
Evgenia Arbugaeva Weather_man
Noemi Paolini saggista, vive a Roma. Nata da famiglia elbana, a Roma ha sempre vissuto e operato. Il suo interesse culturale si è molto presto rivolto alla dimensione dell’arte e in particolare della poesia (in senso lato) e della musica, in una ricerca particolarmente attenta alla portata conoscitiva che nell’arte si manifesta attraverso i valori formali. Significativo è il precoce amore, al tempo del liceo, per Giambattista Vico, poi scelto come argomento della tesi di laurea. Il grande filosofo aveva tra l’altro il merito di “aver riconosciuto il valore della poesia come forma di conoscenza autonoma rispetto alla conoscenza concettuale, e di essersi così affrancato dai limiti del razionalismo cartesiano”. Nella sua attività sia di insegnante sia di interprete e critico letterario l’impegno della studiosa si è sempre concentrato, soprattutto attraverso l’analisi testuale, sulla rivendicazione di questo alto valore in opposizione a metodologie ideologiche a lungo vigenti e ancora dure a morire: da una parte un formalismo astratto e asettico che aveva svalutato la dimensione semantica preparando il nichilismo di certa ermeneutica, dall’altra una poetica ostinatamente realistica che aveva ridotto il “senso” al rispecchiamento di una improbabile “cosa in sé”. Per la studiosa il “senso” della poesia e dell’arte in genere è invece arricchito proprio dall’apertura polisemica e ossimorica del messaggio (parola che va liberata dalla compromissione politica e moralistica). Tardivo è stato il matrimonio con Emerico Giachery con il quale ha poi collaborato anche alla stesura di due libri. Tardiva la pubblicazione dei suoi studi critici e di qualche breve scritto autobiografico incentrato prevalentemente sull’“iniziazione” alla cultura. Bisogna dire che nell’ossimoro vivente riconoscibile nella sua personalità (e forse nella personalità di tutti noi) il carattere perentorio e spesso vivacemente polemico delle sue prese di posizione convive con una profonda coscienza del limite e della soggettività del pensare individuale. Si definisce, con una formula che ha inventato per il suo Svevo, “recensore autobiografico”.
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Ha pubblicato: Vita d’un uomo: fenomenologia d’una ricerca ([1988]), Italo Svevo. Il superuomo dissimulato (1993); L’artefice l’orafo la bellezza (1997); Il volto bivalente. Saggi di letteratura italiana (1997), “Pas de deux” per la poesia di Alberto Caramella (2000, in coll. con Emerico Giachery), Ungaretti “verticale” (2000, in coll. con Emerico Giachery), Luoghi, tempi e oltre. Divagazioni di un’egotista (2001), In cerca della “pianta uomo” (2003); Le “mani tese” di Dolores. I romanzi di Dolores Prato (2008), Le ragioni dell’ovvio (rileggendo Svevo, Pascoli, Ungaretti, Montale) (2011). Ungaretti: Vita d’un uomo: “una bella biografia” interiore, Aracne, 2014; L’autore si nasconde nel particolare, Aracne, 2015; Italo Svevo. Il superuomo dissimulato, Nuova edizione, Aracne 2017; In margine all’enigma della poesia, Edizioni GRAPHISOFT, 2017, oltre a molti saggi su riviste.
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Presentazione libro “Ungaretti: vita d’un uomo”
Missiva di Noemi Paolini Giachery
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Caro […],
capisco che il lettore possa domandarsi che intendono essere quei versi che io non chiamo poesie. Le parole vi si affiancano per abitudine cioè senza quelle inedite frizioni che fanno scintille e che ti fanno vedere il mondo con occhi nuovi. Sembra inutile cercare un senso riposto. Avrei fatto bene ad avvertire, come pensavo di fare, che “non c’è una introduzione perché queste parole dicono quel che dicono e basta”. È vero che avrei però aggiunto in fondo alla pagina, in caratteri piccoli piccoli – e questo sarebbe stato l’unico segno di poetica, ammiccante ambiguità – questa domanda: “ma sarà proprio vero / che questo è il mio pensiero?”.
Chi scrive se ne sta piedi a terra , testa china a guardarsi l’ombelico (come si usa dire con squallida immagine), rinunciando al cielo, al mare, alla natura, ingredienti naturalmente poetici. La natura in realtà compare una volta in una specie di panoramica o, meglio, di carrellata , in una filastrocca finale che finisce male, cioè con la previsione allegra di un cataclisma universale. E qui solo prendendo in prestito da Montale “la cenere degli astri” si respira per un momento un’aria poetica.
