 2005

Famelico

Famelico, anche troppo.
Davvero troppo famelico, come fossi un serpente folle
che azzanna il proprio corpo,
anche quella mattina svegliandomi
mi mordevo selvaggiamente.

Povero cristo!
Da dove mi viene tanta fame?
Oh, me sventurato!

Tra ciò che assorbo e ciò che perdo,
il conto è pari,
il cerchio si chiude!

Ma quel cerchio
a chi è stato dedicato?
Con ostinazione continuo a chiedermi
a chi quel cerchio sia stato offerto.

.
Disco

Come fossi un disco
vorrei anch’io un solco che precipita
vertiginoso verso il centro.

La sua punta potrebbe seguire
al centro la mia vertigine canora.
Potrebbe già rivolgere
il suono verso quel foro
come un piccolo tunnel.

ed ecco che la punta
mi spinge verso il centro
con la sua voce canora e mi lascia
vuoto nella vertigine
per non essere pronto
ad essere redento e neppure capace
di capire quel mio turbamento.

L’Aquilone

È davvero inutile
questo mio desiderio di cielo
perché non possiedo ciò che è necessario:
un filo che mi tiene a terra
e la potenza di un vento che sradica…

O filo! O vento!
e si potrà mai
decifrare con lo sguardo
l’inestricabile nodo
che li unisce?

ma io non posso rinunziare a me
e quanto mi pesa
ciò che davvero mi manca!

Renato Minore, foto Dino Ignani

Renato Minore, foto Dino Ignani

Renato Minore (Chieti, 7 settembre 1944), risiede da oltre trent’anni a Roma. Si è laureato in lettere moderne con Natalino Sapegno e si è specializzato in filoologia moderna. Giornalista professionista dal 1971 presso i servizi giornalistici della RAI, attualmente è il critico letterario de “Il Messaggero”. Ha insegnato Teoria e tecniche delle comunicazioni di massa all’Università di Roma.
Come narratore ha pubblicato i romanzi Rimbaud (Mondadori), Il dominio del cuore (Mondadori), Leopardi, l’infanzia le città gli amori (Bompiani). Come poeta ha pubblicato La piuma e la biglia (Almanacco Lo specchio Mondadori), Non ne so più di prima (Edizione del Leone) Le bugie dei poeti (Scheiwiller), Nella notte impenetrabile (Passigli), I profitti del cuore (Scheiwiller). I suoi libri sono stati tradotti in più lingue. Ha scritto per settimanali come “Il Mondo”, quotidiani come “la Repubblica”, riviste culturali come “Paragone”.
La sua attività critica è raccolta nei volumi: Giovanni Boine (La Nuova Italia, 1975), Intellettuali mass media società (Bulzoni 1976), Il gioco delle ombre (Sugarco 1986), Dopo Montale Incontri con i poeti italiani (Zerintya 1993), Poeti al telefono (Cosmopoli 1994), Amarcord Fellini (Cosmopoli, 1995), I moralismi del Novecento (Poligrafico dello Stato 1997) e le serie: Sul telefonino: Il tam tam del terzo millennio (Cosmopoli 1996), Il mondo mobile (Cosmopoli 1997), La piazza universale (1998). Sul divismo: Fragili e immortali, Il divismo all’origine (Cosmopoli 1997), Lo schermo impuro: Il divismo tra cinema e società (Cosmopoli 1998), Il pianeta delle illusioni: Il divismo negli anni Sessanta (Cosmopoli 1999) Eroi virtuali: Il divismo Campiello, l’Estense, il Buzzati, il Flaiano, il Capri, il Città di Modena per la critica.
alle soglie del duemila (Cosmopoli 1999). Sulla comunicazione: Futuro virtuale (Cosmopoli 1995), Rotte virtuali (Cosmopoli 1996), Rotte convergenti (1997), L’italiano degli altri (Newton Compton 2010) Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016).

5 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, interviste, Poesia giapponese moderna

POESIE di Luigi Fontanella da “L’adolescenza e la notte” (2015) con due Commenti di Giorgio Linguaglossa e Flavio Almerighi uno stralcio della prefazione di Paolo Lagazzi e una Intervista all’Autore di Flavio Almerighi

bello volti in serie Luigi Fontanella vive tra New York e Firenze. Ha pubblicato libri di poesia, narrativa e saggistica. Ha pubblicato libri di poesia, narrativa e saggistica.  Fra i titoli più recenti: L’angelo della neve. Poesie di viaggio (Mondadori, Almanacco dello Specchio, 2009), Controfigura (romanzo, Marsilio, 2009), Migrating Words (Bordighera Press, 2012), Bertgang (Moretti & Vitali, 2012, Premio Prata, Premio I Murazzi), Disunita ombra (Archinto, RCS, 2013, Premio Città di Sant’Anastasia). Dirige, per la casa editrice Olschki , “Gradiva”, rivista internazionale di poesia italiana (Premio per la Traduzione, Ministero dei Beni Culturali, e Premio Catullo) e presiede la IPA (Italian Poetry in America). Nel 2014 gli è stato assegnato il Premio Nazionale di Frascati Poesia alla Carriera.   luigi.fontanella@stonybrook.edu

Luigi Fontanella foto, 2014 Grecia

Luigi Fontanella foto, 2014 Grecia

 Luigi Fontanella L’adolescenza e la notte Passigli, Firenze, 2015 pp. 86 € 12.50

Stralcio dalla Prefazione di Paolo Lagazzi

 Una specie di solitudine amorosa, o di amore per gli altri intriso di solitudine, di amarezza, di un sentimento d’inappartenenza serpeggia lungo le istantanee di questo “album” di foto sui generis, di questo “libro” di cui l’autore accarezza le pagine mentre vorrebbe lacerarle, forse perché sa che nessun destino, nemmeno il suo di poeta, può mai essere racchiuso in qualche forma compiuta, che tutto è insieme se stesso e altro da sé, che la vita è “un’avventura continua” che potrebbe a ogni istante risucchiarci nel vuoto. Così l’anàbasi, a tratti, diventa una catàbasi, una discesa nelle spirali della pena come nella poesia che comincia con versi carcerari e un po’ tremendi (“Ci fanno l’appello. Uno per uno / ogni mattina, consegnati / in una colonia estiva“) e che termina con una confessione di sgomento “cosmico”, di lutto da orfano del vero Dio (“Siamo figli di un dio secondario. / Nessuno ci difenderà, / nessuno forse veramente ci ama“). Non è questo, tuttavia, il punto d’approdo dei versi. Solo attraverso un resoconto totale con gli anni della sua sofferta eppure dolcissima crescita al mondo, del suo apprendistato, della sua educazione sentimentale il poeta sa di poter rappresentare ai nostri occhi le radici del proprio destino, della propria chiamata alla poesia. Affondando in un terreno nutrito insieme di corpi e voci, di “scorie” e pugni, di passioni e disamori, di gesti vivi come tiri in porta e di nomi risonanti come echi mitici, queste radici si diramano nello spazio e nel tempo, crescono lentamente e in modo inarrestabile, diventano albero, spingono la loro linfa verso il cielo.

