Archivi tag: noemi paolini giachery

Noemi  Paolini Giachery POESIE “Pensieri a dondolo” (Graphisoft Edizioni, Roma, 2016) “Nomina nuda tenemus”, “I morti fuggono”, “Talvolta ritornano”, “Per la torre”, “Il padre”, “Casa di vecchi”, con una missiva dell’autrice, un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa e una lettera di Cesare Viviani

Evgenia Arbugaeva Weather_man_02-1

Evgenia Arbugaeva Weather_man

Noemi Paolini saggista, vive a Roma. Nata da famiglia elbana, a Roma ha sempre vissuto e operato. Il suo interesse culturale si è molto presto rivolto alla dimensione dell’arte e in particolare della poesia (in senso lato) e della musica, in una ricerca particolarmente attenta alla portata conoscitiva che nell’arte si manifesta attraverso i valori formali. Significativo è il precoce amore, al tempo del liceo, per Giambattista Vico, poi scelto come argomento della tesi di laurea. Il grande filosofo aveva tra l’altro il merito di “aver riconosciuto il valore della poesia come forma di conoscenza autonoma rispetto alla conoscenza concettuale, e di essersi così affrancato dai limiti del razionalismo cartesiano”. Nella sua attività sia di insegnante sia di interprete e critico letterario l’impegno della studiosa si è sempre concentrato, soprattutto attraverso l’analisi testuale, sulla rivendicazione di questo alto valore in opposizione a metodologie ideologiche a lungo vigenti e ancora dure a morire: da una parte un formalismo astratto e asettico che aveva svalutato la dimensione semantica preparando il nichilismo di certa ermeneutica, dall’altra una poetica ostinatamente realistica che aveva ridotto il “senso” al rispecchiamento di una improbabile “cosa in sé”. Per la studiosa il “senso” della poesia e dell’arte in genere è invece arricchito proprio dall’apertura polisemica e ossimorica del messaggio (parola che va liberata dalla compromissione politica e moralistica). Tardivo è stato il matrimonio con Emerico Giachery con il quale ha poi collaborato anche alla stesura di due libri. Tardiva la pubblicazione dei suoi studi critici e di qualche breve scritto autobiografico incentrato prevalentemente sull’“iniziazione” alla cultura. Bisogna dire che nell’ossimoro vivente riconoscibile nella sua personalità (e forse nella personalità di tutti noi) il carattere perentorio e spesso vivacemente polemico delle sue prese di posizione convive con una profonda coscienza del limite e della soggettività del pensare individuale. Si definisce, con una formula che ha inventato per il suo Svevo, “recensore autobiografico”.
.
Ha pubblicato: Vita d’un uomo: fenomenologia d’una ricerca ([1988]), Italo Svevo. Il superuomo dissimulato (1993); L’artefice l’orafo la bellezza (1997); Il volto bivalente. Saggi di letteratura italiana (1997), “Pas de deux” per la poesia di Alberto Caramella (2000, in coll. con Emerico Giachery), Ungaretti “verticale” (2000, in coll. con Emerico Giachery), Luoghi, tempi e oltre. Divagazioni di un’egotista (2001), In cerca della “pianta uomo” (2003); Le “mani tese” di Dolores. I romanzi di Dolores Prato (2008), Le ragioni dell’ovvio (rileggendo Svevo, Pascoli, Ungaretti, Montale) (2011). Ungaretti: Vita d’un uomo: “una bella biografia” interiore, Aracne, 2014; L’autore si nasconde nel particolare, Aracne, 2015; Italo Svevo. Il superuomo dissimulato, Nuova edizione, Aracne 2017; In margine all’enigma della poesia, Edizioni GRAPHISOFT, 2017, oltre a molti saggi su riviste.
.
Presentazione libro “Ungaretti: vita d'un uomo”

Presentazione libro “Ungaretti: vita d’un uomo”

Missiva di Noemi Paolini Giachery
.
Caro […],
capisco che il lettore possa domandarsi che intendono essere quei versi che io non chiamo poesie. Le parole vi si affiancano per abitudine cioè senza quelle inedite frizioni che fanno scintille e che ti fanno vedere il mondo con occhi nuovi. Sembra inutile cercare un senso riposto. Avrei fatto bene ad avvertire, come pensavo di fare, che “non c’è una introduzione perché queste parole dicono quel che dicono e basta”. È vero che avrei però aggiunto in fondo alla pagina, in caratteri piccoli piccoli – e questo sarebbe stato l’unico segno di poetica, ammiccante ambiguità – questa domanda: “ma sarà proprio vero / che questo è il mio pensiero?”.
Chi scrive se ne sta piedi a terra , testa china a guardarsi l’ombelico (come si usa dire con squallida immagine), rinunciando al cielo, al mare, alla natura, ingredienti naturalmente poetici. La natura in realtà compare una volta in una specie di panoramica o, meglio, di carrellata ,  in una filastrocca finale che finisce male, cioè con la previsione allegra di un cataclisma universale. E qui solo prendendo in prestito da Montale “la cenere degli astri” si respira per un momento un’aria poetica.
 Perfino la memoria, tema privilegiato della poesia anche per me che ero nata leopardiana, compare nella prima pagina per annunciare le sue esequie, protratte nel tempo ma poi definitive. È vero che l’orizzonte in questo percorso sembra allargarsi: dalla più chiusa e dimessa contingenza del piano ravvicinato iniziale (l’ultimo mucchio di panni da lavare, ultimo segno di una presenza viva) si tenterà addirittura, in tempi più oziosi, un volo spaziale per calar di nuovo, delusi, a pianterreno (si raggiunge una cometa per scoprire che era solo “un sasso bitorzoluto”). Per finire con l’ultimo inganno di un “giro d’isola” anche questo, si è visto, catastrofico e nullificante sotto un’idillica apparenza. C’è forse la possibilità di consolarsi dopo tanta delusione cercando di scovare un senso secondo, più poetico e più gratificante? Negavo che ci fosse. Mi limitavo a osservare la non casuale scelta di una espressione-comunicazione conforme ai criteri se non della razionalità almeno di quella ragionevolezza che porta a evitare suggestivi scarti dalla norma e dalla logica comune. Ma, a guardar bene, la realtà qui si rivela molto meno sistemabile su un piano di comoda univocità. Non si cela nelle parole il mistero delle cose e nemmeno nel principio di non contraddizione.
E la contraddizione stessa, cioè l’associazione di due termini per opposizione forse fa essa stessa parte dell’inganno. Si scopre che la morte non è il contrario della vita e questo non perché la vita continui, come in fondo si desidererebbe, ma perché tra i due termini si può cogliere una totale estraneità. E proprio il sospetto che il principio di estraneità sia la chiave per leggere la vita e il mondo   è il sentimento che raffredda questo dettato sottilmente tragico o nichilista nonostante il fermento che si nasconde nel sottosuolo dell’inconscio.
.
giovanni testori Con-Aldo-Moro

Il quadro politico italiano bloccato

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
.
«Il vivere», lo stato vegetativo del vivere, per Nietzsche è «la forma di essere a noi più nota». Vivere, respirare, bere, mangiare, amare, odiare, appassionarsi, illudersi etc., sono tutti appetiti che interessano questa forma della «vita», la sola che abbiamo e che conosciamo. La téchne è la mediazione con cui interviene la volontà di potenza dell’artista sulla «vita» per plasmare quella cosa che  da Platone e Aristotele designiamo convenzionalmente con il nome di «arte». Orbene, la téchne è nemica della «forma» della «vita», è ciò che falsifica la «vita» e quindi deve essere bandita dall’arte e dall’arte poetica in particolare per poter parlare con qualche verosimiglianza al «vero», senza tradirlo. È questo il pensiero profondo di Noemi Paolini Giachery: fare poesia senza tecnica, come parlando e parlare come tacendo, nella consapevolezza che il mondo illusorio ci attende in agguato con i suoi fantasmi e i suoi illusionismi per farci inorgoglire e costringerci alla menzogna, all’arte della menzogna, all’arte della téchne. E così Noemi sceglie la rinuncia alla parola ornata e alla retorica del linguaggio, per usare il linguaggio allo statu nascendi, allo stato aurorale, come se fosse nato stamattina, senza alcun orpello e/o infingimento retorico, dall’albero del bene e del male, dall’albero del pane e del salame della Cuccagna delle comunità contadine; un parlare che proviene da prima di quel giorno maledetto del coglimento della mela da parte di Eva. La poesia di Noemi Paolini Giachery vive nell’utopia di questo progetto-miraggio: parlare con una lingua pura delle cose dei vivi e dei morti, di «Noi morti», perché «i morti fuggono» e perché «Talvolta ritornano», perché «Nomina nuda tenemus». Davvero, una poesia fuori tempo, fuori moda, fuori luogo. Potrebbe essere stata scritta cinquanta anni fa, come stamattina. In una lingua quasi fuori dalla storia. E dall’utopia sanguinaria della storia.
.
Da una lettera del 23. settembre 20 11 di Cesare Viviani
.
Ieri sera è stato un ascolto memorabile. La tua rappresentazione della morte  è straordinaria. Ogni parola ha la dignità di un sentimento spersonalizzato, profondo e naturale, definitivo e limpido, lieve come un battito. C’è la musica nelle tue parole, quella che rende sopportabile la fine, quella delle acque e del vento. C’è lo sguardo che supera l’orizzonte dopo essersi inchinato ad esso, uno sguardo duplice e rivelatore: c’è la vita che guarda la morte, e c’è la morte che guarda la vita. C’è la dolorosissima accettazione dell’inaccettabile, che è la massima possibilità che abbiamo di umanità. Io ascoltavo in un silenzio quasi religioso. Il timbro e i toni della tua voce, e il sentimento che esprimeva, erano per me un insegnamento.

.

Evgenia Arbugaeva Weather_man_04-1

Evgenia Arbugaeva Weather_man

Poesie di Noemi Paolini Giachery “Pensieri a dondolo”

Non poesie, dunque, ci vuol altro,
ma tristi pensieri che cercano
un ritmo che li culli e li consoli.

I morti fuggono I

Il mucchio dei tuoi panni si riduce
appiattito e consunto come un moccolo
all’ultima sua luce.
Tra poco, quando l’ultima camicia
sarà stata lavata,
sarà proprio finita.
Cominceranno allora giorni uguali
con atti che non ti riguarderanno.

Dove ti cercherò?
Nel ramo con le tre more appassite?
Nelle fette di pane abbrustolito?
Nella carta di “Gigi con gli occhiali”?
No, sono cose troppo ferme e mute.

Scoprirò forse allora
che anche l’estraneità d’un cimitero
può farmisi domestica
se posso trapiantarci
le faccende della vita di casa.
Curerò dunque la tovaglia bianca,
il vaso di metallo da lustrare,
non la pietra che non voglio guardare.

(Marciana Marina, settembre 1976)

*

È passato gran tempo:
estraneo è sempre stato il cimitero.
Estranea è forse ormai la figlia al padre?…

E il padre estraneo a lei?

(Marciana Marina, settembre 1999)

.
Acquiescenza e rivolta

Si è fermata una macchina
irreversibilmente.
Se la manutenzione
fosse stata più accorta
funzionerebbe ancora
quella macchina che chiamavo papà.

