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ROBERTO BERTOLDO da La profondità della letteratura (Mimesis 2016 pp. 330 € 24) Estratti dal libro:  il Bello, il Vero, Leopardi, Autenticità, Coscienza, Metafisica, Poesia, Essere, Tempo, Verità, Sperimentalismo,  Surrazionalismo,  Nullismo,  Nichilismo assiologico, Postcontemporaneo. Le categorie del nostro tempo, con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Roberto Bertoldo nasce a Chivasso il 29 aprile 1957 e risiede a Burolo (TO). Laureato in Lettere e filosofia all’Università degli Studi di Torino con una tesi sul petrarchismo negli ermetici fiorentini, svolge l’attività di insegnante. Si è interessato in particolare di filosofia e di letteratura dell’Ottocento e del Novecento. Nel 1996 ha fondato la rivista internazionale di letteratura “Hebenon”, che dirige, con la quale ha affrontato lo studio della poesia straniera moderna e contemporanea. Con questa rivista ha fatto tradurre per la prima volta in Italia molti importanti poeti stranieri. Dirige inoltre l’inserto Azione letteraria, la collana di poesia straniera Hebenon della casa editrice Mimesis di Milano, la collana di quaderni critici della Associazione Culturale Hebenon e la collana di linguistica e filosofia AsSaggi della casa editrice BookTime di Milano.

Bibliografia:

Narrativa edita: Il Lucifero di Wittenberg – Anschluss, Asefi-Terziaria, Milano 1998; Anche gli ebrei sono cattivi, Marsilio, Venezia 2002; Ladyboy, Mimesis, Milano 2009; L’infame. Storia segreta del caso Calas, La vita felice, Milano 2010;

Poesia edita: Il calvario delle gru, Bordighera Press, New York 2000; L’archivio delle bestemmie, Mimesis, Milano 2006; Pergamena dei ribelli, Joker, Novi Ligure 2011; Il popolo che sono, Mimesis Hebenon, 2016.

Saggistica edita in volume: Nullismo e letteratura, Interlinea, Novara 1998; nuova edizione riveduta e ampliata, Mimesis, Milano 2011; Principi di fenomenognomica, Guerini, Milano 2003; Sui fondamenti dell’amore, Guerini, Milano 2006; Anarchismo senza anarchia, Mimesis, Milano 2009; Chimica dell’insurrezione, Mimesis, Milano 2011. Pergamena dei ribelli Joker 2011, La profondità della letteratura, Mimesis 2016.

«Oltre la verità cartesiana, e i suoi effetti, non c’è alcuna verità che sia al contempo empirica e logica, senza appigli analitici, quegli appigli che portano all’altro tipo di verità, che va per la maggiore: quella ipotetica.

Mirare alla comprovazione dativa degli oggetti esterni è stato l’obiettivo diciamo ontologico. L’esito purtroppo è, al di là di ogni dubbio, solo ontico, cioè “ti penso dunque esisti”. Sì, se guardo o tocco la matita, cioè un dato esterno, la matita esiste e, se guardo e tocco, io, cioè il dato interno, non solo esisto ma sono, al di là di ogni dubbio. E se avvaloro l’io, se gli comprovo come causa effettiva dell’io funzionale ma la natura di questo io, per me materiale, è solo ipotetica), avvaloro anche il suo pensare, vedere, toccare. Di più non ci è dato avere come prova verace dell’ipotesi».1

R. Bertoldo La profondità della letteratura  Mimesis 2016 p. 319

Il Niente

«La dialettica è tra niente ed entizzazione: è il Niente, ovvero l’essere, che vuole entizzarsi; in questo impasse dialettico si trova la condizione ontologica degli enti». «L’essere… è il Niente, l’assenza dell’Ente; e questo NiEnte è, per postulato, la Materia».1

R. Bertoldo La profondità della letteratura  Mimesis 2016 p. 25 e 27

Leopardi. Il Bello. Il Vero.

Riguardo all’affermazione che «tutto il vero», che in base agli assunti leopardiani è il presente, «è brutto», perché infelice, è evidente che se il futuro è più bello del presente, ossia del vero, per via dell’immaginazione e il passato per via del ricordo, l’operazione di immaginare e di ricordare si compie nel presente, che quindi è per forza il momento in cui si vive il piacere, ed inoltre «allo sviluppo ed esercizio dell’immaginazione è necessaria la felicità o abituale o presente o momentanea».1 E ancora: «Io spero un piacere, e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere».2 È vero che leopardi distingue tra ciò che si chiama piacere e ciò che è piacere e poco dopo aggiunge che il piacere provato nel presente non soddisfa ed è solo un accenno del piacere che si ritiene di poter provare in futuro, è tuttavia innegabile che il piacere se lo si proverà sarà un vissuto giocoforza presente: «l’attività, massimamente, è il maggior mezzo di felicità possibile».3

Poi Leopardi sostiene, contraddittoriamente, che l’uomo è infelice senza il vero, che è il presente; e, pur giudicando il presente brutto, o comunque non bello, dice spesso che il bello e il brutto sono relativi, connessi alla convenienza, alle abitudini, ecc. Il fatto è che la conclusione sillogistica «tutto il vero è brutto» si compone su una ambigua dissociazione tra bello e piacevole. Dice Leopardi in modo chiaro che suoni, voci, sapori e odori appartengono «al piacevole o dispiacevole ma non mica al bello né al brutto»,4 però spesso questa chiara distinzione viene da lui trascurata, al punto che gli oggetti belli dell’immaginazione e del ricordo non sono proprietà solo della vista, sino a consistere anche in qualche cosa di astratto e addirittura di piacevole. 5

1 Zib., 28 febbraio 1821 [1703]

2 Zib., 20 gennaio 1821 [532]

3 Zib., 12 febbraio 1821 [649]

4 Zib., 30 settembre 1821 [1748-1749]

5 R. Bertoldo La profondità della letteratura  Mimesis 2016 p. 227

La bellezza

«Il bello è un obiettivo irraggiungibile, come l’anarchia, l’amore, ecc., e l’arte è uno strumento come l’anarchismo, l’innamoramento, ecc. Sono gli strumenti ad essere concreti, gli obiettivi sono utopici o generici e comunque modellabili».

«La ricerca del bello da intendersi come resa della datità… è più importante della sua realizzazione (…) La bellezza quindi non è inutile anche se è un’invenzione. In fondo, tutte le invenzioni dell’uomo sono utili, magari non l’utilità che può avere un piatto…» 1

«La bellezza, considerata intrinseca o dipendente da forma o da funzione, proporzione, simmetria, armonia, verità, autenticità, purezza, perfezione morale, commozione, anche profondità, ecc., è sempre un abbaglio».2

1 R. Bertoldo op. cit. p.287

2 Ibidem p. 313

Autenticità

«La solitudine di uno scrittore è determinata proprio dalla sua autenticità, ossia dalla sua singolarità».1

«La verità corrisponde all’autenticità».2

 1 R. Bertoldo op. cit. p. 291

2  Ibidem. 297

 Coscienza

«Certo: la coscienza si nutre di inconscio, ma ciò che più conta è che l’inconscio si nutre di prodotti della coscienza e li reimmette, rivestendoli di sé, all’interno della coscienza. Ci sono pregiudizi nella coscienza, c’è un circolo vizioso che complica il giudizio quanto è complicata ogni creazione. La separazione tra inconscio e coscienza non è netta, né chiara, non si riesce a sapere dove inizia l’uno e dove inizia l’altra».1

1 R. Bertoldo  op. cit. p. 228

Metafisica

«Quando si critica la metafisica, si tende a dimenticare che la sua natura è tanto ontologica quanto fenomenologica (metafisiche dell’infinito), fenomenica (metafisica del tutto) e trascendente (metafisica della totalità). L’Essere rappresenta il campo ontologico, il darsi dell’Essere o darsi ontologico il campo della fenomenologia materialistica, il darsi dativo, il solo non metafisico, costituisce nel suo aspetto sensoriale il mondo fenomenognomico».1

Poesia

«La poesia deve restare una forma di espressione connessa all’uomo e ai suoi bisogni». «La poesia sorge, come ogni arte e ogni dato, in questo luogo dell’autenticità, dove il mondo fenomenologico e il mondo fenomenico… si incontrano e fondono la materia circoscritta…»

«La poesia deve restare una forma di espressione connessa all’uomo e ai suoi bisogni. La poesia è l’arte più elevata…».2

Essere

«L’Essere… è il Niente, l’assenza dell’Ente; e questo Niente è, per postulato, la Materia. Ma anche il Nulla è, a maggior ragione, assenza dell’Ente, quindi NiEnte. In base a queste due premesse, risulterebbe, per via del sistema di equazioni, che l’Essere, ovvero, la Materia è Nulla. Si può negare questa conclusione sostenendo che il NiEnte non è propriamente Nulla, in quanto nel NiEnte c’è comunque la sostanza dell’Ente, però in base all’assunto leopardiano che l’Infinito è il Nulla, un materialista che consideri appunto la Materia infinita – sappiamo che ci sono anche materialisti esclusivamente empirici come molti illuministi – non può che constatare la Materia, sostanza dell’ente, come Nulla, sia che si annulli sia che non si annulli. Così il Nulla ontologico coinciderebbe con il Nulla ontico ovvero il NiEnte. L’annullamento di ogni valore trascendente derivabile dal particolare nichilismo ontologico leopardiano determina tra l’altro la vita fenomenica come valore imprescindibile. In sostanza, poiché per Leopardi l’infinito è uguale al nulla, che la materia non s’annulli mai (materialismo metafisico) o che si annulli (chiamo questo materialismo ‘afisico’) non c’è differenza riguardo gli effetti assiologici. La vita che vale nulla, per via del niente a cui gli enti sono destinati, è in pratica tutto ciò che si ha, l’unica cosa che si possiede, da questo discende il suo estremo valore».3

