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Antologia della poesia italiana contemporanea a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016, pp. 352 € 18) Commento di Donatella Bisutti – Selezione di poesie di Alfredo de Palchi, Antonella Zagaroli, Maria Rosaria Madonna, Ubaldo de Robertis, Renato Minore, Anna Ventura, Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, Giuseppe Talia, Stefanie Golisch

Fiera del Libro MilanoDidascalia della presentazione della Antologia avvenuta alla Fiera del Libro di Milano-Rho il 20 aprile 2017: “La «nuova poesia» del nuovo secolo si muove al di fuori dei modelli e dei canoni del Novecento e si presenta come disseminazione delle forme estetiche”
 Immagine rappresentativa dell’evento della Fiera del Libro di Milano-Rho

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http://www.progettocultura.it/735-antologia-della-poesia-contemporanea-come-e-finita-la-guerra-di-troia-non-ricordo.html

Lettura di Donatella Bisutti

Un’antologia  che si propone  uno scopo ambizioso: quello di  dare atto  e insieme di indicare una svolta, di voltare una pagina per aprirne un’altra, nuova,  come a suo tempo, nel Novecento che abbiamo alle spalle ma che ci  influenza ancora pesantemente avendo posto le premesse del nostro presente,  hanno fatto antologie come quella dei Novissimi (1961), di Alfredo Giuliani che all’inizio degli anni Sessanta pose le basi della Neoavanguardia, o quella di Giancarlo Majorino, Poesia e Realtà (1977), che usci alla fine degli anni 70 dando  alla poesia una nuova angolazione storica e politica, o  La Parola Innamorata di Giancarlo Pontiggia e De Mauro, uscita a  solo anno di distanza (1978) ma che rovesciò la situazione proponendo contro la neoavanguardia una poesia  nella linea simbolista lirica orfica.

Direi che dopo di allora non è più esistita un’antologia “storica”  dato che non mi risulta , benché in questi anni siano uscite numerose antologie che di fatto si potrebbero definire “minimaliste”, che ci sia stata un’antologia che per esempio si sia posta come il manifesto del minimalismo. Ora io credo che questa antologia curata da Giorgio Linguaglossa appartenga a questa famiglia di antologie  contrastanti nei contenuti e negli intenti ma volte a dare atto e al tempo stesso a segnalare, o anche imporre, o cercare di imporre, una poetica, una nuova visione della poesia, e soprattutto del fare poesia. Sia cioè quella che vorrei chiamare un’antologia di intenti. Linguaglossa è, come tutti sappiamo un  fine critico e un critico militante attivissimo  e molto seguito sulla rivista-blog L’Ombra delle  Parole. Credo che questa antologia da lui curata condensi  e porti a compimento  – compimento provvisorio beninteso dato che ci muoviamo nel flusso del divenire e tutto può solo essere un work in progress –  un suo lavoro critico che dura ormai da anni. Dopo aver redatto Il Manifesto della Nuova Poesia Metafisica nel 1995 e aver pubblicato nel 2010 il saggio critico La nuova poesia modernista italiana, in cui registra la crisi irreversibile dello sperimentalismo e si interroga sulle possibilità di un nuovo linguaggio poetico, a partire dalle contraddizioni non risolte delle poetiche lasciateci in eredità dall’ultimo Novecento.

Roberto Bertoldo Annamaria De Pietro

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Così questa antologia vuole porsi come una sorta di atto di nascita  di una nuova poesia che Linguaglossa definisce ontologica e cioè che vuole avere  a che fare con il senso della realtà e dell’Essere, ispirandosi alla “rivendicazione della portata ontologica dell’arte e della poesia” enunciata da Vattimo nel suo Poesia e Ontologia del 1967 e riproposto nel 1985. Di questa nuova poesia  Linguaglossa, nel suo saggio introduttivo, ci dà i parametri. E quali sono questi parametri? Si tratta prima di tutto di un ‘antologia che intende spazzare via gli ormai  pochi e  stanchi residui dello sperimentalismo ma anche il “canone” del cosiddetto minimalismo  che  in questi anni ha  condizionato la nostra poesia. Altrettanto dicasi  per quanto riguarda la poesia lirica, confessionale, romantica, di contenuto sociale e civile.  Cosa resta allora?  Diciamo che, a differenza di ciò che accadeva con lo sperimentalismo, resta apparentemente intatta la struttura del linguaggio, ma in una diversa dimensione. Una dimensione in cui la metrica diventa  “ametrica”, il peso della parola cambia, diventa quello di  “un’entità variabile”, di “un’entità temporale” come l’ha definita Linguaglossa,  la punteggiatura  acquista un valore  assoluto e diverso, in cui per esempio il punto si sostituisce alla virgola creando una diversa articolazione della frase, una diversa sintassi.

Diciamo che si tratta di una destrutturazione non più lessicale e sintattica ma mentale, a livello di  quel processo mentale o vorrei usare di  quel big bang  mentale  da cui  ha inizio la visione, l’immagine  e  che dovrà successivamente trasformarsi in parola. Resta anche il soggetto, ma non più  come attore quanto soprattutto come osservatore, come punto di vista, come punto prospettico e quindi in qualche modo spersonalizzato. Il discorso poetico diventa così il luogo in cui, lacanianamente, il soggetto si annulla.

Diciamo che di questa antologia intesa come manifesto di una nuova poesia che ha le sue prime radici nel postmoderno, ma vuole anche superarlo verso una poesia nuova e ulteriore, è più facile dire prima di tutto ciò che non è, facendo nostro il montaliano “ciò che non siamo ciò che non vogliamo“.

Ma se approfondiamo l’indagine,  non tenendo conto solo dell’analisi critica di Linguaglossa ma anche dei testi proposti,  ecco che la “consegna del testimone di  ‘eredità infranta’”, per riprendere  sempre le parole di Linguaglossa, fa apparire i lineamenti di una nuova poesia possibile, ancorata a quello che Roberto Bertoldo ha definito come “nullismo” di contro al nichilismo, e che vuole essere, se ben capisco , soprattutto una presa di consapevolezza della necessità di sostituire le fondamenta della nostra visione del mondo  ormai crollate per via della scienza della Storia dell’economia dello svaporare di un mondo  che finora si reggeva sul potere di  stati nazionalisti, sulla religione e su un modello di cultura borghese basata su canoni etici  e cognitivi che si pretendevano assoluti. Consapevolezza che lo svanire di tutto questo sta lasciando posto, a velocità sempre più impressionante, a una nuova concezione del mondo, a un nuovo rapporto con la conoscenza, la morale, il tempo, che ancora non ci è per niente chiaro, genera anzi uno stato di ansia e di confusione. Ma genera anche nuove forme d’arte. 

Ed è sicuramente una poesia  dove ha un ruolo essenziale  e centrale, determinante e assoluto l’immagine e per questo ha una grande consonanza con le arti visive. Non solo la grande lezione di Tarkovskij, ma anche un film come il recentissimo di Ozpetek intitolato Rosso Istanbul, ma  anche Memento di Christopher Nolan  del 2000, con la sua frammentazione, la sua mancanza di certezze, il suo senso di disorientamento – o Inception, dello stesso regista, in cui la percezione diventa illusoria, o 21 grammi del regista messicano  Alejandro Gonzales Inarritu che ebbe l’Oscar nel 2004 e fu girato con tecniche particolari. Contraddizioni, instabilità, frammentazione sono veicolate attraverso l’immagine piuttosto che attraverso la trama. Io credo che la nuova  poesia ontologica debba qualcosa all’elaborazione di immagini virtuali.