Se difronte all’evento capitale
collaudo su di te
l’ipotesi che credo più probabile
e dico le parole
dell’oggettività
sento che dentro mi urlano le viscere
e qualcosa che voglio chiamare anima.
Mi urla di non tradire
di non prostituire
il segreto indicibile,
il segreto dolcissimo e letale
di questa nostra storia irripetibile.
Questo solo, un segreto
prezioso non per felice potere
di superare il tempo,
ma per la sorte che vuole che identico
non riviva mai più

(Roma, ottobre 1976)

.
Noi morti

Forse mi stenderò presso di voi
senza più orrore
fatta sorella
dalla comune esclusione
o anche, perché no?, dalla comune
vita di cui si dice che è da vivere
senza palpiti e tempo,
quella cui non so credere
e neppure desidero
io che vivo di cose che trapassano,
che non voglio finire
né so vedermi in una eternità.
Così se penso a voi,
o piuttosto a quel noi che formeremo
quando sarò della vostra partita,
non so vederci spiriti vaganti
o fissi in luce o in tenebra
ma penso a quelli stretti in società
da un’offesa avvilente:
il rispetto, o l’oblio,
di questi, che ci chiameranno “i morti”
o “i defunti” o “le anime purganti”.
Quest’oltraggio mi tocca
più di qualsiasi nulla metafisico
ed è il solo futuro
che sento riguardarmi
e dunque in qualche modo farmi esistere
oltre la fine.

(5 novembre 1976, sotto Tarquinia, di ritorno da M.M.)

.

Evgenia Arbugaeva Slava_observatory-1

Evgenia Arbugaeva Slava_observatory-

Talvolta ritornano…

.
Così ho incontrato anche te
in questa discesa agli Inferi,
sorella dimenticata.
Ora che la voragine
rimane spalancata
e l’occhio vi cade a tratti
nella passeggiatina quotidiana,
ora che son cadute
le marcate parentesi
che chiudevano la parola “morte”,
è stato facile riaprire
la scatola delle reliquie
e tentare di immettere nel flusso
continuo del passato
quei tre anni congelati.
Ma era tardi oramai
per memorie tanto remote
— perché perché scegliemmo
questo crudele scampo
che ci pareva pietà? —
Eppure ti ho vista com’eri
fuori dello stereotipo
della fotografia
con il fondale bianco iperuranio,
accettata per simbolo,
e anche quella a fatica.
Sei riuscita alla luce
nelle foto istantanee:
e ora so che anche tu toccasti
i luoghi a noi familiari,
la spiaggia, la panchina
e il balcone di casa nostra
e ti abbracciavo con amore
ed ero spesso tiranna
per poterti riabbracciare
e allora eravamo quattro.

E mi domando: chissà
se quella vita che sarebbe stata,
che si legge negli occhi
vivissimi di arguzia
di sapiente allegria
e di perenne femminilità
esiste almeno a titolo
di probabilità?

(Roma, 13 dicembre 1976)

.
I morti fuggono II

Era proprio così,
ti ripeti fissando la sua immagine,
e pensi: ho sottratto il suo viso alla tenebra.

Tu non sai che ti stai mettendo comoda,
che, affidati alla carta
quei sorrisi sempre più fermi e rigidi,
come nel prolungarsi della posa,
ti liberi dal pungolo
di ricercare, attimo per attimo,
tutti i volti ed i gesti del suo esistere,
e che così ti muore
anche nella memoria.

(Marciana Marina, agosto 1977)

.
I morti fuggono III (“È stato”?)

.
Solo così si poteva accettare
quando “la cosa” è accaduta:
pensando alla sorte comune,
mettendolo in fila
tra tutti i rassegnati
nella nudità di Buchenwald
e della valle di Giosafat,
inscrivendo quel nome
nella lista delle generazioni
perché si nasce per morire
e per tutti è stato così.

Ma per me che vivo ancora
vivere è un’altra cosa,
e la mia vita, finché dura,
è la sola verità,
è la sola eternità;
e finché era anche lui
dentro questo fluire
non poteva certo morire

(Marciana Marina, 17 agosto 1977)

.
I morti fuggono IV

.

Grazie, amica d’un tempo, che mi hai chiesto
di lui come se fosse vivo ancora.
Per il tuo non sapere si è annullato
il tempo che tutto spiana.
Per un attimo è stato come quando
la sua morte era un mare in tempesta,
non ancora una ferma palude.

(Marciana Marina, agosto 1977)
Non potrò darti mai più
un fresco fiore
un sentimento vero,
da quando per te piango e mi domando
se t’amo o no,
da quando mi sfoglia l’analisi
come una cipolla.

(Marciana Marina, agosto 1977)

Evgenia Arbugaeva Weather_man_05-1

Evgenia Arbugaeva Weather_man_

Per la torre

Non più saluti e soste. Come sta?
È bel tempo. Dal tempo sono usciti
quelli che salutavo per la strada.
Come stanno e se stanno non si sa.

(Marciana Marina, agosto 1977)

.
Il padre (estremo mito di onnipotenza per amore)

.
Se là dove sei andato
fosse male per noi andare
non mi aspetteresti certo,
non mi vorresti con te,
ma mi diresti: non venire,
e, sbarrata la porta,
per non farmi entrare.
per non farmi vedere,
te ne staresti solo
a berti il calice amaro
tutto per te.

Ma non deve essere male
andare dove tu sei
perché la porta è rimasta
aperta anche per me,
se pure ora non so
quando la varcherò.

(Marciana Marina, giugno 1977)

.
Vecchio alibi

Cos’è questo sollievo quando chiudo
un fugace pensiero
in una gabbia di parole?
Come per un approdo getto l’ancora
e spiego una bandiera
con i colori della libertà.
Escluso che si tratti
del canonico exegi monumentum,
cos’è quel senso di stabilità?
Escluso che dipenda
dal sentire più viva la parola
della vita, dov’è la libertà?
Ecco, ti riconosco, vecchio alibi:
mettere sulla carta
per poter non pensare non lottare non vivere.

(Marciana Marina, 20 agosto 1977)

.
Registrazione

Sto registrando la mia voce
per quando sarò morta.
Potrà essere utilizzata
per qualche esposizione
d’arte “concettuale”
— se ancora esisterà —
e chi ascolterà saprà che
quando registravo la voce
ero ancora viva e pensavo
che un giorno sarei morta
e qualcuno avrebbe sentito
la voce di me — morta —
di quando ero viva e sapevo
che poi dovevo morire.
Diranno: che bel coraggio!
Parlare con tanta fermezza
sapendo di dover morire.

(Roma, inverno 1977-78)

.
Odore

All’improvviso ti annuso
ma eri già qui in agguato
nella mia stanza, odore.

Odore di anziani curati,
di cassetti tarlati
di grumi non disciolti
di panni involti
di ritornanti novene
di pazienti pene
di tormentate vene
di spente falene
………….. ene
………….. ene
………….. viene
quella che non viene ma è
anzi non è
anzi neppure non è.
Che dire allora?
Puoi solo tacere
Perché non ha pensiero
né parola
né odore
e non è neppure il contrario
di qualcosa che è.

So solo che me ne ricordo
sentendomi d’un tratto
vecchia zia.

Roma, 17 gennaio 1978

.

Il solitario
Tento e ritento ma mi s’ingarbuglia
il solitario. Cade la speranza.

È solo in un astratto
gioco che mi è dato di tentare
la sorte, e mi accanisco per vedere
se l’arzigogolo, estrema mia risorsa
e vizio irrefrenabile,
approdi a qualche segno.

(Marciana Marina, settembre 1978)

Era oggi

Da chissà quale dei miei iperurani
notturni riprecipito nel tempo.
A quale punto sono
della mia storia? È questa la domanda .
Dicembre settantotto.
Era un mercoledì.
È l’imperfetto ormai
il tempo dei diari
tanto presente è il termine .
Lui già perduto, lei
era ancora con me.
Ancora un’illusione dell’amore
ritardava la tenebra.

(Roma, dicembre 1978)

Pasolini e UngarettiNomina nuda tenemus

Negli enunciati lapalissiani
cerca il mistero più fondo.
Non ti inganni
la falsa equivalenza dei sinonimi.
La verità vacilla e si ribalta
detta da una litote.
La più chiara parafrasi
vanifica il messaggio.

Così ho scoperto — un po’ tardi —
che morto non significa non vivo
e riscopro ogni giorno
come una folgorante assurdità
che, prima di morire,
il était encore en vie.

(Roma, gennaio 1979)

.
Volevo ancora dire, con parole semplici e con ritmo liberatorio – ma non ci sono
riuscita – della follia amara che ti fa tornare a seguire con ansia le vicende di
personaggi fittizi e a tirare il fiato tutte le volte che con loro la morte fallisce
il bersaglio – quella morte che poco fa con il tuo caro ha avuto buona mira -.
Ti resta cioè fiato da tirare quando scampa alla morte un Michele Strogoff, se pure,
poco fa, tuo padre non è scampato.
Ma, a pensarci, più che di ingrata e angusta smemoratezza, si tratta ogni volta di
fantasia onirica da interpretare simbolicamente con ampio raggio di riferimenti.
È il sogno di una vittoria dell’uomo sulla morte, e perciò anche di una tua vittoria,
e perciò forse anche il sogno che quello che è stato non sia stato.
.

Un’altra volta ho ritagliato
tre giorni dal calendario
ma fu per vivere solo quelli
e non vedere il prima e il poi.
Fu quella l’unica volta
che seppi vivere l’attimo,
e questo solo perché
non c’era un prima né un poi.
Non so raccontare nulla
di quell’insolito limbo,
posso solo parlare,
prese ormai le distanze,
di un raro fiore sbocciato
nel campo della morte.
Ma non è proprio così
ad essere sinceri.
É vero al contrario che
nessuna cosa mi piace
senza il gioco degli specchi
e allora ruppi soltanto
gli specchi più vicini
perché troppo mi spaventava
l’immagine mia più vera
E senza il solito gioco
quel raro fiore in sé
non sarebbe stato un gran che.

(Roma, settembre 1978)

.
Casa di vecchi

.
É la mia una casa di vecchi
piena di fiori secchi.
Imbalsamati gli anni passati
in oggetti disanimati.
Finché tutto resta uguale
si nasconde il rischio letale.
La polvere su ogni cosa
benignamente si posa.
Vuol celarne la precarietà
con un velo di pietà.
Ma non si salva la creatura
dalla fatale usura.

(Marciana Marina, 11 luglio 2007)

.

Tra musica e metafisica

Forse è vero che c’è
un Dio Persona.
E se c’è è molto più su
del quintetto di Schubert.
Ma certo non l’ignora,
lo conosce bene e lo ama
e forse mi parla proprio
con quei suoni di ombra e di luce,
e forse anche lì risplende
la sua suprema bellezza.
Solo così posso amarlo
e sperare di incontrarlo
per parlare con Lui di Schubert
e della bellezza del mondo.

(Roma, febbraio 2008)

*

Epigrafe (Noemi con Emerico)

Prossimi anche noi alla fuga
dal tempo e dalla memoria
salutiamo gli amici cari
sventolando un fazzoletto blu.

.

