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Due poesie sul topos  “Odisseo a Telemaco” di Iosif Brodskij e Giorgio Linguaglossa. Traduzioni di Giovanni Buttafava e Donata De Bartolomeo. Odisseo è l’uomo che, per primo, fa esperienza della perdita della memoria (un vero e proprio stato di ebbrezza) e, proprio grazie a questa esperienza di perdita, può attraversare il mondo alla ricerca di ciò che ha perduto. È il primo uomo dell’Occidente a dover fare i conti con questo aspetto tipico della psicosi, d’ora in avanti tutti gli uomini saranno segnati da un meccanismo psicotico che agisce all’interno della propria psiche, In Odisseo la perdita di tempo viene a coincidere per la prima volta nella storia europea con la perdita di memoria. Odisseo è il primo umano che fa esperienza della perdita del tempo

josif-brodskij La guerra di Troia è finita Chi ha vinto non ricordo

josif-brodskij: «La guerra di Troia è finita Chi ha vinto non ricordo»

È il tempo la fonte del ritmo (Brodskij)

« Volkov: Quando, riferendoci ad Auden, parlammo della neutralità della voce poetica, allora lei difese questa neutralità…

Brodskij: Ma questa non è affatto una contraddizione. È il tempo la fonte del ritmo. Ricorda quando ho detto che ogni poesia è tempo riorganizzato? E più un poeta è tecnicamente vario, tanto più intimo è il suo contatto col tempo, con la fonte del ritmo. Così Cvetaeva è uno dei poeti più ritmicamente vari, ricchi e generosi. Tuttavia, la “generosità” è una categoria della qualità; e noi cerchiamo di operare solo quantitativamente, non è vero? Il tempo parla all’individuo con voci diverse. Il tempo ha un suo basso, un suo tenore. E un suo falsetto. Semmai, Cvetaeva è il falsetto del tempo, una voce che va oltre la nozione musicale.

Volkov: Così lei pensa che l’eccedenza emotiva di Cvetaeva abbia lo stesso scopo della neutralità di Auden? Cvetaeva raggiunge lo stesso effetto?

Brodskij: Lo stesso, se non maggiore. Secondo me, Cvetaeva, come poeta, per tanti aspetti è più grande di Auden. Quel suo tono tragico… alla fine, il tempo stesso capisce cosa sia. Deve capirlo e farsi sentire. È da qui, da questa funzione del tempo, che è apparsa Cvetaeva.»*

*[L’intervista di Solomon Volkov a Iosif Brodskij “Marina Cvetaeva, Primavera 1980 – Autunno 1990″, è stata pubblicata nella traduzione di Gala Dobrynina da Lietocolle, nel 2016, pp. 400 € 20,00]

Josif Brodskij e Venezia

Odisseo è il primo umano che fa esperienza della perdita del tempo

Il problema del «tempo» che dilata lo «spazio»  è ben visibile nella poesia di Brodskij “Odisseo a Telemaco”, che è tutta costruita su questa immagine:

Eppure la strada che porta
a casa si è rivelata troppo lunga,
come se Poseidone, mentre là
cincischiavamo, dilatasse lo spazio

Il «tempo» che «entra» nella poesia e che modifica e determina la costruzione sintattica e la stessa costruzione fonologica della poesia è una grande invenzione della poesia europea, mai prima del 1972 un poeta europeo aveva immaginato questa possibilità, del «tempo» (interno della poesia) che detta le immagini e lo scorrimento delle immagini (che da esterne diventano interne al testo).

Nella poesia italiana del tardo novecento nessun poeta ha intuito questa possibilità, e si è continuato ad perorare un concetto del «tempo» come di un fattore «esterno», non come di un fattore «interno» della poesia. Il «tempo» è neutrale e naturale, non dipende dalla volontà del poeta, gli è estraneo, gli è indipendente, questa è la grande inventio del topos di Brodskij.

Nella intervista sopra citata, Brodskij affronta proprio questo aspetto: che cosa significa poeticamente il problema della «neutralità» del «tempo» della poesia di un Wistan Hugh Auden e di una Marina Cvetaeva?
Per semplificare, direi che qui si tocca un aspetto centrale della poesia del XX e del XXI secolo, un aspetto attuale, attualissimo.
Brodskij aveva compreso che nella poesia della Cvetaeva il «tempo» modifica la struttura sintattica proprio come la gravità modifica la struttura spazio-temporale. Il problema è la traduzione della poesia cvetaeviana, la più difficile da rendere in altre lingue. E qui faccio un profondo inchino alla capacità di Donata De Bartolomeo di aderire, direi quasi mimeticamente, al russo e di trasportare, nella sua traduzione, per quanto possibile, gli strati di tempo dalla lingua russa a quella italiana. Si tratta di un  difficilissimo trasbordo. La sintassi così deformata modifica a sua volta l’apparato fonetico, il quale a sua volta reagisce modificando, di ritorno, il sistema sintattico. Chi capisce di poesia può comprendere quello che sto dicendo.

In Odisseo la perdita di tempo viene a coincidere per la prima volta nella storia europea con la perdita di memoria. Odisseo è il primo umano che fa esperienza della perdita del tempo. La «voce» del poeta non si situa più all’esterno ma è una «voce» interna al testo, è la «voce» di chi ha preso ragione della perdita di memoria e il cui discorso sorge appunto in ragione di questa perdita, soltanto a questo punto è possibile attingere la «neutralità» della «voce».

Nella mia poesia “Odisseo a Telemaco” ho consentito al «tempo» di fare ingresso nella struttura sintattico-semantica della composizione, e mi sono posto, per così dire, in posizione di terzietà. Il «tempo» introduce sempre della modificazioni nella struttura sintattica di un testo poetico, anche in modo inconsapevole, perché agisce sua sponte.

