Lucio Mayoor Tosi, frammento, blu e celeste, 2021
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Vasilij Filippov
Ho sognato di volare su una nuvola
Vasilij Anatol’evič Filippov è nato nel 1955 nei pressi di Sverdlovsk (oggi Ekaterinburg) sugli Urali. Negli anni Settanta ha frequentato la facoltà di biologia presso l’università di Leningrado, ma in realtà era ben altro ciò che lo appassionava veramente: la letteratura, la filosofia, la teologia. Partecipava attivamente agli incontri del circolo letterario guidato da David Dar (1910-80), carismatico letterato leningradese. Ha scritto articoli filosofici e teologici per “37”, autorevole rivista “Samizdat”, che prendeva nome dall’appartamento n. 37 del civico 20 di via Kurljandskaja a Leningrado, epicentro degli ambienti underground. Nel 1980, all’età di venticinque anni, è stato rinchiuso in un ospedale psichiatrico in seguito a una gravissima crisi, che per poco non ha avuto un epilogo tragico. Questo primo ricovero, durato quasi cinque anni, è stato seguito da altri. Dal 1993 è ospitato costantemente in strutture psichiatriche. A tutt’oggi le sue condizioni di salute lo costringono a condurre una vita appartata.
Filippov è diventato poeta, essendo già malato mentale, in condizioni che parrebbero provocare l’annientamento di ogni energia creativa. Ha cominciato a scrivere poesia nel 1984, dopo il primo ricovero. Dalla fine degli anni Ottanta i suoi versi sono apparsi sulle riviste “Vnl”, “Tret’ja modernizacija”, “Volga”, “Arion”, “Zerkalo”, “Futurum Art” e nel volume collettaneo Stichi v Peterburge. XXI vek [Versi a Pietroburgo. Il XXI secolo] (2005). Sono uscite tre raccolte: Stichi [Versi] (1998), Stichotvorenija [Poesie] (2000), Izbrannye stichotvorenija [Poesie scelte] (2002). Nel 2001 è stato insignito del prestigioso premio letterario Andrej Belyj, il più antico premio indipendente nella Russia contemporanea: viene attribuito regolarmente dal 1978.
Con l’esattezza di un diario (1), le liriche fissano i fatti minimi e le impressioni più minute dell’autore. Si può parlare di una poetica della registrazione spontanea di quanto viene visto. Praticamente ogni testo contiene tutto il mondo poetico dell’autore, e talora anche il suo background storico e letterario. I nomi dei poeti russi venerati da Filippov – Elena Schwartz, Sergej Stratanovskij, Aleksandr Mironov – costantemente citati nei versi, poco a poco si tramutano in emblemi polisemici:
Si illumina la mente coi versi di Elena Schwartz.
C’è la giornata alla finestra, ma non mi serve.
Meglio la notte e la cena.
Così come le immagini dei genitori, la nonna e Asja L’vovna Majzel’, la fedele amica che per più di vent’anni ha sostenuto e incoraggiato Vasilij, raccogliendo e conservando i suoi versi, che altrimenti sarebbero andati perduti:
Asja L’vovna accudisce me-mostro,
Batte a macchina i miei versi,
Parteggia per me presso le edizioni “Aurora”.
Filippov scrive la cronaca della sua vita: una vita trascorsa tra le cliniche e la periferia leningradese, in compagnia dei poeti “del sottosuolo”. Sono versi che compongono un originale diario lirico, appunti documentaristici. Si descrivono fatti a prima vista prosaici, banali, ma che in realtà si tramutano in arte, tanto raffinata e soave è la vista del poeta. Si può parlare di un racconto che esplode con metafore inattese:
Oggi tutta la sera starò a casa,
E la paglia del sole
Avvamperà sulle ciglia.
Poi volterò l’ultima pagina
E mi caccerò sotto la coperta,
Affinché la nonna nella stanza accanto taccia sino al mattino
La nonna guarda le mie narici con gli occhietti di mercurio,
Ha portato su un piattino una codina di topo.
Ma in camera sono solo.
Il duello di mani e piedi,
Quando mi alzo.
Attraverso il bicchierino-vetro guardo la strada.
È inconsueta la visuale del poeta, che tramuta la Leningrado degli anni Ottanta in uno spazio vibrante, dove si confondono la realtà, i sogni, le visioni (2):
Sonnecchia la città, avvolta nel giornale del mezzogiorno…
La Neva, come una vena,
Respira,
Mi sente,
E mi sembra di stare sul tetto del Pamir…
Mi sveglio –
Si spalancano i mille occhi di una libellula,
Mille violette si aprono in mille pupille,
E sopra di esse – il manto celeste.
Sono versi naturali come il respiro, a scatti, nervosi. Versi liberi con la sintassi della prosa, con la rima facoltativa.