Tempo

«Riguardo il tempo, la sua natura ontologica è percepibile fisicamente. Ciò vale anche per la materia ma non per lo spazio, la cui acquisizione è puramente logica».4

«La certezza è l’esito di un accertamento, quindi riguarda solo ciò che può essere accertato, dunque la realtà, ossia tutto ciò che viene recepito».4bis

Verità

«La verità è un’ipotesi perché non ci può essere verità obiettiva».5

1 R. Bertoldo La profondità della letteratura Mimesis, 2016, p. 17

2 Ibidem, p.23

3 Ibidem, p. 27

4  e 4bis Ibidem, p.32

5 Ibidem, p.37

 Sperimentalismo

«Lo sperimentalismo è fallimentare proprio per questa sua ansia di novità, esso può essere indipendente dalla propria epoca, manca quindi di contenuto. Una novità prettamente formale non può attecchire e se la si applica in modo posticcio denuncia tutta la pacchianeria del suo autore». «Gli orizzonti di attesa sono l’emblema del vitalismo artistico mal riposto. Creare per la massa significa aderire all’ottusità». 1

«Le opere d’arte, per Adorno, non coincidono però con ciò che manifestano, ossia la verità, sia perché sono qualcosa in più di essa, e mettiamoci pure la pretesa bellezza e il piacere che ne consegue, sia perché ne sono la velatura. Quindi il godimento estetico non può essere l’unico fine dell’arte». 2

«L’opera d’arte, malgrado i fenomenologi, non è un numero ma “un constructum“, cioè un “artificio psicologico”, per usare le parole di Derrida quando rileva l’originalità di Husserl. L’opera ha senso, come tutte le espressioni che prediligono quello che gli psicologi chiamano “linguaggio interno”. Questo linguaggio deriva dalla trasformazione del linguaggio esterno, personalmente ritengo che l’interiorizzazione sia favorita dalla delusione verso la collettività e dal grado di autismo presente nella persona. La caratteristica iù interessante del linguaggio interno è la “predicatività assoluta, in quanto la predicatività genera suggestione. Nel linguaggio interno, quindi, il senso predomina sul significato. E “il senso della parola, come ha mostrato Paulhan, rappresenta l’insieme di tutti i fatti psicologici che compaiono nella nostra coscienza grazie alla parola”. Il senso è allora al di là delle singole parole e anche al di là dell’espressione concettuale che le riunisce». 3 «”Proprio nel significato della parola sta il centro di questa unità che chiamiamo pensiero verbale”». (cit. Lev S. Vygotskij)                                                                        

1 op. cit. p. 175

op. cit. p. 172

3 op. cit. p. 163

Surrazionalismo e surrealismo

«La cultura borghese, razionalistica sin nelle sue irrazionalità, ha prodotto il nichilismo al posto delle divinità nobiliari e, con esso, la letteratura fenomenologica in sostituzione di quella ontologica. La gnoseologia, avvalsasi nel medioevo dell’ontologia e nell’età moderna della fenomenologia… oggi, a farsi garante della borghesia, scade in prodotto predeterminato» 1

Nel simbolismo i sensi deragliano ma la ragione è vigile, nel surrealismo a deragliare è l’immaginazione (la freddezza creativa di molti epigoni ha poco a che vedere con certe creazioni di Eluard, Breton o Aragon, ma pure  in questi istitutori è evidente l’autoimposizione onirica e dell’automatismo), nel surrazionalismo non si deraglia ma ci si lascia coinvolgere dai sensi e dalla ragione.

Quando per la prima volta parlai di ‘surrazionalismo’ non sapevo che questo termine, sia pure con intuizioni più generiche, l’avesse coniato Gaston Bachelard. Io lo usai per difendere la mia poesia da quanti, con superficialità, la giudicavano surrealista. Non ho certamente niente contro il surrealismo, anche se non lo amo, ma la mia poesia percorre la vena postsimbolista. Io giudicavo la mia poesia ‘surrazionale’ perché è sempre nata da un attrito tra immagini diverse di natura simbolica sorgenti in concomitanza di emozioni e analisi […] Ebbene questa condizione è ‘surrazionale’, non è determinata né dal deragliamento della ragione né da automatismi psichici ma c’è sempre un controllo delle valenze dell’immaginazione (meglio dell’intuizione), appunto della sua razionalità compositiva.

La poesia surrazionale, che è  magari anche di altri ma è difficile dirlo da fuori in quanto riguarda più il produrre che il prodotto, non ha niente di divino e di magico, è invece l’esito di una concentrazione razionale ed emotiva di carattere, posso dire, filosofico […] Sono approdato a quella che ho chiamato ‘fenomenognomica’, una filosofia scettica che concede all’uomo solo, ma è tanto, l’immanenzione, cioè questa forma di attraversamento che produce una sorta di comprensione fisica che la poesia… esprime, almeno in me, mediante ciò che ho chiamato ‘tonosimbolismo’ […] Il surrazionalismo è questa ragione che ‘risolve’ la contraddizione nell’emozione, manifestata, almeno in me, mediante un simbolismo anche tonale»2  

Sul nullismo come avversario del nichilismo «Il nullismo è il superamento del nichilismo assiologico»

«Il nulla non è un vuoto, non è un annullamento, in quanto il vuoto e l’annullamento lasciano un’attesa o un ricordo. Il vero nulla è il mai. L’altro nulla, quello che da sempre in un modo o nell’altro trattiamo, è relativo, secondo prospettiva: è il contrario del nostro obiettivo. Per il materialista il nulla è uno scopo eterno, eternamente posticipato […]

Ciò che è divertente, è che noi spesso sosteniamo la non pensabilità del nulla nello stesso tempo che giudichiamo le parole un semplice simbolo delle cose. Se una parola non è mai il suo referente come si può sostenere che il solo pensarlo rende il nulla un qualcosa? Se la simbologia sostanziasse i referenti allora dio esisterebbe davvero e non solo verbalmente. In realtà non è così, le idee sono semplicemente metareali e si può parlare del nulla senza ipostatizzarlo «Il nichilismo non corrisponde al nulla ma all’invariabilità. Non è quindi attestabile.

Il mondo non è una prigione, lo diventa se gli si inventano finestre dietro alle quali si mette il paradiso terrestre. Senza false finestre il mondo non ha limiti. Il guardare verso e attraverso le finestre che non c’erano ha reso il mondo un locale impolverato di egoismi, colmo di scope fasulle con proprietà terapeutiche improbabili. L’uomo deve badare da sé una volta per tutte al proprio mondo.

Di fronte al mondo, date le spalle al nulla […] Il nullista non crede alla possibile percezione della pura oggettività, neppure a ben vedere può credere sicuramente al nulla. Il nullista, che è tale solo dopo aver attraversato, e portato con sé, il nichilismo, s’adegua alla propria percezione della verità, non alla verità.

Il nullista è un nichilista per il quale solo ciò che è immutabile, ovvero la sostanza della materia, è eterno e che comunque tratta da eterno ciò che sa mutabile, ossia le forme della materia. Il nichilista tout court è privo di questo prometeismo.

Per il nullista il mondo è autosufficiente, non così per il nichilista che ancora fa subire al mondo la sua provvisorietà […] Il nullista si è emancipato dalla delusione per il nulla trascendente e da punto di vista ontologico il nulla è per lui l’indefettibilità dell’essere (ovvero della materia come sostanza), il nulla è che non ci sarà mai annullamento ontologico.

Sul Postcontemporaneo

La modernità riguarda grosso modo il periodo che va dall’età umanistico-rinascimentale alla fine dell’Ottocento; il postmoderno, altra categoria storica, corrisponde quasi in toto (nella sua debolezza) al decadentismo, che è invece una mentalità, ancora in auge; il postmoderno forte, col quale indico semplicemente il postmoderno liberatosi dal decadentismo, e che indico una cultura che attualmente sembra, solo perché il presente spesso la rigetta, propria del futuro (per questo lo chiamo anche postcontemporaneo), è l’accettazione del progresso gnoseologico e del modello epistemologico contemporaneo che l’età moderna si ostina, a parte eccezioni, a rifuggire per codardia e interesse».3

Non dobbiamo liberarci solo dalla metafisica ma anche e soprattutto, in quanto la fonda, dal linguaggio metafisico. Il concetto di ‘senso’, per esempio, legato a finalità, almeno intenzionali, è un concetto teleologico. In realtà tutto ha senso, ogni cosa ha senso in sé, grazie a sé. Il senso del mondo è il mondo. Avere senso non è un rimandare ad altro da sé ma un essere sé, essere. Il nostro senso è esserci».4

«Le categorie di Moderno, Postmoderno e Postcontemporaneo sono da me intese come categorie esclusivamente storico-scientifiche. Il moderno ha come modello la scienza di Newton, il postmoderno grosso modo quella di Einstein. Non avrei usato il brutto termine postcontemporaneo se non mi fossi accorto che il postmoderno descritto dai filosofi veniva ad identificarsi in pratica col decadentismo filosofico, che è la cultura tanto dei nostalgici quanto dei detrattori del moderno… Il postcontemporaneo… corrisponde almeno alla luce delle attuali idee scientifiche, al nullismo e ai suoi sviluppi».5

«L’Io è frammentato, ma i suoi frammenti sono interattivi e trovano la loro unità individuale nel progetto e collettiva nella storicità dei metodi. L’Io non può rinunciare a questa unità progettuale ed epistemologica se vuole dare un senso alla sua vita senza scopo, se vuole difendere – in una difesa titanica, e questa è la sua grandezza etica – le forme dal fluire inarrestabile della materia. Questo è il suo senso: resistere il più possibile e aiutare le altre forme a resistere il più possibile contro l’inevitabile nulla ontico e l’indifferente materia (la ‘natura matrigna’), smettendola di rinviare ad un dopo e oltre (il mondo metafisico) o di farsi sedurre, alla stregua dei nichilisti attivi, da una indebita appropriazione e distruzione del mondo fenomenico».6

1 Roberto Bertoldo Nullismo e letteratura Mimesis, 2011 p. 137

2 Ibidem pp. 250, 251

3 Ibidem pp. 26-29

4 Ibidem p.31

5 Ibidem p.236

6 Ibidem p. 240

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Il Vuoto

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Questa riflessione di Roberto Bertoldo viene a porsi nel momento in cui la credibilità della letteratura e della poesia toccano il punto più basso, è proprio in questo punto che il poeta piemontese rilancia con forza il pensiero di una poesia e di una letteratura che sappiano farsi carico della loro responsabilità estetica. Il mondo frammentato, o ridotto  in frammenti non è una invenzione dell’Ombra delle Parole, è dall’inizio del secolo breve che la problematica era nell’aria e che coinvolgeva altri problemi filosofici e politici.