Nella famosa poesia “Odisseo a Telemaco” Brodskij dà una magistrale esemplificazione di come si possa scrivere una poesia sull’ingresso del tempo nella struttura poetica proprio nel momento in cui il suo personaggio, Odisseo, è colpito dalla perdita della memoria.

josif brodskij

Nel commento di Lacan al saggio La Negazione di Freud, viene messo in evidenza un concetto, la Verwerdung, tradotto con «forclusione». La psicanalisi lacaniana ci  dice che la forclusione è il meccanismo specifico che struttura le psicosi, meccanismo che opera sul significante che permette l’articolazione del simbolico, e, forcludendolo, impedisce che la «cosa» acceda al simbolico, che la «cosa» accada e che, conseguentemente, ritorna nel Reale, meccanismo ben visibile nelle allucinazioni o nei deliri degli psicotici. Gli uomini si possono ritenere fortunati se non incontrano questa realizzazione totale del principio di piacere se non molto raramente, in una condizione analoga a quella degli ubriachi i quali sono persi infinitamente nella loro ebbrezza, nella dimensione col tempo, con lo spazio e con la memoria strettamente correlata al tempo; è proprio grazie a questa perdita totale ciò che può permetterci di immaginarci l’esperienza della Cosa. Infatti, nessuno può ricordare quello che veramente ha  fatto in stato di ebbrezza totale, tutti gli uomini possono però ritornarci per il tramite di altre esperienze, per il tramite del ritorno.

Odisseo è l’uomo che, per primo, fa esperienza della perdita della memoria (un vero e proprio stato di ebbrezza) e, proprio grazie a questa esperienza di perdita, può attraversare il mondo alla ricerca di ciò che ha perduto. È il primo uomo dell’Occidente a dover fare i conti con questo aspetto tipico della psicosi. D’ora in avanti tutti gli uomini saranno segnati da un meccanismo psicotico che agisce all’interno della propria psiche. È un paradosso, ma è così che funzionerà la psiche degli uomini dell’Occidente, i quali grazie alla perdita della Cosa potranno accedere alle «cose», alla felicità consentita delle piccole «cose» del quotidiano. Così, Odisseo potrà fare ritorno nella piccola e brutta isoletta Itaca, presso la sua vecchia moglie Penelope, accanto al figlio che non ha mai più rivisto da quando era nella culla e che è diventato un adulto, un estraneo. È soltanto attraverso il dolore della «perdita» che Odisseo e l’uomo dell’Occidente che verrà, potranno trovare una soluzione conciliativa al proprio conflitto interiore. Nasce l’uomo dell’Occidente che acquisisce capacità rappresentative attraverso l’uso del linguaggio, ma si tratta di un linguaggio che nasce dalla perdita della memoria e dal ritorno.

Affinché la percezione si organizzi intorno alla «rappresentazione» è necessario che il soggetto vi sia introdotto da qualcuno: dalla parola della madre; la funzione materna, quella che dà accesso al simbolico, avviene attraverso l’intervento del linguaggio materno e del trauma che ne segue, questo trauma obbliga il bambino a perdere la cosa, la natura (la zoé  aristotelica), ciò che gli consentirà l’ingresso nel bios, nel corpo, un corpo regolato dalla «rappresentazione». Questo è il passaggio fondamentale e strutturale, il momento in cui si struttura la soggettività umana e sorge la storia. Lacan mette in luce come proprio a questo punto si acceda al simbolico. Da questo momento in poi, da quando entriamo nella Parola perdiamo la Cosa (il soddisfacimento reale). Per dirla con le parole dell’antropologia di Levi-Strauss, per l’essere umano la natura è immediatamente cultura. Non c’è differenza tra natura e cultura, perché in quel momento preciso sorge la soggettività umana e l’umano perde completamente l’animalità, si umanizza; da questo momento in poi non possiamo più tornare indietro, non possiamo più tornare animali: anche la crudeltà umana non ha nulla a che spartire con la ferocia naturale delle fiere. Ecco, questo è l’annuncio del simbolico: la presenza, l’intervento della parola della madre e la perdita dello stato di quiete totale nella inconsapevolezza, struttura il simbolico e dà forma alla condizione della soggettività che entra nella storia.

È inoppugnabile che con Odisseo nasce la soggettività in senso moderno, quindi possiamo affiliare Odisseo tra di noi, come nostro antenato e nostro simile.
Il soggetto, ci dice la psicanalisi lacaniana, è sempre barrato, presenta una frattura strutturale, è alienato ab initio come io (moi) nella sua immagine speculare e come soggetto (je) nella dimensione del significante. Di qui la conseguenza che il negativo (la barratura interna al soggetto che lo attraversa in lungo e in largo) non può mai essere definitivamente eliminato; l’inquietudine di Odisseo non si arresta al livello coscienziale, ma si presenta anche e soprattutto a livello inconscio, in questo luogo sarà abitata da un soggetto anch’esso barrato (con la S/s del significante in posizione di supremazia rispetto al significato); ciò vuol significare che la psicosi che mina dall’interno il soggetto (Odisseo) il quale vuole con la coscienza il ritorno, ma che dis-vuole con l’inconscio, non potrà mai più trovare una soluzione conciliativa. Il significante adesso ha il comando sulla soggettività barrata: ciò che la coscienza comanda, il viaggio, è la peripezia del significante che incide il soggetto barrato (Odisseo); il viaggio apre il soggetto barrato alla storia e lo getta in essa, vuoto e nudo, preda propizia di un significante, di un comando che gli viene dall’inconscio.
Odisseo è il primo umano che ha a che fare con il proprio «fantasma» e che decide di affrontarlo, quel «fantasma» che regola l’universo della sua esperienza. Il soggetto freudiano dell’inconscio emerge soltanto quando un aspetto-chiave dell’(auto)esperienza del soggetto, il suo «fantasma fondamentale», gli diviene inaccessibile, rimosso a un livello primordiale. Ciò è evidente quando  Odisseo ordina ai suoi marinai di legarlo all’albero maestro per non sentire la voce melodiosa del canto delle sirene, una astuzia che gli consentirà di vincere la prova di forza con il suo «fantasma», oltrepassare l’abisso che lo separa dal «fantasma».