Michail Šejnker (3) parla di una forte eccitazione intellettuale e creativa, che si è manifestata in Filippov sotto forma di persistente contrapposizione alla vita quotidiana. Preferendo alla normalità prosaica il mondo delle passioni poetiche, egli ha compiuto una scelta tragica, che l’ha certamente condannato alla sventura, ma che gli ha anche concesso di realizzarsi appieno nella sfera letteraria. Si può presupporre una “forte febbre creativa”, connessa tanto al manifestarsi del talento poetico, quanto all’insorgere della malattia.
Il procedimento sicuramente più originale di Filippov consiste nell’accostare, attraverso il trattino, parole appartenenti a sfere diverse (parole apposizioni):
Domani lei ricamerà merletti-parole,
Passerà l’arancio-mano sui miei capelli…
Sulle strade volano le mosche – gli egizi,
Nelle case le api – gli assiri…
Alla finestra la primavera-vespa
Punge col calore…
Si muovono i vermi-parole nel crisantemo della mano.
La Fanciulla sfoglia i versi.
In questo si vede la rifrazione di un mondo nell’altro, che si realizza non nel tempo, ma nello spazio, come l’intersezione geometrica di superfici. Si può parlare di una somiglianza tra il mondo paradossale di Filippov e il Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll. (4) In entrambi gli autori lo sdoppiamento non porta alla frattura, all’incubo, in quanto si compie in superficie, al livello della lingua, senza sfiorare la disgregazione di coscienza e corpo.
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Note
1) V. Šubinskij, “Stichotvorenija Vasilija Filippova” [Le poesie di Vasilij Filippov], in “Novaja russkaja kniga”, n. 6, 2001.
2) A. Urickij, “Peterburgskie sny” [Sogni pietroburghesi], in “Znamja”, n. 1, 1999.
3) M. Šejnker, “Neskol’ko slov o Vasilii Filippove” [Qualche parola su Vasilij Filippov], introduzione al volume Izbrannye stichotvorenija, [Poesie scelte], Moskva 2002.
4) M. Bondarenko, “Čtoby kniga stala telom” [Affinché il libro diventi corpo], in “Znamja”, n. 8, 2001
La casa di Irina Aleksandrovna a Rževka (1)
Irina Aleksandrovna taglia prudentemente con le forbici
I delfini azzurri.
La sua casa assomiglia a una clinica.
E l’iris azzurro.
Il suo petalo è picchiettato, assomiglia a un ideogramma-pantera.
E ai tre gatti non bastano i topi per pranzo.
La sua casa è la casa di Pljuškin. (2)
La desolazione si riflette negli specchi e nelle enormi icone.
Nel verde incolto, che circonda la casa, avverto una piacevole stranezza,
Quasi io fossi appena uscito dalla nebbia londinese
E fossi capitato in paradiso, dove i gatti cantano “Osanna”,
E accanto la casa di Kolja Vasin è Cana. (3)
Irina Aleksandrovna siede a tavola.
Il tè indiano le sta davanti.
Lei parla finemente
Della veduta che si apre alle finestre.
E i delfini ormai sulla tavola
Stanno al caldo.
Assomigliano ad animali –
I fiori,
Come conchiglie di madreperla.
E il gatto Bottone in cucina
Mangia il pesce.
Lui e Irina Aleksandrovna si vogliono bene,
Il cavalletto aspetta il gatto.
Irina Aleksandrovna dice che ha paura per me,
E abbassa le ciglia.
Il suo ricevimento si protrae
Nella seconda capitale russa.
“Meglio se non scrivete nulla, – dice lei
E mi versa del vino, –
Piuttosto pregate Dio,
Annusate l’iris, senza accostarvi alla stanza nuziale.
Meglio la via che passa per la cruna dell’ago.”
Noi parliamo.
I gatti cominciano a evitarci
Dopo un’ora.
Il delfino nel vaso non si è ancora spento,
E l’iris si apre per un’ora,
Un’ora di soave conversazione.
Nello specchio si riflette la mia schiena,
E sembra che tra un uomo e una donna non ci sarà mai la guerra,
Perché la camera della conversazione
È addobbata con fiori vivi.
E per il vino
I fiori e i gatti
Si sono mescolati nei nostri occhi.
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1) Località nei pressi di San Pietroburgo.
2) Personaggio de Le anime Morte (1842) di Nikolaj Gogol’. Rappresenta l’avidità e la tirchieria.
3) Nikolaj (Kolja) Vasin (1945), fan russo dei Beatles, che fin dagli anni Sessanta cominciò a predisporre una ricca collezione legata al gruppo di Liverpool.
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Vasilij Filippov
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Una coppa
Di che cosa parlare, se è stato detto tutto.
Di che cosa, se la coppa è vuota,
Un tempo colma di vino,
Dorata.
***
La camerata
Sentire i lugubri fischi delle ambulanze.
Vivere in una selva umana.
Una statua intelligente guarda una lampadina.
In manicomio c’è silenzio.
Leggo Plotino,
Vivo col terrore gnostico –
L’autobus sulla strada per l’ospedale psichiatrico.
***
Ricordare poco
Ricordare poco
Le vetrate di luce e i tetti sotto il sole di mezzogiorno.