Nella seconda sezione del libro una specie di alone arcano e impronunciabile come il bisbiglio di una divinità del nulla assorbe ogni cosa, custodisce e rinnova le parole e i silenzi di una vita ormai a lungo vissuta. La notte è la cifra di tutti i conti che non tornano e insieme una forza “intatta, / senza compromessi” nel suo buio splendore, nel suo invocare “una calma rivolta”, un lento dissesto dei falsi grumi della realtà. Di notte si può leggere, sperando che i libri sfuggano al vento del nonsenso… Soprattutto, di notte si può ricordare. Ecco che, allora, mentre “gli spettri dei corpi che fummo” si staccano dalle pareti del buio, l’infanzia ritorna in punta di piedi. Il bambino mai morto nel poeta lo chiama a nuove avventure: le minuscole, spudorate mani del primo rinascono nei gesti del secondo mentre, raspando contro i suoi fogli, scavando nelle “caverne” della scrittura, cerca il centro proibito della vita, quel pozzo fragile e immenso dove ogni notte il mondo precipita per salvare un po’ d’amore, qualche illusione, o almeno la luce silenziosa dell’alba.

Luigi Fontanella L'adolescenza-e-la-notteCommento di Giorgio Linguaglossa

 Luigi Fontanella  prova, scarta, rifiuta, è insoddisfatto, quest’ultima sua opera la si può definire come un cantiere aperto, tentativi riusciti, tentativi scoperti, tentativi immaginati, nondimeno egli è sicuro del suo linguaggio, ogni parola è frutto di una risonanza, di una profonda meditazione. In un certo senso, proprio del poeta è non esser mai sicuro del proprio linguaggio, il suo è un procedere per deragliamenti, sillabazioni, citazioni dalle ombre dei ricordi, lampeggiamenti e lacerti del proprio quotidiano di un tempo passato alla ricerca della verità del tempo vissuto. Direi che Fontanella ha l’angoscia dell’espressione perché rifiuta la maldestra ottemperanza ad una espressione incompiuta e insufficiente dei linguaggi poetici già collaudati. Il linguaggio non può non apparirgli insufficiente e inadeguato, almeno finché non sia stata trovata l’espressione che più si avvicina alla cosa desiderata o designata.

Anche Carlangelo Mauro in un recente libro di approfondimento critico su alcuni poeti contemporanei, aveva notato «però che nella produzione più recente Fontanella va praticando una poesia in prosa diversa dal verso lungo del poemetto, mi riferisco in particolare alla sezione di “Inediti” (202-2005) contenuta in L’azzurra memoria, che all’uscita aveva già attirato l’attenzione di Cucchi come tendenza foriera di possibili positivi sviluppi (M. Cucchi “Gazzetta di Parma”), già visibili nella più ampia e interessantissima campionatura della sezione “Intermezzo” di Oblivion (2008), caratterizzata da una maggiore asciuttezza e antiliricità, non immune da proficue influenze della cosiddetta linea lombarda come si è ampliata e diversificata, rispetto alla sua prima fase, in questi ultimi anni».*

Altrove, a proposito di Oblivion lo stesso critico annota che «la capacità di fare vera poesia è quella di dare un senso – attraverso la memoria letteraria, per quella necessità straordinaria che diviene “agnizione”, anzi quasi una illuminazione – al “bighellonare” qualsiasi al vedere un oggetto qualunque come può essere un vuoto contenitore di merci; capacità di partire dalla quotidianità più prevedibile per approdare all’utopia di uno sguardo che cerca, con ogni sforzo visivo, la poesia che giace nel fondo delle cose e nella coscienza, attende come un “fiore azzurro”, simbolo in Fontanella, della vita sognata e trasformata attraverso l’immaginario, di essere colta».*

Interessante un’auto dichiarazione di poetica dello stesso Fontanella nella quale il poeta afferma di non credere ad una poesia e ad un linguaggio sganciati dalla «materia magmatica» come dal «senso ludico» insito in essi e aggiunge: «Da qui anche quell’atteggiamento cautelativo di certa critica conservatrice di fronte – ancora oggi – a poeti che hanno apertamente (e soffertamente) sfidato o sperimentato le risorse estreme della propria lingua poetica, magari anche ‘giocando’ con essa […] Con questo non voglio dire che un poeta scriva solo per giocare (che sarebbe cosa, comunque, bellissima)». ** L’adolescenza e la notte è il tentativo del poeta di scavare tra le ombre proiettate all’interno della sua «caverna»:

Scavo ogni notte nella mia caverna
penetro nelle tacche della ruota dentata

L’arte poetica è considerata alla stregua di una maieutica, di una discesa anagogica al fondo dei ricordi tra l’inconscio e il preconscio. Come si può evincere dallo stralcio di poesie presentate, Fontanella predilige una dizione scabra, ossuta, irta di determinativi, di sostantivi, di cose; l’armonia è la risultante di diversi fattori, ma non nel senso di una sinfonia eseguita da un’orchestra, quanto di una musicalità scabra nella quale l’autore immette le sue variazioni metriche. È in questa atonalità di fondo che si può parlare di dissimmetria della musicalità della poesia di Fontanella; il suo allontanamento dalla tonalità metrica dell’endecasillabo novecentesco è del tutto visibile ed eloquente; la  metricità della sua poesia deriva da un procedimento per associazione e per contatto tra segmenti metrici fortemente dissonanti e dissociati calati in un «parlato» basso, di derivazione sicuramente meneghina ma, insomma, direi ormai ampiamente invalsa e collaudata nella poesia italiana più recente e metricamente più evoluta.

* Carlangelo Mauro Liberi di dire. Saggi su poeti contemporanei Sinestesie, Avellino, 2013 pp. 26,7
** op. cit. p. 19
 

Patrick Caulfield

Patrick Caulfield

 Commento di Flavio Almerighi

Il nostro cortile è un campo di battaglia
piccoli trionfi o cadute nella polvere
tra Tonino Iannone e Franco Arpino.
Bisogna sbrigarsi a crescere (p. 37)

L’adolescenza è stata inventata durante la seconda metà del XX secolo. Prima i bambini diventavano adulti, strappati alla fanciullezza venivano mandati nei campi e nelle fabbriche, cosa che accade comunemente anche oggi in molti paesi “in via di sviluppo”.  Erano adolescenti molti milioni di caduti durante le guerre mondiali dentro e fuori i campi di battaglia. Dopo gli anni Quaranta del secolo scorso l’adolescenza è diventata un diaframma sempre più consistente tra l’infanzia e l’età adulta, un business, infine uno status perenne causa la crisi dell’ultimo decennio, adolescenti fino ai quarant’anni, precari, bamboccioni.