Il topos è noto: il mito omerico di Odisseo che si tappa le orecchie con della cera per non udire il canto sinuoso delle sirene e la duplice strategia di Odisseo (per i marinai la cera alle orecchie, per Odisseo la legatura del suo corpo all’albero maestro della nave). Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’illuminismo (1942-1947) leggono il mito omerico di Odisseo che si tappa le orecchie con della cera per non sentire il canto sinuoso delle sirene così: si invita a formulare un giudizio di DUPLICE negazione: non stare né dalla parte di Odisseo né dalla parte dei suoi marinai (la «società borghese» creatrice dell’ideologia dell’illuminismo). Odisseo rappresenta la nascita e l’autoconservazione del soggetto borghese, del Sé ideologico ma anche della struttura di potere vigente nella società contemporanea. Viene descritta un’allegoria particolarmente suggestiva fra il racconto omerico del dodicesimo canto dell’Odissea (il passaggio di Odisseo davanti alla Sirene) e la nascita della civiltà occidentale che, nella modernità, culmina con l’instaurarsi di un controllo e dominio assoluto dell’uomo sulla natura e su una parte del genere umano. Ma è sulla alienazione originaria che si innesta l’alienazione secondaria, quella ideologica costruita dalla abile strategia di Odisseo, l’una non è possibile senza la compartecipazione della alienazione originaria. L’ideologia del dominio dell’Occidente sulla natura e su quella parte del genere umano in posizione subordinata non sarebbe stata possibile senza impiantare l’ideologia tutta politica del dominio sulla cancellazione della coscienza del Sé, della perdita della memoria e della consapevolezza dell’io in capo ai marinai: non udire il canto sinuoso delle Sirene significa per i marinai rinunciare ad ascoltare il linguaggio del ricordo e della corrispondenza con gli altri uomini e la natura. I imarinai ormai dovranno soltanto ascoltare e ubbidire al linguaggio di un uomo solo: Odisseo.

Come ai tempi di Odisseo, anche noi oggi viviamo in un mondo pericoloso e instabile, esattamente come ai tempi di Odisseo e di Agamennone. A quei tempi Odisseo tentò di sottrarsi alla chiamata alle armi di Agamennone fingendosi pazzo, ma poi il trucco di Palamede lo smascherò e l’Acuto fu costretto a partire con una flottiglia di itacensi alla volta di Troia.
Anche oggi noi ci troviamo all’interno di un Grande vortice: la guerra planetaria (dalla guerra di Ucraina a quella nell’Indopacifico); anche noi (la piccola Italia) potremmo tentare di fingerci pazzi, o sciocchi, o inconsapevoli, o inermi, o altro… e chiedere di essere esentati dal partecipare, anche simbolicamente, alla Grande Guerra, e forse ci riusciremmo, tanto siamo piccoli e ininfluenti a livello planetario. Ma poi il vincitore ce la farebbe pagare salato (leggi Tucidide, il discorso degli ambasciatori ateniesi ai melii).
A nulla valse la furbizia di Odisseo per scansare la guerra. La guerra ci fu, e determinò la storia a seguire.
Dentro questo gigantesco sconvolgimento che avrà ripercussioni sulle nostre vite e sulle nostre tasche (che l’Italia partecipi a vario titolo o no), noi siamo costretti a vivere. Nessun italiano di oggi vuole la guerra, tranne qualche pazzo, quindi, in realtà, siamo tutti pacifisti. Certo, sarebbe bello gettare tutte le (poche) armi che abbiamo, sciogliere l’esercito che abbiamo e dichiararci nazione pacifica e pacifista, al pari della Svizzera, ma questo avrebbe poi un costo: il vincitore della guerra di domani ci chiederà il conto, e possiamo essere sicuri che sarà molto salato.
In tutto questo calamitoso frangente, schiere di poeti continueranno a scrivere montagne di poesiole sull’io, sulle sue malizie, sulle sue masserizie e sulle sue nostalgie. Sotteggoalgia poetica di poco, se non di pochissimo conto.

(Giorgio Linguaglossa)

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Iosif Brodskij

Odisseo a Telemaco

Telemaco mio,
la guerra di Troia è finita.
Chi ha vinto non ricordo.
Probabilmente i greci: tanti morti
fuori di casa sanno spargere
i greci solamente. Ma la strada
di casa è risultata troppo lunga.
Dilatava lo spazio Poseidone
mentre laggiù noi perdevamo il tempo.
Non so dove mi trovo, ho innanzi un’isola
brutta, baracche, arbusti, porci e un parco
trasandato e dei sassi e una regina.
Le isole, se viaggi tanto a lungo,
si somigliano tutte, mio Telemaco:
si svia il cervello, contando le onde,
lacrima l’occhio – l’orizzonte è un bruscolo -,
la carne acquatica tura l’udito.
Com’è finita la guerra di Troia
io non so più e non so più la tua età.
Cresci Telemaco. Solo gli Dei
sanno se mai ci rivedremo ancora.
Ma certo non sei più quel pargoletto
davanti al quale io trattenni i buoi.
Vivremmo insieme, senza Palamede.
Ma forse ha fatto bene: senza me
dai tormenti di Edipo tu sei libero,
e sono puri i tuoi sogni, Telemaco.

(traduzione di Giovanni Buttafava)

Odisseo a Telemaco

Mio Telemaco,
la guerra di Troia
è finita. Chi ha vinto – non ricordo.
Saranno stati i greci: solo i greci
possono lasciare tanti morti fuori di casa…
Eppure la strada che porta
a casa si è rivelata troppo lunga,
come se Poseidone, mentre là
cincischiavamo, dilatasse lo spazio.
Non so dove mi trovo,
cosa c’è davanti a me. Una specie di isola sporca,
cespugli, edifici, grugnito di maiali,
un giardino incolto, una specie di regina,
erba e pietre*…Caro Telemaco,
tutte le isole si assomigliano
quando vaghi così a lungo, e il cervello
già si smarrisce, contando le onde,
l’occhio, infestato d’orizzonte, lacrima
e la carne acquosa copre l’udito.
Non ricordo come è finita la guerra
e quanti anni hai adesso, non ricordo.