Perfino la memoria, tema privilegiato della poesia anche per me che ero nata leopardiana, compare nella prima pagina per annunciare le sue esequie, protratte nel tempo ma poi definitive. È vero che l’orizzonte in questo percorso sembra allargarsi: dalla più chiusa e dimessa contingenza del piano ravvicinato iniziale (l’ultimo mucchio di panni da lavare, ultimo segno di una presenza viva) si tenterà addirittura, in tempi più oziosi, un volo spaziale per calar di nuovo, delusi, a pianterreno (si raggiunge una cometa per scoprire che era solo “un sasso bitorzoluto”). Per finire con l’ultimo inganno di un “giro d’isola” anche questo, si è visto, catastrofico e nullificante sotto un’idillica apparenza. C’è forse la possibilità di consolarsi dopo tanta delusione cercando di scovare un senso secondo, più poetico e più gratificante? Negavo che ci fosse. Mi limitavo a osservare la non casuale scelta di una espressione-comunicazione conforme ai criteri se non della razionalità almeno di quella ragionevolezza che porta a evitare suggestivi scarti dalla norma e dalla logica comune. Ma, a guardar bene, la realtà qui si rivela molto meno sistemabile su un piano di comoda univocità. Non si cela nelle parole il mistero delle cose e nemmeno nel principio di non contraddizione.
E la contraddizione stessa, cioè l’associazione di due termini per opposizione forse fa essa stessa parte dell’inganno. Si scopre che la morte non è il contrario della vita e questo non perché la vita continui, come in fondo si desidererebbe, ma perché tra i due termini si può cogliere una totale estraneità. E proprio il sospetto che il principio di estraneità sia la chiave per leggere la vita e il mondo è il sentimento che raffredda questo dettato sottilmente tragico o nichilista nonostante il fermento che si nasconde nel sottosuolo dell’inconscio.
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Il quadro politico italiano bloccato
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
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«Il vivere», lo stato vegetativo del vivere, per Nietzsche è «la forma di essere a noi più nota». Vivere, respirare, bere, mangiare, amare, odiare, appassionarsi, illudersi etc., sono tutti appetiti che interessano questa forma della «vita», la sola che abbiamo e che conosciamo. La téchne è la mediazione con cui interviene la volontà di potenza dell’artista sulla «vita» per plasmare quella cosa che da Platone e Aristotele designiamo convenzionalmente con il nome di «arte». Orbene, la téchne è nemica della «forma» della «vita», è ciò che falsifica la «vita» e quindi deve essere bandita dall’arte e dall’arte poetica in particolare per poter parlare con qualche verosimiglianza al «vero», senza tradirlo. È questo il pensiero profondo di Noemi Paolini Giachery: fare poesia senza tecnica, come parlando e parlare come tacendo, nella consapevolezza che il mondo illusorio ci attende in agguato con i suoi fantasmi e i suoi illusionismi per farci inorgoglire e costringerci alla menzogna, all’arte della menzogna, all’arte della téchne. E così Noemi sceglie la rinuncia alla parola ornata e alla retorica del linguaggio, per usare il linguaggio allo statu nascendi, allo stato aurorale, come se fosse nato stamattina, senza alcun orpello e/o infingimento retorico, dall’albero del bene e del male, dall’albero del pane e del salame della Cuccagna delle comunità contadine; un parlare che proviene da prima di quel giorno maledetto del coglimento della mela da parte di Eva. La poesia di Noemi Paolini Giachery vive nell’utopia di questo progetto-miraggio: parlare con una lingua pura delle cose dei vivi e dei morti, di «Noi morti», perché «i morti fuggono» e perché «Talvolta ritornano», perché «Nomina nuda tenemus». Davvero, una poesia fuori tempo, fuori moda, fuori luogo. Potrebbe essere stata scritta cinquanta anni fa, come stamattina. In una lingua quasi fuori dalla storia. E dall’utopia sanguinaria della storia.