La cometa ( dove si tenta senza dondolo una deludente ascesa nello spazio fisico)
.
La cometa! Dopo anni di viaggio spaziale ci siamo arrivati. Questo sasso volante, nemmeno bello, è tutto nostro! Che ce ne facciamo? Sapremo qualcosa di più su di noi esseri umani? Non credo, ma se scopriremo tracce di vita sapremo, contenti, che la vita c’era anche lì. Almeno avessimo trovato una pianticella! Aveva ragione Galilei a dire che è più gradevole e interessante, a pensarlo, un corpo celeste da cui germogli la vita, di quei nudi sassi aerei che agli astronomi conformisti, un po’bigotti, piacevano tanto (forse perché più asettici e puri, almeno in apparenza, e non soggetti alla conturbante aleatorietà dello sviluppo vitale). A me questo sasso bitorzoluto dice poco. Preferisco aggirarmi dalle parti nostre, anche se molto, forse troppo, note e scontate e non per questo meno esposte a rischi. E quando un improvviso attacco di curiosità culturale mi porta a cercare di andare oltre le apparenze (cosa che si suppone sia il fine di chi fa ricerche scientifiche) allora cerco di sospendere la dipendenza dai sensi per concepire un vero impercettibile e anche, pare, paradossale, e vado a scovare quegli elettroni, a cui, a quanto dicono, tutto si riduce e che per esistere devono incontrarsi (così mi è sembrato di capire). Prima di incontrarsi c’erano o non c’erano? E se non c’erano che cosa mai si è incontrato? Ma i paradossi mi piacciono, come mi piacciono, è una mia bandiera, gli ossimori. E mi piace ancor più sentir parlare, invece che di elettroni, di fotoni. Ecco la luce! Tutto è luce. Anche questo sasso è luce! Che bella notizia! La luce si avvicina di più a quello che chiamiamo “spirito”. Ma che cos’è che chiamiamo luce? Qualcosa che, per sussistere come tale ed essere concepita come suprema positività immanente (e perché non anche metafisica?), ha bisogno del senso fisico della vista. Da questa gabbia non si esce! E poi è certo una cosa bella, la luce, e utile, ma qualche volta abbaglia e si sente il bisogno di una confortevole ombretta o addirittura di un’ombra cupa, per esempio per dormire (questo non sempre e non per tutti) o sviluppare fotografie o tentare affascinanti avventure anche col pensiero e con la fantasia.
Ha parlato fin qui il solito Simplicio oscurantista. Che però se pensa ai cervelloni umani che hanno progettato e attuato il viaggio per arrivare al sasso-cometa si rallegra e si conforta di nuovo. Ha di fatto un gran bisogno di quel “senso alto”, di quel “valore” obiettivo e assoluto che si era illuso poco fa di poter trovare nell’idea di realtà come luce. A questo punto gli pare che possa intravedersi nella superiorità dell’essere umano nei confronti degli altri animali, superiorità che sembrerebbe implicare un salto di qualità. Parlo della mirabolante capacità di astrazione intellettuale che apre all’uomo una porta al di là della sensorialità e di quella costruttiva operatività che, per esempio nelle formiche, sembra frutto di un puro inconsapevole istinto radiocomandato dall’esterno. Ha certamente fatto effetto e influito sulle belle pensate di Simplicio l’allarmante documentario visto ieri in Tv. Dopo averlo visto Simplicio ha inventato un bell’aforisma: “La realtà naturale è un gioco razionale ma non ragionevole”. Chi gioca? Ma c’è proprio bisogno di un “chi”? Simplicio ne ha bisogno come di un padre o un protettore che al figlio prediletto garantisca un’eterna felicità. Poco dopo Simplicio, che ha pure un suo senso della giustizia, si sente egoista e prepotente per aver cercato un suo spiraglio per l’eternità squalificando e lasciando fuori tutti gli altri rappresentanti del mondo animale. E cerca di riparare. Perché non provare a pensare tutte eterne queste povere creature? Arrampicandosi per un momento fino al piano dell’alta filosofia tira fuori da un cassetto la teoria dell’eternità come “eterno ritorno”. Non l’ha mai capita bene perché si trova sempre nei guai quando prova a pensare al tempo in modo non convenzionale, ma pensa che con quello, l’eterno ritorno, non si perda nulla. Scendendo poi sul piano (pianterreno o seminterrato o, meglio ancora, interrato) del paranormale ricorda che lì qualcuno ha parlato di un accesso privilegiato per i cani che appaiono talvolta con i simpatici musi su fotografie medianiche. Perché solo i cani? Un favoritismo per gli amici dell’uomo? Tutti eterni allora. O nessuno, nemmeno l’uomo. Anche gli scarafaggi eterni? Anche i virus? (a questi minimi rappresentanti del mondo animale mi capita di pensare difronte al nobile impegno degli animalisti che talvolta mostrano una certa parzialità). Se valesse il principio, concepito secondo una nostra idea di giustizia, che ci deve pure essere un compenso per il “male di vivere” che è nel destino dell’uomo, perché tutti gli altri esseri non dovrebbero godere di questo risarcimento? La tarma maschio che io lascio agonizzare sbattendo le elitre sul cartone colloso su cui lo ha attirato l’illusione di un esperienza amorosa non avrebbe diritto di protestare con le parole di Sganarello:”E me chi mi paga?”

.
Due poesie del caro amico Alberto Caramella
e una mia poesiola con lettera

.
Dalla parte di Noemi e della sua finestra
sfila in fronda
la nave bianca
freccia puntata al profondo azzurro
verso la casa verso l’infanzia
dove scalpiccia la nuova danza
si sente correre in lontananza
ed i profumi trascinar via
e già l’autunno piano si sveglia
stanco di danza
pronto a pulsare
muta risacca muta distanza
la lunga nave in lontananza.

Alberto

(22 settembre 2000, h. 17,30)

Giro d’Elba

È stato come emergere dal mare
alla luce rosata delle case
di villaggi che sembravano remoti
ora nati da rocce bianche e scisti
grandiosi contrafforti folgorati
che l’un dall’altro secchi distanziati
man mano dispiegandosi
cadevano nel mare spumeggiando
sciogliendo forze immani circolari
che nell’occhio remote si stupivano

ritrovando.

Alberto

(Firenze, 27 settembre 2000, ore 11,30)

.

Caro Alberto,
sì, questo è il bello della poesia, che compone e rifonde soggetto e oggetto dando al soggetto quel che è dell’oggetto e all’oggetto quel che è del soggetto (ma che cosa è poi dell’oggetto?). Così per il poeta le rocce “si stupivano [penso al ‘limpido stupore dell’immensità’] ritrovando”. Ma ha ragione il poeta di oggi quando precisa che si stupivano “nell’occhio” perché solo nell’occhio e dall’occhio che le guarda assumono non solo la carica emotiva ma anche il colore, la consistenza; forse anche l’esistenza, come l’io dalla poesia che lo rispecchia?
L’esistenza penso di no: quanto a esistere esistevano, era vero e oggettivo anche il conflitto di magmi diversi, l’urto primordiale degli elementi. Ma che cos’era se non c’erano né occhio né parola per guardarlo e per dirlo? Questo mi sgomenta appena esco anche solo col pensiero dal guscio protettivo della casa (la parola ha naturalmente un’estensione simbolica): questa realtà terrestre e cosmica che fa così bene a meno di noi, di Me.
E ora la poesiola (la rima baciata farà capire subito che si tratta solo di uno scherzo, di una tiritera per bambini, magari un po’ cresciuti).

.
Dalla barca bianca Noemi
guardava e si incantava
guardava e si spaventava.
Le case gialline e rosate
passavano … Passate!
Dominavano grandi scogliere,
le bianche, le rosse, le nere
fermato il cozzo furente
in un abbraccio silente.
Sembrava dolce l’andare,
sembrava dolce il guardare.
La natura pacificata
offerta alla vista incantata
sembrava farsi in suo onore
bellezza forma colore.

Ma era solo impostura,
non si cura di noi la natura.
Simulava immortalità
sfidando la precarietà.
E non so se può consolare
fermarsi un poco a pensare
che, scampata a tanti disastri,
se ne andrà con la cenere degli astri.

(Marciana marina, 28 settembre 2000)

5 commenti

Archiviato in critica della poesia, poesia italiana, poesia italiana del novecento, Senza categoria

NOEMI PAOLINI GIACHERY: È Zeno l’assassino. Appunti sul romanzo di Italo Svevo La coscienza di Zeno . Indagine di un critico inquieto e curioso. Il romanzo della Crisi europea

 

Magritte 2A ventidue anni dalla pubblicazione del mio saggio sveviano, Italo Svevo. Il superuomo dissimulato, Studium,Roma 1993, nonostante l’iniziale attenzione da parte della critica che accolse il testo con numerose segnalazioni favorevoli, le proposte che, nelle mie intenzioni, costituivano le più significative novità  sono rimaste senza seguito. Nella critica successiva non ho infatti incontrato né adesioni né contestazioni e ancora la “vulgata” continua ad ispirare i fuorvianti riassuntini del romanzo in cui si impegnano su internet diverse volenterose scolaresche.  Del resto già allora, nell’Introduzione, notavo che «nel grande mare della critica sveviana non è facile rintracciare percorsi lineari segnati da approdi e da acquisizioni definitive e che le prospettive critiche sono, in genere, divergenti e disparate e, per di più, il contrasto dà luogo solo di rado a un aperto dibattito». Vorrà forse dire che ha ragione Mario Lavagetto quando sostiene, a proposito della Coscienza di Zeno, che il narratore è «inattendibile» e nulla di quanto dice è credibile e il lettore che provasse a credere che nel testo sia possibile «distinguere verità e bugia» sarebbe un ingenuo caduto nella trappola dell’autore, il cui unico intento sarebbe  quello di sbeffeggiare tutti inventando, per una pura sperimentazione letteraria, un racconto destinato a un «lettore incredulo», totalmente «incredulo» (per altro atteso a lungo se il primo così classificabile  è appunto Lavagetto stesso).

Ora, essendo io una lettrice non “totalmente incredula” ma portata a cercare una verità dietro le stesse bugie del protagonista, mi sono impegnata in una interpretazione del testo che,  apparsa nel mio primo libro sveviano in un capitolo intitolato Una rimozione contagiosa, fu riproposta in pubblicazioni successive con insistenza quasi maniacale.

La mia ricerca prendeva le mosse da un dialogo tra Guido e Zeno nel quale ho sempre individuato un nodo centrale del romanzo.

Magritte 4Ecco il passo trascritto dalle pagine 1006-7 dell’edizione mondadoriana. (Avverto subito che in questo caso del tutto inattendibile è l’ipotesi di una distrazione di Zeno per il lettore consapevole che Zeno nei suoi frequenti colloqui con il suo rivale Guido è sempre spasmodicamente attento e teso come un duellante a colpire e a parare i colpi dell’avversario).

Guido improvvisamente domandò: – Tu che sei chimico sapresti dirmi se sia più efficace il veronal puro o il veronal al sodio? – . Io veramente non sapevo neppure che ci fosse un veronal al sodio. Non si può mica pretendere che un chimico sappia il mondo a mente. Io di chimica so tanto da poter trovare subito nei miei libri qualsiasi informazione e inoltre da poter discutere – come si vede in quel caso – anche delle cose che ignoro. Al sodio? Ma se era saputo da tutti che le combinazioni al sodio erano quelle che più facilmente si assimilavano. Anzi a proposito del sodio ricordai – e riprodussi più o meno esattamente – un inno a quell’elemento elevato da un mio professore all’unica sua prelezione cui avessi assistito. Il sodio era un veicolo sul quale gli elementi montavano per moversi più rapidi. E il professore aveva ricordato come il cloruro di sodio passava da organismo ad organismo e come andava adunandosi per la sola gravità nel buco più profondo della terra, il mare. Io non so se riproducessi esattamente il pensiero del mio professore, ma in quel momento, dinanzi a quell’enorme distesa di cloruro di sodio, parlai del sodio.

Dopo un’esitazione, Guido domandò ancora:

 – Sicché  chi volesse morire dovrebbe prendere il veronal al sodio? –

– Sì – risposi. Poi ricordando che ci sono dei casi in cui si può voler simulare un suicidio e non accorgendomi subito che ricordavo a Guido un episodio spiacevole della sua vita, aggiunsi: – E chi non vuole morire deve prendere del veronal puro[il corsivo è mio].

Italo Svevo 1Gli studi di Guido sul veronal avrebbero potuto darmi da pensare. Invece io non compresi nulla, preoccupato com’ero dal sodio, con un rispetto infinito.