Cresci grande, Telemaco, cresci.
Solo gli dei sanno se ci vedremo ancora.
Anche adesso non sei lo stesso bambino
dinanzi al quale trattenevo i tori.
Non fosse per Palamede, vivevamo insieme.**
Ma forse ha ragione lui: senza di me
ti sei liberato dalle pulsioni d’Edipo
ed i tuoi sogni, mio Telemaco, sono senza peccato. Continua a leggere

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Iosif Brodskij, Poesia, Odisseo a Telemaco (1972) con Commento di Giorgio Linguaglossa, La città è in quarantena, Il Covid19, Poesie di Gino Rago e Giorgio Linguaglossa, Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa,

Marie Laure Colasson Struttura dissipativa Eruzione

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, acrilico 50×50 su tavola, 2020 – Guardando questo quadro mi è venuta in mente l’idea che si tratti dell’istante del collasso della struttura dissipativa, il momento in cui l’equilibrio termodinamico si incrina e si determina un punto di frattura, una linea di depressione termodinamica del nostro ecosistema. Il vaso di Pandora della nostra civiltà è stato infranto inavvertitamente, ed ora siamo tutti in pericolo di vita, rinchiusi in quarantena. Non sappiamo quanto durerà, non sappiamo chi sopravvivrà.È una situazione esistenziale a cui non eravamo preparati, ma che la Krisis ci fosse e che fosse ad un punto molto avanzato la NOE lo indicava da tempo. Ciò che non può essere detto in parole lo si può però raffigurare con la pittura.

 

Iosif Brodskij

Odisseo a Telemaco

Telemaco mio,

la guerra di Troia è finita.
Chi ha vinto non ricordo.

Probabilmente i greci: tanti morti
fuori di casa sanno spargere

i greci solamente. Ma la strada
di casa è risultata troppo lunga.

Dilatava lo spazio Poseidone
mentre laggiù noi perdevamo il tempo.

Non so dove mi trovo, ho innanzi un’isola
brutta, baracche, arbusti, porci e un parco

trasandato e dei sassi e una regina.
Le isole, se viaggi tanto a lungo,

si somigliano tutte, mio Telemaco:
si svia il cervello, contando le onde,

lacrima l’occhio – l’orizzonte è un bruscolo -,
la carne acquatica tura l’udito.

Com’è finita la guerra di Troia
io non so più e non so più la tua età.

Cresci Telemaco. Solo gli Dei
sanno se mai ci rivedremo ancora.

Ma certo non sei più quel pargoletto
davanti al quale io trattenni i buoi.

Vivremmo insieme, senza Palamede.
Ma forse ha fatto bene: senza me

dai tormenti di Edipo tu sei libero,
e sono puri i tuoi sogni, Telemaco.

(1972, traduzione di Giovanni Buttafava, versione in distici di g.l.)

caro Gino Rago,

colgo in questa straordinaria poesia di Brodskij lo spirito e la consapevolezza di un esule dalla grande patria, un quasi disertore, uno di coloro che si sono ritirati, che non hanno preso parte alla guerra, alla prima grande guerra imperialistica della storia dell’Occidente. E’ una riflessione di altissima profondità e attualità, con quell’accenno al figlio Telemaco liberato dal complesso di Edipo e dalla paura di Edipo. Edipo in quanto responsabile di tutte le guerre. Il padre. Il totem. L’Odisseo di Brodskij ha imparato tanto dalla guerra: che lui è soltanto un figlio di quella cultura che lo ha formato e prodotto. Che siamo tutti figli di quella cultura, nel bene e nel male, che non c’è via di scampo, che non puoi uscire dalla cultura che tu respiri e dalla lingua che parli. L’Odisseo di Brodskij è giunto in prossimità del nichilismo, e del relativismo, anzi, ha attraversato il nichilismo, come soltanto una guerra, un grande bagno di sangue ti può concedere di esperire.
Io leggerei questa poesia-chiave nel segno della nostra cultura di oggi, giunti al Tramonto dell’Occidente, ci volgiamo all’indietro a considerare i nostri progenitori: In primis Odisseo, il nostro progenitore, l’astuto inventore del terribile tranello che porrà fine alla guerra: quel cavallo di Troia, congegno simile alla bomba atomica, per quell’epoca. Brodskij legge, in questa formidabile poesia, la storia a ritroso dal punto di vista di un uomo giunto alla soglia del Tramonto dell’Occidente, un uomo che si rivolge al figlio, che nel frattempo sarà cresciuto e sarà diventato un altro uomo. Questo Odisseo problematico di Brodskij è una poesia-totem, una poesia delle poesie. Una poesia che chiude il ciclo di una civiltà. E chi non lo capisce, mi chiedo che cosa potrà capire mai di questa poesia, così desolatamente profonda e sconfinata. Brodskij non accusa Odisseo, anzi, lo assolve. Come Odisseo libera il giovane Telemaco dalla paura del padre-totem. Così sarà libero, libero di essere uomo di un altro tipo e potrà fondare un nuovo mondo, una nuova umanità.
Una poesia profondissima e amara. Amara per quelle verità che reca con sé.

(Giorgio Linguaglossa)

Gino Rago

Una e-mail dall’Olimpo per Giorgio Linguaglossa

al poeta della “Preghiera per un’ombra”

«So che si trova nella caverna delle vite sospese.
Un nemico senza volto si aggira per le vie.

mentre Lei parla di Odisseo, di Telemaco, di Edipo,

e via cantando di questo passo.