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Da una lettera del 23. settembre 20 11 di Cesare Viviani
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Ieri sera è stato un ascolto memorabile. La tua rappresentazione della morte è straordinaria. Ogni parola ha la dignità di un sentimento spersonalizzato, profondo e naturale, definitivo e limpido, lieve come un battito. C’è la musica nelle tue parole, quella che rende sopportabile la fine, quella delle acque e del vento. C’è lo sguardo che supera l’orizzonte dopo essersi inchinato ad esso, uno sguardo duplice e rivelatore: c’è la vita che guarda la morte, e c’è la morte che guarda la vita. C’è la dolorosissima accettazione dell’inaccettabile, che è la massima possibilità che abbiamo di umanità. Io ascoltavo in un silenzio quasi religioso. Il timbro e i toni della tua voce, e il sentimento che esprimeva, erano per me un insegnamento.
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Evgenia Arbugaeva Weather_man
Poesie di Noemi Paolini Giachery “Pensieri a dondolo”
Non poesie, dunque, ci vuol altro,
ma tristi pensieri che cercano
un ritmo che li culli e li consoli.
I morti fuggono I
Il mucchio dei tuoi panni si riduce
appiattito e consunto come un moccolo
all’ultima sua luce.
Tra poco, quando l’ultima camicia
sarà stata lavata,
sarà proprio finita.
Cominceranno allora giorni uguali
con atti che non ti riguarderanno.
Dove ti cercherò?
Nel ramo con le tre more appassite?
Nelle fette di pane abbrustolito?
Nella carta di “Gigi con gli occhiali”?
No, sono cose troppo ferme e mute.
Scoprirò forse allora
che anche l’estraneità d’un cimitero
può farmisi domestica
se posso trapiantarci
le faccende della vita di casa.
Curerò dunque la tovaglia bianca,
il vaso di metallo da lustrare,
non la pietra che non voglio guardare.
(Marciana Marina, settembre 1976)
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È passato gran tempo:
estraneo è sempre stato il cimitero.
Estranea è forse ormai la figlia al padre?…
E il padre estraneo a lei?
(Marciana Marina, settembre 1999)
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Acquiescenza e rivolta
Si è fermata una macchina
irreversibilmente.
Se la manutenzione
fosse stata più accorta
funzionerebbe ancora
quella macchina che chiamavo papà.
Se difronte all’evento capitale
collaudo su di te
l’ipotesi che credo più probabile
e dico le parole
dell’oggettività
sento che dentro mi urlano le viscere
e qualcosa che voglio chiamare anima.
Mi urla di non tradire
di non prostituire
il segreto indicibile,
il segreto dolcissimo e letale
di questa nostra storia irripetibile.
Questo solo, un segreto
prezioso non per felice potere
di superare il tempo,
ma per la sorte che vuole che identico
non riviva mai più
(Roma, ottobre 1976)
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Noi morti
Forse mi stenderò presso di voi
senza più orrore
fatta sorella
dalla comune esclusione
o anche, perché no?, dalla comune
vita di cui si dice che è da vivere
senza palpiti e tempo,
quella cui non so credere
e neppure desidero
io che vivo di cose che trapassano,
che non voglio finire
né so vedermi in una eternità.
Così se penso a voi,
o piuttosto a quel noi che formeremo
quando sarò della vostra partita,
non so vederci spiriti vaganti
o fissi in luce o in tenebra
ma penso a quelli stretti in società
da un’offesa avvilente:
il rispetto, o l’oblio,
di questi, che ci chiameranno “i morti”
o “i defunti” o “le anime purganti”.
Quest’oltraggio mi tocca
più di qualsiasi nulla metafisico
ed è il solo futuro
che sento riguardarmi
e dunque in qualche modo farmi esistere
oltre la fine.
(5 novembre 1976, sotto Tarquinia, di ritorno da M.M.)
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Evgenia Arbugaeva Slava_observatory-
Talvolta ritornano…
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Così ho incontrato anche te
in questa discesa agli Inferi,
sorella dimenticata.
Ora che la voragine
rimane spalancata
e l’occhio vi cade a tratti
nella passeggiatina quotidiana,
ora che son cadute
le marcate parentesi
che chiudevano la parola “morte”,
è stato facile riaprire
la scatola delle reliquie
e tentare di immettere nel flusso
continuo del passato
quei tre anni congelati.
Ma era tardi oramai
per memorie tanto remote
— perché perché scegliemmo
questo crudele scampo
che ci pareva pietà? —
Eppure ti ho vista com’eri
fuori dello stereotipo
della fotografia
con il fondale bianco iperuranio,
accettata per simbolo,
e anche quella a fatica.