Fin dalle prime letture della Coscienza a questo punto mi si affacciava uno strano problema, che sembrerebbe più adatto a impegnare un lettore di romanzi gialli che un interprete letterario: Zeno è o non è assassino?

Mi è sembrato di dover rispondere senza alcuna esitazione che Zeno è, sì, assassino, e la risposta mi sarebbe sembrata ovvia se non avessi dovuto riconoscere, con vero turbamento, che per la critica sveviana non lo è affatto.

Il dialogo sul veronal, da me già citato, è per lo più ignorato nonostante la battuta finale («E chi non vuole morire deve prendere del veronal puro»), che a me sembra micidiale come un ordigno a orologeria.

Qualche dubbio sulla positività dei sentimenti di Zeno per Guido è sollevato soprattutto dal “mancato funerale” e da una supposta “omissione di soccorso”.

Ma, quel che è più strano, la stessa critica psicanalitica, che avrebbe strumenti adeguati e prospettive mirate per dare il giusto rilievo a questo episodio, all’ultimo momento scantona.

Potremmo pensare a un caso curioso di rimozione contagiosa, di «zenizzazione» degli svevisti (e poi c’e chi dice che il Soggetto sveviano non suscita l’identificazione del lettore!).

Italo Svevo 2Bisogna ammettere che qualche occhio più attento a cogliere questo punto nodale ma non a trarne le necessarie conseguenze si può trovare in uno degli interpreti sveviani (di cui ho altrove esaminato in una ricca rassegna le opinioni da me non condivise).

Sembra che Zeno sia finalmente smascherato proprio da Mario Lavagetto il quale, nell’Impiegato Schmitz, sostiene che Ada, «come il lettore del romanzo, vede in Zeno un ingegnoso, abilissimo criminale che aiuta Guido e gli consiglia il veleno più adatto».

Ma, a parte il fatto che Ada non vede niente di tutto ciò, ma solo l’odio di Zeno verso Guido, da lei per altro condiviso, per Lavagetto, come si è visto, nel testo sveviano confessare è mentire e nessuna conseguenza si può trarre dall’episodio (l’unica confessione di Zeno a cui si presta fede è dunque l’affermazione che «una confessione in iscritto è sempre menzognera»). Lavagetto anzi porta alle estreme conseguenze l’idea, sempre più invalsa negli esegeti più recenti, di una disintegrazione del personaggio e della realtà stessa nel romanzo, sostenendo «il carattere fittizio», a fondo «bucato», del testo in cui «i referenti risultano azzerati» .

Dopo il lungo equivoco realistico la critica sveviana ha giustamente rivendicato la soggettiva ambiguità, la polisemia della scrittura di Svevo, che non era sfuggita neppure ai primi interpreti. Ma ha forse peccato di ipercorrettismo quando, supponendo nell’autore una deliberata scelta del «non senso» , ha cominciato a parlare di una scomparsa del personaggio, di uno «sfaldamento della personalità» , di un soggetto «visto come incerta e provvisoria molteplicità di nuclei psichici» , di un «personaggio “aperto”, non definibile entro un unico carattere, ma capace di accogliere in sé uno spettro vastissimo di motivazioni tali da elidersi anche a vicenda» (il corsivo è mio).

MagritteIn realtà questo personaggio, come tutti i protagonisti sveviani, è riconoscibile come pochi personaggi della letteratura mondiale e dunque vuol dire che non è disintegrato. E il suo discorso fornisce non solo messaggi ambigui e polivalenti, ma anche dati univoci e indiscutibili all’interno del contesto.

 E questa ricostruzione dell’evento letale mi pare proprio un dato certo e quanto mai significativo.

Nella Coscienza la rilevanza della responsabilità di Zeno nella morte di Guido si comprende anche solo in un’interpretazione letterale dell’episodio citato, ma si può confermare in una lettura integrale attenta all’uso mirato, da parte dell’autore, di varie spie disseminate nel testo e di vari strumenti specifici del discorso letterario. E a questa analisi concederò qualche spazio anche se può sembrare superfluo andare in cerca di indizi in un caso di flagranza.

Anzitutto mi sembra significativo che il discorso sulla parola, quel metadiscorso che non manca mai negli scritti sveviani, nella Coscienza si appunti sul problema del rapporto tra parola e azione, termini ora dissociati, ora –meno vistosamente – associati. Momento culminante di questa vicenda tematica è il passo in cui Zeno accenna alla possibilità di «parole-azioni», «parole di Jago».

Osservando poi la struttura dell’opera (che non è, come si ripete,  informale e priva di cronologia e di trama)  si nota che i quattro capitoli centrali, che si succedono secondo un ordine, sia pur approssimativamente, cronologico, iniziando con la morte del padre di Zeno, culminano proprio, quasi in un climax, o piuttosto in una parabola, nella morte di Guido (evento che, a leggere bene il testo, a posteriori naturalmente, può risultare anche variamente prefigurato e atteso). Si può notare anzi, in questa parte centrale del libro, una certa ciclicità. Il primo di questi capitoli, sulla morte del padre, mostra più di una corrispondenza col quarto, e in particolare con la fine del quarto, dove muore Guido: la scena notturna, la pioggia, lì una «pioggerella», qui anche una «pioggerella» ma che diventa presto «pioggia abbondante» e, infine, «diluvio», l’intervento ritardato del medico. In effetti l’uccisione di Guido – e qui la psicanalisi ha voce in capitolo – è il soddisfacimento per interposta persona del desiderio di uccidere il padre, il primo vero rivale che si incarna ogni volta nei rivali successivi.

Magritte 3Non per niente nel capitolo successivo intitolato Psico-analisi, che conclude il libro in forma di diario, ricompare con particolare insistenza il tema del rapporto col padre attraverso sogni della cui significanza Zeno, in malafede, cerca di farci dubitare per depistarci. E la manovra gli riesce abbastanza, dal momento che alcuni critici non riconoscono alcun nesso tra le immagini evocate e la vicenda che precede (non ricordando che anche il depistaggio iniziale sul tema della locomotiva era poi stato clamorosamente vanificato).

Mi soffermerò anche sul racconto della morte di Guido per notare la significativa evasività del narrante. La prima volta l’evento è comunicato in posizione secondaria (almeno cronologicamente e sintatticamente):

«Dapprima apprendemmo che la pioggia aveva finito col provocare in varie parti della città delle inondazioni, poi che Guido era morto. Molto più tardi seppi come poté accadere una cosa simile».

Si conclude qui il ciclo temporale che va dalla morte del padre alla morte di Guido e che vuole presentarsi compatto e con un suo preciso significativo sviluppo, in quanto costituisce il campo su cui deve incentrarsi lo sforzo di interpretare un destino

I capitoli cronologicamente e semanticamente dispersivi, posti prima e dopo questo corpo centrale, presentano a loro volta una corrispondenza tematica per le immagini infantili connesse al tema paterno e materno che, balenate fugacemente nell’ incipit, sembrano farsi più frequenti e più chiaramente allusive benché Zeno non voglia riconoscerlonella parte finale. Dove assistiamo veramente allo sforzo drammatico del protagonista per celare, forse anche a se stesso, il suo tremendo segreto, così intollerabile che ogni allusione, pur vaga e indiretta, ai suoi sentimenti ostili per Guido provoca reazioni parossistiche.

Italo SvevoCosì Zeno commenta evocando il momento in cui Ada gli aveva rivelato, dimostrandogli al tempo stesso affetto e stima, di conoscere il suo odio per Guido. «Enorme che mi si potesse dire una cosa simile alterando in tale modo la verità. Io protestai, ma essa non mi sentì. Credo di aver urlato o almeno ne sentii lo sforzo nella strozza: – Ma è un errore, una menzogna, una calunnia. Come fai a credere una cosa simile? –».  Una situazione da incubo. E anche nel rapporto con lo psicanalista ammette che gli «fu anche più difficile di sopportare quello ch’egli credette di poter dire dei suoi rapporti con Guido». Zeno infatti si difende evitando  «i sogni ed i ricordi» e dando ormai libero sfogo alle invenzioni, alle menzogne, come ammette nel diario. E forse per questo interrompe la cura, che in ogni caso, di fronte a una resistenza così tenace a superare la rimozione, non avrebbe potuto mai avere un esito positivo. (Ma Svevo nella terapia psicanalitica non crede). Se Zeno fosse stato solo distratto non avrebbe dovuto almeno rammaricarsi di quella fatale distrazione? Ma l’ostinato silenzio, anche con se stesso, sul senso di colpa relativo alla morte del cognato dimostra che non si trattò di pura distrazione. E dimostra anche che Zeno è ben lungi dall’assolversi. Non c’ e scetticismo o relativismo etico che possa liberare Zeno dal suo oscuro rimorso. L’apocalittica profezia che chiude il romanzo è in stretto rapporto con questo pessimismo etico.

Magritte 1Naturalmente nel testo cartaceo la mia tesi si avvaleva di una documentazione, anche bibliografica, molto  dettagliata e organica e apriva nuove prospettive  per la critica sveviana in un continuo riferimento al macrotesto e alla personalità e alla cultura dell’autore non eludendo zone d’ombra (si ricordava  che il tema dell’omicidio, connesso a quello del riscatto estetico attraverso la scrittura, aveva un suo strano spazio anche nella vita e  in altri scritti di Svevo). Accanita e particolareggiata la  contestazione del nichilismo di Lavagetto (ormai curatore dell’edizione mondadoriana dei Romanzi di Svevo) per salvare almeno l’alto valore di esperienza conoscitiva che non si può non riconoscere all’opera di Svevo.

Presentazione libro “Ungaretti: vita d'un uomo”

Noemi Paolini Giachery Aleph di Roma Presentazione libro “Ungaretti: vita d’un uomo”

Noemi Paolini saggista, vive a Roma. Nata da famiglia elbana, a Roma ha sempre vissuto e operato. Il suo interesse culturale si è molto presto rivolto alla dimensione dell’arte e in particolare della poesia (in senso lato) e della musica, in una ricerca particolarmente attenta alla portata conoscitiva che nell’arte si manifesta attraverso i valori formali. Significativo è il precoce amore, al tempo del liceo, per Giambattista Vico, poi scelto come argomento della tesi di laurea. Il grande filosofo aveva tra l’altro il merito di “aver riconosciuto il valore della poesia come forma di conoscenza autonoma rispetto alla conoscenza concettuale, e di essersi così affrancato dai limiti del razionalismo cartesiano”. Nella sua attività sia di insegnante sia di interprete e critico letterario l’impegno della studiosa si è sempre concentrato, soprattutto attraverso l’analisi testuale, sulla rivendicazione di questo alto valore in opposizione a metodologie ideologiche a lungo vigenti e ancora dure a morire: da una parte un formalismo astratto e asettico che aveva svalutato la dimensione semantica preparando il nichilismo di certa ermeneutica, dall’altra una poetica ostinatamente realistica che aveva ridotto il “senso” al rispecchiamento di una improbabile “cosa in sé”. Per la studiosa il “senso” della poesia e dell’arte in genere è invece arricchito proprio dall’apertura polisemica e ossimorica del messaggio (parola che va liberata dalla compromissione politica e moralistica). Tardivo è stato il matrimonio con Emerico Giachery con il quale ha poi collaborato anche alla stesura di due libri. Tardiva la pubblicazione dei suoi studi critici e di qualche breve scritto autobiografico incentrato prevalentemente sull’ “iniziazione” alla cultura. Bisogna dire che nell’ossimoro vivente riconoscibile nella sua personalità (e forse nella personalità di tutti noi) il carattere perentorio e spesso vivacemente polemico delle sue prese di posizione convive con una profonda coscienza del limite e della soggettività del pensare individuale. Si definisce, con una formula che ha inventato per il suo Svevo, “recensore autobiografico”.