Dal 6 agosto del 1945 dopo Little Boy su Hiroshima
i  vincitori e i vinti di Troia abitano a New York.

Ecuba in cucina prepara marmellate.
Cassandra legge i giornali ogni mattina.

Priamo gioca in borsa, Paride gira con i dreadlock,
porta il cane al Central Park.

Presso i Greci si diffonde un nuovo virus,

Un guerriero travestito da Clitemnestra
sgozza il Re nella vasca da bagno.

Ettore lo incontro ogni giorno  al 10° chilometro della Fifth Avenue,
Andromaca fa acquisti da mille e una notte.

Entra ed esce da una buotique  all’altra.

Astianatte gioca con il pc, è sempre solo in casa.
Mi creda, i miti sono l’inganno dell’Occidente,

Fat Man su Nagasaki ha cambiato il mondo…
Ma per Lei forse i miti sono l’aria.

Chi può vivere senza aria?

Una sciagura ieri a Chicago, tutti morti quelli in volo.
A terra gli agenti della CIA cercano qualcosa

tra i frammenti sull’erba, sui rami degli alberi, sulle pietre.
[…]
A Zbigniew Herbert non importa nulla della scatola nera.
Vuole sapere i pensieri dei piloti, delle hostess, degli steward

e di tutti i passeggeri

Un istante prima del disastro, con un occhio nel quotidiano,
e  l’altro nella immaginazione.

Edipo? Mi creda, è un’altra menzogna.

[…]
Caro Signor Linguaglossa,
Il Suo porte-parole, il Suo alter-ego, Herr Cogito, lo sa,

Zbigniew Herbert non si concentra mai sugli effetti,
Gli interessano le cause dell’ evento,

Tratta tutto come fosse un accidente.
Dice che i sintomi non sono la malattia.

Il commissario del KGB entra nell’atelier di Cogito.

Esamina il corpo di reato.
Una scatola di colori, un cartellone, quattro chiodi,

Una matassa di spago, un barattolo di colla, una risma di carta.
Herr Cogito, Lei costruisce un mondo non dalle molecole o dagli atomi

Ma usando gli scarti, le scorie, i rifiuti.
Non creda ad Ulisse, lasci perdere Telemaco,

troppo gelo sulle parole…»

(inedito, 19/20 marzo 2020)

 

Giorgio Linguaglossa e Alejandra 9 ott 2018

Giorgio Linguaglossa e Alejandra Alfaro Alfieri 2019

Giorgio Linguaglossa

caro Gino Rago,

ricevo quotidianamente messaggi su Messenger con dovizia di Madonne addolorate e altre amenità. Di solito rispondo: «Sì, sono ateo e comunista. Ci sono problemi?».

Stanza n. 47
Il ritorno del Signor Cogito

È mattino. Un gabbiano tinnisce. Il sole impallidisce. Il Covid19 ha colpito ancora.
La città è in quarantena.

La polizia segreta ha rilasciato il Signor Cogito.
Torna a casa il filosofo.

Prende un cappuccino al bar all’angolo di via Gaspare Gozzi,
davanti al muro della Metro B.

Apre la porta. Al quinto piano di via Pietro Giordani 18.
Chiude la porta. A chiave. Tre mandate.

Gira bene la chiave nella serratura, non si sa mai.
Un ladro, un assassino, un portaborse, un leghista…

Si siede in poltrona. Apre il giornale. Sorseggia il caffè.
Legge le notizie del giorno.

Quanti morti? Quanti vivi? Per quanto tempo ancora?
Risponde al telefono.

«Sì, sono ateo e comunista. Ci sono problemi?».

Adesso, può attendere un’epoca migliore.
Sì, c’è sempre la speranza di un’epoca migliore.

Fuori della finestra azzurra un agente della polizia segreta.
Lo sorveglia. Passeggia. Avanti e indietro.

Fuma una sigaretta del monopolio.
Aria di primavera.

Profumo di fiori di gelsomino.

(inedito)

Marie Laure Colasson Struttura dissipativa Eruzione A

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, acrilico 50×50 su tavola, 2020 – I colori hanno dimenticato i colori, sono stati attecchiti dall’oblio dei colori. Le parole hanno dimenticato le parole, sono state attecchite dall’oblio delle parole. Un virus pericolosissimo le sta decimando senza accorgercene. Le parole e i colori sono diventati inabitabili. Siamo stati lentamente invasi dalle «parole piene», dai «colori pieni»; i colori comunicazionali, le parole comunicazionali che troviamo in ogni dove e in tutti i libri di poesia che si stampano oggi e in tutte le installazioni. I colori e le parole sono state infettate da un virus invisibile che le ha decimate, e non ce ne siamo accorti. I colori e le parole non ci guardano più, non ci riguardano più, fuggono via, sono diventate estranee. È diventato problematico finanche dire le cose più semplici. Ricordo che Ingeborg Bachman non riusciva ad entrare in una boucherie e chiedere: «Per favore vorrei un chilo di fettine». Una malattia invisibile e letale sta uccidendo tutte le parole. Soltanto pochissimi poeti, i poeti della nuova ontologia estetica se ne sono accorti e lo gridano, lo scrivono, ma parlano al vento, le persone per bene sono ormai diventate cieche e mute…

Marie Laure Colasson 

Nuit brouillard Eredia tire les rideaux
une porte s’ouvre sur une ombre

Terre sans soleil cendre grise
deux chevaux galopent dans la prairie

L’épicier russe vend des gâteaux en technicholor
des fleurs subtropicals sac-plastique sur l’eau visqueuse

La blanche geisha marche dans la rue
son enfance s’envole sans l’avertir

Pure de toute épuration
Lilith se dénude souveraine

Une voix se brise sur un point d’interrogation
tandis que des musiques barbares flottent

La geisha et Eredia se jettent de la Tour Eiffel
avec l’ombre chevauchent armées de parapluies vers la prairie