Un tempo la notte atterriva, il buio che portava era assoluto e senza penombre, la mancanza di luce diurna generava mostri e paura. Il tempo ha ideato lune sempre più importanti e la notte non è più vissuta nel terrore di essere divorati o posseduti durante il sonno, è diventata il momento più romantico, libero, raccolto dell’intera giornata. Ha acquisito fascino e talento.

L’adolescenza e la notte, ultima fatica poetica di Luigi Fontanella (Passigli, 2015), mette insieme con originalità due concetti, due mondi,  apparentemente lontani. O forse nessuno prima ci aveva mai pensato. Assimila il ricordo al dormiveglia, l’evocazione al momento migliore per evocare. La notte è una donna incinta, dentro di lei batte già un altro cuore. Ho tratto un’infinita bellezza dalle letture e riletture di questo libro affascinante cui non trovo punti deboli o criticità. Un lavoro molto maturo. Ho voluto per questo confrontarmi direttamente con l’autore ponendogli alcune domande,

ecco, rifletto sognando, sempre
così dovrebbe essere il mondo
senza astio e senza invidia (p. 65)

Patrick Caulfield (1936-2005) was one of the pioneers of British Pop Art, his work is my favourite from a British artist and I actually bought, 'I've only the ...

Patrick Caulfield (1936-2005) was one of the pioneers of British Pop Art, his work is my favourite from a British artist and I actually bought, ‘I’ve only the …

Qual è il trait-d’union tra l’adolescenza e la notte in questo libro?

Inizialmente non c’era un concreto e preciso nesso, se non quello della mia volontà di unire due nuclei di lavoro che si interseca(va)no tra immaginazione e memoria; qualcosa che Paolo Lagazzi ha poi in buona parte intuito nella sua Prefazione. Rimando anche alla mia Nota finale. Potrei aggiungere, a posteriori, ma in modo abbastanza scontato, che le due parti del libro rappresentano l’alfa e l’omega di ogni umana esistenza: l’infanzia/adolescenza e la tarda maturità/senilità. Ma in questo non c’è alcuna “autoindulgenza”: sono semplicemente fasi della vita che io credo convivano talora armonicamente, talora ossimoricamente, talora addirittura in modo buffo.

Anni giovanili: un luogo nostalgico e non più raggiungibile?

Luogo, almeno per ciò che mi riguarda, nient’affatto nostalgico, in quanto a me sembra di vivere, almeno psicologicamente, una specie di eterna giovinezza. Ad essa attingo continuamente, con una naturale disponibilità a farmi sorprendere dalla cosiddetta Realtà o – come diceva la Ortese (la più grande scrittrice del nostro Novecento) – dall’Irrealtà quotidiana.

Come mai la scelta di non titolare i brani?

Ho dato un titolo alle mie poesie nei miei anni giovanili. Ora lo faccio molto raramente perché mi sembra una cosa posticcia, stucchevole, che quasi mai nasce insieme a una poesia, cioè al suo farsi. In genere i titoli delle poesie si stilano quasi sempre “a freddo”, dopo averle scritte.  E poi, non mettendo un titolo a ogni testo, a me sembra di dare una maggiore continuità tra una poesia e l’altra, come in una sorta di continuum interiore che va rincorrendosi, così come avviene con l’eco (mi viene in mente un bellissimo quadro di Delvaux intitolato appunto L’écho).

Soprattutto nella sezione “La notte” ho notato uno stile discorsivo di tipica matrice angloamericana contemporanea. Si sente influenzato dall’ambiente in cui vive e dagli autori con cui giunge a contatto?

 È probabile che questo “stile discorsivo” mi derivi, in parte, sia dalla mia intensa lettura di poeti americani contemporanei sia da un mio desiderio di riscoperta e di rilettura di un filone presente anche nella nostra letteratura, e cioè quello legato alla “ballata” (nella poesia medievale un grande Maestro in questo senso è stato Guido Cavalcanti), o al “racconto onirico in versi” (un mio libro, intitolato Bertgang, uscito tre anni fa presso Moretti & Vitali Ed., riflette esattamente questa mia disposizione).

A tutto ciò occorre aggiungere una mia affezione o “empatia” verso il genere del poème en prose; penso a grandi modelli come quelli di Baudelaire e Campana, o, per avvicinarci a qualche esempio più recente, a certi componimenti in prosa poetica dell’ultimo Raboni.

Come vede il momento attuale della poesia italiana?

Lo vedo zoppicante e nebuloso, con una schiera sempre più crescente di poeti della Domenica e sempre meno lettori. C’è inoltre una preoccupante disaffezione alla poesia in senso generale, già a partire dai quotidiani e dalle riviste: luoghi dove i libri di poesia trovano poco, pochissimo spazio critico. Manca poi in Italia una vera educazione alla Poesia; per es. non ci sono corsi universitari dedicati esclusivamente ad essa, come diversamente avviene in Paesi come l’Inghilterra, la Spagna, gli Stati Uniti, ecc.

In questo modo i percorsi, le strade della poesia diventano più difficili e contorti. Allo stesso tempo, penso che un vero poeta, nonostante le difficoltà crescenti e la frantumazione qualunquistica della comunicazione, in particolare telematica, dove ognuno può improvvisarsi poeta e può crearsi il proprio blog (ci sono per fortuna alcune buone eccezioni, ma sono poche), abbia il dovere di essere coerente prima di tutto con se stesso, cercando una sua strada che poi corrisponde alla sua personale verità.  Credo che già questa fedeltà alla propria voce, al proprio credo, al proprio modo di esprimerlo (Pasolini diceva che su tutto si può barare tranne che con lo stile) sia già un importante obiettivo per il “ruolo” che ogni poeta dovrebbe ascrivere a se stesso nell’odierna società.  Non credo al poeta/profeta; credo, voglio credere, però, come già mi è avvenuto di dire, a quel poeta che sia sensibile ai guasti della sua “civiltà”, e reagisca nella maniera a lui più congeniale, cioè da poeta, e dunque con la sua parola, senza mai sacrificare l’immaginario che è dentro di lui. Che sappia insomma, baudelairianamente, esprimere l’utopia nella carne del linguaggio. Sarebbe bello se la Poesia contribuisse davvero a migliorare il mondo in cui viviamo.