A proposito dei «frammenti», ecco quanto scrive Mario Praz in ordine all’opera di esordio di Eliot: «Nel 1922, in The Waste Land, Eliot aveva dato espressione al consapevole disorientamento di un’epoca che, iniziatasi colla prima guerra mondiale, può dirsi duri tuttora e non si saprebbe meglio definire che col titolo di un volume dell’Auden, The Age of Anxiety, l’epoca dell’ansia. The Waste Land chiudeva il suo barbarico edificio con alcuni frammenti di poeti del passato, vestigia di una nobile e secolare tradizione di cultura, e con la dichiarazione: “Con questi frammenti io ho puntellato le mie rovine“. The Waste Land voleva essere insomma un edificio di bassa epoca deliberatamente eretto sull’Ultima Thule del pensiero europeo, proprio al limite della desolazione incombente che minacciava di travolgere ogni traccia d’una cultura secolare».

Nel mondo post-metafisico dell’“organizzazione totale” fondata sulla tecnica, ogni cosa ha un posto definito, coincidente con la funzione strumentale assolta all’interno del sistema. Anche il linguaggio assolve questo compito, tecnicizzandosi. L’uomo interroga gli enti come oggetti esterni da cui determinare il senso dell’essere: il loro e il proprio. Ma la metafisica, così intesa, conduce all’oblio dell’essere, che si nasconde anziché rivelarsi, e all’utilizzo strumentale degli enti nell’orizzonte del mondo tecnicizzato. Anche l’uomo, segue la stessa sorte, diventa “ente”, oggetto, cosa, strumento. Il pensiero si riduce a servizio del sistema: strumento fra gli altri per la soluzione di problemi interni alla “totalità strumentale” in atto nelle società contemporanee. Occorre dunque ripristinare il contatto con le sorgenti dell’essere.

L’analitica esistenziale di Essere e tempo (1927)

L’analitica esistenziale di Essere e tempo (1927) aveva individuato l’ontologia come destino e compito dell’uomo. Noi siamo l’ente che si interroga sul problema dell’esserci dalla prospettiva opaca del Dasein, la “deiezione” dell’esser-ci, dell’essere gettati in mezzo al mondo. Un modo per superare l’impasse di una metafisica che, per consunzione di principio, tradisce il proprio andare “oltre”, è fare dell’esistenza umana una manifestazione dell’Essere, che in essa si rivela e insieme si nasconde. L’Essere è la totalità che emerge da ogni singola cosa del mondo. È l’origine fondante che regge gli enti all’interno, e ne apre la soglia ontologica, cioè la luce entro cui l’ente si fa visibile in quanto è. L’Essere è il bordo non aggirabile della comprensione. Non spetta all’uomo cercare l’Essere, o tentare di conoscerlo. L’uomo non può far altro che abbandonarvisi e accettare le rivelazioni di cui l’Essere stesso prende iniziativa. L’Essere si manifesta per illuminazioni che accadono e, accadendo, si consegnano all’uomo. Tali rivelazioni avvengono attraverso il linguaggio poetico.

In questi ultimi anni la poesia italiana

In questi ultimi anni la poesia italiana ha mostrato segni di un cambiamento, di rinnovamento, si sono verificati dei ripensamenti sulla eredità che il secondo Novecento ci ha lasciato. Questo lo ritengo un fatto positivo. Personalmente, mi ritengo coinvolto in questo processo di rinnovamento della poesia italiana, forse certe mie affermazioni possono suonare apodittiche e eccessivamente taglienti, ma credo che sia necessario, in questa contingenza stilistica della poesia italiana, essere ed apparire categorici, anche con il rischio di essere fraintesi.

Il richiamo a Tranströmer era necessario, la prima opera di Tomas  Tranströmer, 17 poesie, risale nientemeno al 1954 e da noi quelle poesie sono state tradotte dall’encomiabile Enrico Tiozzo soltanto da pochi anni. Il fatto è che un ritardo così cospicuo di un libro così rivoluzionario ha determinato e contribuito alla provincializzazione della poesia italiana sempre più chiusa entro i suoi asfittici recinti. Credo che sia necessario, oggi, riproporre il problema del «cambio di paradigma», ritrovare i nostri progenitori di una poesia «diversa»; sono convinto che cercare strade nuove sia un dovere imprescindibile per la nuova poesia italiana. I poeti nuovi ci sono, basta cercarli e saperli leggere: Mario Gabriele, Steven Grieco-Rathgeb, Antonio Sagredo ed altri che non nomino, la loro poesia è da tempo indirizzata in nuove esplorazioni e direzioni di ricerca, ed è talmente «diversa» da quella cui siamo abituati che rischia di passare inosservata.

Ad esempio, la «sospensione della temporalità», l’accelerazione e il rallentamento del tempo interno di una poesia» (secondo la teoria espressa in questa rivista da Steven Grieco-Rathgeb) che la «nuova poesia» persegue è una condizione preliminare della praxis poetica. In tal senso, la poesia occidentale può e deve far propri alcuni assunti di posizione poetica presente negli haiku giapponesi e, conseguentemente, nei tentativi di scrivere haiku «occidentali». La sospensione, il rallentamento e l’accelerazione della temporalità sono dei modi per introdurre una «rottura» della stabilità temporale e introdurci in una condizione di instabilità. Una condizione di disequilibrio che apre un varco nella memoria profonda e consente di riallacciarci alla condizione primaria della nostra psiche, agli «oggetti profondi» (le «posate d’argento» di Tomas Tranströmer) che giacciono e si depositano nel fondo della condizione stabile del nostro sottosuolo, una dimensione libera da quella illusoria credenza nella stabilità e nella continuità spazio temporale della nostra vita quotidiana. Leggiamo due versi fulminanti di Tranströmer:

Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è più nero.

Il nuovo concetto di «tempo» di cui Prigogine dà il trionfale annuncio nell’opera From Being to Becoming (1978), ci dice di un «secondo tempo», non più parametro (come nella fisica classica) ma operatore di una descrizione probabilistica, il «tempo interno». Continua Prigogine: «la giustificazione di questo punto di vista sta nell’osservazione che la natura, così come appare intorno a noi, è asimmetrica rispetto al tempo. Tutti noi invecchiamo insieme! E nessuno ha ancora osservato una stella che segua la sequenza principale a rovescio». L’obiettivo polemico è dato dalla critica alla tradizione occidentale «centrata sul tempo» e l’immagine «senza tempo» della fisica classica irretita dal modello platonico della Verità eterna e atemporale. Non a caso la storia della filosofia da Kant a Whitehead sarebbe segnata dallo sforzo di rimuovere questo ostacolo mediante l’introduzione di un’«altra realtà», il «mondo noumenico», gli «oggetti eterni» etc.. Tuttavia la meccanica quantistica e relatività generale sono portatrici di «una negazione radicale dell’irreversibilità temporale».

Ora, sta di fatto, che ciascuno di noi nella esistenza quotidiana sperimenta in sé un «tempo interno» che è diverso dal tempo interno di un altro essere vivente. Il «tempo interno» quindi è una realtà ontologica che non può essere dimenticata in sede di ontologia, perché ciascuno di noi lo sperimenta quotidianamente, ed esso esiste, pur non esistendo un tempo sovrano e unidimensionale. Il «tempo», per Prigogine, rappresenta il «filo conduttore» che consente di articolare a tutti i livelli le nostre descrizioni dell’universo. Resta però oscura la sua origine: «Come potrebbe sorgere da una realtà essenzialmente atemporale questo tempo creatore che costituisce la trama delle nostre vite?».
Si ripropone così il tema agostiniano del «prima» della Creazione. E il problema della ragion sufficiente dei processi unidirezionali come il tempo nel quale viviamo.
Ecco, io direi che la «nuova poesia» ci costringe a riparametrare il nostro «tempo interno» con il «tempo esterno» e a rimodulare la nostra sensibilità nei confronti del «mondo».