Mario Gabriele, Antonio Sagredo

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Laboratorio Pubblico di poesia del 1 febbraio 2017 presso la Libreria L’Altracittà, Roma, via Pavia, 106 – Riassunto degli interventi di Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Donatella Costantina Giancaspero, Gino Rago e Salvatore Martino

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Intervento di Steven Grieco Rathgeb

Il poeta ha avuto un’idea per una poesia. Ha annotato delle immagini, ha formulato dei concetti. Insieme questi, chiamiamoli “segmenti”, allo stato iniziale racchiudono il grumo poetico primordiale, la ‘ispirazione’, che il poeta intende elaborare e far diventare una poesia, un’opera.

Secondo Andreij Tarkovskij, nel cinema l’inquadratura è un “segmento colmo di tempo”. E dice anche: “la consistenza del tempo che scorre nella inquadratura, si può chiamare pressione del tempo nell’inquadratura.”

Quando rifletto su queste parole, immagino di tenere in mano un recipiente pieno d’acqua. Bisogna fare attenzione che l’acqua non trabocchi. Ecco, pensiamo ad un’immagine nello stesso modo: come se  questa fosse una cosa reale, vivente. E diciamo che sull’acqua, dentro l’acqua, stanno succedendo cose: c’è movimento: qualcuno sta camminando, le fronde di un albero si muovono nel vento.  “Nel puro cerchio un’immagine ride.” (Perdonate la citazione montaliana).

Segmento di tempo, dunque: come nel cinema, così nella poesia. Le immagini di noi poeti sono virtuali, cerebrali, proprio per questo probabilmente le più universali e potenti! (E le più deboli.) E da lì, da quel punto di avvio dell’immagine, così semplice e originario, già inizia anche il senso che l’immagine può avere. E’ inutile “dare” il significato: L’immagine è già in sé significante. Infatti, l’uomo non può non dare un senso alle cose. L’opera poi diventa opera, la poesia diventa poesia, in quanto il poeta-artista segue un criterio di scelta dei segmenti-immagine e segmenti-concetto. Ciascuno con una propria vibrazione interna.

Per continuare la citazione di Tarkovskij: se l’inquadratura è ‘segmento colmo di tempo”,  “Ne consegue che il montaggio  è un metodo di collegamento dei pezzi tenendo conto della pressione di tempo all’interno di essi.”  In poesia, questa pressione vorrei forse chiamarla “densità d’immagine”.

E proprio per questo che il montaggio diventa operazione fondamentale. Per montaggio non intendo la costruzione di un sistema concettuale fatto a tavolino. Essa è l’opera di un esecutore quasi cieco, che svolge questo lavoro seguendo un solo criterio: la visione della poesia che lo ispirò all’inizio.

Montare, smontare, rimontare. Operazione imprescindibile – soprattutto per il poeta contemporaneo, che ha scordato l’antica tradizione orale, e deve “scrivere” la sua poesia. Be’, si dirà, questa operazione la fanno tutti i poeti, da sempre: che c’è di strano? Ma un conto è privilegiare il raggiungimento del  prodotto finito, un altro usare questa operazione di composizione-scomposizione-ricomposizione per far emergere la pregnanza di quel tempo interno cui allude il nostro regista. Quella densità poetica. Che poi è la viva, reale rappresentazione della visione iniziale del poeta. Che differenza c’è fra questi due modi di procedere?

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Dice Tarkovskij: “E dunque come avvertiamo il tempo nell’inquadratura? Questa sensazione particolare sorge laddove, al di là di quello che accade, viene avvertito qualcosa di particolarmente grande e importante, equivalente alla presenza della ‘verità’ nel film. Quando ti rendi conto in modo perfettamente chiaro, che quello che vedi nell’inquadratura non si esaurisce nella successione visuale, ma allude appena a qualcosa che si propaga oltre l’inquadratura, A QUALCOSA CHE CI PERMETTE DI FUORIUSCIRE DAL FILM PER ENTRARE NELLA VITA.”

Io questa la chiamo la visione del poeta. Che sia cineasta, pittore, musicista, è sempre poeta. In questo momento sono tutti poeti: nella loro mente trema la visione, s’increspa l’acqua nel recipiente, emerge il senso potente della verità artistica – solo artistica, nient’altro.

Facendo qualcosa di simile a tutto ciò anche in poesia, determiniamo un vero e proprio spostamento del baricentro interno della poesia. Uno spostamento, se posso dire, ontologico. Non è più questione, del connubio “senso-eufonia” come fine ultimo del poetare, ma cercare le radici del poetare, il punto incredibile che per un attimo collega interiorità interiorità ed esterno, microcosmo e macrocosmo, generando una rappresentazione del mondo.

Dunque, invito il poeta anche a vedere la materia grezza della sua poesia, e il suo stesso senso di autorialità, come una unica seppure molto complessa creatura vivente ( tra l’altro non interamente sua). La poesia in fase compositiva, e la poesia finita, non sono più, come dice un altro regista, Mani Kaul, uno “spazio sacro”, mentre tutto il resto è “spazio profano”. Ora la poesia è minuscolo spazio dicibile, il mondo intorno spazio indicibile. Ma anche: come organismo vivente, essa è un tutto insieme, dicibile e indicibile. LA POESIA È FUORIUSCITA NELLA VITA.

Questo processo segna la fine della lunga strada della decostruzione della poesia del XX secolo. E’ l’apertura dell’opera artistica al mondo. Si arriva, come la musica contemporanea 60 anni fa con Stockhausen, a dire che c’è una assoluta equivalenza tra suono e rumore.

E aggiungo un’altra cosa: la poesia che vuole darsi una valenza sociale, politica, religiosa, filosofica non convince più. La poesia trasmette una sua propria verità artistica, non un’altra. E lì la cosa deve rimanere. Il lettore, in seguito, darà il significato che vuole lui. Può sembrare gratuito, perché poi questi significati, queste suggestioni comunque affiorano nella poesia.

E’ vero. La poesia stessa si aprirà ad un ventaglio infinito di interpretazioni. Indubbiamente. Ma intanto il poeta deve pensare soltanto a rappresentare quella verità artistica, quella specifica persuasione.  In questo modo la poesia, e la disciplina necessaria per rappresentarla, trovando se stesse, si innalzano sopra tutto il resto, sopra tutto quello che nella fase compositiva “sporca” la visione del poeta: e ridonano pienamente la dignità all’opera, quella dignità che i poeti stessi hanno negato alla poesia in questi ultimi 50 anni.

In questo modo si spezza anche il laccio che lega il lettore ad una lettura obbligata della poesia. Il poeta ha trovato la sua piena libertà artistica, così la poesia rende al lettore la sua libertà, che poi non è nient’altro che il semplicissimo ma sfuggente senso dell’opera artistica compiuta. La poesia compiuta.