Ha pubblicato: Vita d’un uomo: fenomenologia d’una ricerca ([1988]), Italo Svevo. Il superuomo dissimulato (1993); L’artefice l’orafo la bellezza (1997); Il volto bivalente. Saggi di letteratura italiana (1997), “Pas de deux” per la poesia di Alberto Caramella (2000, in coll. con E. Giachery), Ungaretti “verticale” (2000, in coll. con E. Giachery), Luoghi, tempi e oltre. Divagazioni di un egotista (2001), In cerca della “pianta uomo” (2003); Le “mani tese” di Dolores. I romanzi di Dolores Prato (2008), Le ragioni dell’ovvio (rileggendo Svevo, Pascoli, Ungaretti, Montale) (2011). Oltre a molti saggi su riviste.

5 commenti

Archiviato in il romanzo, Senza categoria

Noemi Paolini Giachery: Note sull’arrembaggio del “new realism” dibattito iniziato da Maurizio Ferraris (Parte II) Il problema dell’Ontologia, Il Progresso, l’Illuminismo, Socrate, La vita individuale, gli oggetti naturali, gli oggetti sociali, l’esperimento della ciabatta, Il suicidio della filosofia, etc.

de chirico piazza

de chirico piazza

Sull’argomento del «new realism» vedi su questo blog:

https://lombradelleparole.wordpress.com/2015/10/28/noemi-paolini-giachery-note-sullarrembaggio-del-new-realism-dibattito-iniziato-da-maurizio-ferraris-parte-i/

https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/04/02/giorgio-linguaglossa-il-suicidio-della-filosofia-un-appunto-per-il-nuovo-realismo-negativo/

https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/03/19/umberto-eco-il-realismo-minimo-il-dibattito-sulla-fine-del-postmoderno-non-tutto-e-interpretazione/

Il dibattito filosofico sul «new realism» è stato avviato da Maurizio Ferraris, autore del «Manifesto del Nuovo Realismo» (Laterza, pagine 126, € 15).

Sandro Modeo nell’articolo Il suicidio della filosofia il «new realism», contenuto ne “La Lettura” (supplemento Corriere della Sera) 1 aprile 2012 e pubblicato in stralci su questo blog, richiama la discussione innescata dal libro di Maurizio Ferraris (Manifesto del Nuovo Realismo) e la serie di convegni sul «new realism»,  rileva come ciò potrebbe indurre qualcuno a pensare che il «reale»  sia finalmente rientrato nel discorso filosofico.

 “La sua, scrive Modeo,  eclissi andrebbe ricondotta, per Ferraris, soprattutto al pensiero postmodernista, le cui buone intenzioni si sono rovesciate in altrettanti effetti-paradosso: il sogno di una società più solidale e liberata dalla «tirannia della ragione» si è tradotto nel populismo mediatico e nell’allucinazione permanente del reality; e il relativismo anti-illuminista (con la «verità» alleggerita tra virgolette ironiche) ha spianato la strada ai dogmi della Chiesa”.

de chirico l'eterno ritorno

de chirico l’eterno ritorno

(da  un diario estivo del 2011) di Noemi Paolini Giachery

Una volta enunciata la scelta realistica, presto emergono le “novità” specifiche del pensiero di Ferraris. Condannata l’ importanza concessa alla gnoseologia dalla analitica ricerca kantiana, ci si prepara ad illustrare una «filosofia della percezione» . La percezione costituirebbe infatti l’approccio più diretto alla realtà delle cose, il più capace di verificare l’ «inemendabilità» dell’oggetto reale, e all’autore basta questo tipo di verifica per compiacersi di aver rilanciato «l’ontologia come scienza dell’essere, della molteplicità degli oggetti che – dalla percezione alla società – [strano accostamento che troverà forse una strana spiegazione] costituiscono un ambito di analisi non necessariamente subordinato alle scienze della natura». Kant, anzi, avrebbe fatto male a rinunciare « al nome risonante di ontologia» per la conoscenza umana.

Sulla percezione si fonderebbero «Ontologia, Critica, Illuminismo, […], tre parole chiave che vogliono reagire ad altrettante fallacie del postmoderno, la fallacia dell’essere sapere, la fallacia dell’accertare accettare e la fallacia del sapere potere», «Ontologia  significa semplicemente: il mondo esiste e ha le sue leggi e le fa rispettare». Ammette, l’autore, che, «per sapere  che l’acqua è H2O ho bisogno di linguaggio, di schemi e di categorie». Più importante sarebbe  però verificare, «l’esperienza non scientifica , [che] l’acqua bagna e il fuoco scotta sia che io lo sappia sia che io non lo sappia indipendentemente da linguaggi, schemi, categorie» (pp.28-30)  (schemi concettuali a cui però devo ricorrere,  direi, non solo per scoprire ed enunciare la formula chimica, ma anche per usare la parola acqua o la parola bagna, terza persona del presente di bagnare).

La camicia gialla (dora maar), 1939 di picasso

La camicia gialla (dora maar), 1939 di picasso

Critica significa che accertare non corrisponde necessariamente ad accettare, perché «al realista è aperta la possibilità di criticare (purché lo voglia) e di trasformare (purché lo possa), in forza dello stesso banale motivo per cui la diagnosi è la premessa della terapia». E qui, mancando una qualsiasi analisi gnoseologica che vada oltre l’esperienza sensoriale  per recuperare, giustificare e raccordare la facoltà razionale e altre possibili facoltà conoscitive e pratiche umane, il salto apodittico fa un certo effetto al lettore. Per esempio, il problema, essenziale per un vero filosofo, del libero arbitrio, sollevato dal riferimento al “volere”, non è neppure sfiorato.

Ma a questo studioso sta a cuore solo la prassi politica e sceglie una visione filosofica solo se la ritiene politicamente «emancipativa». Così, arrivato alla terza chiave, l’Illuminismo realistico, si limita ad annunciare trionfalisticamente  il ritorno all’idea di progresso storico-politico,  finalmente usciti dalle tenebre (dal «cuore di tenebra») dell’anti-illuminismo.  Perché l’illuminismo, «come diceva Kant [qui riabilitato], è  “osare sapere” e  segna “l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso”».

Si apre ora il secondo capitolo, Realismo. Cose che esistono dall’inizio del mondo, con la contestazione di una concezione antirealista  «“ermeneutica” o “kantiana”» secondo la quale «anche il fatto che sulla Luna si trovino montagne alte più di 4000 metri non sarebbe indipendente dai nostri schemi concettuali o anche semplicemente dalle parole che usiamo». L’autore ha qui ripreso il suo esempio da  una domanda retorica, che ritengo interpretata impropriamente, di Diego Marconi in un articolo pubblicato su Repubblica del 3 dicembre 2011: «Davvero potremmo dire che ci sono montagne sulla luna se non possedessimo i concetti o le parole “montagna”, “luna” ecc.? ».

Nell’articolo, molto equilibrato, di Marconi, che riconosce le ragioni delle due diverse «intuizioni», la realistica e l’ermeneutica, che vorrebbe in qualche modo conciliare, si afferma semplicemente che per dire,  cioè per trasformare in parole il dato esterno,  e non per creare lo stesso “fatto” che si trovino sulla Luna queste che noi chiamiamo “montagne”, ricorriamo a quegli schemi conoscitivi che io stessa riconoscevo filtro necessario per parlare di acqua e di bagnato. (In quel  contesto il riferimento, non polemico, a Kant era motivato).

Picasso Buste de femme au chapeau (Dora Maar) 1939

Picasso Buste de femme au chapeau (Dora Maar) 1939

Siamo a questo punto un po’ confusi ma ci illuminerà, alle pagine 39-43, l’«esperimento della ciabatta» (l’oggetto scelto, umile e casereccio, risponde a una volontà,  che chiamerei populista, di dare una veste democraticamente affabile e popolare al discorso filosofico). L’esempio è inserito nel paragrafo Uomini e notiamo che del soggetto uomo qui si parla solo al plurale. Cominciamo forse a capire quella strana associazione di «percezione» e di «società» ricordando che, come ho premesso, anche certo decostruzionismo, chiamato qui «costruzionismo» perché pretenderebbe di costruire la realtà,  partiva da una apodittica ammissione dell’esistenza non del soggetto individuale  ma della società che crea il mondo.

Qui si dimostra all’ avversario postmoderno che una ciabatta su un tappeto la vede il singolo individuo ma la vede anche un altro che ubbidisce alla richiesta di spostarla, e la vede anche un cane che, pur non usando un linguaggio umano, ubbidisce alla stessa richiesta, e la percepisce anche il verme che decide (anche lui si suppone dotato di libero arbitrio) se aggirarla o passarci sopra. La ciabatta dunque c’è, esiste, è reale.

Il lettore ingenuo può domandarsi: ma non era più semplice e anche più serio, dovendo capire se esiste davvero ciò che è fuori di noi, cominciare a chiedersi se esiste davvero l’altro uomo? Dopo una risposta a questa domanda sarebbe superfluo chiedersi se esistono cane, verme e ciabatta. Ma il lettore ingenuo non ha capito ancora che  per molti postmoderni a cominciare da Derrida), e per lo stesso Ferraris, un a priori non messo in discussione è, o era, – ripeto ancora una volta – l’esistenza non del singolo uomo ma della società; per Derrida, addirittura (lo apprendo indirettamente dall’altro testo, già citato, di Ferraris) l’individuo non avrebbe dovuto neppure avere una qualsiasi definizione nominale perché questa poteva mettere in pericolo l’uguaglianza. Del suo ex maestro  Ferraris conserva, a fianco della sua personale rivendicazione della oggettività e autonomia del mondo naturale, l’ esclusivo riferimento, a proposito dell’uomo, alla dimensione collettiva e sociale e ciò perché, forse più ancora del maestro, finalizza la sua ricerca “filosofica” a risultati politici.

Woman-art-font-b-painting-b-font-Pablo-Picasso

Woman-art-font-b-painting-b-font-Pablo-Picasso

Così nel suo panorama si distinguono nettamente gli «oggetti naturali» e gli «oggetti sociali»: autonomi e “inemendabili” i primi; dipendenti, i secondi, dalla società che li crea e li interpreta.

Ferraris contesta i movimenti filosofici che, dagli scettici a Cartesio a Hegel, hanno sminuito il valore conoscitivo dei sensi (che «possono ingannare»)  e conferisce invece «una peculiare valenza ontologica al recupero del valore dell’estetica come teoria della sensibilità, elaborando la teoria dell’inemendabilità». Non è però facile persuadersi che possa bastare bagnarsi e scottarsi o percepire un colore per dire di essere a conoscenza dell’essere. Può accontentarsi, sul momento, di questo la madre che prepara il bagnetto per il figlio misurandosi con il bagnare e con lo scottare, o anche l’autista arrivato al semaforo, o anche, e soprattutto, il pittore che prepara la sua tavolozza. Mi accorgo che sto mimando il tono leggero del mio autore, insieme nemico e amico. ma dovrei anche, spostandomi sul versante tragico, pensare a chi ha subito i danni degli incendi e delle inondazioni: in definitiva dovrei pensare al normale svolgimento della vita quotidiana, esperienza diversa dalla ricerca filosofica.

Ma chi è in cerca di una, sia pur approssimativa ma più profonda, verità fa bene a rendersi conto, per esempio, che dietro certe qualità c’è una  quantità e, se vuole andare oltre, che quella quantità forse è fatta di quanti. E che il suo stesso corpo, come quello di ogni membro della società (almeno così dice oggi la scienza) è forse fatto di quanti. E se ha un certo interesse per la filosofia è spiegabile che si domandi se questo universo di quanti ha qualche ragion d’essere, meccanica o finalistica, o d’altro genere, anche se su questo tema le ipotesi sono indimostrabili in termini razionali. Comunque una ricerca che, ragionevolmente, rinunciasse a porsi problemi che ritiene razionalmente insolubili dovrebbe chiamarsi, a mio parere, «pensiero debole».