Lilith plonge dans son océan et ouvre les fenêtres

*

Notte nebbiosa Eredia tira le tendine
una porta si apre su un’ombra

Terra senza sole cenere grigia
due cavalli galoppano nella prateria

Il droghiere russo vende dolci in technicolor
fiori subtropicali borse di plastica sull’acqua vischiosa

La bianca geisha cammina nella via
la sua infanzia se ne va senza avvertirla

Monda di ogni epurazione
Lilith si denuda sovrana

Una voce si frange su un punto d’interrogazione
mentre musiche barbare ondeggiano

La geisha e Eredia si gettano dalla Torre Eiffel
con l’ombra cavalcano armate di parapiogge verso la prateria

Lilith si tuffa nell’oceano e apre le finestre

(inedito)

Le parole hanno dimenticato le parole, sono state attecchite dall’oblio delle parole. Un virus pericolosissimo le sta decimando senza accorgercene. Le parole e i colori sono diventati inabitabili. Siamo stati lentamente invasi dalle «parole piene», le parole comunicazionali che troviamo in ogni dove e in tutti i libri di poesia che si stampano oggi. Le parole sono state infettate da un virus invisibile che le ha decimate, e non ce ne siamo accorti. Le parole non ci guardano più, non ci riguardano più, fuggono via, sono diventate estranee. È diventato problematico finanche dire le cose più semplici. Ricordo che Ingeborg Bachman non riusciva ad entrare in una boucherie e chiedere: «Per favore vorrei un chilo di fettine». Una malattia invisibile e letale sta uccidendo tutte le parole. Soltanto pochissimi poeti, i poeti della nuova ontologia estetica se ne sono accorti e lo gridano, lo scrivono, ma parlano al vento, le persone sono ormai diventate cieche e mute.
(g.l.)

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Stefania Pavan, saggio su Odissej Telemaku  (Odisseo a Telemaco) di Iosif Brodskij – La guerra di Troia / è terminata. Chi abbia vinto, non lo ricordo).

Testata azzurro intenso

Laboratorio gezim e altri

Realizzazioni grafiche di Lucio Mayoor Tosi

da http://www.collana-lilsi.unifi.it/upload/sub/libro%20pavan/pavan_libro_collana.pdf

Iosif Brodskij

Odisseo a Telemaco

Telemaco mio,
la guerra di Troia è finita.
Chi ha vinto non ricordo.
Probabilmente i greci: tanti morti
fuori di casa sanno spargere
i greci solamente. Ma la strada
di casa è risultata troppo lunga.
Dilatava lo spazio Poseidone
mentre laggiù noi perdevamo il tempo.

Non so dove mi trovo, ho innanzi un’isola
brutta, baracche, arbusti, porci e un parco
trasandato e dei sassi e una regina.
Le isole, se viaggi tanto a lungo,
si somigliano tutte, mio Telemaco:
si svia il cervello, contando le onde,
lacrima l’occhio – l’orizzonte è un bruscolo -,
la carne acquatica tura l’udito.
Com’è finita la guerra di Troia
io non so più e non so più la tua età.

Cresci Telemaco. Solo gli Dei
sanno se mai ci rivedremo ancora.
Ma certo non sei più quel pargoletto
davanti al quale io trattenni i buoi.
Vivremmo insieme, senza Palamede.
Ma forse ha fatto bene: senza me
dai tormenti di Edipo tu sei libero,
e sono puri i tuoi sogni, Telemaco.

(1972, traduzione di Giovanni Buttafava)

ОДИССЕЙ ТЕЛЕМАКУ

Мой Tелемак,
Tроянская война
окончена. Кто победил – не помню.
Должно быть, греки: столько мертвецов
вне дома бросить могут только греки…
И все-таки ведущая домой
дорога оказалась слишком длинной,
как будто Посейдон, пока мы там
теряли время, растянул пространство.

Мне неизвестно, где я нахожусь,
что предо мной. Какой-то грязный остров,
кусты, постройки, хрюканье свиней,
заросший сад, какая-то царица,
трава да камни… Милый Телемак,
все острова похожи друг на друга,
когда так долго странствуешь; и мозг
уже сбивается, считая волны,
глаз, засоренный горизонтом, плачет,
и водяное мясо застит слух.
Не помню я, чем кончилась война,
и сколько лет тебе сейчас, не помню.

Расти большой, мой Телемак, расти.
Лишь боги знают, свидимся ли снова.
Ты и сейчас уже не тот младенец,
перед которым я сдержал быков.
Когда б не Паламед, мы жили вместе.
Но может быть и прав он: без меня
ты от страстей Эдиповых избавлен,
и сны твои, мой Телемак, безгрешны.

Testata azzurra

grafica di Lucio Mayoor Tosi

Questa poesia è stata scritta da Brodskij nel 1972 ed è senza dubbio una di quelle che maggiormente ha attirato l’attenzione dei critici. Ljudmila Zubova ha analizzato con molta attenzione Odissej Telemaku (Odisseo a Telemaco), mettendone in rilievo i numerosissimi riferimenti intertestuali: con altre poesie dello stesso Brodskij e quindi con la sua biografi a, pur evitando interpretazioni semplicistiche; con altri poeti russi; con poeti italiani; quello che invece è restato alquanto nell’ombra, o non è stato sufficientemente messo in luce che dir si voglia, è l’intertesto greco e latino. Questo articolo di Zubova, preziosissimo e denso di suggerimenti, fornisce sin dall’inizio la tesi interpretativa, all’interno della quale viene quindi analizzata la poesia.

La poesia «Odisseo a Telemaco», scritta nel 1972, quando Iosif Brodskij fu costretto ad emigrare, parla dell’esilio come destino e tira le somme dell’esistenza già trascorsa. Zubova prosegue citando le famosissime frasi di Brodskij sul proprio interesse verso il tempo e quello che il tempo fa all’uomo, come metafora di quello che il tempo fa allo spazio e al mondo. In tal senso, aggiungiamo, è logico dedurre che il tempo sopravanza la storia, narrazione di cui gli uomini sentono la necessità per illudersi di comprendere e quindi dominare il tempo.