Completo con una mia poesia del 1976:

Senza Titolo

sorge il sole degli addormentati
inonda di rosso i visi

dalla botola di luce dilaga
un cielo basso incendiandosi

i visi sono serrati in solitudine
le fronti riflettono fiammate di luce
dietro, navigano in sogni illimitati

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Laboratorio, backstage

Letizia Leone

Lettura e interpretazione di una poesia di Gottfried Benn, REQUIEM, dal ciclo “Morgue”, 1912. Una bibliografia.

Requiem

Auf jedem Tisch zwei. Männer und Weiber
kreuzweis. Nah, nackt, und dennoch ohne Qual.
Den Schädel auf. Die Brust entzwei. Die Leiber
gebären nun ihr allerletztes Mal.

Jeder drei Näpfe voll: von Hirn bis Hoden.
Und Gottes Tempel und des Teufels Stall
nun Brust an Brust auf eines Kübels Boden
begrinsen Golgatha und Sündenfall.

Der Rest in Särge. Lauter Neugeburten:
Mannsbeine, Kinderbrust und Haar vom Weib.
Ich sah, von zweien, die dereinst sich hurten,
lag es da, wie aus einem Mutterleib.

*

Due su ogni tavolo. Di traverso tra loro uomini
e donne. Vicini, nudi, eppur senza strazio.
Il cranio aperto. Il petto squarciato. Ora
figliano i corpi un’ultima volta.

Tre catini ricolmi ciascuno: dal cervello ai testicoli.
E il tempio d’Iddio e la stalla del demonio
Ora petto a petto in fondo a un secchio
Ghignano a Golgota e peccato originale.

Il resto giù nelle bare. Tutte nuove nascite:
gambe di uomini, petto di fanciulli e capelli di donna.
Vidi, di due che fornicavano un tempo,
là se ne stava l’avanzo, come sortito da un utero. Continua a leggere

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INVITO al LABORATORIO PUBBLICO GRATUITO di POESIA mercoledì 1 febbraio 2017 presso la libreria L’Altracittà di Roma, via Pavia, 106 – inizio ore 18:00 – termine ore 20:00

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INVITO al LABORATORIO PUBBLICO GRATUITO di POESIA mercoledì 1 febbraio 2017 presso la libreria L’Altracittà di Roma, via Pavia, 106 – inizio ore 18:00 – termine ore 20:00

La «Nuova Poesia» non può che essere il prodotto di un «Nuovo Progetto» o «Nuovo Modello», di un lavoro tra poeti che si fa insieme, nel quale ciascuno può portare un proprio contributo di idee: questa è la finalità del Laboratorio di Poesia che la Redazione della Rivista telematica L’Ombra delle Parole intende raggiungere.
Il primo Incontro/test tenutosi il 29 dicembre scorso ha rafforzato la consapevolezza e l’intenzione di proseguire questa operazione, attraverso letture, confronti e riflessioni. Sarà presente la Redazione.
L’Invito a partecipare è gratuito e rivolto a tutti e tutti saranno i benvenuti. Vi aspettiamo.

Programma di base:

1) Steven Grieco Rathgeb: costruzione e decostruzione dei segmenti di una poesia attraverso le suggestioni del montaggio cinematografico, lettura e commento di un suo testo.

2) Sabino Caronia: Lettura della poesia di Gottfried Benn.

3) Letizia Leone: Esempi pratici e testuali della costruzione nominale, «frammento» e montaggio fascinatorio da un testo di Gottfried Benn.

4) Giorgio Linguaglossa: Lettura e commento del suo testo Chiatta sullo Stige e di due poesie di Maria Rosaria Madonna tratte dalla Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016, p. 352 € 16).

5) Franco Di Carlo: Lettura e commento di Trasumanar e organizzar (1971) di P.P. Pasolini

6) Interventi e Letture del Pubblico.

°°–°°

Ringraziamo L’altra Città per la disponibilità e invitiamo i partecipanti a sostenere la Libreria indipendente con l’acquisto di un libro di loro interesse.

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«Poesia dell’Avvenire»? La nuova poesia ontologica

Qualche tempo fa una riflessione di Steven Grieco Rathgeb mi ha spronato a pensare ad una Poesia dell’Avvenire. Che cosa significa «Poesia dell’Avvenire»? – Direi che non si può rispondere a questa domanda se non facciamo riferimento, anche implicito, alla «Poesia del Passato», e quindi alla «tradizione». Ecco il punto. Non si può pensare ad una «Poesia dell’Avvenire» se non abbiamo in mente un chiaro concetto della «Poesia del Passato», sapendo che non c’è tradizione senza una critica della tradizione, non ci può essere passato senza una severa critica del passato, altrimenti faremmo dell’epigonismo, ci attesteremmo nella linea discendente di una tradizione e la tradizione si estinguerebbe.

«Pensare l’impensato» significa quindi pensare qualcosa che non è stato ancora pensato, qualcosa che mette in discussione tutte le nostre precedenti acquisizioni. Questa credo è la via giusta da percorrere, ci induce a pensare qualcosa che non è stato ancora pensato… Ma che cos’è questo se non un Progetto (non so se grande o piccolo) di «pensare l’impensato», di fratturare il pensato con l’impensato? Ma, mi sorge un dubbio: che idea abbiamo della poesia di oggi? E di quella di ieri? – Come possiamo immaginare la poesia del prossimo Futuro se non tracciamo un quadro chiaro della poesia di Ieri? e di Oggi? Che cosa è stata la storia d’Italia nel primo Novecento e nel secondo Novecento? Che cosa farci con questa storia, cosa portare con noi e cosa abbandonare alle tarme? Quali poeti salvare e quali invece abbandonare? Quale lezione da trarre dal Novecento e da questi anni di Stagnazione spirituale e stilistica?

Sono tutte domande legittime, credo, anzi, doverose.

Dove andare? E Perché?

Se non ci facciamo queste domande non potremo andare da nessuna parte. Tracciare una direzione è già tanto, significa aver sgombrato dal campo le altre direzioni, ma per tracciare una direzione occorre aver pensato su ciò che è stato, e su ciò che siamo diventati.

(g. l.)

Riporto qui una Glossa che avevo scritto a margine della poesia di Mario Gabriele:

Il fatto che la scrittura sia radicalmente seconda, ripetizione della lettera, e non voce originaria che accade in prossimità del senso, occultamento dell’origine più che suo svelamento, innesta costitutivamente nella sua struttura di significazione la differenza, la negatività e la morte; d’altra parte solo quest’assenza apre lo spazio alla libertà del poeta, alla possibilità di un’operazione di inscrizione e di interrogazione che deve «assumere le parole su di sé» e affidarsi al movimento delle tracce, trasformandolo «nell’uomo che scruta perché non si riesce più ad udire la voce nell’immediata vicinanza del giardino». Perduta la speranza di un’esperienza immediata della verità, il poeta si deve affidare al lavoro «fuori del giardino», alla traversata infinita in un deserto senza strade prefissate, senza un fine prestabilito, la cui unica eventualità è la possibilità di scorgere miraggi. Partecipe di un movimento animato da un’assenza, il poeta non solo si troverà così a scrivere in un’assenza, ma a diventare soggetto all’assenza, che «tenta di produrre se stessa nel libro e si perde dicendosi; essa sa di perdersi e di essere perduta e in questa misura resta intatta e inaccessibile». Assenza di luogo quindi, e, soprattutto, assenza dello scrittore. Per Derrida «Scrivere, significa ritrarsi… dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola… lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto» .