Patrick Caulfield

Patrick Caulfield

Non sono mai entrato nella vita.
Mai appartenuto a qualcuno. Storie
che giungevano al termine, al punto
verticale della fine. Ma mi commuovo
per un nonnulla, l’adolescenza
è assoluta ed eterna
è l’unica cosa che resta.

*

A occhi socchiusi scorrono
vilipendi e ferite. La sfida
è per chi ci precede. Oppure
làsciati andare:
la nebula mente
soffia un breve respiro.

*

Si preparava la scenografia
del futuro. Il principio era questo:
un momento e già subito un ammasso di anni… Oggetti
accumulati che col tempo
perdono ogni precisa identità
ogni significato. Rivivono
in occhiate notturne
prima di andare a letto
solo di passaggio solo di passaggio
appena fissati per un attimo
e già rientrati in se stessi.
Scenografia che andrebbe scompigliata
dovrei disfarmene, distruggerla.
Mi sopravvivrà
chissà in quale altro spazio
chissà per quali altri immemori occhi.

*

Corriamo in fila
di fronte al padre di Tonino Iannone,
giardiniere sempre un po’ stupito, un po’ trasognato.
In altre stanze smania
una figlia di nessuno.
Chi raccoglierà queste nude foglie?
Il tempo cambierà in fretta.
Nessuno scende più per quella
stradetta che ci conduceva a Fratte:
tutto stravolto tuto stritolato
in un subbuglio di crescita orrenda. Nulla
più riconoscibile.
Salerno, Via Parmenide 30:
cinque anni della mia adolescenza.

*

Ristabiliamo le distanze
fra ciò che è sempre stato imminente
e il vuoto che ci è accanto.
La tua voce è in quell’orlo
che corona il cratere. Un sibilo
e si disperde la polvere del giorno. Non sai
più se è ieri o domani
perché domani e ieri
sono precipitati nel nulla
e le sillabe impazzite
si confondono tra di loro.
La nostra adolescenza
resta incisa in un’espressione
un po’ casuale, in un profilo sghembo,
in un gesto che non è mai nato
ma che c’è sempre stato.

Patrick Caulfield

Patrick Caulfield

Talvolta la notte sorprende
chi l’attraversa. La notte
che assorbe tutto, che custodisce
o rinnova il silenzio, i giochi della mente,
incoscienze, il sangue di qualche innocente.

La sacra notte, che a tua volta sorprendi
nel suo grumo, intatta,
senza compromessi. Una storia
come immaginata, perfetta nei suoi
scismi, nei suoi effetti, nei suoi delitti.

Come quella volta –
4 febbraio 1983 – che l’attraversasti barcollando
il sangue ti colava sulla fronte
sempre di più, avanti, nel buio pesto
dalla 207 fino a 100 Park Terrace West.

A casa lo specchio ti rimandò
la tua faccia inorridita… telefonasti
a Judith meccanicamente, ti disse soltanto
di socchiudere la porta d’ingresso
prima che tu, immemore, stramazzassi a terra.

Poi altri spazi, bianchi, bianchissimi.
Tutto più leggero, tutto più soffice
come la neve che trasognato
vedevi turbinare nei fiocchi
che si stampavano sul parabrezza.

Ora è solo racconto, film muto, labbra
semoventi di barellieri e infermieri
le identiche domande ogni poco:
sogno e realtà nell’unica sequenza,
sempre la stessa, sempre la stessa.

È solo un racconto,
film muto che ripete la notte: questa
notte che si è data appuntamento
con un’ altra di trent’anni fa.

Mount Sinai, 4 febbraio 2013
*

Adesso nell’oscurità
tutto appare composto e fermo.
Tutto già ben disposto
ben organizzato, mentre
guardo di nuovo i miei libri allineati.
Stanotte non voleranno via
dai loro ripiani. Non permetterò
che precipitino giù, che abbandonino
il proprio abitacolo, legati
uno accanto all’altro
per puro destino alfabetico.

*

Siamo tutti e tre
in un grande letto: Anna, l’antica
e tu la presente, una
accanto all’altra, ed io
nel mezzo, in perfettissima armonia.
Stringo la mano ad ambedue
dolce e silenziosa la nostra intesa.
… ecco, rifletto sognando, sempre
così dovrebbe essere il mondo
senza astio e senza invidia.

*

Acquetarsi infine
sottrarsi almeno per un breve intervallo
da ogni male, libero volare
assottigliarsi gradualmente
fono a svanire nel buio, essere
tu il buio, il buio assoluto.

5 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, Antologia Poesia italiana, critica della poesia

POESIE SCELTE di Fabrizio Dall’Aglio da Colori e altri colori (2014) con un Commento di Paolo Lagazzi

Paul Klee

Paul Klee

Sul cammino poetico di Fabrizio Dall’Aglio

di Paolo Lagazzi

(…) Rispetto al cammino che ho cercato, troppo in breve, di raccontare, Colori e altri colori ci si offre come un dono, a suo modo, sorprendente. Nulla di ciò che l’autore ha visto, vissuto, intuito e scritto negli anni è rinnegato: specialmente la sezione finale delle Dediche dispiega ancora un’acuta, graffiante consapevolezza dell’irrealtà generale, dell’assenza di fondamenti in un mondo in cui il tempo è morto e lo spazio “pare zoppo”, della miseria in cui la poesia annaspa. (Tra i testi offerti a poeti o ad artisti con cui Dall’Aglio intrattiene dei rapporti speciali spicca quello, di un lancinante pathos tragico, per l’indimenticabile Gianfranco Palmery.) Eppure il libro ci trasporta, nel suo insieme, oltre questa amarezza. Abbandonandosi subito al bisogno di risalire alle proprie origini, di ritrovare la sua casa antica fasciata di verde muschio, le impronte nei campi, le voci conosciute, e in esse i segni di un’età ancora intatta, di una verità piccola e immensa, il poeta apre la propria voce a vibrazioni delicatissime, a una freschezza inedita di riverberi, scintille, cromie. Non è un caso se il libro ripete il titolo di una delle raccolte più intensamente liriche nell’ambito dialettale del Novecento, Colori del triestino Giotti: anche per Dall’Aglio è giunto il momento di liberare, seppure “senza lacrime”, senza nessun sentimentalismo, il nucleo più intimo della sua commozione di fronte agli spettacoli semplici e struggenti, alle epifanie umili e cangianti della terra e del cielo. Ecco, dunque, la pied beauty della prima sezione del libro, la sua ricchezza impressionista, il suo corrusco svariare tra “un’estate gialla” e il “vestitino lilla” di una ragazza, tra il grigio di un fumo che “sparpaglia” la luce e il “biondo” piovoso di un cielo autunnale, tra una notte nera, un cortile bianco “come un filare” di lenzuola e una terra rossa, “nuda” sotto la pressione del corpo… Ecco, nella seconda sezione, l’evocazione di Macigno (piccolo paese nel reggiano) trascolorante, in una vivida gamma di tocchi materici, dai “coppi discosti / sopra travi marcite” all’”antracite” di un rondone, dalla “campagna rasa” nel “tempo delle gazze” a uno “strame di tavelle / tirate a lucido”…