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Francesca Tuscano POESIE SCELTE da Thalassa, Mimesis-Hebenon, Milano 2015 – Poesia surrazionale, sovrassatura di toni – Poesia connotativa – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

foto donna con corvoFrancesca Tuscano è nata il 7 settembre 1964. Ha lavorato come burattinaia, insegnante (di russo e di italiano), archivista e traduttrice. Ha scritto di storia della musica russa e italiana, di teatro russo del Novecento, di traduzione dal russo (in Italia), di rapporti tra cultura italiana e cultura russa, e di letteratura italiana contemporanea (in particolare, di Alvaro e Pasolini). Ha scritto i libretti delle opere – Incontro (tratta da Occhi sulla Graticola di Tiziano Scarpa, musica di Fausto Tuscano), La canzone del re (musica di Fausto Tuscano) e Parole-morte (ispirata all’opera di Lovecraft, musica di Juan García Rodríguez). Ha pubblicato la raccolta di poesie M.Y.T.O., scritta con Damiano Frascarelli (Edizioni EraNuova, 2003), il pezzo per teatro Come si usano gli articoli ne “I diritti dei bambini”, scritto con Daniela Margheriti (Rubbettino, 2005) e La notte di Margot (Hebenon-Mimesis, 2007). Sue poesie sono state pubblicate in Terra e scrittura. Voci dalla cultura calabrese (Paideia, 2003) e Oro in tavola. Conversazioni e ricette sull’olio, di Grazia Furferi (Paideia, 2003). Ha tradotto e curato La fine del cinema? di Roman Jakobson (Book Time, 2009) e pubblicato La Russia nella poesia di Pier Paolo Pasolini (Book Time, 2010), Gli stagni di Mosca (lavitafelice, 2011).
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Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
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Il libro di Francesca Tuscano si presenta privo di prefazione, di postfazione e di risvolto di copertina, segno di una sfiducia nelle virtù della critica letteraria, segno di grande modestia ma anche della sicurezza nei propri mezzi espressivi. La poesia è nuda (al massimo può essere accompagnata da un corvo), se c’è, deve giungere al lettore con i propri mezzi, senza le stampelle di accompagno di una critica augurale e amicale, come oggi si usa. Mi sembra un ottimo segnale di presentazione. Francesca Tuscano mette subito le carte in tavola. Si presenta con una scrittura fitta, serrata, raddoppiata, intensificata che fa uso di figure retoriche come l’anafora, il frammento, la citazione, la ripetizione; una scrittura che preferisce l’intensificazione e l’accentuazione dei timbri e dei toni ed evita, deliberatamente le ralenti, il largo e l’andante. Circola in queste poesie una atmosfera sovrassatura di gridi soffocati e di esclamazioni intermesse, di sovra toni, di un lessico preferibilmente ultroneo con preferenza per il tono asseverativo, assertorio, quasi numinoso, una concentrazione di immagini e di lessemi in orchestrazione che si rinforzano a vicenda. Uno stile «surrazionale», per usare una dizione di Roberto Bertoldo, ovvero, sovratono, connotativo. Roberto Bertoldo a proposito del suo concetto di «surrazionalismo», scrive: «La poesia resta una creazione oltre la ragione e la realtà, però passa nel corpo dell’autore, attraverso di esse. La ragione che va oltre la ragione assume in sé quegli “integratori emotivi” che la qualificano. Il surrazionalismo è questa ragione che ‘risolve’ la contraddizione nell’emozione»*  Oserei dire che la poesia della Tuscano fa largo impiego di «integratori emotivi», quegli emoticon letterari che costituiscono l’ossatura e il DNA della poesia metafisica; e lo fa con grande perizia e felicità espressiva:
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Lo scarto, il relitto hanno la densità translucida della perla ingiallita.
Il loro valore è nell’essere ancora, malgrado la fine.
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Una scrittura sicura di se stessa, che sa come presentarsi al lettore, senza giochi di parole e senza ironia. Fin qui il bene di una scrittura complessa, incalzante, ardimentosa, il che non è poco in tempi di malthusiano perbenismo da refettorio e conformismo poliziesco. A volte, è proprio quell’eccesso di assertoricità che finisce per  nuocere, a scapito della leggerezza, della alternanza dei toni e della variazione delle note del pentagramma, ma è una annotazione da fare in punta di penna; la Tuscano fa poesia sfruttando le capacità lessematiche di pochi nuclei semantici e metaforici, punta su quelli fino alla fine, senza indugio, con caparbietà, una scrittura che vuole scuotere e coinvolgere il lettore, lo vuole indurre in responsabilità.

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* R.Bertoldo Nullismo e letteratura p. 251 Mimesis, 2012

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francesca tuscano

francesca tuscano

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Poesie di Francesca Tuscano da “Thalassa” Mimesis-Hebenon, 2015
(a Lucina)

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Rientrare nell’origine del silenzio.
Attendere il ritmo del fiore di carne.
Ascoltare le palme unite che stringono la cosa comune.

Qui c’è il mare che si allarga a cerchi
nello spazio indefinito dell’immanenza.

Puttane dolcissime, che con il sorriso della carne
indicate il ritorno – se fossi viva vi benedirei,
con il segno obliquo dell’acqua.

***

Un giorno si leverà la polvere gialla a dirci che il nostro secolo è finito.
Molti, i più, saranno ancora chiusi tra i muri dei finti diari di narciso.
Alcuni, pochi veramente pochi, correranno dietro ad uno straccio nero.

È stato un tempo come un altro, questo, e senza ruderi da lasciare.

Se si sezionasse la vittima dell’angelo voltato, si vedrebbe sotto pelle
pulsare un ridicolo cuore a forma di ombelico. Un feto nel feto,
che sorride della fine che si chiude nel principio, felice della sua morte insulsa.

Più ad est, nelle terre della devastazione, la vita ha smesso di essere storia.

***

Brucia i mattoni il sole. E tu sorridi, con lo sguardo idiota dell’amore.

Io aspetto, nel terzo cerchio della prospettiva inversa, e conto gli spilli
infilati nella rossa rosa tatuata sulla schiena dell’addio.

Dicono sia sogno di molti tornare nella caverna da cui tutti uscimmo.

Camminarono svelti i passanti del domani, certi della loro esistenza.
Ma io mi disperdo in angoli e frattali, sicura che nessuno guarderà a questa nuova luna.

***

Lo scarto, il relitto hanno la densità translucida della perla ingiallita.
Il loro valore è nell’essere ancora, malgrado la fine.

Questa notte non si contano più le cicale. Non si contano gli occhi.

Nel terzo cerchio il nulla insegue le ombre dei sensi.
Mai più, mai più noi sapremo quanto lontana è l’ultima fuga nel ventre.

***

francesca tuscano Thalassa cop

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Labile è il limite tra la necessità del vivere e il desiderio di morire.
Labile quanto questa diffusa luce inconsistente.

Mi guarda la tortora, nel buio dell’edera.
I suoi occhi invitano al viaggio più delle ali dell’albatro ferito.

***

Beato l’ultimo che ignora di essere il primo.
Beato il santo idiota che non possiede né cieli né terre.
Beato colui che ha dato la giustezza al nulla.
Beato il ventre che non ha voluto il ritorno del feto.

Beata la notte che anticipa il giorno, seguendo la lama del coltello.

***

Ho attraversato ponti ed attese.
Ora mi fermo di fronte alla casa dell’esilio.
Molte vittime crea l’incuria del tempo,
e molti inutili carnefici si illudono –
non è umano il potere del dolore.
La rivolta è solo in questo,
in questo urlo contro i colpevoli Lumi,
che ancora gridano giustizia senza guardare il cadavere
e l’incolpevole fetore della sua eredità organica.

Guardo alle spalle per trovare l’ombra che non ho,
e trovo il mare, e la sua morte voluta,
e la sua vita incolpevole.

Nuda, nuda, nuda passerei per queste strade,
come fece Godiva, e i suoi sciolti capelli innocenti.

***

La retorica delle madri e dei padri insiste nell’ombra del regno perduto.

Non esiste che una maledizione, e piccoloborghese – incistirsi nell’utero
beato del “sì”. Cercare il perdono (per la colpa mai avuta)
nell’approvazione di piccoli padri e piccole madri crudeli,
accecati dai loro piccoli specchi. In poche zolle di terra finisce la gloria
della tolleranza. In molte lune di traverso si perde la preghiera del feto.

Nel silenzio si affilano i coltelli. Beato chi è diverso, e i suoi umili occhi di sasso.

***

Tu l’hai saputa la vita altra che ti cresce dentro.
Un tempo guardavo al mio ventre come al segno sbagliato.
Ma ora so, e anche tu me l’hai detto, che non c’è ventre
che non conosca la vita, quando dentro di sé fa cadere l’ultimo seme sprecato.

Nulla di vivo. Nulla di morto. Solo occhi che guardano occhi.
E la pelle che ancora racconta dell’ultimo passo sulla via del ritorno.

***

Lungo il fiume di pietra, che oggi attende la pioggia feroce,
tu hai raccolto il luppolo dolce, e altre erbe vive.

Esce a stento il respiro, mentre al fiume ora guardo
e alle rive di fango. Anche qui ho ascoltato le allegre menzogne

del dopo. Ma si perda il dolore, dentro l’angolo grigio
alla svolta del ponte. Niente semi dispersi dietro l’ultima barca.

Tu lo sai quante noi noi abbiamo guardato, mentre all’alba
sbattevano contro l’argine buio e cadevano a pezzi, nel vuoto.

Ma che ad altre ora succhino il sangue. Che ad altre
regalino specchi ingialliti. Noi sappiamo dell’anima dolce

che non vuole riflessi. Ora udire la voce lontana
è ascoltare il grido di un’altra. Il silenzio del corpo ci ha detto

che è peccato sognare nel sogno di un sogno di un sogno.

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francesca tuscano JakobsonRoma

La Bellezza di Roma è quella dell’assassino.
Quella che rende colpevoli, anche nell’assenza.