Irina Koval’ëva, a sua volta, dedica alcune pagine a questa poesia nel saggio209, dove sottolinea la novità e l’importanza dell’intertesto con la poesia di Umberto Saba Lettera e porta un nuovo rimando alla poesia del 1910 di Kavafi s Itaca, utilizzata da Brodskij con inversione del significato dei motivi.

Brodskij ha tradotto Itaca assieme a Šmakov, anzi sarebbe forse meglio dire che Šmakov ha tradotto Kavafi s e che Brodskij ha curato soprattutto la redazione della traduzione quando l’amico era già gravemente malato210. Brodskij ha anche tradotto svariate poesie di Umberto Saba, poeta che ammirava moltissimo, e tra queste anche Lettera. A proposito di Saba, vanno però fatte alcune osservazioni: la poesia di Saba che rimanda più direttamente a Odissej Telemaku è invece e più probabilmente Ulisse che, ad una prima lettura, si presta ad essere interpretata come una metafora della vita, cammino difficilissimo che va sempre e comunque affrontato ed accettato. Si può anche ricordare come Saba, a causa delle leggi razziali del 1938, dovette lasciare Trieste per Roma e quindi per Milano, e ritornò a Trieste solo nel 1948; le origini ebraiche erano tratto comune sia di Brodskij che di Saba e hanno contribuito a rendere ancora più complicato il loro viaggio esistenziale.

Odissej Telemaku è del 1972; Ljudmila Zubova collega la poesia alla certezza dell’emigrazione coatta; Irina Koval’ëva rileva il possibile intertesto con la poesia 1972 god (anno 1972); né l’una né l’altra rilevano che Brodskij ha forse pensato di scrivere questa poesia in forma di lettera come testamento per il figlioletto Andrej, che sarebbe quindi adombrato nella figura di Telemaco. La prima variante della poesia è dei primi mesi del 1972; il poeta la rivede qualche mese dopo, quando è già negli Stati Uniti211. Senza voler entrare nella sfera del privato brodskiano in modo imbarazzante, sono noti l’attaccamento che in quegli anni egli ha nei confronti del primo figlio e il dispiacere perché costui non porta il suo cognome. Soprattutto la seconda parte della poesia, gli otto versi che la concludono, sembrano un lungo e doloroso saluto al figlio che deve abbandonare e che non potrà seguire da vicino né veder crescere: «Расти большой, мой Телемак, расти» (Diventa grande, mio Telemaco, grande), esorta il figlio a crescere, in senso fisico e metaforico; «Лишь боги знают, свидимся ли снова» (Solo gli dei sanno, se ci rivedremo), la nota è accorata e dolente, il dolore trattenuto e non urlato di un padre che forse sarà per sempre separato dal fi glio; «Но может быть и прав он: без меня / ты от страстей Эдиповых избавлен, / и сны твои, мой Телемак, безгрешны» (Forse, egli ha ragione: senza di me / sei preservato dalle passioni di Edipo, / e i tuoi sogni, mio Telemaco, sono innocenti), i riferimenti all’intertesto antico greco, che spiegano chi sia «egli», saranno esaminati più avanti, qui leggiamo solo la speranza, che lenisce il dolore del distacco, che dall’assenza del padre al figlio possa derivare del bene.

Testata viola

grafica di Lucio Mayoor Tosi

Passando all’analisi di Odissej Telemaku, cercando di tenere presente il mondo culturale dei miti classici, va notato come Brodskij scelga il nome Odisseo e non la variante latina Ulisse. Odisseo sarebbe stato generato da Sisifo che, per vendicarsi del furto della propria mandria di bestiame sull’istmo di Corinto da parte di Autolico, ne Odissej Telemaku  sedusse la figlia Anticlea; costei era già sposa di Laerte l’Argivo, padre ufficiale del bambino nato da quell’unione. Appunto le circostanze del concepimento ne spiegano l’astuzia e il soprannome di Ipsipilo, forma maschile di Ipsipile. Ora, Sisifo, nome interpretato dai Greci come ‘molto saggio’, è una variante greca di Tesup, il dio ittita del sole, che si identifica con Atabirio, il dio solare di Rodi cui era sacro il toro. Odisseo significa ‘iroso’ e si riferisce al volto rosso del re sacro. Allo scadere del termine concesso al re sacro, dopo che egli ha regnato per cinquanta mesi lunari come marito della grande sacerdotessa, venivano celebrati i giochi, sia Nemei che Olimpici.

Ulixēs, invece, è la variante latina, parola formata probabilmente da vulnus = ferita e ischia = cosce, con allusione alla cicatrice prodotta da una zampa di cinghiale, che la vecchia nutrice riconosce quando egli torna a Itaca dopo il suo lunghissimo viaggio. Odisseo si è procurato questa ferita alla coscia proprio durante una visita al padre Autolico. Le riflessioni sui nomi Odisseo/Ulisse permettono sia di escludere un ruolo qui dominante della letteratura latina sia di altre narrazioni, più moderne, del viaggio di Ulisse, quali ad esempio quella di Joyce, che Brodskij conosceva molto bene.

Le medesime riflessioni inducono, soprattutto, a prendere le distanze, a considerare con maggiore attenzione e cautela, la tesi invalsa secondo la quale tre precedenti poesie di Brodskij formino, nel loro complesso, il protesto di questa: Ja kak Uliss del 1961, Pis’mo v butylke (La lettera nella bottiglia) del 1964, Proščajte, mademuazel’ Veronika (Addio, mademoiselle Veronica) del 1967213.