Paul Klee Paesaggio

Paul Klee Paesaggio

Qualcosa dello spirito di Bertolucci (il Bertolucci di Fuochi in novembre e della Capanna indiana) aleggia tra questi versi: la sostanza concreta e leggera di un linguaggio in grado di cogliere la fragilità creaturale degli esseri e le loro iridescenze magiche; la capacità di percepire le cose immerse nella corrente del tempo che tutto muta, ma insieme in un quid  che tutto preserva; il sentimento della poesia come luogo d’incrocio fra le intermittenze del cuore e la durata della realtà, tra l’evanescenza e il mistero di perennità del mondo.

In un bellissimo intermezzo in prosa (Il fiume) in cui rievoca i giochi della sua infanzia fra torrenti, canali e rigagnoli sullo sfondo del grande fiume, il Po, l’autore ricorda ciò che rendeva affascinante uno di questi rivoli: le tracce del passaggio dell’acqua resistenti nel colmo dell’estate. Fra secche e pozze isolate l’acqua si apriva, chissà come, delle vie di scorrimento, e la magia era semplicemente questo: riconoscerne la forza, la durata attraverso e oltre le buche stagnanti, le alghe scivolose o le pietre… A cosa allude questo brano se non alla natura duplice della vita, al suo offrirsi – incerta e caparbia, balbettante e tenace – nelle risacche del discontinuo e nel respiro di ciò che insiste, malgrado tutto, a fluire?

Paul Klee-Drawing-365x365

Paul Klee-Drawing-365×365

Anche la serie dei nove haiku allinea sottilissime testimonianze sulla forma paradossale della realtà, sul suo essere tessuta d’istanti in fuga come sciami di nuvole e sul suo schiudersi sempre, di nuovo, come una pelle che possiamo solo ammirare senza mai penetrarne il corpo, l’essenza. Certo queste liriche, benché fedeli al modello giapponese nella struttura metrica (quinario, settenario, quinario) e nei tocchi puntuali, sciolti e luminosi, sono haiku solo in parte: mentre il “vero” haiku non è mai metaforico – tutto risolto, com’è, nella pura evidenza delle immagini –, alcuni tra questi testi schiudono metafore fiabesche (“Il cielo ha ciglia / di ali di farfalla”; “Il sole salta / tra gli alberi del bosco / l’ombra lo insegue”) che ricordano ancora certe tenere  invenzioni di Bertolucci.

Uno dei leitmotiv di tutta la poesia di Dall’Aglio è la sostanza problematica dell’io: qual è, se mai ce n’è una, la radice della nostra identità? In uno dei testi più “filosofici” di Colori, provocatorio controcanto alla sua trepida dominante lirica, il poeta si chiede: “Con quali nomi / ci chiameranno i cani?”. Come, potremmo tradurre, ci si svelerebbe il nostro nomen-omen, lo stigma del nostro destino se potessimo osservarci da fuori, attraverso lo sguardo degli altri esseri, dell’altrove, dell’universo? Questa domanda non ha risposte possibili, ma in Ti chiamerò albero, il componimento che sigilla il libro – sorta di sacra, solenne litania –, è la forza senza volto del mondo a battezzare tutte le cose: nessuna creatura che aspiri a un’identità potrebbe riconoscere il proprio vero nome se non abbandonandosi al fonte battesimale di questa origine, di questa energia. Colori è soprattutto il frutto di un tale abbandono, di un desiderio di sciogliere finalmente le aporie del pensiero in un gesto di pura resa, in un inchino alle cose, in un franare della coscienza nel polverio del tempo, nella luce cangiante e immortale dell’essere. Tutto il suo lungo, complesso e sofferto cammino tra i “movimenti concitati” dell’anima, le resistenze del corpo e l’inesausto stremarsi nell’attesa di un po’ di verità è occorso al poeta per aderire completamente a un “mulinello d’ali”, a una rosa o al volo d’una cetonia “ardente d’oro e verde”, per lasciarsi “sfogliare” da questi incontri come un libro aperto, per riconoscere in essi la sostanza aerea del mondo, la natura trasparente della bellezza, il miracolo semplice della luce o del vento.

(dal saggio introduttivo di Paolo Lagazzi)

 Fabrizio Dall’Aglio da Colori e altri colori Passigli, Firenze, 2014 pp. 90 € 12.50

Fabrizio DallAglio-Colori-100x160

Sono arrivati gli alberi. Li ho visti
abbracciarsi sotto il campo di casa
stringersi tra le balle di fieno.
Alle porte del bosco si sussurra
che il vento deve ora scomparire
nel fondo della valle
acquattarsi nel fiume tra le rocce
lasciarli liberi.
La mattina è azzurra di sereno.
La città è svanita
con un tonfo di luci nella notte.
Sono tornati gli alberi.

*

Con quali nomi
ci chiameranno i cani?
Sarà un nome di cose
o di parole,
o forse solo un suono
un luccichio degli occhi,
un modo di muovere la coda.
E passerà quel nome
dall’uno all’altro cane,
sarà forse
un nome diverso per ogni volta
di piacere o dolore
di timore o di rabbia.
E sarà il nome
venerato di un padrone,
o quello amato
e compatito
dell’amico un po’ strambo
che gli ha dato il nome.

Fabrizio dall'aglio (1)

 

 

 

 

 

 

 

*

La finestra non guarda sul cortile.
Non guarda. È una sinopia di finestra
nel fienile. E l’aria
che muove la paglia
sbuca da griglie di mattone
e da coppi discosti
sopra travi marcite.
Il colore è l’antracite di un rondone
che occhieggia dal tetto.