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Mariella Colonna TRE POESIE (inedite): Chissà se Goya, Quattro cavalieri, Democrito diceva – Una interessante versione della «Nuova poesia ontologica» – Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

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Mariella Colonna.  Sperimentate le forme plastiche e del colore (pittura, creta, disegno), come scrittrice ha esordito con la raccolta  di poesie Un sasso nell’acqua. Nel 1989 ha vinto il “Premio Italia RAI” con la commedia radiofonica Un contrabbasso in cerca d’amore, musica di Franco Petracchi (con Lucia Poli e Gastone Moschin). Radiodrammi trasmessi da RAI 1: La farfalla azzurra, Quindici parole per un coltello e Il tempo di una stella. Per il IV centenario Fatebenefratelli sull’Isola Tiberina è stata coautrice del testo teatrale La follia di Giovanni (Premio Nazionale “Teatro Sacro a confronto” a Lucca), realizzato e trasmesso da RAI 3 nel 1986 come inchiesta televisiva (regia di Alfredo di Laura). Coautrice del testo e video Costellazioni, gioco dei racconti infiniti in parole e immagini (Ed.Armando/Ist.Luce) presentato, tra gli altri, da Mauro Laeng e Giampiero Gamaleri a Bologna nella Tavola Rotonda “Un nuova editoria per la civiltà del video” ha pubblicato, nella collana “Città immateriale ”Ed.Marcon, Fuga dal Paradiso. Immagine e comunicazione nella Città del futuro (corredato dalle sequenze dell’omonimo film di E.Pasculli), presentato nel 1991 a Bologna da Cesare Stevan e Sebastiano Maffettone nella tavola rotonda sul tema “Verso la città immateriale: nell’era telematica nuovi scenari per la comunicazione”. Nel 2008 ha pubblicato Guerrigliera del sole nella collana “I libri di Emil”, ediz. Odoya. Nell’ottobre 2010 ha pubblicato, con la casa editrice Albatros “Dove Dio ci nasconde”.  Nel febbraio 2011 ha pubblicato, presso la casa editrice. Guida di Napoli “Due cuori per una Regina” / una storia nella Storia, scritto insieme al marito Mario Colonna. Un suo racconto intitolato “Giallo colore dell’anima” è stato pubblicato di recente dall’editore  Giulio Perrone nell’Antologia “Ero una crepa nel muro”; nel 2013 ha pubblicato “L’innocenza del mare”, Europa edizioni; nel 2014 “Paradiso vuol dire giardino”, ed Simple; nel 2016 coautrice con il marito Mario di “Mary Mary, La vita in una favola.”

giorgio-linguaglossa-11-dic-2016-fiera-del-libro-romaCommento impolitico di Giorgio Linguaglossa: «La nuova poesia ontologica»

Nella poesia di Mariella Colonna si verifica lo spostamento del baricentro narrativo, dal tempo cronologico, (fondato sul presente, sull’«hic et nunc», assunto come unica realtà), al tempo simultaneo e compossibile. Si tratta di una scelta non da poco, per un duplice motivo. In primo luogo, per l’intrinseca labilità che sembra avere questa dimensione, testimoniata dalle immagini e dalle espressioni che usiamo tutti i giorni quando parliamo del presente, dicendo, usualmente che esso “passa”, “scorre”, “fugge” o, addirittura, “vola”. In secondo luogo,  per la difficoltà che il pensiero filosofico e scientifico in generale hanno di confrontarsi con l’esperienza fenomenologica immediata e con l’affermazione di «presenza» di una situazione, nonostante il fatto che essa sia di natura pubblica e appaia fondata su una condivisione di esperienza tra tutti i soggetti ‘presenti’ in comunicazione diretta.

Questa difficoltà è ben testimoniata dall’analisi della struttura nomologica della fisica, all’interno della quale la nozione di presente, se non intesa in senso pragmatico, è del tutto assente. Le leggi della fisica, infatti, non possono dipendere dal particolare istante di tempo in cui le consideriamo, né vale certo, come possibile confutazione di questo assunto, il riferimento alle condizioni iniziali, che, anche a voler prescindere dal fatto che, nell’ambito della cosmologia, non possono essere così chiaramente distinte dalle leggi di natura, dipendono solo dallo stato precedente del sistema fisico in esame, e non da uno specifico istante di tempo. L’omogeneità del tempo della fisica fa infatti sì che nessun istante possa essere privilegiato come unicamente esistente o distinto dagli altri.

La fisica non si interessa dell’accadimento di un determinato eventoné guarda le cose dal punto di vista temporale associato a un insieme particolare di eventi, secondo una prospettiva, cioè, che renderebbe del tutto naturale affermare che, in quel particolare tempo, solo quegli eventi esistono. Nell’ambito di essa viene invece assunta un’esistenza di tipo più generico, intesa nel senso di esistere a un qualche (e non in un determinato) istante di tempo, corrispondente dunque a considerare le cose sub specie aeternitatis. 

Non si tratta soltanto di una mera «variazione di significato» ma anche di un mutamento di paradigma e del concetto stesso di «reale», che diventa l’insieme o la somma di tutti i punti di vista possibili, cioè di tutti gli eventi che esistono indipendentemente da quando accadono. E questo è il concetto guida delle poesie di Mariella Colonna, come della «Nuova poesia ontologica», il cui concetto di «reale» presuppone la compresenza e la contemporaneità di eventi lontanissimi nel tempo e nello spazio.

L’io (moi) non è il soggetto (Je).

Il primo, appartiene a una dimensione immaginaria, il secondo coinvolge il piano simbolico e concerne ciò che Lacan chiama «soggetto dell’inconscio». E l’inconscio, dirà Lacan nei suoi Scritti, «è il discorso dell’Altro». La soggettività è una dimensione aperta, trascesa, ma ferita dall’intervento del significante. L’essere del soggetto non si esaurisce nell’Io (moi), perché quest’ultimo è un miraggio, il luogo di una dis-locazione e affonda le sue radici nella nientificazione. Esiste una sfasatura tra moi e Je e questa sfasatura è ciò che Lacan chiama soggetto dell’inconscio. Vediamo di cosa si tratta. L’inconscio è strutturato come un linguaggio ed il linguaggio parla. La struttura simbolica del linguaggio dell’inconscio non conosce la rigida partizione del tempo: passato, presente e futuro, né la rigida partizione dello spazio degli eventi, ma il tutto comunica con il tutto. Il discorso poetico di Mariella Colonna è strutturato come la dimensione inconscia del linguaggio dove il soggetto è un «assente» che parla in quanto abitato dalla dimensione linguistica del simbolico.