Picasso-Dora-Maar

Picasso-Dora-Maar

E anche, direi, dovrebbe essere interessante per un ricercatore della verità il fatto che quelle sensazioni da cui siamo partiti entrano ogni volta in un singolare universo emotivo-conoscitivo che contrassegna ogni individuo, un universo unico e irripetibile che esiste anche se non è esteriormente registrato in ambito sociale. Un universo a cui io, per esempio, tengo particolarmente ma che mi sembra programmaticamente ignorato sia dai realisti, sia dai postmoderni, almeno da quelli in lizza nel discorso che seguiamo. (A questo punto vediamo che questo “pensiero forte” ma asettico non ha neppure l’intento di rinsanguare la vita riportandola sulla terra, come supponevo alla prima lettura).

Mi  sembra anche inevitabile che un vero filosofo non si limiti a esaltare il progresso ma cerchi un qualche fondamento per una idea non del tutto soggettiva e arbitraria di bene e di male, di giustizia e di ingiustizia, di moralità e di immoralità. E se risulta introvabile un  fondamento del genere (che non serviva, a dire il vero, al relativista Derrida per affermare una indecostruibile, assoluta — e di fatto  molto soggettiva  — idea di giustizia), il filosofo deve almeno render conto di questa aporia.

Ma l’idea di etica del nostro autore è molto particolare e lo scopriamo nella conclusione che trae, riferendosi a una situazione immaginata da Putnam. Quella di «uno scienziato pazzo [che] abbia messo dei cervelli [umani, suppongo] in una vasca e li alimenti artificialmente» dando loro «l’impressione di vivere in un mondo reale» in «situazioni che richiedono delle prese di posizione morale», e che le reazioni vadano dalla disonestà alla santità. Ferraris sostiene che «il solo pensiero non è sufficiente perché ci sia la morale e che questa incomincia nel momento in cui c’è un mondo esterno  che ci provoca e ci consente di compiere azioni, e non semplicemente di immaginarle». Fa notare che non si può comminare una pena detentiva in un processo alle intenzioni. Questo esempio dimostra che qui si confonde la morale con il diritto. Da un punto di vista morale, anche un invalido che non uccida chi vorrebbe uccidere solo perché ne è materialmente impedito non può essere certo arrestato ma, in un’etica evoluta e non utilitaristica è in difetto  anche nel caso in cui nessuno lo sappia, e non solo secondo un’idea confessionale di peccato. Ma questa ricerca che si definisce filosofica ha poca confidenza con l’interiorità dell’individuo in riferimento alla quale soltanto, a mio parere, si può parlare di morale. A proposito del cervello nella vasca si precisa a un certo punto, en passant,  che «nella fattispecie è stato fatto pensare», e qui finalmente emerge un problema che riguarda la responsabilità morale: quello del cosiddetto “libero arbitrio” cui più su ho accennato.  Il cervello nella vasca non era libero nelle sue scelte. E chi ci dice che anche i cervelli fuori della vasca non siano totalmente condizionati nelle loro scelte, apparentemente libere, da impulsi inavvertibili e incontrollabili? Questo sì è un problema serio anche se di difficile soluzione e da esso non può prescindere la riflessione etica.

Picasso. Ritratto di Dora Maar o Dora Maar seduta, olio su tela, cm. 92 x 65 particolare

Picasso. Ritratto di Dora Maar o Dora Maar seduta, olio su tela, cm. 92 x 65 particolare

Qui comincia un discorso per me arduo da seguire. Si imposta solennemente la netta distinzione tra gli «oggetti naturali» e gli «oggetti sociali»   (il lettore si domanda subito se lui è un oggetto naturale o un oggetto sociale). Gli oggetti naturali sono inemendabili e non costruiti dall’uomo. (Strano che tra i primi esempi vengano citati tavoli e sedie che, a mio parere, dimostrano una interazione tra le due oggettività). Gli oggetti sociali (e qui ritroviamo Derrida) sono determinati dai rapporti interpersonali; in principio è la promessa tra due persone e di lì si arriva alle scommesse, ai matrimoni, ai contratti, alle leggi, alle tasse, all’Iva,  al denaro, ai ruoli, alle istituzioni «che esistono solo perché noi crediamo che esistano». In questa lista ci sembra poco pertinente se non altro l’inclusione del denaro che esiste anche come oggetto materiale metallico o cartaceo ma diventa sociale solo attraverso l’interpretazione della sua funzione. Come le sedie e i tavolini, del resto, che diventano oggetti sociali  quando sono visti come supporti per sedere o per appoggiare qualche cosa, magari carte e contratti di affitto, quei contratti che esistono obiettivamente solo se sono registrati sulla carta o nella memoria. Anche registrati su una carta “inemendabile” per la percezione, sono emendabili, penso, perché possono essere stracciati o bruciati, ma un inemendabile albero non può essere bruciato o tagliato?

E qui sto entrando in un labirinto dal quale è difficile uscire. Mi sembra, tutto sommato, che il rapporto tra il sociale e il naturale sia più fluido e sfumato di quanto non appaia in questa schematizzazione. Perché l’uomo, una volta preso atto dell’esistenza della natura nella sua “inemendabilità” (parola che ci porta immediatamente sul piano della pratica ma vuole indicare una realtà esterna all’uomo di cui l’uomo non  può non riconoscere l’esistenza) opera nella natura e la trasforma attuando le sue intenzioni mentali e non è il solo essere a modificare la natura: penso ai nidi, ai termitai e alla compresenza di costruzioni materiali e di regole che vigono in società animali e i conti non mi tornano. Ferraris, del resto, non era portato, come Derrida, a considerare l’uomo  un animale un po’ più evoluto? E l’uomo stesso, in particolare per un realista, non è un oggetto naturale? Ma forse l’uomo, come singolo individuo, non esiste proprio: «La vita non esaminata non ha valore».

Picasso tete de femme (Portrait of Dora Maar)

Picasso tete de femme (Portrait of Dora Maar)

E in questo contesto ciò che caratterizza la vita individuale, specialmente come vita interiore, proprio non esiste. E mi domando come si possono esaltare, nella conclusione del libro, l’Illuminismo, il progresso democratico,  il libero pensiero quando finora l’uomo è comparso solo nelle sue funzioni collettive e indifferenziate. Un individuo  d’eccezione entra in scena alla fine: quel Socrate che a Nietzsche non piaceva. Ma Socrate è poco inquadrabile nel contesto di questa società indifferenziata  Socrate era un  “diverso” forse un po’ più di come erano “diversi” uno dall’altro i Trecento che lo hanno condannato. E ricordiamo a questo punto che il limite dell’Illuminismo era proprio il considerare poco le “differenze” tra gli uomini e tra le nazioni. Questa visione tutta esterna della società appiattisce l’umanità lasciando fuori tra l’altro la personale creatività artistica (nell’altro libro citato compariva almeno, tra gli «oggetti sociali», la poetica simbolista). Ma quel che è più grave è che resta fuori il dolore del mondo,  che è dolore di singoli individui, così come la gioia, l’amore, la paura, la morte, insomma resta fuori la vita. Emerge la speranza ma è una speranza solo politica.

È vero che una rivendicazione, a pagina 59, della differenza di questo nuovo realismo dal positivismo si fonda sul «rilancio della filosofia come ponte tra il mondo del senso comune, dei valori morali e delle opinioni e il mondo del sapere in generale (perché non c’è solo la fisica, ci sono anche il diritto, la storia, l’economia)». Ma resta ancora escluso dall’essere riconoscibile come tale ciò che appartiene alla singolarità dell’individuo.  Per non dire che nel discorso quel «ponte», per scarso interesse gnoseologico, resta solo un presupposto non spiegato.

Noemi Paolini Giachery Aleph di Roma Presentazione libro “Ungaretti: vita d'un uomo”

Noemi Paolini Giachery Aleph di Roma Presentazione libro “Ungaretti: vita d’un uomo”

Noemi Paolini saggista, vive a Roma. Nata da famiglia elbana, a Roma ha sempre vissuto e operato. Il suo interesse culturale si è molto presto rivolto alla dimensione dell’arte e in particolare della poesia (in senso lato) e della musica, in una ricerca particolarmente attenta alla portata conoscitiva che nell’arte si manifesta attraverso i valori formali. Significativo è il precoce amore, al tempo del liceo, per Giambattista Vico, poi scelto come argomento della tesi di laurea. Il grande filosofo aveva tra l’altro il merito di “aver riconosciuto il valore della poesia come forma di conoscenza autonoma rispetto alla conoscenza concettuale, e di essersi così affrancato dai limiti del razionalismo cartesiano”. Nella sua attività sia di insegnante sia di interprete e critico letterario l’impegno della studiosa si è sempre concentrato, soprattutto attraverso l’analisi testuale, sulla rivendicazione di questo alto valore in opposizione a metodologie ideologiche a lungo vigenti e ancora dure a morire: da una parte un formalismo astratto e asettico che aveva svalutato la dimensione semantica preparando il nichilismo di certa ermeneutica, dall’altra una poetica ostinatamente realistica che aveva ridotto il “senso” al rispecchiamento di una improbabile “cosa in sé”. Per la studiosa il “senso” della poesia e dell’arte in genere è invece arricchito proprio dall’apertura polisemica e ossimorica del messaggio (parola che va liberata dalla compromissione politica e moralistica). Tardivo è stato il matrimonio con Emerico Giachery con il quale ha poi collaborato anche alla stesura di due libri. Tardiva la pubblicazione dei suoi studi critici e di qualche breve scritto autobiografico incentrato prevalentemente sull’ “iniziazione” alla cultura. Bisogna dire che nell’ossimoro vivente riconoscibile nella sua personalità (e forse nella personalità di tutti noi) il carattere perentorio e spesso vivacemente polemico delle sue prese di posizione convive con una profonda coscienza del limite e della soggettività del pensare individuale. Si definisce, con una formula che ha inventato per il suo Svevo, “recensore autobiografico”.

Ha pubblicato: Vita d’un uomo: fenomenologia d’una ricerca ([1988]), Italo Svevo. Il superuomo dissimulato (1993); L’artefice l’orafo la bellezza (1997); Il volto bivalente. Saggi di letteratura italiana (1997), “Pas de deux” per la poesia di Alberto Caramella (2000, in coll. con E. Giachery), Ungaretti “verticale” (2000, in coll. con E. Giachery), Luoghi, tempi e oltre. Divagazioni di un’egotista (2001), In cerca della “pianta uomo” (2003); Le “mani tese” di Dolores. I romanzi di Dolores Prato (2008), Le ragioni dell’ovvio (rileggendo Svevo, Pascoli, Ungaretti, Montale) (2011). Oltre a molti saggi

7 commenti

Archiviato in filosofia, Ontologia

Noemi Paolini Giachery: Note sull’arrembaggio del “new realism” dibattito iniziato da Maurizio Ferraris (Parte I)

Giacomo Costa città immaginaria

Giacomo Costa città immaginaria

Sull’argomento del «new realism» vedi su questo blog:

https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/04/02/giorgio-linguaglossa-il-suicidio-della-filosofia-un-appunto-per-il-nuovo-realismo-negativo/

https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/03/19/umberto-eco-il-realismo-minimo-il-dibattito-sulla-fine-del-postmoderno-non-tutto-e-interpretazione/

Il dibattito filosofico sul «new realism» è stato avviato da Maurizio Ferraris, autore del «Manifesto del Nuovo Realismo» (Laterza, pagine 126, € 15).