*

LETTERA A UN AMICO SUI TEMPI ASSENTI
a Paolo Maccari

È morto il tempo, te ne sei accorto?
Agonizzava già da qualche giorno,
forse da mesi o anni.
Non era già più il tempo della Storia.
Come araba fenice era risorto
dalle sue ceneri, e vivacchiava
neppure male, quasi felice
nella sua post-vita di inizio secolo.
Anche lo spazio ora pare zoppo,
si dilunga in azioni orizzontali
e verticali,
senza sapere se sia poco o troppo
la sua inesauribile sfilata.
Perennemente in bilico,
caldeggia i decimali, le frazioni
forse per fare presto e riposarsi,
senza ormai troppi danni,
in ritirata.
È questo il nostro mondo metafisico.

fabrizio dall'aglio (2)

 

 

 

 

 

 

 

IL SECOLO
a Manfredi Lombardi

Ti ricordi il secolo?
Mi pare che vestisse in uniforme
con rosse spalline.
Il secolo era terra di confine,
terra bruciata e informe
riarsa dalle mine. Più dentro,
aveva guanti bianchi,
cristalli di bicchieri nei caffè
signore e signori eleganti
e operai con tute da lavoro.
E poi più dentro aveva
il suo tesoro di carte:
arte da vendere a turisti sordi
cristi inchiodati ai muri delle scuole
e pagine raschiate all’immondizia
loquace di parole.
Un’altra pace per un’altra terra.
Il confine era ancora la miseria
e un’ingiallita sfilza di anatemi.
Il secolo infilzava
gli emblemi del suo mondo:
non era più una guerra di conquista
ma di teoremi consacrati
al culto delle genti.
Dall’uno all’altro dei cinque continenti
si spacciava ogni dio.
Più dentro il secolo non c’era
e si doppiava, replicava
in milioni di statuette
la sua silhouette fittizia.

Fabrizio Dall'Aglio

Fabrizio Dall’Aglio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

*

Ti chiamerò albero
e ti chiamerò pietra
ti chiamerò erba
e ti chiamerò nuvola
ti chiamerò sole
ti chiamerò fiore
sarò la voce che ti dice il nome.

Ti chiamerò fuoco
e ti chiamerò cielo
ti chiamerò casa
e ti chiamerò fiume
ti chiamerò foglia
ti chiamerò pioggia
sarò la voce che ti dice il nome.

Ti chiamerò vento
e ti chiamerò neve
ti chiamerò monte
e ti chiamerò mare
ti chiamerò luna
ti chiamerò luce
sarò la voce che ti dice il nome.

Ti chiamerò acqua
e ti chiamerò frutto
ti chiamerò campo
e ti chiamerò corpo
ti chiamerò tempo
ti chiamerò terra
sarò la voce che ti dice il nome.

Ti chiamerò buio
e ti chiamerò sonno
ti chiamerò sangue
e ti chiamerò suono
ti chiamerò uomo
ti chiamerò io
sarai la voce che mi dice il nome.

*

E ora se si espandono le notti
sarà solo un ritegno di giornate
fiacche,
che nella luce d’alba che le smuove
s’infrangono. Scogli.
Allora dormi
e t’incatena il letto
la cenere compatta del lenzuolo
e il brusio del tuo fiato, un soffio
che comprime la tua voce.
È il tempo
nel tempo
del tempo.

11 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

QUESTA È L’ETÀ DELLA STANCHEZZA di Paolo Lagazzi “Ciò che resta” “questa è l’età della stanchezza” “quale ruolo o forza possiamo ancora riconoscere alla poesia” da La stanchezza del mondo (2014)

Foto Scala con ombra

 Paolo Lagazzi è nato a Parma nel 1949 e risiede a Milano. Critico letterario, studioso di cose giapponesi e autore di fiabe; collabora con diversi quotidiani e riviste. Ha scritto numerosi saggi, e con Garzanti ha pubblicato uno studio sulla poesia di Attilio Bertolucci, Rêverie e destino (Garzanti 2008). Tra gli altri ricordiamo: Per un ritratto dello scrittore da mago (Diabasis 1994, Moretti&Vitali 2006) Vertigo. L’ansia moderna del tempo (Diabasis, 2002), Per un ritratto dello scrittore da mago (Moretti & Vitali, 2006), La casa del poeta (Garzanti 2008), Forme della leggerezza (Archinto, 2010), Otto piccoli inchini (Albatros 2011), Le lucciole nella bottiglia (Archino 2012). Ha realizzato inoltre un libro intervista con Atilio Bertolucci (Guanda 1997). Ha curato cinque antologie di poesia giapponese (fra cui Il muschio e la rugiada, Rizzoli 1996) e, per i Meridiani Mondadori, le opere di Attilio Bertolucci (1997), Pietro Citati (2005) e Maria Luisa Spaziani (2012).

Pubblichiamo il capitolo “Ciò che resta” del libro di saggi sulla poesia contemporanea di Paolo Lagazzi da La stanchezza del mondo Moretti&Vitali 2014 pp. 257 € 18

Paolo Lagazzi

Paolo Lagazzi

«Ripensare il senso, il valore e il ruolo che la poesia può ancora avere nel mondo è un compito che va ben oltre le questioni di linguistica o di poetica, il vaglio degli strumenti retorici o le annose discussioni sul canone: è un compito che chiede a tutti noi, poeti o critici, scrittori o lettori, il coraggio di considerare con chiarezza la situazione generale dell’uomo in questo momento storico. Per quanto mi riguarda, se mi fosse chiesto di indicare il sentimento prevalente nei nostri anni, non avrei esitazioni: questa è l’età della stanchezza. Innumerevoli opere, non solo di poesia, grondano oggi stanchezza: sono voci opache, espressioni di apatia, testimonianze di una vitalità ottusa e perplessa benché spesso ammantata di colori sgargianti, di abiti alla moda e di più o meno capziosi maquillages.

Tutti, ormai, sembrano diventati narratori e poeti: nessun campo di ricerca è precluso a nessuno, i segreti e le finezze più sottili dell’arte sono a portata di chiunque… Eppure in questo dispiegarsi apparente dell’“intelligenza” e della sapienza cova un senso evidentissimo di spossatezza, come se il “tutto per tutti”, o l’eccessivo flusso delle forme, delle idee e dei segni, non fosse che l’espressione di uno svuotamento radicale del senso dei linguaggi. Presi in un intreccio inestricabile fra la stanchezza delle parole e le parole della stanchezza  gli uomini appaiono sempre più rassegnati, incapaci di credere davvero che qualche grande novità possa trasformare in meglio la storia. Se qualcosa di nuovo incombe sul nostro tempo, è un sentimento di fine prossima del mondo non più vissuto col terrore degli antichi di fronte alle immagini fiammeggianti dell’Apocalisse, ma quasi accettato, o assorbito mollemente, giorno per giorno, come l’aria inquinata che respiriamo. Di recente la NASA ha reso ufficiale una notizia che aveva già cominciato a circolare (se non ricordo male) nel 2001:

Paolo Lagazzi cop

fra pochi anni, precisamente il 13 aprile 2036, è possibile che un enorme asteroide, in viaggio verso la terra a folle velocità, centri in pieno il nostro pianeta: la collisione causerebbe un contraccolpo tale da distruggere in modo completo la vita degli esseri umani. Occorre aggiungere, per onestà, che a questo evento viene assegnato un indice probabilistico bassissimo, ma il fatto stesso che non lo si escluda per nulla, anzi si cerchi fin d’ora di mettere in cantiere una costosissima operazione aerospaziale (un’astronave che dovrebbe essere in grado di deviare l’asteroide), è piuttosto inquietante. Il pensiero di un’eventualità simile non dovrebbe colpire la fantasia di milioni di persone, tanto seria e drammatica è l’ipoteca che essa pone sul futuro dell’umanità? Di fronte a un allarme del genere, suffragato dai più raffinati scienziati, non dovrebbe mutare il nostro stesso senso del tempo? Da questo momento in poi non sarebbe giusto scandire il tempo, sia pure in termini possibilistici e non certi, come un conto alla rovescia?