Ne L’interpretazione dei sogni Freud vede nel lavoro onirico, nella condensazione (Verdichtung) e nello spostamento (Verschiebung)

i meccanismi tipici, eminenti, di quel lavoro onirico che la censura dell’Io applica dando vita al sogno. Metonimia e metafora diventano la trascrizione in termini retorici di questi meccanismi. Per Freud il sogno, i sintomi, i lapsus, il motto di spirito, sono rivelatori di un qualcosa che accade all’insaputa del soggetto, che svelano la presenza nella vita del soggetto di pensieri e desideri di cui egli non ne sa nulla ma che insistono nella vita e nell’esperienza di tutti i giorni in termini inconsci. Freud può affermare che il sogno è la «via regia» per l’inconscio, in quanto ha potuto osservare come, attraverso le operazioni che chiama di condensazione e di spostamento, vi sia un al di là dell’io, una dimensione che si esprime attraverso un discorso che oltrepassa la volontà esplicita del soggetto che a sua insaputa continua a manifestarsi nella vita del soggetto.

La poesia di Mariella Colonna prende forma dalla assimilazione di questi due procedimenti all’interno della traslazione simbolica in un discorso poetico che è la dimora stabile dell’Altro dal soggetto, che parla per interposta persona come discorso dell’Altro.

Mariella Colonna in queste poesie fa un discorso dell’Altro, narra di eventi e personaggi lontanissimi come se fossero vicinissimi, letteralmente, vede i suoi personaggi muoversi come da un cannocchiale del tempo e dello spazio, come nella poesia «Quattro cavalieri», vero apice della poesia colonniana, dove i cavalieri sembrano sbucare dalla notte del tempo, al galoppo, tra «la polvere di stelle» mentre la reietta Raquida sta partorendo in solitudine… Nella poesia della Colonna il prosaico è sempre in diretta correlazione con il sublime, l’empireo; gli angeli sono sempre in correlazione diretta con i reietti, l’età dell’oro del tempo mitico con l’età del ferro dei nostri giorni opachi.

La poesia «Chissà se Goya» è una vera passeggiata lunare con le stampelle da equilibrista, ci porta nella Parigi dell’Ottocento attraverso le Folies Bergère in rue Richter, 32 dove c’era stato Toulouse Lautrec, per passare poi al CERN di Ginevra dove hanno scoperto «la particella di Dio», e poi attraverso rocambolesche peripezie si arriva ad un misterioso poeta che abita a Roma nel secolo presente. Il tutto è davvero ardito, c’è una compresenza di eventi e di personaggi che provengono da secoli e mondi diversi, ma, si sa, che nella «Nuova poesia ontologica» tutto è possibile, il tutto confluisce nel tutto e defluisce nel nulla. Si avverte la presenza del «vuoto» che aleggia un po’ dovunque. E questo è il segreto della poesia ontologica di Mariella Colonna, che non c’è più alcuna legislazione che valga per tutti gli aspetti del reale, ammesso che il reale sia quello che ci hanno raccontato e non sia altro.

Essere e linguaggio, insomma, obbediscono a leggi diverse:

si dà ordine del senso, a livello ontologico e proposizionale, solo nella misura in cui ne va dell’essere, e cioè nella misura in cui la sfera dell’essere resta incisa dal linguaggio, evirata, se così si può dire, della sua integrità e della sua mitica purezza. Nell’unità dell’essere, in questa unità ideale e pre-simbolica, il linguaggio appare così come discorso dell’Altro,  introduce il segno come traccia, iscrizione di un Altro, del «poeta invisibile» al quale viene indirizzata la poesia, o quel  Nikandros, figlio di Nessuno, o figlio prediletto dell’io narrante…. Ed è grazie al gioco di presenza-assenza che il significante dischiude sempre nuove possibilità fiabesche e narrazionali. Il discorso poetico diventa così il luogo in cui il soggetto si annulla. Nel discorso poetico il soggetto incontra la propria nientificazione, il proprio essere-per-la-morte, quella inaugurale sottrazione che scinde la presenza ripetitiva del «godimento» lacaniano, del piano della pienezza dell’eessere dalla rappresentazione di cui il significante, come luogo in cui il soggetto evanesce, è marca della disparizione.

Alienazione e separazione, metafora e metonimia, costituiscono così il binario duale della poesia colonniana.

Nella «dimensione fantasmatica» che abita una topografia fantasmatica vediamo allestita la messa in scena del venir meno del soggetto di fronte al mancare della «Cosa», quella sorta di estrema quanto inconscia riparazione simbolico-immaginaria a un cedimento strutturale avvenuto a livello ontologico, cedimento da cui proviene ciò che Lacan chiama, nel suo significato più generale, il «soggetto parlante». Il «fantasma» è così al contempo, il limite del simbolico e un’illusione ma anche l’estrema risposta al venire a mancare della «Cosa» come fondamento dell’essere del soggetto. Ciò che mi preme sottolineare è proprio l’aspetto scenico della poesia colonniana, la sua natura squisitamente letteraria dove  il soggetto si ritrova come osservatore e autore al contempo di quello che può a tutti gli effetti essere definita la narrazione della sua mancanza, del suo venir meno. Il fantasma è infatti, in ultima istanza, una entità frastica che rappresenta lacanianamente il limite del simbolico. A livello linguistico simbolico esso si presenta come una proposizione; a livello immaginario, è una scena e si presenta in modo ricorsivo, come il ritorno del «fantasma» nella poesia colonniana e, più in generale, nella «nuova poesia ontologica», attraverso la rappresentazione di personaggi simbolici in azione.

Si veda J. Lacan, La direzione della cura, in Scritti, cit. p. 633.

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Chissà se Goya

mi avrebbe accompagnato, a Paris, in rue Richter 32,
allo spettacolo delle Folies Bergères!
Ci andò, a fine Ottocento, Toulose Loutrec per vedere
gli illusionisti, l’incantatrice di serpenti Nala D.,
la danzatrice Loie (con dieresi), che si avvolgeva e svolgeva
nel ballo in lunghissimi veli.

(Ma ora non è più tempo di simili follie, ora gli scienziati
al CERN di Ginevra, hanno scoperto il Bosone,
la particella di Dio e che la materia è, per il 64% “oscura”,
invisibile e perciò non si conosce di che cosa sia fatta:
troveranno il modo di scoprirlo?)

So che sembra incredibile, ma io ero presente a Les Folies
quando Manet dipinse il vivacissimo BAR
con la deliziosa cameriera in nero e la bella
Mademoiselle Bois de Rose corteggiò, scoprendo la caviglia
e anche più su, un grande poeta critico assai hot, oggi più che allora,
ma non ebbe successo perché il cuore del poeta era già perso
dietro una fascinosa cantante vestita di nero
con una rosa rossa nei capelli.

Ah, le temps d’antan toujour present que j’adore!
Il profumo del peccato sfiorato, del fiore non colto
visto da lontano, le souvenir de la mémoire,
de l’inconnu e poi fuggire via, LibertèVeritéFraternitè,
libera come una rondine più di una rondine!
Ma adesso ci sono altri spettacoli, gli tsunami
della morte liquida, le aurore boreali ai tropici e poi
la “caduta delle nuvole” a Ravenna
fotografate da un passante
(non la caduta dalle nuvole, roba del passato!)