Come ascoltare le retoriche colpe altrui, come le altrui virtù,
quando il silenzio accompagna le rovine di chi non fu che l’ombra
che vive ancora della solitudine del marmo?

Non sono questi i tempi dell’agonia delle statue.
Roma non è che un nome, nel cronotopo del vuoto.

***

Se nel mio mare è il dolore
(ormai lo so, non si guarisce, e questo è un bene),
in queste colline è il logos
(che deve essere, e anche questo ho imparato).

Ma è nello spazio, che non separa e non unisce,
è nel nulla del movimento tra le colline e il mare,
la giusta disperazione della vita.

***

Non pensavo all’odore dell’ombra,
né al rumore dell’argine asciutto.
Pensavo all’inutile suono del viaggio.

Se solo nel buio posso ora guardare a ciò
che mi ha fatto di terra e di sale,
è perché l’immagine è un andare di luce.

E lungo la strada raccolgo le pietre
che servono all’alba, per segnare ogni orma.

Cantavamo giustizia, e ci hanno accecati,
con spilli sottili ed infetti. Come il loro pensiero.

***

Dicono fosse avvenuto. Lei era morta, lì.
Lo avevano visto solo i margini bianchi
dei fogli, e il marmo sporco dei binari.

Lui non voleva che lei piangesse.
Ma i gabbiani gridavano e Nessuno si specchiava
nella camera triste della stazione.

C’è un diritto nell’esilio. E un doppio che ci segue.
C’è Penelope, che non vuole partire.

Le tele le tesse chi le deve strappare.
I naufraghi raccolgono scarti, rari come diamanti.

***

Galleggiano i suoi grandi occhi vuoti. Cercano invano
lo slancio che manca all’imitatore virtuoso.

La bionda affastella i pieni ed i vuoti, e a margine
(vuoto) inserisce sue note preziose
(così si diventa poi degne di note).

Nei sensi immutati dissolti in parole
sta il pianto del servo che ha perso il padrone.

Si supplica, dentro, e fuori l’ellissi di alberi ed acqua
si gonfia del vento sospeso
che alza la falsa memoria
di questa città, svenduta come carne disfatta.

Esiste, nell’immagine solo, la viva bellezza del segno.
Allegoria è tutto il resto. E borghese.

(Roma 2014)

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Francesca Tuscano_RussiaLontano

Sono solo le ultime nuvole, al limite dei rami,
è solo la strada del nulla degli uomini di fango.

Non è finito il tempo della maledizione della Parola.
Ancora, ancora non si può scrivere poesia.

I buoni propositi non possiedono l’eleganza
del cadavere, esposto nella fossa scoperta.

La vergogna non salda il corpo nudo al silenzio.
Lo sputo si è fatto mare, putridamente vuoto.

Leucò

Accanto al grido del corvo mi siedo a contare
quando agli uomini è preclusa la voce che ascolta.

Meglio così. Meglio contare questa pioggia obliqua,
e il suo andare capovolto, la sua certezza.

Nel tempo che anche a me è toccato, non esiste più voce.
E chi ne ha, guarda alla bianca pietra dell’eco, a denti stretti.

***

Là dove le nebbie s’acquietano,
volano le cornacchie senza orizzonte, all’ombra del grido.

Non seguire la donna che piange.
È l’ora della rabbia questa!
Dell’urlo, e del graffio sul melo.

Se il destino del fiume è lo scoglio di Leucò,
che la mia bocca sia solo canto e solo morso.

***

Le nebbie si alzano come un incendio.
Si contano uno ad uno gli aghi dei pini.

Vedo ancora e sento ancora il tuo arrivo,
e ancora conto i passi della tua partenza.

In una nuova solitudine, penso alla rivolta
che indica la strada disperata della pioggia.

Volevo offrirti una lingua perfetta, come una pistola.

Ma ho serrato i denti, soltanto, credendo
di ritrovarti un giorno, nell’acqua marcita
del grande fiume, che odora di merda e orchidee.

Il mio cuore, allora, diventato vecchio,
sarà incapace di tradire. Finalmente pronto
a rendere più giusta la mira, nel cielo bianco.

***

Vedo attraverso le quote di vento che mi sono toccate.
Non conosco il loro numero esatto, ma non serve saperlo.

Oggi la stanchezza ha raggiunto il limite del buio.
Non vedo più niente che si alzi dalla cenere.

Rotea la foglia contro il cielo dell’angolo da dove vedevo il sole del passato.

Quanta inutile morte accompagnerà anche questo giorno.
Di quanto pianto dovremmo piangere, se fossimo vivi.

Ma siamo cenere. E non è per questo.

***

Le notti si chiudono, nel silenzio a cui mi condanni.
Così si contano gli inviti dei balconi.
Così la melma impietrisce, nella ferita voluta.

Certo che altri occhi ci salveranno,
che altre mani avranno le certezze senza ritorno.
Ma a me non rimane che la tua spalla volta.

E allora scelgo strade che ancora ricompongano la carne,
che allontanino la punta del sasso dalla mano.
Che mi dicano – l’ombra non è che la luce, riflessa.

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Mimesis

Dagli occhi di Chlebnikov ho visto campane volare,
fluttuare dita come erba, ribollire acqua come salnitro.
Poi, ho letto di come ci si possa dare ragione senza scaltrezza,
convinti che basti poco a saltare la siepe di canne.

E allora, ho scelto il silenzio, e l’assenza dei nomi,
e la discrezione del dolore che non dimentica, per non farsi potere.

L’esperienza, si diceva, scivolando tra alfabeti, tra cose e parole.
Già, l’esperienza. Cosa su cui non si discetta se si è vivi.

Baroni saggi, cupe signore dagli abiti lunghi di color Deleuze,
vi prego, tornate ai vostri ombelichi, ed ai brillanti.

Ho visto rimpianti fuggire su strade di fango,
e nessuno a rincorrerli, fuorché il passero grigio.
Per questo ho smesso di leggere ciò che non è stato.
E alla morale di specchio ho offerto un chiodo sottile.

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Roberto Bertoldo AUTOANTOLOGIA – POESIE – con un Saggio di Giorgio Linguaglossa “la poetica del post-contemporaneo: il tonosimbolismo”

Born in Mexico City in 1963, Moises Levy, Architettura nella luce

Born in Mexico City in 1963, Moises Levy, Architettura nella luce

  Roberto Bertoldo è nato nel 1957 e risiede a Burolo (TO). Nella seconda metà degli anni ’70 ha partecipato a numerose manifestazioni letterarie in veste di poeta e redattore di rivista. Dopo la laurea (tesi: Ermetismo come petrarchismo) ha preferito fare vita ritirata per proseguire la sua personale ricerca di scrittore. Di questi anni sono i libri di narrativa L’abitudine, Il cammello oltre la cruna, Le favole del fiume d’ebano, Satio, I nichilisti e le raccolte poetiche Nuvole in agonia, Il pan-demonio, Il rododendro, tutti libri inediti. Nel 1996 è uscito dall’isolamento fondando la rivista internazionale di letteratura “Hebenon”, di cui è direttore, e cominciando a professare la sua filosofia del “nullismo”. Nel 1998 ha pubblicato i romanzi brevi Il Lucifero di Wittenberg e Anschluss, Asefi Terziaria, Milano, e il saggio Nullismo e letteratura. Per una filosofia fenomenica e una epistemologia della letteratura postcontemporanea, Interlinea, Novara (Nuova edizione riveduta e ampliata: Nullismo e letteratura. Al di là del nichilismo e del postmoderno debole. Saggio sulla scientificità dell’opera letteraria, Mimesis, Milano 2011), libro nel quale, attraverso una reinterpretazione del pensiero leopardiano posto come fondamento dell’esistenzialismo nullistico di Camus e attraverso analisi epistemologiche, delinea le possibili direttrici di una letteratura postnichilistica. A dicembre 2000 è uscito il suo libro di poesie, Il calvario delle gru, presso l’editore La Vita Felice di Milano e successivamente in forma bilingue presso l’editore Bordighera Press di New York. Nel 2002 viene edito il suo libro di narrativa Anche gli ebrei sono cattivi, Marsilio, Venezia e nel 2003 il saggio filosofico Principi di fenomenognomica con applicazione alla letteratura, Guerini & Associati, Milano. Nel frattempo ha scritto ancora i libri di poesie Il codice delle stagioni (inedito) e L’archivio delle bestemmie (Mimesis, Milano 2006) e, negli anni 2003-2004, i romanzi Amori postumi (inedito), L’infame (La vita felice, Milano 2010) e Ladyboy (Mimesis, Milano 2009). Dal 2004 ad oggi si è dedicato prevalentemente a sviluppare la sua filosofia, arricchitasi di una nuova forma di indagine detta “fenomenognomica”, che vede per ora l’uscita di Sui fondamenti dell’amore (Guerini & Associati, Milano 2006), Anarchismo senza anarchia (Mimesis, Milano 2009), l’opuscolo Chimica dell’insurrezione (Mimesi, Milano 2011) e il saggio Istinto e logica della mente (Mimesis, Milano 2013). Svolge l’attività di insegnante e cura collane di saggistica e di poesia straniera.

da Il calvario delle gru, Bordighera Press, New York 2000

hopkins Autoritratto

hopkins Autoritratto

Sera a Sarajevo

E a volte le sere hanno questo spettro di silenzi,
a festone di beccafichi, sulle canape, a nastro.
E qualche farfalla, rara, e le rondini, a macchie,
sui fili. Ad ascoltare tenui affetti,
come un funerale che ascolta i morti,
a grappolo, il loro canto ebbro tra le cicale
e i caprimulgi. A volte le sere stanano
ingiurie, non altro che ingiurie, di morti,
la gruma del vino, l’ultima melodia. Di questo
è il vento che tace.