Sei riuscita alla luce
nelle foto istantanee:
e ora so che anche tu toccasti
i luoghi a noi familiari,
la spiaggia, la panchina
e il balcone di casa nostra
e ti abbracciavo con amore
ed ero spesso tiranna
per poterti riabbracciare
e allora eravamo quattro.
E mi domando: chissà
se quella vita che sarebbe stata,
che si legge negli occhi
vivissimi di arguzia
di sapiente allegria
e di perenne femminilità
esiste almeno a titolo
di probabilità?
(Roma, 13 dicembre 1976)
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I morti fuggono II
Era proprio così,
ti ripeti fissando la sua immagine,
e pensi: ho sottratto il suo viso alla tenebra.
Tu non sai che ti stai mettendo comoda,
che, affidati alla carta
quei sorrisi sempre più fermi e rigidi,
come nel prolungarsi della posa,
ti liberi dal pungolo
di ricercare, attimo per attimo,
tutti i volti ed i gesti del suo esistere,
e che così ti muore
anche nella memoria.
(Marciana Marina, agosto 1977)
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I morti fuggono III (“È stato”?)
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Solo così si poteva accettare
quando “la cosa” è accaduta:
pensando alla sorte comune,
mettendolo in fila
tra tutti i rassegnati
nella nudità di Buchenwald
e della valle di Giosafat,
inscrivendo quel nome
nella lista delle generazioni
perché si nasce per morire
e per tutti è stato così.
Ma per me che vivo ancora
vivere è un’altra cosa,
e la mia vita, finché dura,
è la sola verità,
è la sola eternità;
e finché era anche lui
dentro questo fluire
non poteva certo morire
(Marciana Marina, 17 agosto 1977)
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I morti fuggono IV
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Grazie, amica d’un tempo, che mi hai chiesto
di lui come se fosse vivo ancora.
Per il tuo non sapere si è annullato
il tempo che tutto spiana.
Per un attimo è stato come quando
la sua morte era un mare in tempesta,
non ancora una ferma palude.
(Marciana Marina, agosto 1977)
Non potrò darti mai più
un fresco fiore
un sentimento vero,
da quando per te piango e mi domando
se t’amo o no,
da quando mi sfoglia l’analisi
come una cipolla.
(Marciana Marina, agosto 1977)

Evgenia Arbugaeva Weather_man_
Per la torre
Non più saluti e soste. Come sta?
È bel tempo. Dal tempo sono usciti
quelli che salutavo per la strada.
Come stanno e se stanno non si sa.
(Marciana Marina, agosto 1977)
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Il padre (estremo mito di onnipotenza per amore)
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Se là dove sei andato
fosse male per noi andare
non mi aspetteresti certo,
non mi vorresti con te,
ma mi diresti: non venire,
e, sbarrata la porta,
per non farmi entrare.
per non farmi vedere,
te ne staresti solo
a berti il calice amaro
tutto per te.
Ma non deve essere male
andare dove tu sei
perché la porta è rimasta
aperta anche per me,
se pure ora non so
quando la varcherò.
(Marciana Marina, giugno 1977)
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Vecchio alibi
Cos’è questo sollievo quando chiudo
un fugace pensiero
in una gabbia di parole?
Come per un approdo getto l’ancora
e spiego una bandiera
con i colori della libertà.
Escluso che si tratti
del canonico exegi monumentum,
cos’è quel senso di stabilità?
Escluso che dipenda
dal sentire più viva la parola
della vita, dov’è la libertà?
Ecco, ti riconosco, vecchio alibi:
mettere sulla carta
per poter non pensare non lottare non vivere.
(Marciana Marina, 20 agosto 1977)
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Registrazione
Sto registrando la mia voce
per quando sarò morta.
Potrà essere utilizzata
per qualche esposizione
d’arte “concettuale”
— se ancora esisterà —
e chi ascolterà saprà che
quando registravo la voce
ero ancora viva e pensavo
che un giorno sarei morta
e qualcuno avrebbe sentito
la voce di me — morta —
di quando ero viva e sapevo
che poi dovevo morire.
Diranno: che bel coraggio!
Parlare con tanta fermezza
sapendo di dover morire.
