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UNA POESIA INEDITA di Michele Arcangelo Firinu “L’isola che non c’è” SUL TEMA POESIE SULL’ISOLA DELL’UTOPIA O IL NON-LUOGO con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Sergio Michilini, L'ISOLA DEI VIVI, 1995, olio su tela

Sergio Michilini, L’ISOLA DEI VIVI, 1995, olio su tela

 L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene e τóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ (non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).

Michele Arcangelo Firinu

Michele Arcangelo Firinu

Michele Arcangelo Firinu è sardo di Santulussurgiu, nato nel 1945, e vive a Roma. Ha insegnato Lettere nella Scuola Media fino alla pensione. Nel 1974 ha collaborato con Bruno Corà alla realizzazione della gigantesca Mostra d’arte Contemporanea a Roma. Negli anni ’80, a Milano, è stato redattore del periodico letterario il bagordo. Negli stessi anni, con il gruppo Orfeo80, è stato tra i promotori di alcuni tra i primi laboratori di scrittura creativa in Italia. Come titolare della Oximoria (piccola casa editrice, estinta con il bagordo, che editava) ha curato due piccole collane di narrativa e poesia, tra le quali la collanina Taschino e ha collaborato all’uscita del catalogo antologico di poeti Centodue (’86). Ha prefato e ha curato l’editing di alcuni libri di narrativa della editrice Polistampa Pagliai di Firenze. Nella seconda metà degli anni ’90 ha presieduto a Roma l’associazione culturale CEPAA – Teatro del Centro. Ha organizzato e curato svariate attività culturali, convegni, mostre d’arte, concerti di musica classica ed operistica, rassegne teatrali, corsi di università popolare, conferenze, rassegne e letture pubbliche di letteratura. Nel 2008 a Santulussurgiu ha diretto A libro aperto, uno degli 8 festival letterari della Sardegna.

Ha pubblicato poesie su il bagordo, l’Avanti, Poiesis, il giornale nazionale COBAS dei Comitati di base della scuola e divulgato mediante letture in circoli, radio e su Internet. Un unico suo librino è dato alle stampe: Luminescenze, con sette disegni di Luigi Dragoni, il 174 della Collana dei Numeri, Editrice Signum d’arte diretta dal pittore Claudio Granaroli, michelearcangelo.firinu@fastwebnet.it

michele pierpaoli untitled

michele pierpaoli untitled

 Commento di Giorgio Linguaglossa

 Heidegger con la sua riflessione sull’«oblio dell’essere» ha avuto una influenza non positiva sulla poesia italiana del Novecento, ben pochi tra i poeti hanno letto le pagine di Essere e tempo. Il problema è un altro: la dismetria e la distassia che il Novecento ha lasciato in eredità alla poesia italiana: la positivizzazione, la sproblematizzazione dei linguaggi poetici novecenteschi, che sono sortiti fuori come funghi, come ingessati, febbricitanti, privatizzati, ionizzati da un massiccio bambardamento di talqualismo e di chatpoetry. Ci sono per fortuna numerose eccezioni: il grande vecchio Alfredo De Palchi, e poi Roberto Bertoldo, Luigi Manzi, Anna Ventura, Annamaria De Pietro e tanti altri che non posso nominare.

 C’è una «domanda fondamentale» che muove la poesia. È la domanda che interroga la Crisi. Che cos’è la Crisi? (vedi il mio commento alla poesia di Mauro Ferrari); direi che è la modalità con cui si manifesta dinanzi a noi la difficoltà di porre la «domanda fondamentale», quella domanda che consente di aprire il campo di indagine mediante la scoperta di altre domande nascoste, soggiacenti, che stanno sotto il tegumento dei discorsi a vanvera del positivismo di questi anni. La poesia contemporanea è «la pista di pattinaggio del post-contemporaneo», una superficie piatta, unidimensionale dove tutte le scritture poetiche si assomigliano, sono interscambiabili, non delimitano un «oggetto», sono orfane, prive di «tradizione», non hanno nulla dietro di sé e, davanti, si estende la pista di pattinaggio dell’«ignoto», sono delle zattere che vanno alla deriva delle correnti del mare dell’«ignoto», senza un progetto, una idea di poetica, una idea dell’oggetto da rappresentare.

 Nel mio ultimo libro di critica (Dopo il Novecento) ho chiamato questa situazione della poesia contemporanea italiana «La partenza degli argonauti» riferendomi alla mitica partenza degli argonauti alla ricerca del vello d’oro. Leggendo la poesia contemporanea ho sempre la sensazione  di una partenza di massa verso il traguardo del successo e della visibilità. In questa analisi della poesia contemporanea ho sempre avuto la netta sensazione della scomparsa della «domanda fondamentale»: perché si scrive poesia, e per chi?; in assenza di questa domanda preliminare oggi si scrive poesia in base ad una pulsione corporale, ad un bisogno personale, ad un calcolo di visibilità, certo psicologicamente comprensibile, ma che non può dar luogo che a risultati irrilevanti. Spesso si ciarla di dimensione etica dell’estetica proprio da parte di chi insegue lo stesso obiettivo perseguito dalla razionalità del mercato e dell’etica monetaria: il successo e la visibilità. Si scrivono i libri di poesia come si scrivono i romanzi: si tende al successo, se non delle vendite almeno a quello della vetrina della visibilità.