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da L’archivio delle bestemmie, Mimesis, Milano 2006

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Forse non è il lago (11 settembre 2001)

Forse non è il lago che fuma.
È la sera che, scendendo, spezza i rami
dell’acqua morta. Poi volano anche le anatre,
allungate come serve. Anche i pesci evadono
e hanno un occhio sconfitto, sanno
il nostro odore di uomini, quella puzza
di cadaveri trascendentali.
Oggi non è più il lago che fuma,
è l’eccetera della coscienza.

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L’ultima

Signori, io ho appesantito la pioggia
con le lacrime delle bestie
che avete gettato nella fangaia
insieme a questi versi che ho lucidato
per accogliere il grido che risale
dalle orde, al clivo dei mattatoi.
Ma io sono di questa carne il peccato
che piange, l’onere promiscuo
che raffina la mattanza.

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Amore inibito

Denoti assoluta morte nell’eremo
che in petto ti rovisto per amarmi.
Più che mai indago l’infezione che è in te
e scendo nell’alveo rosso del tuo crepaccio.
Indulgo al gelido che costringi con labbra infami,
rovino tra i tuoi denti,
scivolo sulla tua lingua muta,
mi apro un varco.
Bacio dunque la filigrana della mia colpa
sul tuo viso di banconota che compra
la sua pace, senza sorrisi né delicatezze.
Avrei dovuto concederti l’intera fragilità
della mia rabbia, ma sono tenue
e insacco il male nella tela dei versi.
Non avrei potuto neppure regalartela
la mia testa, a cento ghigliottine offerta,
invano. L’amore resiste alle lame,
alla gotta del tuo cuore irrisorio,
al tuo rancore incivile che lo rassetta
nel contocorrente della mia tenerezza.

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La comunione

Rendimi le tue labbra che il mio bacio
ha voluto districare dalle nubi,
inventa un altro proposito per le tue campagne,
l’amore è quel cirro che la vetta del pino
ingoia come un’ostia.
Sorprendi la tua rendita
con la veste di donna che neghi
e rincuora questo mio cervello affranto
che dileggia l’anima.
Noi viviamo d’ansia e di giustizia affascinata
in queste camicie di forza
che spezzerò come il corpo di cristo,
io ribelle che ho la ventura
con la mia bocca pazza e bastarda
di consegnarti l’eucarestia.

da Pergamena dei ribelli, Joker, Novi Ligure 2011

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Hanno violentato…

Hanno violentato il petto degli uomini
e questa schifosa poesia non ha ritmo
di rabbia e disgusto
ma cianfrusaglie
e ridicolo maquillage
un albore che si barcamena
tra le strane mimose del suo proscenio
e la lezione dei rampichini
sulla lavagna del vento
noi con le stesse braccia sul paretaio
eravamo uccelli che volavano
hanno violentato il nostro sorriso
che la morte trascina lentamente
nel suo sfregio
noi che tenevamo la morte in pugno
e potevamo salvarvi dai ghiacciai
ci avete ammessi alla vostra violenza
e all’infamia delle vostre donne
abbiamo dita caparbie che strapazzano la gloria
ma che non sanno con la penna
richiamare alle lacrime
gli occhi esili dei lettori.
Amici, la fronda dell’amore
ha foglie almeno per voi
che avete cuore sufficiente.

Avete appreso…

Avete appeso i colori dove il cielo era nero,
queste che vedete sono mani imperiture però,
macchiate, sia pure, con vernici d’oltre,
ma pronte alla battaglia contro tutti gli dei
che possa la vostra boria.
Anche le nostre labbra sono imperiture,
mica di pusillanimi poeti col cuore in ciabatte,
pure da seduti siamo sfrontati noi operai della parola,
noi vere bestie in agonia sulle greppie,
nelle mense per sfollati. Il parlamento è per i vostri poeti,
noi vogliamo il foglio dove scavare trincee,
anche chi scrive si prende le pallottole
quando trova la bellezza e la innalza
come una baionetta.

Vogliamo una poesia…

Vogliamo una poesia che sdruccioli sui pavimenti insanguinati
come le note d’un pianoforte bizzarro,
vogliamo che gli uomini amino la bestemmia
perché abbiamo sorvolato le piogge che sgretolano le nubi,
perché abbiamo portato dentro le età delle bestie
e le sconfitte e i rimorsi. Ma c’è sangue
anche nelle bifore, dove il bene e il male
hanno sguardi doppi e vogliamo una donna
che non abbia il volto di questo dio mediocre
che ha costruito poesie infelici.
Non ci sono strade più arcuate di questa
che ci trapassa d’amore e ci ha visti impropri
perché la spada si piega quando ha in punta
il peso della morte.

Affinché l’estuario…

Affinché l’estuario evada il nostro sangue
abbiamo amato l’affanno dei poeti –
ecco le loro lingue stupide e contrite
sui banconi dei macellai,
i numeri hanno sconfitto le parole,
sono carne di bue le poesie
sono occhi imbolsiti e orecchie pendenti.
È importante discutere dell’anima delle puttane,
noi tutti ne abbiamo una quando s’apparecchia la tavola,
è la sembianza del mercato,
il frutto che nel peccato è nudo
come il re che paga i poeti.
Ma i banconi sono spietati,
ogni acquirente ci mette le mani
e prova i versi sul suo corpo,
indossa anche le cimici.
Così è la moltitudine che misura il valore
senza conoscere la teoria dei quanti
ma con il peso della luce e della vanità.

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la poetica del post-contemporaneo: il tonosimbolismo di Roberto Bertoldo*

 «Come tutti i secoli che ereditano una rivoluzione paradigmatica della cultura, il Novecento ha vissuto il fascino di un’indolente, vile e superficiale controcultura. La neocultura del relativismo scettico, dell’informità, dell’indeterminismo, dell’antinomismo, ecc., ha faticato non dico a farsi strada ma anche solo a respirare sotto lo sbordante grasso della pseudocultura decadente. Sì, il decadentismo, che è una mentalità e non l’organigramma di una cultura, ha avuto vita facile con la sua fuga dalla realtà e dalle conoscenze scientifiche contemporanee, con la sua nostalgia dei valori assoluti, con la sua deformità meramente tecnica e sostanzialmente ludica, col suo storicismo finalistico e con l’influsso delle teorie estetiche metafisiche non differenziali, l’ero-teismo (… ho scelto di distinguere il postmoderno forte (o postcontemporaneo) dal postmoderno debole o decadentismo (…)

Il nichilismo non è l’uscita dalla modernità, ma l’approdo della modernità: un approdo epistemologico… La vera uscita dalla modernità consiste nell’uscita dal nichilismo, debole o forte che sia. Un’uscita che si compie solo nella ricostituzione dei valori mondani, ossia nell’emendarli da ogni incrostazione metafisica. Non è affatto vero che “un superamento critico” della modernità “sarebbe un passo ancora tutto interno alla modernità stessa” in quanto “fondato”… Il nichilismo che Vattimo pretende “debole” è semplicemente un nichilismo epistemologico (assenza di fondamenti)… Il nullismo, che abbraccia il post-moderno forte, non sostiene un nichilismo epistemologico, ma lo combatte con la sua epistemologia scettica… È questo scetticismo che riscatta il postmoderno. Il pensiero “debole” di cui parla Vattimo è un indebolimento del pensiero forte, in quanto metafisico, della modernità».[1]
È il pensiero di Roberto Bertoldo, un caso atipico di poeta-filosofo. Basti dire che in tutto il Novecento italiano non è dato riscontrare un altro poeta che abbia speculato da filosofo sulla questione che si chiama «decadentismo» e sulla elaborazione di una solida filosofia dell’arte. «Ogni stile è acquisibile in una cultura fondamentalmente ermeneutica. Il postmoderno è oltre lo stile, è nel metodo… nel suo adattamento al reale, negli stili che esso abbraccia. Esso è interpretazione, dunque libertà stilistica e… induttività ermeneutica». Bertoldo si chiede: che cos’è il  nullismo? Stabilisce una equivalenza tra il suo concetto di postmoderno e il nullismo, e di qui procede alla costruzione di una filosofia dell’arte rigorosamente materiata di «materia»; riparte da Leopardi per attraversare scrittori come Calvino, Borges e Queneau, i quali si sono limitati ad una rivoluzione solo «formale», per giungere a quello che l’autore chiama il nullismo, cioè «il rifiuto del decadentismo e delle sue viltà», a scrittori e poeti come Camus e Leopardi.[2]

L’intento di Bertoldo è fare un vero e proprio processo alla cultura (il «postmoderno debole») del Novecento. Ribaltare dal fondo la vecchia cultura del Novecento, demolirne le fondamenta per tentare di farla rinascere in chiave nullista (il «postmoderno forte o postcontemporaneo»), superando il nichilismo, per approdare ad una filosofia dell’arte e dell’azione che riparta dalla «sensazione» e giunga alla «materia», in opposizione al «nulla» quale è diventata la ricerca ossessiva del «nuovo» delle società tardo moderne. Il «nulla» del nullismo bertoldiano è la struttura stabile della «materia»: «il nullista lotta disperatamente contro il nulla e in questa lotta disperata c’è la difesa disperata di sé».