Sandro Modeo nell’articolo Il suicidio della filosofia il «new realism», contenuto ne “La Lettura” (supplemento Corriere della Sera) 1 aprile 2012 e pubblicato in stralci su questo blog, richiama la discussione innescata dal libro di Maurizio Ferraris (Manifesto del Nuovo Realismo) e la serie di convegni sul «new realism»,  rileva come ciò potrebbe indurre qualcuno a pensare che il «reale»  sia finalmente rientrato nel discorso filosofico.

 “La sua, scrive Modeo,  eclissi andrebbe ricondotta, per Ferraris, soprattutto al pensiero postmodernista, le cui buone intenzioni si sono rovesciate in altrettanti effetti-paradosso: il sogno di una società più solidale e liberata dalla «tirannia della ragione» si è tradotto nel populismo mediatico e nell’allucinazione permanente del reality; e il relativismo anti-illuminista (con la «verità» alleggerita tra virgolette ironiche) ha spianato la strada ai dogmi della Chiesa”.

città di sera

città di sera

(da  un diario estivo del 2011) di Noemi Paolini Giachery

 L’ incursione nella dimensione filosofica non è nuova in queste  divagazioni (la tentazione filosofica è in me un vizio forse innato anche se mai seriamente coltivato).

Anche nel precedente capitolo non ho evitato di manifestare  un certo allarme nei confronti del pensiero nichilista non solo postmoderno. Nichilista, dico, e non relativista perché un sospetto relativistico si era già affacciato nella tredicenne quando annotava, tra i suoi “pensierini”, che “se lo scarafaggio fosse rosso e giallo forse lo faremmo passeggiare graziosamente sul palmo della mano”. Ma, molto prima, in me bambina piccola era nato il sospetto che fosse tutta falsa quella realtà che avevo appreso dai genitori e avevo poi trovato un appiglio, un fondamento, direi, riconoscendo che però la bugia, l’inganno (avrei dovuto dire “il concetto di inganno”) era una realtà vera”(“una cosa vera”, dicevo allora). 

Osservo ora, tornando al tema, che, passato molto tempo dalle riflessioni dell’incipit, un  rimedio peggiore del male si è clamorosamente annunciato. Si tratta di un realismo materialista, radicale e acritico, che negli ultimi tempi si era già intravisto operante in ambito  letterario.    

Ora che il “nuovo realismo” sembra avere invaso tutti gli spazi del dibattito culturale attuale per lo più attraverso proclamazioni dogmatiche, potrà avere forse qualche interesse riconsiderare, nei panni di un testimone sfavorevolmente colpito dall’evento, la prima irruzione, nei mesi estivi del 2011, fra i temi della stampa italiana, del dibattito tra “realismo” e “postmoderno” , dibattito nel quale, a dire il vero, il contestato “postmoderno” reagiva  piuttosto abbacchiato. Riproporrò a questo scopo alcune mie note quasi diaristiche, inedite, di carattere passionalmente risentito. Voglio solo informare che queste prime impressioni sono state in me confermate dalla successiva lettura del Manifesto del nuovo realismo e di altri testi di Maurizio Ferraris.

 

Maurizio Ferraris

Maurizio Ferraris

 Nel giro di pochi giorni due articoli della “Repubblica” e uno del “Corriere della Sera” confermavano l’impressione che un pragmatismo presuntuoso e totalizzante avesse ormai preso il posto della filosofia, almeno di quella per me degna di questo nome, continuando a chiamarsi filosofia, anzi «pensiero forte».

Il ritorno al pensiero forte. Dalla Germania all’Italia la nuova filosofia realista è il titolo (che percepisco nella lettura come gridato da uno “strillone”) di un articolo di Maurizio Ferraris su “La Repubblica”  dell’8 agosto, che celebrava la fine del postmoderno, identificato con il “pensiero debole” e in particolare con il relativismo dell’ermeneutica che aveva portato a estreme conseguenze nichilistiche l’affermazione di Nietzsche che «non ci sono fatti ma solo interpretazioni».

Come nuovo «pensiero forte» si salutava il ritorno del realismo e si annunciava un convegno intitolato “New Realism” che si sarebbe tenuto a Bonn la primavera seguente. Che cosa si dirà nel convegno è per me difficile prevederlo. Mi auguro solo che in esso non si convalidino le interpretazioni che del nuovo realismo propone qui Ferraris. Per lui «a far scricchiolare le certezze dei postmoderni [certezze delle non certezze] ha contribuito prima di tutto la politica. L’avvento del populismo mediatico – una circostanza tutt’altro che puramente immaginaria – ha fornito l’esempio di un addio alla realtà per niente “emancipativo”, senza parlare poi dell’uso spregiudicato della verità come costruzione ideologica “imperiale” da parte di Bush che ha scatenato una guerra sulla base di finte prove[…]». L’immediata reazione del lettore è la domanda: che c’entra tutto questo? Bisogna arrivare a scoprire questi casi politici per contestare gli eccessi nichilistici e le contraddizioni interne di certa ermeneutica? E siamo proprio sicuri che dopo il convegno sul nuovo realismo i nuovi Bush si vergogneranno a dire bugie?

 Ma quel che è peggio per me è che si torni a contestare una concezione filosofica chiamandone in causa i possibili effetti negativi sull’andamento della società. Il “pensiero debole” sarebbe da rifiutare per la sua presunta ripercussione sulla pratica politica? Il pensiero forte sarebbe quello che sceglie la verità cui aderire in ragione non della sua fondatezza teoretica  ma della sua funzionalità pratica? Addio autonomia del pensiero, addio filosofia.

film-belle-de-jour-5-con-catherine-deneuve di L. Bunuel

film-belle-de-jour-5-con-catherine-deneuve di L. Bunuel

Scopriamo poi che è considerato «pensiero forte» quello che annuncia con trionfalismo di recuperare l’ontologia (termine  ritenuto fino a oggi assai impegnativo) accontentandosi di fatto  del riconoscimento che «il mondo ha le sue leggi e le fa rispettare»:  sembra  che addirittura si attribuisca un valore ontologico a quelle “qualità” dell’oggetto legate alla percezione sensoriale che Galilei – e non era certo il primo – distingueva dalle “quantità”.  Basta riconoscere che «l’acqua bagna e il fuoco scotta sia che io lo sappia sia che non lo sappia, indipendentemente da linguaggi e da categorie».

  Credevo che, in una prospettiva filosofica, l’ontologia avesse proprio a che fare con la gnoseologia e con il suo rapporto con una ipotizzabile verità sostanziale. La filosofia è nata per cercare oltre le apparenze.  Il “nuovo realismo” ammette, è vero, che «c’è qualcosa che ci resiste» e che Ferraris chiama «inemendabilità» ma con questo termine il pensiero si ferma sull’ostacolo pratico costituito da questo quid, in sé poco interessante, mostrandosi indifferente al limite conoscitivo che era considerato, per esempio, nella Ragion pura kantiana, se non vogliamo risalire addirittura ai sofisti.

Ben più complessa ed equilibrata mi è sembrata finora la posizione di Umberto  Eco, che riconosce l’esistenza di uno “zoccolo duro” inconoscibile (non solo “inemendabile”) al di là delle nostre interpretazioni, mantenendosi lontano sia dall’estremismo nichilistico di certa ermeneutica, sia da ogni superficiale realismo, Anche lui, come Ferraris, dell’ermeneutica era stato un maestro, contrario, per esempio, in fatto di linguistica, al facile realismo ontologico di Chomsky.  Ci è rimasta impressa nella memoria l’epigrafe del Nome della rosa: «Stat rosa pristina nomine: nomina nuda tenemus».

Salman Rushdie, Vargas Llosa, Umberto Eco

Salman Rushdie, Vargas Llosa, Umberto Eco

La seconda sconcertante sorpresa era stata poi per me la risposta di Gianni Vattimo a Ferraris in un dibattito comparso in “La Repubblica” il 19 agosto. Vattimo, condividendo la concezione strumentale della filosofia, si riconosceva anche lui deluso dal pensiero postmoderno per «la persistente resistenza della “realtà”» solo in quanto  è per lui verità incontestabile che la verità sia  «una questione di potere» per cui al filosofo non resta altro che rinunciare a pensare e darsi alla pratica seguendo il facile criterio di agire sempre solo per contestare ciò che il potere vorrebbe attuare o semplicemente proporre. Vattimo propone una perenne rivolta “adolescenziale” ma ha il buon gusto di ammettere simpaticamente che lui come filosofo può considerarsi «emerito» (e questo riconoscimento lo innalza nel rapporto dialogico).

Anche la filosofia in questo panorama si può considerare “emerita” se un pensatore come Hylary  Putnam, impegnato per decenni a cercar di definire la verità oggettiva, dopo la proposta di un «realismo metafisico», è arrivato alla fine ad accontentarsi di ripiegare sul «senso comune». Sarebbe mai nata la filosofia se alcuni greci particolarmente intelligenti si fossero accontentati del senso comune?

So anche, per qualche diretta esperienza di lettura – e, a dire il vero, di scarsa condivisione – che la ricerca degli  intellettuali qui citati, è sempre stata sostenuta da una vasta cultura,  ma proprio per questo mi domando: perché offrire al lettore comune una sintesi così povera e paradossale del loro pensiero?

Un’interessante sincronia e sintonia con questo indirizzo mi pareva di cogliere nel dibattito sulle arti figurative riportato sul “Corriere della sera” dell’8 e del 9 agosto, in cui  emergevano aporie interessanti per la loro capacità di aprire domande, di insinuare dubbi e ripensamenti e il lettore particolarmente sensibile a questo problema poteva intravedere pericoli analoghi per  l’autonomia dell’arte intesa ancora da qualcuno (Francesco Bonami, ma con lui tutta una corrente) come  «strumento che ci parla del nostro mondo, quello che ci scorre davanti agli occhi». Dall’altra parte anche molta arte del Novecento e oltre, contestata dal noto critico Jean Clair, limitando la creatività alla performance, al puro gesto estetico, mentre sembrava rivendicare l’autonomia dell’estetica, impoveriva la singola opera della sua valutabilità in sé e per sé concentrando l’attenzione sulla poetica (se si accettavano una poetica o un autore se ne accettavano automaticamente tutte le singole opere) e, in fondo, le varie poetiche si confrontavano quasi sempre per loro, più o meno emergenti, implicazioni politiche.

città nel traffico urbano

città nel traffico urbano

Passati alcuni giorni il 31 agosto Emanuele Severino sul “Corriere della Sera” è finalmente intervenuto con molta energia denunciando «una certa leggerezza piuttosto occhieggiante» e riconoscendo come difetto «comune al “nuovo realismo” di Ferraris e al “pensiero debole”  di Vattimo» l’aver messo «in primo piano l’istanza politico-morale».

So che nel frattempo il dibattito si era esteso e altri importanti interventi erano apparsi, tra l’altro, sul “Foglio” e su “Micromega”.

Oso oggi, dopo quattro anni, rendere pubbliche le mie riflessioni – quasi paginette di diario limitate a un tempo breve e destinate a chiarire a me stessa le mie reazioni – come testimonianza dell’interesse che dibattiti come questo possono avere anche per chi non è filosofo di professione e, come me, si aggiorna prevalentemente sui giornali e sulle riviste. Può confortare il mio pianto per l’annunciata fine del pensiero veramente filosofico la grande  partecipazione di pubblico ai convegni di filosofia che si svolgono in alcune piazze d’Italia?