SPETT.UMBERTO ECO A NAPOLI(SUD FOTO SERGIO SIANO)

Umberto Eco

 

Infinitamente remota da questo scenario, tanto da riuscire quasi patetica, appare la riflessione, sviluppata da Umberto Eco nel 1964, sulle ideologie parallele e opposte degli “apocalittici” e degli “integrati”. Anche a chi non voglia considerare la notizia della NASA, non può non riuscire evidente che da quegli anni ’60, così allegri e vitali a osservarli con gli occhi di adesso, il mondo è andato accrescendo il suo potenziale autodistruttivo, malgrado la fine della cosiddetta guerra fredda, in modo esponenziale: mille nuove paure, generate dal terrorismo fondamentalista come dai cambiamenti climatici e da inedite minacce epidemiche, sono emerse e continuano a emergere, giorno per giorno, da un abisso che non pare aver fondo. Chi non sarebbe tentato di dire, oggi, che gli “apocalittici” sono non più dei visionari ma i soli veri realisti? Eppure ho l’impressione che nei nostri anni non si viva tanto nel terrore quanto nella rassegnazione, o in un’assuefazione progressiva al terrore. Se coscienza c’è (e indubbiamente c’è) del tramonto ormai non lontano del mondo che abbiamo conosciuto, essa è come ovattata dalla stanchezza; se è chiaro che i destini generali stanno precipitando verso il disastro, questo movimento ha in sé qualcosa di tanto inesorabile quanto irreale, flaccido e vischioso, un po’ come il lento affondare d’un corpo in un magma di sabbie mobili. Si potrebbe aggiungere che una tale lentezza è, più che altro, un’impressione illusoria, una specie di suggestione ipnotica indotta dal carattere ripetitivo dei meccanismi sociali e mediatici: sul piano dei fatti, gli studi non solo della NASA ma anche degli esperti dell’inquinamento, dell’effetto serra, e di tutti gli altri fenomeni di degenerazione ambientale, sono d’accordo che c’è pochissimo tempo per tentare di fare ancora qualcosa, per cercare un’inversione di rotta e, in essa, una via di salvezza. Ma non sembra proprio che i potenti della terra si stiano dando molto da fare per cercare questa via; forse la visione pragmatica delle cose che ha sempre impregnato fino al midollo il capitalismo, e che domina tutti i fautori della globalizzazione, comporta un pessimismo misto a cinismo impossibile da contrastare? Forse loro stessi, mentre in pubblico continuano a inneggiare alle “magnifiche sorti e progressive”, sono in realtà convinti che non c’è più nulla da opporre allo sfacelo, e che tanto vale vivere alla giornata, spremendo dal pianeta tutto quello che si può spremere, in una corsa sempre più spasmodica verso il tracollo finale?

Di fronte a questo quadro, torna urgente chiedersi quale senso, quale ruolo o forza possiamo ancora riconoscere alla poesia. Illusorio è pensare, come troppo di frequente si è fatto negli ultimi venti o trent’anni, che la poesia non possa non essere l’estremo baluardo dell’umano mentre tutto intorno va in malora. Anche la poesia è figlia della propria epoca, e il suo primo compito, la sua prima verità è pur sempre di carattere testimoniale. Non è un caso, dunque, se fra i molti poeti che ho letto in questi anni proliferano le figure della stanchezza, della “spossatezza” e della “sfinitezza”. E’ come se, in tante raccolte recenti, risuonasse una sorta di sazietà radicale, una specie di volontà di arrendersi, di rinunciare a tutto, o un bisogno di prendere atto che nessuna risposta può più essere in grado di aiutarci veramente. Espresso in versi spesso inappariscenti, fragili e sordi, o, per così dire, tra le righe, questo disgusto non è più riconducibile nemmeno al nichilismo: semplicemente è la voce di una mancanza di voce, è la forma di un nodo informe, di un viluppo insolubile.

pessoa_1

pessoa

Tra le opere minori di Pessoa ce n’è una, L’ora del diavolo, che forse riesce, per l’ultima volta, a dare fiato a questa sazietà, a riconoscerla e a dichiararla come il solo orizzonte di senso concesso alla senilità del mondo. In essa il protagonista – il Diavolo, appunto – rivela a una donna di essere “soprattutto stanco”, stanco “di astri e di leggi, e un po’ con la voglia di restare fuori dall’universo e ricrearmi sul serio con cose di nessuna importanza”. Abbandonandosi al desiderio di confessarsi finalmente all’umanità, il Diavolo afferma che tanto lui quanto Dio dormirebbero ben volentieri un sonno che li liberasse dalle “cariche trascendenti” di cui sono stati investiti a loro insaputa; nemmeno loro due, infatti, sono in grado di fornire una risposta assoluta al perché della realtà: “tutto è molto più misterioso di quanto si creda”, e le cose non sono che “un cantuccio menzognero della verità inattingibile”. Proprio perché al di là della contrapposizione tra il Diavolo e Dio, fra il bene e il male o tra l’essere e il  nulla, la stanchezza messa in scena da Pessoa nel suo racconto non può catturarsi in categorie, in princìpi morali o filosofici: è un puro,  ineludibile orizzonte dell’esperienza: è un quid sfuggente a tutti i nomi che potrebbero afferrarlo e contenerlo in un’interpretazione: è un “a priori” e insieme una fine: è un dato trascendentale votato a perdersi nell’insignificanza del tempo. Proprio questo mi sembra il genere di stanchezza entro cui si dibatte la società dei nostri anni: uno svaporare di ogni forza ideale e reale, un franare dei pensieri e un indurirsi dei nervi, un calo di pathos o il montare nel sangue di una specie di anemia incurabile, mentre l’orologio della fine incombente non arresta mai il suo battito, il ticchettio freddo dei propri quadranti…

Entro questa scena, quale vitalità può avere la poesia d’oggi? La sola, non ideologica prospettiva di verità rimasta ai poeti è forse quella di farsi testimoni, come il Friedrich di un quadro famoso, del naufragio della Speranza? Forse soltanto al fondo della stanchezza e della debolezza essi potranno ancora trovare la via della loro luce? La stanchezza è l’unica, paradossale forma d’infinito concessa a coloro che si sentono ormai sull’orlo della dissoluzione di tutti i fini e i confini, di tutte le forme, le poetiche e le scelte di campo, di tutti i discorsi e i rapporti, di tutte le architetture e le distanze, di tutte le isole di bellezza e le oasi del sogno?