(Roma, inverno 1977-78)
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Odore
All’improvviso ti annuso
ma eri già qui in agguato
nella mia stanza, odore.
Odore di anziani curati,
di cassetti tarlati
di grumi non disciolti
di panni involti
di ritornanti novene
di pazienti pene
di tormentate vene
di spente falene
………….. ene
………….. ene
………….. viene
quella che non viene ma è
anzi non è
anzi neppure non è.
Che dire allora?
Puoi solo tacere
Perché non ha pensiero
né parola
né odore
e non è neppure il contrario
di qualcosa che è.
So solo che me ne ricordo
sentendomi d’un tratto
vecchia zia.
Roma, 17 gennaio 1978
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Il solitario
Tento e ritento ma mi s’ingarbuglia
il solitario. Cade la speranza.
È solo in un astratto
gioco che mi è dato di tentare
la sorte, e mi accanisco per vedere
se l’arzigogolo, estrema mia risorsa
e vizio irrefrenabile,
approdi a qualche segno.
(Marciana Marina, settembre 1978)
Era oggi
Da chissà quale dei miei iperurani
notturni riprecipito nel tempo.
A quale punto sono
della mia storia? È questa la domanda .
Dicembre settantotto.
Era un mercoledì.
È l’imperfetto ormai
il tempo dei diari
tanto presente è il termine .
Lui già perduto, lei
era ancora con me.
Ancora un’illusione dell’amore
ritardava la tenebra.
(Roma, dicembre 1978)
Nomina nuda tenemus
Negli enunciati lapalissiani
cerca il mistero più fondo.
Non ti inganni
la falsa equivalenza dei sinonimi.
La verità vacilla e si ribalta
detta da una litote.
La più chiara parafrasi
vanifica il messaggio.
Così ho scoperto — un po’ tardi —
che morto non significa non vivo
e riscopro ogni giorno
come una folgorante assurdità
che, prima di morire,
il était encore en vie.
(Roma, gennaio 1979)
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Volevo ancora dire, con parole semplici e con ritmo liberatorio – ma non ci sono
riuscita – della follia amara che ti fa tornare a seguire con ansia le vicende di
personaggi fittizi e a tirare il fiato tutte le volte che con loro la morte fallisce
il bersaglio – quella morte che poco fa con il tuo caro ha avuto buona mira -.
Ti resta cioè fiato da tirare quando scampa alla morte un Michele Strogoff, se pure,
poco fa, tuo padre non è scampato.
Ma, a pensarci, più che di ingrata e angusta smemoratezza, si tratta ogni volta di
fantasia onirica da interpretare simbolicamente con ampio raggio di riferimenti.
È il sogno di una vittoria dell’uomo sulla morte, e perciò anche di una tua vittoria,
e perciò forse anche il sogno che quello che è stato non sia stato.
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Un’altra volta ho ritagliato
tre giorni dal calendario
ma fu per vivere solo quelli
e non vedere il prima e il poi.
Fu quella l’unica volta
che seppi vivere l’attimo,
e questo solo perché
non c’era un prima né un poi.
Non so raccontare nulla
di quell’insolito limbo,
posso solo parlare,
prese ormai le distanze,
di un raro fiore sbocciato
nel campo della morte.
Ma non è proprio così
ad essere sinceri.
É vero al contrario che
nessuna cosa mi piace
senza il gioco degli specchi
e allora ruppi soltanto
gli specchi più vicini
perché troppo mi spaventava
l’immagine mia più vera
E senza il solito gioco
quel raro fiore in sé
non sarebbe stato un gran che.
(Roma, settembre 1978)
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Casa di vecchi
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É la mia una casa di vecchi
piena di fiori secchi.
Imbalsamati gli anni passati
in oggetti disanimati.
Finché tutto resta uguale
si nasconde il rischio letale.
La polvere su ogni cosa
benignamente si posa.
Vuol celarne la precarietà
con un velo di pietà.
Ma non si salva la creatura
dalla fatale usura.
(Marciana Marina, 11 luglio 2007)
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Tra musica e metafisica
Forse è vero che c’è
un Dio Persona.
E se c’è è molto più su
del quintetto di Schubert.
Ma certo non l’ignora,
lo conosce bene e lo ama
e forse mi parla proprio
con quei suoni di ombra e di luce,
e forse anche lì risplende
la sua suprema bellezza.