Bertoldo traccia una via di uscita: andare al di là del nichilismo e del postmoderno debole: il post-contemporaneo è esattamente questo accettare l’idea di un concetto di letteratura come azione, lotta disperata contro il nulla del nichilismo e contro tutte le tendenze dissolvitrici del tardo decadentismo. Per illustrare questo tragitto il poeta piemontese traccia le coordinate di una filosofia dell’arte: il tonosimbolismo.
Riguardo il tono, riporto questa perfetta definizione di Blanchot: “il tono non è la voce dello scrittore, ma l’intimità del silenzio che egli impone alla parola, ciò che fa che questo silenzio sia ancora il suo, ciò che resta di lui nella discrezione del suo porsi in disparte. Il tono fa i grandi scrittori”…

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Con “tono” intendo il valore (altezza, timbro e intensità) di un suono. Il tono è nel rapporto tra fonosimbolismo e simbolismo … tra figure retoriche sintagmatiche e figure retoriche paradigmatiche. Se nel simbolismo tradizionale la relazione è paradigmatica, così come nel fonosimbolismo, dove la relazione sintagmatica è solo sonora (e riguarda figure di ripetizione fonica), nel tonosimbolismo essa, quantitativa o qualitativa, è anche sintagmatica (es. concreto/astratto: “nubi silenti”, contenente/contenuto: “Parole di inverni”, e così via, sino a forme molto più complesse).[3]
Parallelamente alla maturazione della sua poesia, il poeta piemontese è costretto ad avviare una riflessione filosofica sui fondamentali filosofici. Per Bertoldo è una necessità speculare sul nichilismo contemporaneo e sulla «fenomenognomica» (una scienza che cerca di intuire la natura dei singoli fenomeni), per poter fare poi il passo successivo verso la costruzione di una poesia che sia il precipitato, la sintesi e il traslato di quella speculazione. In realtà, in Bertoldo riflessione filosofica e quella poetica procedono parallele. I suoi libri di riflessione filosofica, Nullismo e letteratura  e Principi di fenomenognomica (2003), costituiscono la sostanza e la cornice del suo pensiero poetico, formano una linea di resistenza nei confronti del pensiero debole, sostanzialmente ancorato al concetto gadameriano di interpretazione a fronte del quale Bertoldo elabora la sua teoria estetica fondata sul tonosimbolismo, un superamento del fonosimbolismo (che ha i suoi maestri in D’Annunzio e Pascoli ma anche in Poe). È necessario quindi fare una virata di 180 gradi nei confronti della tradizione del Novecento. Il risultato di questa impostazione è una poesia che dice ciò che è difficile dire: il discorso poetico come spazio della riflessione astratta e che fa del tonosimbolismo il centro di gravità della nuova forma-poesia. In questa accezione, L’archivio delle bestemmie raccoglie i frutti del lavoro iniziato con Nuvole in agonia (1981) e proseguito con Il pan demonio (1994), Il rododendro (1999) e Il calvario delle gru (2000).

Tutta incentrata sulla rigida clausura dell’io lirico, la poesia di Roberto Bertoldo è in realtà una poesia emancipata, che ha preso congedo dal simbolismo ereditandone il legato testamentario; che ha saputo pensare la criticità della propria problematicità per aver fatto i conti con quella cultura critica che praticava il superamento dell’io lirico traendone tutte le conseguenze. La restaurazione della centralità del soggetto è l’aspetto più vistoso del discorso poetico bertoldiano. Bertoldo intuisce e comprende, con indubbia genialità, la necessità di riformulare una nuova poetica di tipo post-simbolistico nel quadro concettuale del postmoderno, comprende che soltanto attraversando criticamente il post-simbolismo si può attingere una poesia emancipata e culturalmente attrezzata sul piano metaforico, comprende che soltanto arretrando sulle posizioni di un consapevole modernismo si può uscire dalla palude dei cliché del minimalismo.

L’archivio delle bestemmie, già con il titolo ci introduce all’interno di quella problematica europea circa la non pronunciabilità della parola poetica che dal simbolismo e fino al post-simbolismo arriva intatta ai giorni nostri; la dichiarazione dell’autore posta ad inizio libro è quanto mai esplicita: «Per me la poesia è una forma di bestemmia, la più candida».  Si può parlare di «letteratura impura», fondata sul minor numero di stimoli diretti dell’«io» e sul più ampio ricorso alle proprietà intrinseche del linguaggio metaforico. La poesia intitolata «Ai sedicenti poeti» rappresenta una pietra miliare della presa di distanza nei confronti delle «parole da rotocalco» dei linguaggi poetici maggioritari:

.
Le vostre divine parole sono da rotocalco,
le mie, così blasfeme e plebee,
le affiggo sulle porte delle cattedrali.
 

bello le maniLa metafora nella poesia di Roberto Bertoldo si configura come parola impronunciabile, «bestemmia», pur se «la più candida», quale forma di eruzione sul piano del linguaggio poetico, effrazione dell’ordine linguistico accreditato, divenire manifesto della stazione temporale-esistenziale dell’«io» nel suo viaggio anacronistico attraverso i linguaggi poetici normativizzati. Il tragitto temporale si manifesta e si traduce in tragitto anacronistico dell’«io». L’«io» pronuncia un discorso poetico desueto e arcano, impenetrabile, itinerario di risoluzioni linguistiche eleganti e proterve, sistema combinatorio che ha il suo codice di espressione nel pentagramma armonico analogo a quello della musica. Una dis-armonia prestabilita, come forma di resistenza alla barbarie, è il compito che spetta al poeta. Secondo Valéry: le opere letterarie esigono molti prolegomeni: «esposizioni, descrizioni, preparazioni, che hanno come funzione: le une, di definire le componenti e le regole del gioco; le altre, di familiarizzare il lettore sconosciuto con la sensibilità dell’autore».[4]

Nella poesia di Bertoldo la temporalità linguistica è un tutt’uno con la temporalità esistenziale, è la manifestazione delle resistenze poste dal poeta alle condizioni di esistenza del discorso poetico; in altri termini, l’insieme delle possibilità di trasformazione del linguaggio poetico espressivo. Ovvero, la metafora bertoldiana si configura come soluzione linguistica di un tragitto anacronistico e irriconoscibile. L’evento linguistico è il capovolgimento del divenire, cioè appunto, l’inversione, l’aprirsi di qualcosa di chiuso mediante un capovolgimento. La metafora bertoldiana si configura così come un cobordismo, una realtà chiuso-aperta che i fisici-matematici individuano quale modalità di esistenza dell’universo. Ma che cosa è «chiuso» nella lingua? La chiusura della lingua è l’essere muti: l’indicibilità della parola ad aprirsi. La metafora bertoldiana è nient’altro che quell’apertura in cui la parola anacronistica si rivela nella estraniazione dell’immagine. Nel lampeggiare la metafora bertoldiana trova il suo dispiegamento come univocità assoluta: il Passato precipita nel Presente e la metafora si configura come cicatrice dell’essenza.

La lingua poetica è un reale dispiegato, prodotto d’astrazione dell’intenzione significante. La metafora bertoldiana è una cicatrice linguistica che prende le distanze dal reale reificato e feticizzato dei linguaggi non dispiegati alla cui latenza contemplativa corrisponde l’essere legati da un rapporto parassitario con la lingua relazionale. Là dove la lingua è ridotta a strumento di un rapporto contemplativo, c’è soltanto emulazione e apologia, tautologia e servitù. Attraverso la metafora il linguaggio poetico bertoldiano diventa comunicazione simbolica, ci rivela la sua essenza, diviene vivo e reale, libero da ogni rapporto pragmatico-didattico e utilitaristico dei discorsi del suasorio come avviene nell’epigonismo corrente degli orientamenti poetici che non hanno meditato su queste problematiche. Soltanto là dove non è dato rinvenire astuzia o scaltrezza la lingua ci manifesta tutta la sua bellezza e si dispiega. La poesia che segue, intitolata «Il cavallo di legno», è un esempio impareggiabile della procedura cinetica e metaforica, a scatole cinesi, dove una metafora è contenuta dentro l’altra, dove l’interno è contenuto nell’esterno, e viceversa, come negli esiti dei cobordismi della fisica contemporanea:

Striglio invano il cavallo a dondolo,
la schiena di legno s’impone,
così getto le redini e il ballo
che era la tua infamia.
Che dici quando ostenti la carola
dove si compie la polvere?
questa brace di tarli sotto la sella
nell’arcione della memoria
che vacilla e respira e sfoca?
Forse avrai il perdono della corte
perché sei l’esatta putredine
pulcritudine delle mie ossa.

Dove il brillante chiasmo finale intende sottolineare e sottintendere quell’interscambiabilità interno-esterno, quel particolare reale dispiegato che contraddistingue la metafora bertoldiana.

Jason Langer, 2001

Jason Langer, 2001

Ma a questo punto dobbiamo chiederci: la metafora è una cicatrice linguistica? E che cos’è la cicatrice linguistica? È ciò che resta dopo la combustione? È ciò che resta dopo l’infezione del tessuto linguistico? Sono le scorie e i reperti dell’eruzione linguistica, il magma eruttato e solidificatosi durante il processo del raffreddamento? Tutta la fenomenologia dei tonosimbolismi bertoldiani è legata alla problematica del simbolico nel tardo moderno, all’impossibilità della pronuncia della parola poetica, al carattere profondamente luttuoso che la pronuncia della parola poetica ritiene quale contrassegno del paradiso perduto della Parola (“Così, attraverso le cicatrici delle mie labbra/ sputi i tuoi baci dentro il foglio immune/ del mio palato. Non parlo.”). Quel paradiso perduto dell’essenza linguistica dove la lingua degli uomini è simile a quella lingua dei nati di domenica che intendono la lingua degli uccelli. Poesia dell’impossibilità del dispiegamento del Passato attraverso la cruna del Presente. Qui, l’istante della metafora è il lampeggiamento in cui passato e presente miracolosamente coincidono. E sprofondano. Ma dove? Qual è il luogo di quello sprofondare? – Ma è appunto in quel «miracolo» che si consuma l’impossibilità del discorso poetico di trovare dimora nel Presente del continuum storico. Quel continuum che si dà soltanto nella discontinuità, nella frattura. E il continuum della storia è, per la cronaca, la catastrofe annunciata, il lutto che attecchisce la parola poetica.  Il «lutto» della poesia bertoldiana  deriva dall’assunto per una poesia espressionista in derisoria frequentazione delle «parole da rotocalco». Stigma della poesia di Bertoldo, e suo inestimabile merito, è la consapevolezza del lutto che colpisce il discorso poetico dopo la fine del Novecento, consapevolezza che innalza la poesia di Roberto Bertoldo ai piani più alti della civiltà della fine del secolo. Più che consapevolezza della crisi, è presentimento dell’estinzione di una civiltà.