Sì, la «domanda fondamentale» può anche scomparire per intere epoche, per decenni o per secoli se qualcuno non la ripesca dal mare dell’oblio: Mnemosine (la memoria) non è la madre delle Muse?, e la poesia non è un prodotto delle Muse?; la poesia ha, secondo me, il compito di porre delle «domande», altrimenti è ciarla, chiacchiera da bar dello sport o spot televisivo. Credo che questo inedito risalente agli anni Novanta di Michele Firinu risponda al quesito: è la cronistoria del suo rapporto con i figli e la vita nel linguaggio onirico della poesia.

Philippe Calandre, Utopie 2, 2013, stampa su foglio di alluminio e a getto di inchiostro, inquadrata con scatola americana

Philippe Calandre, Utopie 2, 2013, stampa su foglio di alluminio e a getto di inchiostro, inquadrata con scatola americana

L’isola che non c’è

Da queste altezze, su cui smeriglia il vento
e plana, tra le centauree horride, il grifone,
contemplo due pizzichi di sabbia,
ora nei piccoli pugni delle figlie,
che li disperdono
dove garrisce l’onda – frammezzo:
impalpabili ceneri della mia pira –
“Ecco – mi dico – saran duecento grani…
mille… duemila, ancora,
barbari gli anni della transizione…
e poi, felicemente:
l’uomo che si riverbera nel sole”.

Per voi, uomini di marzapane,
giunti al futuro come su una torta,
la barca dell’amore prende il vento,
carica di cornucopie,
pesca perle nel sole, e ride, gioca,
quando s’accuccia all’opra nella chiostra
dei chiari scogli,
avori e sogni
negli smeraldi mari
del quotidiano.

Morremo, ma senza mai tradire i nostri sogni,
fino ad un’ora nostra, azzurra, confidando
negli atomi che rimpastano elementi
ed energie fulgenti nelle luci
acquerellanti i varchi
delle altrui aurore.

Morremo, ma in vela verso il vostro
porto lontano,
inarresi agli squali ed ai violenti
Eoli corsari,
aguzzando i progetti ed i ricami
di faticose rotte,
come il vento che aggiusta
le barchane di sabbia
e aguglia nuove piste sui deserti.
Questo vi lasceremo, figli:
mappe, tesori
dei nostri sbagli.

Cerco di immaginarti,
e ti comparo,
uomo completo, fior di meraviglia,
con quel poco
di buono, in noi, che ti somiglia.
Ma ahi com’è lontana
cotesta spiaggia,
la tua città-campagna,
questo fraterno crogiolo variegato
di essenze, di pacati bisogni, e così pingue
di solerti adesioni all’allegrezza
del panificare.
Miserere di noi
che nei caini giorni, nelle città arruffate,
frusciavam tra gli orrori
a procacciarlo,
a prezzo delle gibbose vite,
il mal diviso, il male
accaparrato, e invelenito pane.

E cosa ne farai dei mondi
spirituali, libera luna,
quando infiocchetterai di raggi la verzura
che ne contorna e infiora le future
volumetrie civili, orgoniche:
e saran prismi, bomboniere invetriate
in cui la luce, liquida,
va sfaccettando
rapsodie per gli iridi, e tepori
sulle fraturnie.
E non avran più nulla che li spauri
se non qualch’eco, forse, attutita,
dalle nostre macerie,
questo raspare e guaiolare,
sommesso, dei nostri versi
nel nostro fango rabbuiato, con insistenza,
verso una fessura, verso una luce,
e fin oltre
l’ultimo rantolo.

Voi che rappezzerete strappi, nostri
su cieli ragguardevoli
e non avran buriane d’immaginari
e spaventevoli riciclature, mostri
dai ventri oscuri delle caverne
che ci covarono; e fummo
granaglie sbriciolate e sparse a inesistenze
che mai ci intesero, come non intendemmo
i fini, aurei, che c’intonavano
mantra in MS-DOS
e, da elevate antenne, BIP,
textures di nihil
sugli svociati echi ribattenti
a nitriti di nihil. Qui disperati,
e allegri, di pena in pena
rampicavamo al nuovo
lontanare di albeggio. E ritti,
sul crinale dei secoli,
una corale tremula intonammo,
a ciglio asciutto, e aperto,
sull’horror vacui.

(inedito, 1990)

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