Il piano superiore. La finestra
È spalancata. E non c’è nessuno.
Magari si incontrasse la creatura tanto cercata.
***
Sonno
Dormire e guardare il mondo del sonno
Con gli occhi ben spalancati.
Ecco si vede una chiesa
Con tre cupole.
***
Ecco sono nuovamente solo.
Ciò che è stato nella giornata – è come non fosse stato.
Quanti volti hanno sorriso, riso e cantato nelle ore diurne,
Sembra perfino di aver visto un angelo alla svolta della strada.
***
Una stella
Ho attraversato il fiumicello dei morti, forse dei vivi
E a lungo ho cercato una traccia.
La sabbia marina, ma il mare aveva cancellato tutto.
Solo una sigaretta “Vega” marcisce nell’erba.
***
Il cinguettio degli uccelli non mi ha colmato
Oltre le pareti, alla finestra.
Qui invece l’appartamento a forma di trapezio
È colmato dalla brocca – sonno.
***
Il cancello del recinto ripete esattamente il fregio dell’acqua.
Un’enorme pupilla nera è la macchia di petrolio.
La spazzatura. Un camion. L’edificio
È una vecchia dacia,
Dove le finestre brillano al sole.
***
Quasi non fossi stato in una casa vuota,
Dove aleggia l’odore di medicine e vernice,
Ma un pensiero mi tormenta,
Che tornerò là tra due settimane, e sussurra: “Voltati”.
Me n’andrò nella palude, dove la salvezza
È dissolta dall’orizzonte.
***
Una passeggiata
Solo orologi, semafori a tutti gli incroci.
Balenerà il verde e si potrà passare
In questi cortili, ricoperti di calce,
In questi cortili, da cui poi non si andrà via.
Passeggiando a lungo su un viale polveroso,
Cerchi una panchina e un giardinetto, dove fumare.
Le pareti si stringono al volto.
Si dipana la memoria-filo.
***
Una farfalla
Guardo il cielo. Gli occhi si dischiudono,
Come due dalie.
Forse è colpa del movimento di una nuvola,
Che spinge il bulbo oculare verso la radice del naso,
Dove si è posata una farfalla.
Non spaventarla, non spaventare il cielo!
***
Nella stanza, che sa di alloggio,
Gli anniversari sono
I banchetti funebri, i funerali. I soldati
Guardano dalle pareti, dalle fotografie.
E l’acqua del corpo nel letto.
***
L’odore del fieno di agosto solletica le narici-ninfee.
Sulla finestra gli orci di latte.
L’odore dei viveri dello spaccio rurale è diffuso sull’orizzonte.
E gli ombrelli degli abeti
Sui funghi – la gente di città.
***
Ieri sono stato da Asja L’vovna.
L’ho incontrata per la strada.
Asja L’vovna ha agitato una mano – rametto di lillà,
“Vasilij!” – ha urlato.
Asja L’vovna mi ha dato ciò che aveva promesso, –
Marina Cvetaeva con la copertina-camicetta
Per una notte.
Asja L’vovna mi ha dato il caffè e mi ha messo a letto
A dormire.
Asja L’vovna ha anche scelto le poesie migliori
E mi ha chiesto di scrivere una dedica.
Sedeva con le gambe piegate sotto di sé,
Dondolando la testa a tempo, come un cobra.
Sul volto fioriva il crisantemo di un sorriso,
E la mia coscienza era malferma
Dopo il caffè al limone.
Asja L’vovna, entusiasta per i versi, ha applaudito
E mi ha invitato a fare il bis.
Dalle labbra è caduto un iris
E si è appigliato al mento-cornicione.
Il suo cane Jolie, simile a una pecora, si metteva sulle zampe posteriori,
E mi pareva che fosse Ochapkin (*) travestito.
Jolie afferrava coi denti le nostre gambe, come fossero topi,
Ed echeggiava un ringhio e un ululato indecente.
Jolie è un cane intelligente.
Non lo scaccerai dalla stanza, finché ci sono ospiti,
Neanche col formaggio, neanche con la voce-bastone.
Asja L’vovna mi ha versato il caffè,
Mi ha avvicinato i funghetti, che adoro,
Ha profetizzato una lunga navigazione per me-nave.
Asja L’vovna mi ha avvolto le gambe con uno scialle
E mi ha guardato con un mite sorriso-mestizia.
Poi mi ha condotto in un’altra stanza a dormire
E mi ha sistemato nella Penisola arabica – il deserto-giaciglio.
Mi sono svegliato ormai col buio,
Ricordando la funzione e i lumi sulla croce nel tempio.
Asja L’vovna mi ha accompagnato alla porta,
Le sue labbra bisbigliavano: “Credo nel tuo futuro, Vasilij, ci credo”.
Sono andato a casa con un pegno di amicizia –
La raccolta di versi della Cvetaeva,
L’ho letta sul mètro,
L’ho letta sotto le ruote del tram.
E ora a casa
Bevo un tè –
I rivoli del Lete.