Appendice

 Nell’estate dell’11, quando mi accanii a contestare rabbiosamente il presunto “pensiero forte”  di Maurizio Ferraris, l’intollerante che agisce in me, nonostante l’affermato amore per il libero pensiero, trovò pace immaginando che in fondo si trattasse di un intervento paradossale e ironico, una boutade insomma, per dire che dai sofisti in poi il vizio filosofico di astrarre dalla realtà per chiedersi se la realtà fosse poi vera era, in fondo, un guastafeste in quanto impediva di godersi la vita senza pensare troppo e perciò bisognava liberarsene. Ma oggi ho riscontrato (internet è la mia scuola quotidiana) che quello che ora chiamerei un colpo di  stato ha avuto successo sottomettendo buona parte del pensiero ufficiale. Così non mi sembra del tutto fuori luogo e fuori tema aggiungere in appendice questa recensione che a suo tempo scrissi per me senza pensare di pubblicarla.

Per ribadire, in conclusione, che il vero è misterioso e l’approccio puramente sensoriale non garantisce un “pensiero forte” ma non è inutile utilizzare gli strumenti che possediamo (non solo quelli razionali) per approssimarci ad esso anche per vie di volta in volta diverse e addirittura personali. La stessa ricerca scientifica procede formulando sistemi diversi che io chiamerei dantescamente “umbriferi prefazi” (penso, per citare dal di fuori gli ultimi approdi, alla fisica relativista e alla fisica quantistica) in quanto tutti metaforici come metafora è la stessa parola.

Maurizio Ferraris,  Manifesto del realismo, Bari, Laterza, 2012

Heidegger nella casa di campagna Oso avventurarmi in un commento del notissimo Manifesto di Ferraris perché, per quanto consapevole dei gravi limiti della mia preparazione filosofica, questa volta nella mia analisi-contestazione ho l’impressione di avere a che fare con le idee non di un filosofo ma di un politico e sociologo  che si presenta nei panni del filosofo, annunciando, anzi, il ritorno, con il suo realismo, alla filosofia e al «pensiero forte».

La novità del suo messaggio è semplicemente un ritorno al “buon senso”,  che è l’ultimo approdo di Hilary Putnam e trova facile consenso nella opinione dei più, ma implica, a mio parere, una rinuncia alla vera filosofia – che è nata proprio per andare oltre il “buon senso” –.

Non è certo difficile contestare gli eccessi di certo decostruzionismo, identificato nel “postmoderno”, che è l’estrema conseguenza di una ricerca gnoseologica  perfezionistica e ipercritica, fino al paradosso e alla caduta nella contraddizione: in Ricostruiamo la decostruzione, del 2010, Ferraris aveva buoni argomenti per denunciare la stessa contraddittorietà del suo ex maestro Derrida. Meno buoni certi argomenti proposti qui, come, per anticipare due esempi, «l’esperimento della ciabatta» o anche l’individuazione di un percorso nella storia della filosofia che, da Cartesio attraverso Kant, condurrebbe, esaltando il valore conoscitivo del concetto, alla riduzione della realtà, da parte del pensiero “postmoderno”, a pura attività mentale della società (e qui, nel postulare a priori l’esistenza di una società di esseri umani al di fuori del soggetto individuale,  il  cui accertamento sarebbe meno arbitrario, è secondo me, uno dei limiti del rigore  di questa concezione che, come Ferraris, io stessa nelle sue conclusioni estreme non condivido).

Seguirò ora il  criterio, che esercito nell’esame dei testi letterari, di soffermarmi su parti essenziali del testo per dire la mia.

Bisogna ammettere che l’ampia pars destruens  è più spesso condivisibile, almeno in rapporto alla descrizione che Ferraris offre della prospettiva postmoderna. Come ho premesso, meno mi convincono i riferimenti a un Kant che avrebbe tolemaicamente «posto l’uomo al centro dell’universo, come fabbricante di mondi attraverso concetti» avviando così il prevalere, con la modernità, «degli schemi concettuali sul mondo esterno» (pp.10-11). A mio parere – e spero non solo mio – Kant, affermando non il carattere totalizzante della conoscenza intellettuale ma proprio il suo limite di fronte a un inafferrabile oggettivo “noumeno” (termine evitato da Ferraris anche nella sua lezione kantiana) esprime il suo bisogno di rivendicare l’autonomia dell’essere rispetto al conoscere (dell’ontologia rispetto all’epistemologia, direbbe Ferraris);  e insieme non ritiene vana una, sia pur inesauribile, tensione conoscitiva  verso l’assoluto, ma questa tensione riconduce ad altre facoltà conoscitive, altre “ragioni” presenti nell’uomo al di là della  “ragion pura”: la “ragion pratica” su cui cerca il suo fondamento un’etica non utilitaristica e non fideistica; e l’intuizione estetica che nella dimensione del sublime anticipa non solo il sublime  romantico ma lo stesso“tragico-dionisiaco” nietzscheano.  Il cosiddetto «desiderante» nietzscheano (diverso dal «desiderante» consumista della attuale sociologia) tende a una  corporeità sublimata  ed esalta la sua lotta per la “liberazione”, mentre Ferraris cita Nietzsche e lo stesso Wagner in posizione di anticipatori rispetto alla  «desublimazione» operata dal “postmoderno”. (Continua)

Noemi Paolini Giachery Aleph di Roma Presentazione libro “Ungaretti: vita d'un uomo”

Noemi Paolini Giachery Aleph di Roma Presentazione libro “Ungaretti: vita d’un uomo”

Noemi Paolini saggista, vive a Roma. Nata da famiglia elbana, a Roma ha sempre vissuto e operato. Il suo interesse culturale si è molto presto rivolto alla dimensione dell’arte e in particolare della poesia (in senso lato) e della musica, in una ricerca particolarmente attenta alla portata conoscitiva che nell’arte si manifesta attraverso i valori formali. Significativo è il precoce amore, al tempo del liceo, per Giambattista Vico, poi scelto come argomento della tesi di laurea. Il grande filosofo aveva tra l’altro il merito di “aver riconosciuto il valore della poesia come forma di conoscenza autonoma rispetto alla conoscenza concettuale, e di essersi così affrancato dai limiti del razionalismo cartesiano”. Nella sua attività sia di insegnante sia di interprete e critico letterario l’impegno della studiosa si è sempre concentrato, soprattutto attraverso l’analisi testuale, sulla rivendicazione di questo alto valore in opposizione a metodologie ideologiche a lungo vigenti e ancora dure a morire: da una parte un formalismo astratto e asettico che aveva svalutato la dimensione semantica preparando il nichilismo di certa ermeneutica, dall’altra una poetica ostinatamente realistica che aveva ridotto il “senso” al rispecchiamento di una improbabile “cosa in sé”. Per la studiosa il “senso” della poesia e dell’arte in genere è invece arricchito proprio dall’apertura polisemica e ossimorica del messaggio (parola che va liberata dalla compromissione politica e moralistica). Tardivo è stato il matrimonio con Emerico Giachery con il quale ha poi collaborato anche alla stesura di due libri. Tardiva la pubblicazione dei suoi studi critici e di qualche breve scritto autobiografico incentrato prevalentemente sull’ “iniziazione” alla cultura. Bisogna dire che nell’ossimoro vivente riconoscibile nella sua personalità (e forse nella personalità di tutti noi) il carattere perentorio e spesso vivacemente polemico delle sue prese di posizione convive con una profonda coscienza del limite e della soggettività del pensare individuale. Si definisce, con una formula che ha inventato per il suo Svevo, “recensore autobiografico”.

Ha pubblicato: Vita d’un uomo: fenomenologia d’una ricerca ([1988]), Italo Svevo. Il superuomo dissimulato (1993); L’artefice l’orafo la bellezza (1997); Il volto bivalente. Saggi di letteratura italiana (1997), “Pas de deux” per la poesia di Alberto Caramella (2000, in coll. con E. Giachery), Ungaretti “verticale” (2000, in coll. con E. Giachery), Luoghi, tempi e oltre. Divagazioni di un’egotista (2001), In cerca della “pianta uomo” (2003); Le “mani tese” di Dolores. I romanzi di Dolores Prato (2008), Le ragioni dell’ovvio (rileggendo Svevo, Pascoli, Ungaretti, Montale) (2011). Oltre a molti saggi su riviste.

30 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, filosofia

L’uomo senza qualità diventa scrittore: “La coscienza di Zeno” letto da Marco Onofrio

svevo_filateliaCon La coscienza di Zenosvevo_cartolina (1923), di Italo Svevo, la letteratura italiana assimila il respiro del grande romanzo europeo novecentesco (Kafka, Proust, Joyce, con substrato filosofico di Freud, Bergson, Nietzsche). Si dissolvono le strutture narrative tradizionali. Il personaggio è sottoposto a una destrutturazione atomistica: non è sentito più come monade unitaria, ma come aperta e imprevedibile “disponibilità” psicologica, nelle sue continue e contraddittorie oscillazioni tra conscio e subconscio, tra parola e pensiero, tra dialogo esterno e soliloquio mentale (monologo interiore), tra intenzione e azione; esposto dunque alle insidie dell’irrazionalismo e del relativismo, che segnano il tracollo di ogni certezza deterministica (su cui si fondava il romanzo naturalistico): la realtà non è più frutto di rapporti causa-effetto, ma “onda di probabilità” che sfugge ad ogni schema predittivo (Giacomo Debenedetti).

SVEVO_copertina_2Ecco il “personaggio-Novecento”, privo ormai di margini strutturati e, per lo più, inetto dinanzi a una realtà ormai inafferrabile. La realtà borghese, invece, si vuole ancora afferrabile e dominabile, costruttivamente utilizzabile a scopi di profitto. Zeno Cosini è un inetto alla vita pratica, un “teorista” portato per natura a riflettere su se stesso e sulle cose, ad analizzare più che ad agire, a lasciarsi vivere più che a vivere. Introspezione e analisi conducono inevitabilmente a uno stato di malattia. Zeno è l’antieroe borghese: è l’uomosvevo_copertina dai nervi stanchi, malato di troppa intelligenza. Il borghese non pensa, agisce: è convinto, sicuro e felice di ciò che fa, si identifica perfettamente col mondo che si è costruito intorno. Il borghese è dotato dunque di salute e impassibilità, di infallibile senso pratico.

Zeno è un acrobata del vuoto. Il suo sguardo sulle cose è intriso di leggerezza, disincanto, ironia, autoironia, pessimismo umoristico. La vita è una risibile farsa, svevo_3un enigma insolubile, un caos dove tutto può accadere. Lui stesso ottiene dalla vita doni e rivincite quasi suo malgrado, al di là dei meriti effettivi. La coscienza di Zeno è una commedia intrisa di tragedia. La tragedia, infatti, deve essere raccontata come se fosse una commedia, perché ormai è impossibile come tale: la tragedia pretende “verità” e “grandezza”, due valori che si sono sfaldati nella deriva di un mondo sempre più ridicolo. L’umorismo è la coscienza dell’assurdo della vita e dei giochi complicati e puerili con cui ci si illude di dominarla.  Zeno trasforma in materia comica tutto ciò che è fondante per suo padre: il lavoro, la religione, il matrimonio, la famiglia: i sacri valori della borghesia. Anche in casa Malfenti, a cominciare dal suocero Giovanni, si prende maledettamente sul serio la vita, ovvero gli ideali praticissimi della borghesia. Zeno, lui, proprio non ce la fa. Cioè: aderisce esternamente, ma si mantiene distaccato internamente. La sconnessione tra interno ed esterno, anzi, aumenta nella misura in cui Zeno cerca di agganciarsi alla realtà, di risolvere il problema della propria esistenza.

Continua a leggere

Lascia un commento

Archiviato in Senza categoria