Il poeta che incontrai chez la Rome de France
e che incontro online nella Roma de Roma
è un genio della parola che, per la parola in versi, delira
e la connota in tutte le direzioni e in tutti i sensi,
significante – significato, destinatario – mittente
(e viceversa) la parola – immagine, la parola –
musica e quella ontologica e psicanalitica
(la mia) e attraverso queste molteplici funzioni
e pulsioni analizza vite poetiche,
universi dentro – fuori e multiversi, per non parlare
della Storia e della Filosofia che, grazie a lui,
si integrano disintegrano in presenza dell’analogia.
Questo critico, cultore estremo della parola
e dell’ombra della parola, quando scrive poesie ci fa sognare
con memorie, frammenti di realtà eventi di storia
e di vita vissuta. Poi si allontana, scompare.

Non vi arrendete: se vi considera veri amici
e veri poeti ritornerà…
ma prima, se la notte è serena, farà un salto sui tetti
del Moulin Rouge
per contemplare le stelle. Credo sia un grande romantico fuggito
dal secolo XIX.

Nella II metà di quel secolo
c’ero anch’io
a Parigi.
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Quattro cavalieri

Quattro cavalieri di enorme statura
mantelli ricamati in oro e argento, armi scintillanti,
cavalli neri come la notte,
mi vennero incontro sollevando una nuvola di polvere stellare.

Alle mie spalle, il mare in tempesta, onde fino al cielo
e uno strano profeta che divorava un piccolo libro.
Ruggiva il mare leone inferocito,
sembrava volesse ingoiare la terra.

Io, Raquida, nascosta dalla nuvola di polvere stellare
dentro un bozzolo creato dal vento che mi vorticava intorno,
tormentata dalle doglie del parto imminente,
piegai le ginocchia sulla sabbia
e, aperte le braccia, cominciai a pregare.
A sud i travolti dall’acqua gemendo imploravano aiuto.
A nord, ineffabile musica astrale, il canto dei quattro cavalieri
di fronte al mulinello di vento che mi nascondeva.

Un mondo spaccato in tre. E io nel terrore di partorire sola,
senza mia madre e le sorelle in quell’inferno.
Il mio grido di dolore si levò più alto, fece tremare il cosmo
come un dardo lanciato da un guerriero,
raggiunse Allah. Egli sentì nel suo cuore la mia sofferenza,
ne soffrì come fosse la sua, provò pietà.

Si domandavano in molti quale prodigio
stesse trattenendo la mano di Allah sulla terra e in cielo.
Fu allora che la gente della spiaggia
si avvicinò al mulinello di vento:
mi videro assorta nella preghiera
E si misero in ginocchio sollevando le mani verso l’alto.
Vidi dei cavalieri soltanto gli occhi
che penetravano l’anima.

Mi alzai in piedi e dissi: “Sono Raquida, irakena”
devota ad Allah, ho perduto mio marito in mare…e adesso
mio figlio sta per nascere. In vita mia non ho mai visto
un mare così, sembra che voglia divorare la terra!”
“Raquida, questa è l’Apocalisse: e tu la vuoi fermare
con la preghiera?”. “Guardate laggiù” risposi.
Anche le onde immense si erano calmate,
sembrava che il mare dormisse.
“Il mondo non può finire adesso, proprio adesso
che devo dare alla luce mio figlio!
Allah il Misericordioso ascolterà la mia preghiera.”
“Sei sicura che sia Allah ad ascoltare la tua preghiera?”
“Puoi anche cambiare il suo nome: chiamalo Dio,
a Lui non importa d’essere chiamato con un nome o un altro.”
“Ragioni rettamente, Raquida. Nelle Sacre Scritture
Dio ha detto: «metto la mia legge nei vostri cuori»
In tutti i cuori. Perciò ogni atto di vera fede,
da qualunque religione venga, ottiene la sua misericordia. ”

La donna partorì un bimbo robusto e sano:
con le forze che le rimanevano lo affidò ad un’amica
che aveva tre figli e lo prese come uno dei suoi,
ma Raquida spirò mentre stringeva tra le braccia il figlio
ringraziando Dio per la sua vita
e un rivolo del suo sangue raggiunse il mare.
Uno dei cavalieri la prese in braccio, saltò
in sella al cavallo e i quattro con Raquida
volarono verso regioni più lontane del cielo,
lasciandosi alle spalle l’umanità smarrita.

Quanto vi ho narrato accadde moltissimi secoli fa.
Sembra che dopo la tempesta sia ritornata
in tutta la sua furia, ma senza le montagne d’acqua
che avrebbero sommerso il mondo.

Questa leggenda dice che il mondo si salvò
per la fede il coraggio e il sacrificio di una madre.
Possiamo anche pensare che non sia vero, ma allora,
credetemi, è tutta un’altra storia.

 

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Mariella Colonna

Democrito diceva

che la preghiera muove gli atomi…
io dico che le tue parole fanno danzare le particelle.
Tu insegui il movimento degli astri dai il là alle parole
che adesso io scrivo.
Una musica molto originale: il tuo greco arcaico lineare B,
in alternanza con il mio barbarocretese geroglifico lineare A.
Se tu non scrivessi più si fermerebbe il movimento
dei miei pensieri legato a quello dei mari e degli oceani
e il fiume della nostra città
annullerebbe il tempo che ci lega alla Storia.

Le tue parole cadono nella loro ombra
sassi nell’acqua creano cerchi concentrici
che raggiungono le costellazioni.
Il cuore della notte che la tua mano incide sul bianco
della carta è luce.

Non penserai che, sdoppiandomi, io parli di me stessa?
Un po’ è vero, in parte io sono anche te, ma mia grande passione,
lo sai, è la magia evocativa: se tu me lo chiedi
e se ti domando “Tu chi sei?” un motivo c’è.
Quando sarò certa che tu sia tu, potrò chiederti:
“Dalle parole d’ombra… fammi sorgere il sole!”

Ora so che sei tu e aspetto paziente il sole
sulla spiaggia di un’isola nel Pacifico,
mentre il cielo rosarancio annunzia già l’aurora.
E mentre aspetto raccolgo per te sassolini colorati
conchiglie di madreperla e le altre piccole cose
che ti piacevano tanto da bambino.

Mi domandi come faccio a saperlo. Non ricordi?
In riva al mare noi giocavamo insieme
a chi trovava le pietruzze o le conchiglie più belle,
un po’come facciamo adesso con le parole.
Quando hai fatto nascere il sole da una nuvola
mi hai detto “Te lo regalo.” Da allora il sole è mio.

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Francesca Dono, QUATTORDICI POESIE Inedite – La carta da parati – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: La poesia dopo la fine della modernità, «La nuova poesia ontologica»

Foto selfie Jack Nicholson

Francesca Dono nasce a Reggio Calabria. Si laurea in Scienze Sociali poi si trasferisce a Milano dove vive e lavora. Scrive già a sei anni la sua prima poesia. Comincia a dipingere e fotografare all’età di sedici anni. La sua pittura spazia dal tradizionale al digitale. Tante le opere poetiche selezionate e inserite in varie raccolte ed antologie del panorama piccolo-editoriale nazionale.