Solo così posso amarlo
e sperare di incontrarlo
per parlare con Lui di Schubert
e della bellezza del mondo.
(Roma, febbraio 2008)
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Epigrafe (Noemi con Emerico)
Prossimi anche noi alla fuga
dal tempo e dalla memoria
salutiamo gli amici cari
sventolando un fazzoletto blu.
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La cometa ( dove si tenta senza dondolo una deludente ascesa nello spazio fisico)
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La cometa! Dopo anni di viaggio spaziale ci siamo arrivati. Questo sasso volante, nemmeno bello, è tutto nostro! Che ce ne facciamo? Sapremo qualcosa di più su di noi esseri umani? Non credo, ma se scopriremo tracce di vita sapremo, contenti, che la vita c’era anche lì. Almeno avessimo trovato una pianticella! Aveva ragione Galilei a dire che è più gradevole e interessante, a pensarlo, un corpo celeste da cui germogli la vita, di quei nudi sassi aerei che agli astronomi conformisti, un po’bigotti, piacevano tanto (forse perché più asettici e puri, almeno in apparenza, e non soggetti alla conturbante aleatorietà dello sviluppo vitale). A me questo sasso bitorzoluto dice poco. Preferisco aggirarmi dalle parti nostre, anche se molto, forse troppo, note e scontate e non per questo meno esposte a rischi. E quando un improvviso attacco di curiosità culturale mi porta a cercare di andare oltre le apparenze (cosa che si suppone sia il fine di chi fa ricerche scientifiche) allora cerco di sospendere la dipendenza dai sensi per concepire un vero impercettibile e anche, pare, paradossale, e vado a scovare quegli elettroni, a cui, a quanto dicono, tutto si riduce e che per esistere devono incontrarsi (così mi è sembrato di capire). Prima di incontrarsi c’erano o non c’erano? E se non c’erano che cosa mai si è incontrato? Ma i paradossi mi piacciono, come mi piacciono, è una mia bandiera, gli ossimori. E mi piace ancor più sentir parlare, invece che di elettroni, di fotoni. Ecco la luce! Tutto è luce. Anche questo sasso è luce! Che bella notizia! La luce si avvicina di più a quello che chiamiamo “spirito”. Ma che cos’è che chiamiamo luce? Qualcosa che, per sussistere come tale ed essere concepita come suprema positività immanente (e perché non anche metafisica?), ha bisogno del senso fisico della vista. Da questa gabbia non si esce! E poi è certo una cosa bella, la luce, e utile, ma qualche volta abbaglia e si sente il bisogno di una confortevole ombretta o addirittura di un’ombra cupa, per esempio per dormire (questo non sempre e non per tutti) o sviluppare fotografie o tentare affascinanti avventure anche col pensiero e con la fantasia.
Ha parlato fin qui il solito Simplicio oscurantista. Che però se pensa ai cervelloni umani che hanno progettato e attuato il viaggio per arrivare al sasso-cometa si rallegra e si conforta di nuovo. Ha di fatto un gran bisogno di quel “senso alto”, di quel “valore” obiettivo e assoluto che si era illuso poco fa di poter trovare nell’idea di realtà come luce. A questo punto gli pare che possa intravedersi nella superiorità dell’essere umano nei confronti degli altri animali, superiorità che sembrerebbe implicare un salto di qualità. Parlo della mirabolante capacità di astrazione intellettuale che apre all’uomo una porta al di là della sensorialità e di quella costruttiva operatività che, per esempio nelle formiche, sembra frutto di un puro inconsapevole istinto radiocomandato dall’esterno. Ha certamente fatto effetto e influito sulle belle pensate di Simplicio l’allarmante documentario visto ieri in Tv. Dopo averlo visto Simplicio ha inventato un bell’aforisma: “La realtà naturale è un gioco razionale ma non ragionevole”. Chi gioca? Ma c’è proprio bisogno di un “chi”? Simplicio ne ha bisogno come di un padre o un protettore che al figlio prediletto garantisca un’eterna felicità. Poco dopo Simplicio, che ha pure un suo senso della giustizia, si sente egoista e prepotente per aver cercato un suo spiraglio per l’eternità squalificando e lasciando fuori tutti gli altri rappresentanti del mondo animale. E cerca di riparare. Perché non provare a pensare tutte eterne queste povere creature? Arrampicandosi