Malgrado la parte di stoicismo resistente in molte anime amareggiate, non credo che i poeti potranno mai adattarsi a essere il puro e semplice specchio del naufragio dell’esistenza. Già Hölderlin aveva osservato, in limine alla grande crisi del moderno: “Ciò che resta, lo fondano i poeti“. Riportato alle prospettive un po’ tremende del nostro futuro, tale pensiero potrebbe significare che solo i poeti sapranno custodire la fede, la speranza e la carità fino all’ultimo istante del mondo. Questo avverrà non perché essi si sentiranno investiti di una missione profetica o salvifica, né tantomeno perché la società li assillerà con la richiesta di farsi cavalieri dei Valori, ma perché sapranno mantenersi, nel cuore stesso della stanchezza, liberi d’immaginare un luogo di grazia, un altrove che potrebbe essere anche il più piccolo dei nostri qui, il più umile e segreto dei nostri passi.

Attilio Bertolucci

Attilio Bertolucci

Il poeta del Novecento italiano che ho amato e continuo ad amare di più, Attilio Bertolucci, è lontanissimo da ogni pratica di profetismo, eppure nella sua voce pacata e naturale, nutrita del sentimento della quotidianità, vibra una fede irriducibile nella vita, nella luce della bellezza. Senza mai confessarlo esplicitamente, forse addirittura senza saperlo, le sue parole hanno in sé molto di cristiano e di buddhista: sanno esprimere l’incanto annidato anche nello strazio, nel sangue dei momenti; sanno mostrarci tutte le vie per fare del nostro cuore, attraverso e oltre le voragini della stanchezza e dell’ansia, la trepida cassa di risonanza del mistero gaudioso dell’universo (“Mi sento stanco, felice / come una nuvola o un albero bagnato”; “Gli occhi stanchi colpisce di lontano / il rosso papavero in mezzo al tenero grano”)…

Idealmente fraterni a Bertolucci, altri poeti continueranno a resistere nonostante gli spettri della fine, della distruzione e del caos. Anch’essi, senza inalberare proclami apocalittici e senza pretendere alcuno  speciale miracolo, continueranno a scrivere testimoniando la loro fede nel “qui e ora”, nel dono del presente. Liberi dall’enfasi e dal patetico, immuni dai timbri oracolari come da quelli pietistici, i loro versi saranno forse le ultime preghiere gettate al cielo per la salvezza di uno sguardo, di un bacio, d’un albero, d’un bicchiere di vino condiviso, d’una stretta di mano, di un momento di luce su un angolo di muro.

(Paolo Lagazzi)

Commento di Giorgio Linguaglossa

Paolo Lagazzi ama i poeti che hanno un linguaggio poetico “appropriante”, che tendono a fondersi con l’”oggetto”, in una sorta di fusione panica tra l’io e il paesaggio, tra l’io e il mondo, di qui la sua predilezione per la poesia di Attilio Bertolucci. Lagazzi ama la poesia quale «atto di fede», e la poesia può anzi forse deve considerarsi come un atto di fede; il suo impegno critico va per la poesia che non teme di denudarsi di fronte al mondo, che non teme di presentarsi ignuda o, addirittura, quasi ingenua, priva di protezione. È una predilezione auspicabile, rispettabile. Il Novecento è finito da molti anni ormai, e sembra che nessuno abbia più la forza e forse la voglia di aprire una nuova stagione della poesia; la poesia italiana sembra ristagnare, anzi, molti poeti dichiarano apertamente che ormai non c’è nulla che possa esser detto in poesia e che essa non possa che ripercorrere stancamente i luoghi da già frequentati nel Novecento.

Personalmente, io invece tendo ad apprezzare una poesia che abbia in sé una forza «dis-propriante», che guardi alla tradizione con occhi diversi; penso che non bisogna fare poesia per legittimare e giustificare un linguaggio poetico, ma per «oltrepassarlo», magari in diagonale. Di fatto, oggi la tradizione ha cessato di funzionare come «regolo», principio regolatore, non è più vista come una  rassicurante terraferma ma come un luogo dal quale allontanarsi, prendere il largo, come un’isola che sia stata inghiottita dalle onde.
Ci sono però, oggi, autori che costruiscono le loro opere come un atto di responsabilità verso l’«invisibile», che fanno una poesia senza aggettivi, che tentano di fissare i segnavia che indicano la responsabilità della forma-poesia, che pensano, che elaborano, con diverse modalità, un metalinguaggio, che operano una individualizzazione e una personalizzazione del ritmo, della sintassi e del lessico, che creano un tonosimbolismo: penso alla poesia di Roberto Bertoldo, Maria Rosaria Madonna, Giorgia Stecher, Anna Ventura, che sono stati capaci di fare una sorta di énchantement musicale, lontana dalla coazione a ripetere delle linee maggioritarie della poesia che abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni.

Intendimento di questi autori è saltare le artificiosità della mediazione della tradizione, considerata corresponsabile di una certa stagnazione stilistica e tematica; giungono, magari e a modo loro, ad una nuova forma di artificiosità attingendo a piene mani all’anacronismo del dettato, mettendo in gioco direttamente il lettore secondo le nuove regole del gioco, fondando un «nuovo» patto di riconoscibilità e di responsabilità che renda irricevibili gli stilemi della codificazione stilistica pregressa; questi autori hanno tentato e tentano, lontani dal frastuono delle officine maggioritarie,  di rifondare l’«antico» patto di riconoscibilità del discorso poetico nel mentre che edificano un «nuovo» concetto di responsabilità della forma-poesia. E forse nelle condizioni di oggi è bene ripartire dalla «responsabilità» e dalla «onestà» della poesia bertolucciana. Anch’io penso che si debba ripartire dalla responsabilità della forma-poesia. La sofisticata elaborazione formale di questo «antico» patto di autenticità con il lettore che Bertolucci ha inaugurato deve e può diventare il minimo comune denominatore della nuova poesia. È forse la tardiva rivincita che l’artigianato dello stile si prende sulla miscellanea degli stili e delle iperscritture letterarie molto ben confezionate di oggi.

11 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, il bello, Senza categoria