La poesia è ancora una volta imitazione di una lettera, scritta da Odisseo al figlio Telemaco; la convenzione poetica, l’esistenza del genere, permette di accettare la mistificazione di una lettera che forse non raggiungerà mai il proprio destinatario. Chi scrive è Odisseo, il primo verso è formato dal normale inizio di una lettera: «Мой Телемак» (Mio Telemaco) e il secondo verso rispetta anche visivamente la composizione di una lettera, poiché esso inizia alla riga successiva e dopo uno spazio lasciato bianco, esattamente dopo la virgola: «Троянская война / окончена. Кто победил – не помню» (La guerra di Troia / è terminata. Chi abbia vinto, non lo ricordo). Odisseo, colui che ha escogitato lo stratagemma che ha posto fine alla guerra di Troia, non ricorda chi sia stato il vinto e chi il vincitore. Questi versi, apparentemente assurdi, sottolineano il lunghissimo lasso di tempo già intercorso dalla fine della guerra, da quando la nave di Odisseo ha lasciato le coste di quella Tracia dove la tradizione colloca l’antica città di Troia; il viaggio durò dieci lunghissimi anni, inaccettabili e incomprensibili a guardare la distanza relativamente breve che separava la città dall’isola di Itaca.

Testata polittico

alcuni poeti della NOE, grafica di Lucio Mayoor Tosi

A proposito del viaggio di Odisseo, della sua durata e del ritorno, Zubova osserva che:

Il ritorno di Odisseo, secondo l’antico sistema mitosimbolico corrisponde alla vittoria sulla morte, alla resurrezione, al ritorno dal mondo dei morti. Il «vello d’oro» di Odisseo acquisisce, in tal modo, il senso di vittoria sulla morte, sul naturale principio retrivo, privo di creatività del mondo materiale.

Zubova segue la lezione di Jerzy Farino, da lei citata, dove lo studioso affronta la narrazione del viaggio di Odisseo/Ulisse come motivo che più di ogni altro lega la poesia di Puškin a quella di Mandel’štam; a questa tesi fondamentale lo studioso aggiunge una digressione che prende succintamente in esame anche la poesia di Brodskij, e sottolinea la particolarità per cui il suo è un Odisseo che non fa ritorno a casa.

In realtà, bisogna invece ricordare che il ritorno dal viaggio nel sistema mitopoietico non corrisponde soltanto alla vittoria sulla morte, quanto alla rinascita ad una nuova vita, alla vita di adulto, e in tal senso ci si trova sovente di fronte ad un’azione rituale e non solo ad una narrazione; ancora più importante, il viaggio e il raggiungimento della meta è topos del viaggio dell’anima, del suo peregrinare lungo il cammino impervio della conoscenza. La conoscenza, meta suprema dell’uomo, isola irraggiungibile: «Pàntes ànthropoi toù eidenai orégontai phýsei» (Tutti gli uomini tendono per natura al sapere).

La poesia, come già osservato, si apre con i primi due versi che, anche graficamente, ricordano una lettera e, soprattutto, una lettera molto personale, familiare, che inizia con quell’aggettivo possessivo «мой» (mio) denso di amore. È vero, come sostiene Zubova, che l’uso dell’aggettivo possessivo prima del nome proprio non pertiene alla norma del vocativo russo e denota quindi un evidente significato di possesso; in questo caso, però, bisogna  ricordare la grande tradizione di epistolé e epistulae nelle letterature greca e latina, persino Dante e Petrarca, che Brodskij conosce molto bene, sono stati autori di Epistulae, scritte in latino in conformità alle leggi della retorica.

Onto brodskij

grafica di Lucio Mayoor Tosi, Brodskij

Odissej Telemaku

I pis’ma (lettere) in Brodskij rappresentano un documento umano, notevole in sé come segno di confessione, che costruisce davanti al lettore il sé del poeta e dell’uomo. Sono un documento poetico per intendere la biografia umana e artistica del poeta; sono una testimonianza artistica di vita spirituale, che modella anche l’immagine dei corrispondenti; sono materia personale che diviene materia di poesia e di riflessione metafisica; sono modello di stile e disciplina classiche.

Odisseo è, comunque, un principe greco, un guerriero che ha partecipato alla lunghissima guerra contro Troia, una guerra che ha sconvolto e interrotto la sua vita e questo evento costituisce il primo argomento della lettera: «Троянская война / окончена. Кто победил – не помню» (La guerra di Troia / è terminata./ Chi ha vinto, non ricordo). Odisseo sa che la guerra è terminata ma, il che ci appare assurdo, non ricorda il nome del vincitore: greci o troiani? La tradizione non ci consegna un Odisseo immemore di chi abbia vinto la guerra estenuante, poiché è stata proprio la sua astuzia ad escogitare lo stratagemma che vi ha posto fine. Si apre un ventaglio di ipotesi.

I due versi possono voler indicare il lunghissimo lasso di tempo già intercorso dal termine della guerra, da quando Odisseo ha lasciato sulla sua nave e assieme ai suoi compagni le coste dell’Asia Minore. Odisseo è stanco e provato dal viaggio che sembra non avere fine, le speranze di un ritorno a Itaca si sono affievolite e il risultato bellico non ha importanza, l’evento non è più tanto significativo da dover essere conservato nella memoria dell’eroe. Opportuno, a questo punto, ricordare che Odisseo è un eroe anomalo nell’epos antico-greco: il suo valore di guerriero, ma soprattutto la sua forza, non sono messi in dubbio, basti ricordare come ha saputo tendere l’arco e quindi sterminare i Proci dopo il ritorno ad Itaca; la sua caratteristica principale è però l’astuzia, non il coraggio e la curiosità intellettuale in lui non coincide propriamente con l’esperienza culturale; l’Iliade non ci tramanda episodi rilevanti sul coraggio di Odisseo, consegna invece alla nostra memoria culturale un eroe dall’astuzia eccezionale, quella stessa astuzia che lo sorregge durante il viaggio di ritorno e gli permette di riacquisire il posto e il ruolo che gli spettano. Non a caso, egli è protetto da Atena e non da Ares. Continua a leggere

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