per un momento fino al piano dell’alta filosofia tira fuori da un cassetto la teoria dell’eternità come “eterno ritorno”. Non l’ha mai capita bene perché si trova sempre nei guai quando prova a pensare al tempo in modo non convenzionale, ma pensa che con quello, l’eterno ritorno, non si perda nulla. Scendendo poi sul piano (pianterreno o seminterrato o, meglio ancora, interrato) del paranormale ricorda che lì qualcuno ha parlato di un accesso privilegiato per i cani che appaiono talvolta con i simpatici musi su fotografie medianiche. Perché solo i cani? Un favoritismo per gli amici dell’uomo? Tutti eterni allora. O nessuno, nemmeno l’uomo. Anche gli scarafaggi eterni? Anche i virus? (a questi minimi rappresentanti del mondo animale mi capita di pensare difronte al nobile impegno degli animalisti che talvolta mostrano una certa parzialità). Se valesse il principio, concepito secondo una nostra idea di giustizia, che ci deve pure essere un compenso per il “male di vivere” che è nel destino dell’uomo, perché tutti gli altri esseri non dovrebbero godere di questo risarcimento? La tarma maschio che io lascio agonizzare sbattendo le elitre sul cartone colloso su cui lo ha attirato l’illusione di un esperienza amorosa non avrebbe diritto di protestare con le parole di Sganarello:”E me chi mi paga?”
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Due poesie del caro amico Alberto Caramella
e una mia poesiola con lettera
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Dalla parte di Noemi e della sua finestra
sfila in fronda
la nave bianca
freccia puntata al profondo azzurro
verso la casa verso l’infanzia
dove scalpiccia la nuova danza
si sente correre in lontananza
ed i profumi trascinar via
e già l’autunno piano si sveglia
stanco di danza
pronto a pulsare
muta risacca muta distanza
la lunga nave in lontananza.
Alberto
(22 settembre 2000, h. 17,30)
Giro d’Elba
È stato come emergere dal mare
alla luce rosata delle case
di villaggi che sembravano remoti
ora nati da rocce bianche e scisti
grandiosi contrafforti folgorati
che l’un dall’altro secchi distanziati
man mano dispiegandosi
cadevano nel mare spumeggiando
sciogliendo forze immani circolari
che nell’occhio remote si stupivano
ritrovando.
Alberto
(Firenze, 27 settembre 2000, ore 11,30)
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Caro Alberto,
sì, questo è il bello della poesia, che compone e rifonde soggetto e oggetto dando al soggetto quel che è dell’oggetto e all’oggetto quel che è del soggetto (ma che cosa è poi dell’oggetto?). Così per il poeta le rocce “si stupivano [penso al ‘limpido stupore dell’immensità’] ritrovando”. Ma ha ragione il poeta di oggi quando precisa che si stupivano “nell’occhio” perché solo nell’occhio e dall’occhio che le guarda assumono non solo la carica emotiva ma anche il colore, la consistenza; forse anche l’esistenza, come l’io dalla poesia che lo rispecchia?
L’esistenza penso di no: quanto a esistere esistevano, era vero e oggettivo anche il conflitto di magmi diversi, l’urto primordiale degli elementi. Ma che cos’era se non c’erano né occhio né parola per guardarlo e per dirlo? Questo mi sgomenta appena esco anche solo col pensiero dal guscio protettivo della casa (la parola ha naturalmente un’estensione simbolica): questa realtà terrestre e cosmica che fa così bene a meno di noi, di Me.
E ora la poesiola (la rima baciata farà capire subito che si tratta solo di uno scherzo, di una tiritera per bambini, magari un po’ cresciuti).
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Dalla barca bianca Noemi
guardava e si incantava
guardava e si spaventava.
Le case gialline e rosate
passavano … Passate!
Dominavano grandi scogliere,
le bianche, le rosse, le nere
fermato il cozzo furente
in un abbraccio silente.
Sembrava dolce l’andare,
sembrava dolce il guardare.
La natura pacificata
offerta alla vista incantata
sembrava farsi in suo onore
bellezza forma colore.
Ma era solo impostura,
non si cura di noi la natura.
Simulava immortalità
sfidando la precarietà.
E non so se può consolare
fermarsi un poco a pensare
che, scampata a tanti disastri,
se ne andrà con la cenere degli astri.
(Marciana marina, 28 settembre 2000)