Pubblicazioni sulla rivista «Odissea» di Angelo Gaccione – «Bibbia d’Asfalto»  e «Word Social Forum». Molti componimenti si sono classificati ai primi posti in vari concorsi tra cui :premio  internazionale Otto Milioni di Bruno Mancini,  premio internazionale “Terra di Virgilio” con critica di Enrico Ratti, premio “La Stampa ”con critica di Maurizio Cucchi. Premio Speciale Presidenza  “Abbiate Coraggio di Essere Felici” di Antonella Ronzulli e Annamaria Vezio , premio “Internazionale Leopardi d’Oro” dell’Accademia Leopardiana di Reggio Calabria come  ambasciatrice  e procuratrice dell’Arte  e Letteratura Italiana nel mondo. Premio MilaninSight. Concorso Racconta la tua Milano.

Anche i dipinti sono stati inseriti in vari Cataloghi d’Arte tra cui il catalogo d’arte “ l’Elite”  anno 2013 e 2014, catalogo  d’Arte di Assisi e di Artelis di Reggio Calabria nel 2015. A Novembre edita la sua prima raccolta intitolata Tra l’Insionismo* l’Inversionismo e il dialogo di Irda Edizioni”, ormai fortunatamente introvabile.

*(neologismo)

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Fine della modernità

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Nel tragitto ortogonale e tangenziale verso una «Nuova poesia ontologica» credo si possa annoverare anche la poesia di Francesca Dono. Come ho detto in diverse occasioni, questa poesia non vuole essere né bella né brutta, né isoritmica (detto in altri termini: eufonica), né cacofonica, né dissonante né minimalistica, né sperimentale né antisperimentale, né novecentesca né anti novecentesca. In un certo senso, questa nuova procedura compositiva, per frammenti e per relitti, prende a prestito da tutte le acquisizioni stilistiche pregresse gli elementi di novità e li immette in una «forma» compositiva del tutto nuova. Siamo ormai lontani dall’epoca che ha sanzionato la decadenza di ogni narrazione, da quando, nel 1979, Lyotard dà alle stampe un libretto di circa cento pagine con il quale statuiva «la fine della modernità». La tesi di base è nota: Lyotard sancisce la fine della modernità, facendola coincidere con l’impossibilità di porre mano – per il filosofo come per lo storico della cultura e delle civilizzazioni – a una «grande narrazione», cioè a una storia che possa essere “macrostoria”, vale a dire una storia complessiva e comprensiva della civiltà. Ciò che restava erano i frammenti, i frantumi, i cocci dell’«Anfora» di Ubaldo de Robertis, i relitti, ed è con questi relitti che, volente o nolente, la poesia contemporanea dovrà fare i conti. Non c’è via di scampo. I ritorni al passato euofonico della poesia eufonica di Sandro Penna, sono impossibili, così come le derive narcisistiche verso le «narrature» (dizione di Roberto Bertoldo) post-modernistiche che fanno le fiche alla narrazione della narrativa.

Francesca Dono ha il dono, se così si può dire, di possedere il demone della poesia. Fa una poesia che nessuno si sognerebbe mai di fare, e lo fa con la naturalezza e l’ingegnosità di chi ha un talento maldestro e irriguardoso. Oserei dire che è un po’ il versante femminile di Antonio Sagredo. Fa poesia come fa fotografia, con lo smartphone, con l’ingegno della spontaneità, ha uno sguardo originale e non convenzionale sulle cose, come può averlo un primitivo nell’isola di Pasqua, leggi le sue associazioni e rabbrividisci, non ti ci raccapezzi. Inverte l’ordine degli addendi, e il risultato cambia, è questo il segreto del suo approccio. Incredibile, Francesca Dono possiede per via, per così dire, «naturale», il segreto dei «frammenti», li mette in un bussolotto, agita il tutto, e quello che ne viene fuori è un prodotto sempre diverso. Semplice, no? Fa del bricolage e del brigantaggio linguistico. Le sue composizioni hanno una leggerezza e una fragranza encomiabile; mi dicono che riesce claudicante, che qua e là inciampa sulla diversissima geografia delle immagini, ma, credo che sia il rischio del mestiere di poeta: («la carta da parati con una finestra / sul finire dell’inverno»; «Buona fortuna-  scrive Hoffman sotto stelle insultate»). Procede con una precisione fotografica, fotometrica, nel senso che il metro della immagine è il suo unico regolo («un pesce rosso dentro la boccia di vetro»; «Lacrimogeni gettati dentro autobus di linea»); si esprime mediante enunciati surrazionali  e insensati («Pindaro non smorzare il giglio con la cenere del vulcano»), adotta  notazioni quasi didascaliche, fa cartografie di fotografie e di immagini, poi cambia passo, allunga il passo, torna indietro, ci ripensa, va avanti, e poi a destra, e a sinistra, parla di cose scombiccherate, bizzarramente assemblate («Allungo il pennello guardando sacchi a pelo a ridosso / di ombre lunari»),  in un paesaggio de-paesagizzato e de-psicologizzato, lunarizzato, ridotto a palcoscenico di burattini in libera uscita; assembla immagini le più varie, desuete, contraddittorie, farsesche, sovra reali in modo da de-naturare i componimenti e de-automatizzarli. Le sue sembrano poesie scritte da manichini irriverenti e scontenti che litigano tra di loro. Fa una poesia della contaminazione lessicale, della disseminazione, della combinazione e dello spaesamento, direi della labirintite, malattia tipica del nostro tempo psicotico; fa una poesia molto simile a quella di certi schizofrenici che sono molto più sani dei poetini da Parnaso dipinto; fa una poesia che manca di equilibrio, sì, che inciampa spesso, cade a terra e si rialza… Ed è appunto questo il suo pregio: che lascia ben visibili le cicatrici linguistiche, i vulnus, le cuciture improvvisate, i salti, gli strappi…  Segue la funzione simbolica del linguaggio per contiguità metonimica, senza darlo a vedere, senza pensarci, e magari senza saperlo, si affida alla metonimia piuttosto che alla metafora,  alla funzione sinonimica, e se ne va a spasso per suo conto con una incredibile libertà fantastica. Fa una poesia che manderebbe in estasi i bambini, ma che certo, gli adulti ben pettinati si guarderebbero bene dal prendere sul serio e storcerebbero finanche il naso. In specie, i poeti laureati, quelli che parlano con scienza e coscienza delle cose di cui si può parlare con meticolosa seriosità con un linguaggio lindo e pinto.

(Francesca Dono)

Poesie di Francesca Dono

– la carta da parati –

la carta da parati con una finestra
sul finire dell’inverno.
Allungo il pennello guardando sacchi a pelo a ridosso
di ombre lunari.
Brulicano pietre.
Si traccia la mappa per allevare sonni tra le morgane.
Tre anni e ancora lui non m’appartiene.
E’ indelebile la malia del vecchio straniero. Torno indietro.
Nessuno sorride.