E la poesia si dà soltanto quale annuncio del Tramonto incipiente. Se non v’è più una vie antérieure o un Hinterwelt, non c’è più una lontananza celata nell’oblio, e la metafora non può    più essere una metafora del rammemorare, un’elegia del tempo perduto come accade in poeti di minore consapevolezza poetica. Più che poesia dell’oblio, quella di Roberto Bertoldo è dunque una poesia del presentimento e dell’espressione. Come un sensibilissimo sismografo essa annuncia e anticipa i sussulti e le eruzioni di futuri terremoti, intrisa com’è di attese tenute sui fili dell’alta tensione della purissima intenzionalità poetica. Ma essa è anche ancipite e claudicante, forclusa e dissonante, peristaltica e perimetrata come all’interno di un campo minato, ove le parole trascorrono come sentinelle armate di tutto punto sugli spalti degli endecasillabi:

Ti pongo sull’anulare la serpe d’oro

e sui capelli quella corona d’alghe
che improvvisò la regalità azzurra
e sulle labbra ti bacio con dieci schiocchi
mentre scendi le scale della sinfonia
che ti ha accolta.
E prendo la tua mano fredda, la respiro
e sento pure che ci sono giornate come questa
in cui la pelle non è pacifica.

roberto bertoldo

roberto bertoldo

La poiesis richiede un approccio ontologico-ermeneutico, una strategia di trasformazione degli elementi sensibili, affettivi, emotivi, di attanti astratti e concreti che suggeriscono  una molteplicità del detto e non-detto, un infittirsi dei richiami all’interno dei testi. Alle infinite interpretazioni possibili viene a sostituirsi un continuum infinito che tende alla finitudine dell’opera «contropelo al mondo» che continuerà, se il futuro verrà, in un tempo oltre il tempo.

I testi bertoldiani si pongono come un fraseggio, un rumore di foglie significanti di un bosco deciduo che continuamente trapassa nell’abisso sonoro della lingua, e qui sprofonda nel pozzo senza fondo della mediazione metaforica; dove la comunicazione è, al suo grado massimo, il trapasso, costantemente fluido, del comprendere e del comunicare. La poesia bertoldiana, con la sua fame d’essere, vuole comunicare qualcosa di non-comunicabile, di non irreggimentato nel circuito significazionista del salario corrente; non intende comunicare con le «parole da rotocalco», non ne sarebbe capace, arretrerebbe inorridita. Ciò che la poesia bertoldiana vorrebbe comunicare è il medium, è altro, l’immediatezza della Lingua, l’immediatezza di ciò che è immediatamente mediato.

Io sono stato un uccello nero
con le ali inchiodate e il becco
che tracciava mappe sulle cortecce.
La vita è un foglio a quadretti,
noi sappiamo che i corvi affamati,
dalle stoppie, ci recitano poesie.

*

Non ditemi che l’amore soffia sulle carte,
non c’è altro che possa imputarmi la vita.
Anche il popolo dorme, sulle sue ossa di frumento.
Il mio solo castello è questo,
ha pareti di sogno,
ma la sua mobilia si distingue
con la potenza del rovere.
Come dentro di me, dove ha posto
l’utensile della giustizia
che si nutre dell’amore assassino,
dei suoi soldati bastardi che lanciano sorrisi
con la loro luce indisposta.
Non ditemi questo! Io voglio risvegliare
l’orrore, voglio la carezza che mi dilegui
dalle labbra la morte, voglio sulle carte
il segno del rossetto e le spade.
Voglio le finestre nel mio castello
e il ponte levatoio e i cavalieri
con le lance in resta. Se l’amore soffia
c’è una bestemmia che lo denuncia
e spendo una notte per questa deriva.
  

                                            da L’archivio delle bestemmie

 

Scalzati dalla brina come poesie che si fanno
di gladioli e carta pesta, i bianchi peli sulla testa di ratto vecchio
a luccicare con la maiuscola dei germi di morte,
noi che combattiamo lucidati come stivali, testa di moro dico
e bavagli che ci fregano – perché abbiamo ormai le pupille
con coda di paglia, le orecchie ad acciuffare il filaccio
delle parole, e le labbra, le labbra hanno giuda come rossetto,
e i baci si posano sulla ceramica della condizione.
Vi abituereste al perdono di chi non ha regno, né altre budella
per vomitare la storia, né fili per collane e bracciali
da fare incetta di vermi – vi prostrereste alla vendetta?
 

                                            da Pergamena dei ribelli

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Chiaro esempio di poesia autorevole, che adotta uno stile accusatorio ben distante dalle le istanze di poesia che proclamano col megafono una presunta unità di soggetto e oggetto. Il discorso poetico bertoldiano tenta con tutte le forze, mediante l’impiego di tutti gli artifici tonosimbolici, di aderire alla significazione. L’inteso e il referente colti in un viluppo storico-concreto dato dalla metafora tonosimbolica. Al tempo stesso, quanto più la parola poetica si approssima all’inteso, tanto più essa si allontana dall’«io», vorrebbe dire altro da ciò che dice; in essa l’intenzione significante non si sposa con l’inteso. È una scrittura del sortilegio, dell’énchantement  che si nutre di una alchemica e personalissima simpatia tra i vocaboli, desueti ed ultronei, massimalisti e infingardi, anche sordidi, d’un lerciume morale, d’un lazzaretto della coscienza, una sorta di patto di mutua belligeranza tra la «cloaca» e l’empireo dei linguaggi normativizzati («Vogliamo una poesia che sdruccioli sui pavimenti insanguinati / come le note d’un pianoforte bizzarro / vogliamo che gli uomini amino la bestemmia…»). Ciò che resta in tutta la poesia bertoldiana è appunto il non-detto, l’indicibile, la «bestemmia» dei «ribelli», perché ciò che essa intende e sottintende e vuole dire è la lingua spuria dei «rotocalchi», la parola espressiva che designa la codardia e l’«infame» delle parole coreutiche («Voi la sentite respirare, sentite l’aria / di questa poesia di cloaca. Lo sappiamo. / Siete infami. Sappiamo la rendita delle vostre scarpe»). Colpita dal lutto della perdita del linguaggio edenico della parola diretta, la poesia di Bertoldo sa che non è più possibile scrivere una parola innocente. Ciò che indirizza il discorso poetico bertoldiano al tramandamento estetico è il suo espressionismo fonosimbolico.

Come il cane  nell’esempio citato da Gadamer che addenta la mano che indica in avanti lo scorrere del tempo, la poesia di Roberto Bertoldo ostinatamente addenta la mano dell’attimo storico, perché cessi di indicare al di là di se stesso in un rimando infinito. La metafora bertoldiana addenta il senso come il cane di Gadamer, ma quanto più lo lacera e lo afferra, tanto più esso le sfugge lasciandola famelica e sanguinante. La metafora bertoldiana tende alla metafora allusiva, alla metafora incompiuta, al superamento della metafora verso un’altra Lingua, una lingua  protoedenica  priva di metafore, fatta di soli nomi, di nomi numinosi. Ritengo siano sufficienti queste brevi considerazioni per comprendere l’importanza e la centralità della poesia di Roberto Bertoldo nel panorama contemporaneo, l’originalità di percorso che la contraddistingue, il suo essere profondamente militante, avversaria implacabile di ogni forma di adeguamento dell’arte alla società della circolazione delle merci linguistiche dell’evo mediatico.

Roberto Bertoldo Nullismo e letteratura 1998 2° ed. Mimesis, Milano, 2011
Roberto Bertoldo Anarchismo senza anarchia Mimesis, Milano, 2009
Roberto Bertoldo Principi di fenomenognomica  Guerini e associati, Milano, 2003
Roberto Bertoldo Sui fondamenti dell’amore Guerini, Milano, 2006.
Roberto Bertoldo Il calvario delle gru Bordighera press, New York, 2000
Roberto Bertoldo L’archivio delle bestemmie Mimesis, Milano, 2006
Roberto Bertoldo Pergamena dei ribelli Joker, Novi Ligure, 2011

[1] R. Bertoldo Nullismo e letteratura Interlinea, Novara, 1998 2° ed. Mimesis, Milano, 2011 p. 147
[2] Ibidem, p.183
[3] R. Bertoldo op. cit. p. 85
[4] La cit. è da La creazione artistica (La création artistique), conferenza tenuta il 28 febbraio alla Société française de philosophie in Bulletin de la Société française de philosophie, gennaio 1928, raccolta in Vues, Paris, 1948. Si tratta di un testo non incluso nelle Ouvres. È stato tradotto in italiano e raccolto nel vol. antologico Paul Valéry, La caccia magica, a cura di M.T. Giaveri, Napoli, 1985 – cit. p. 35

 *Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia contemporanea (2000-2013)Società Editrice Fiorentina, Firenze, pp. 148 € 14

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