.
– Achille giunge nell’ora perduta –

spocchie e foglie vecchie di lacci militari.
Achille nell’ora perduta.
Dita disadorne giungono tra i sudici illibati.
È irritante quel
disordine nell’afa .
Lucy scompare alla dogana. L’acciottolio di piatti
nel buio di un sotterraneo.
__Alcune cameriere s’innamorano.
L’albergo ha un tetto nel diluvio.
________–
Girotondo dei cieli.
_____ Dorme la puritana di San Francisco. Stalattiti raccolgono
Saturno in mezzo alle caverne.
In corteo cappelli proletari –
Sconfinano necrologi sul Journal de Paris.
– Buona fortuna – scrive Hoffman sotto stelle insultate.
Si sospira.
Di bocca in bocca un cianotico pasto.
Fisso un garzone per la fuliggine.

– un pesce rosso –

un pesce rosso dentro la boccia di vetro.
Anni nella stessa direzione.
Mi chino. Lui si abbandona estraneo
al circolo dell’acqua sempre piatta.
Un pesce rosso. Nel caldo o nel freddo.
Niente si muove sul davanzale.

– dell’uomo solitario –

atroci piedi alle solide fondamenta. Dell’uomo solitario l’attrito
nel peso di un corpo sottile. Si oscilla nel sonnifero. Anche il sacrestano
non ha scalato i calandri di cera. Nella cella un’antica fiumana di peltri. Inodore
tu respiri. La roulette mi gira ai perni di Gomorra. Perché rifiutare la festa delle canne
slanciate? Un bovaro si avvia lontano. Dopo la colonia tristemente il nostro capo curvo.

– di rose i giardini –

di rose i giardini.
I lini delle case fino alle cose.
Quasi cangiante l’audacia dei volti indigeni.
Fisso i declivi frastagliati. Oso issarli all’insegna agostana.
La falsa abbronzatura fiancheggia l’alone del tuo iride. Sono tutti
laggiù i lapis per disegnare le galassie. Sulla scia pietre accalcate. Ipoteche
verso la corolla solare. Lacrimogeni gettati dentro autobus di linea.
Mi alzo. Mi siedo.

– centimetri di scure acquoline –

l’eclisse.
Centimetri di acquoline salutando la luna.
Un altro poeta è caduto dalla pietosa rupe.
Pindaro non smorzare il giglio con la cenere del vulcano.
L’alba si sbeffeggia.
Duri calchi nella villa di Pompei.
Ora tu cresci inglobando fiumi già logori.
Tetri commensali dentro la sala cobalto.
Asfittica la fetta di carne sui piatti decorati.
Omero ormai scrive insonne.
Vele di luci sotto l’Olimpo. Mi pettino tra miseri mendicanti.
Tacciono le colonne del tempio.

– e per mai osare la precisione degli uccelli –

contaminata
la pioggia vacilla.
Forse cava la nostra carne
dentro milioni di fosse oceaniche.
__________Un colpo si punta all’acciaio. Moloch sparge
l’ala dell’anatra verso le aquile.
Non un dubbio.
_________Sotto i radar il sole e gli angeli del viaggio.
Ti porto una cena carica di ruggine.
La porta d’ulivo ha rami lungo la notte.
|________
Tu succhi dal branco il feto triste. Il branco ci concede l’ennesimo bronzo nel volto scarnato.
———————-
Filo imbastito sulle schiene blindate.___ Marion s’incontra con le torri assoldando oscuri sicari.
_Orti ed erbari in mezzo alle stoviglie.
Il piatto è nudo.
Che faranno di me? Poison _ poison nella polvere frettolosa.
Sussurri lievemente. Cani-ragni sugli altari.
Chet Baker si tormenta con una tromba stonata.
La sala americana è tra pareti incartate.
_______Luce tra le macerie.

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(Francesca Dono)

– il miglio mischiato –

un cucchiaio dentro la clessidra.
Questa svasatura è il miglio mischiato dentro gabbie di uccellini.
Zia Carmelina taglia le pigne a dadini.
Una ciotola più o meno.
Il santo mi ha sparso in milioni di fedeli.
Scende il crepuscolo.
L’oceano soggiorna a Cattolica.
Prende il volo un’anatra tra i rovi di un orto.
Papà andava per i campi.
Altri sei mesi raccogliendo tra i clivi.

–  i grandi canyon –

grandi canyon nella
caccia del vento. Sospesi i fiori rossi
qualche luna è scoppiata sconfinando.
Pareti ripide negli orizzonti caduti.
Ho visto erbe carnivore banchettare
con i tuoi vermi. Tre mesi di cielo terreo
non tornando alla bottega dell’oro.
Bolle bibliche nell’acqua: dietro le volute
Erode si sventra . Qui m’insabbio
nella congrega dei papi. Chiederti
della promessa per il sole. Gli oracoli
si susseguono in ogni grappolo d’uva. Molto tempo
la mia anima senza un calice maestro.
Nella contesa una quinta e l’ombra riflessa.
Ma già ti riconosco. Ho visto
quel corpo lacerato.

– poltroncine rosse –

la sala di un cinema.
File di poltroncine scolorando nel buio .
Ovunque poltroncine di stoffa tra fievoli
mormorii o segreti.
E’ quasi penombra il gioco della luce.
Ogni volta dalla tela un corpo dal fotogramma.
Con te il singulto di una strana immagine.
Guardo il respiro dell’aria viziata.
Distrattamente i nostri fianchi si sgretolano
al minimo colpo di sonno.
Cataste di poltroncine .
Poltroncine rosse legate in ogni fila.

– selve al banco dei merluzzi –

selve al banco dei merluzzi.
Si strofinano candele al santuario.
L’uomo ha ucciso.
Un monaco ha forzato il gelo nella neve.
In obbligo questa lucciola-pachiderma
a svelarsi di notte. Ti raggiungo nel campo del bambù
bramoso. Luoghi canonici con cecchini e
bombe che non smettono di cercare.
Eros sussurra all’orecchio.
Del sole un salto tra scansie spellate.
Povera Betta partoriva figli prima di prendere
la pila del vento.

*

Lieve. Fatto in un mulino di olmo
nel corpo asciutto di belle bambine.
Aspettando i circoli della volpe
Lara ebbe il segno per i polsi più chiari.
Ricordo le ombre di fiumare assediate.
Un tempio aveva i graffiti dove
Ippazia si compiva nel coltello di conchiglie.
E venne un tetto levitando
l’altezza attorno. Tu tra i
riflettori immortali di una città attonita.
Morgana era l’altra sorella
nell’acqua del mare.

– Sonagli a Bali –

L’aureola nacque. Era un pomeriggio
col tuo maglione rosso verso Madras.
Intanto la gasolina nella
frusta del vento. Tra i fumi un teschio vagante.

-Puoi essere uguale a questa boccuccia. – Diceva.

Era buio . Lo sbieco della coperta traboccava pallido.
Era buio.
Non per i pianeti ma nell’incrinatura di vuote fruttiere.

-La morte non va altrove-. Il tuo teschio ingiallito
simile a un furgone angusto.

-Mi annido. Potrei trascinarti – lui ripeteva.

(Alcune donne in sottoveste. Altre dentro grattacieli di creta).

Già arroccati i miei margini in quelle pietre dure.
Venivano persino tamburini dal Missouri.
Ancora altra neve nei grani del pulviscolo.

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