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Iulita Iliopoulou, Poesie, La casa e la tradizione elitysiana a cura di Chiara Catapano – Due parole sulla poesia greca moderna

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Iulita Iliopoulou

Chiara Catapano

DUE PAROLE SULLA POESIA GRECA

Leggiamo nel libro di Kostas Baroùtas, “Il problema della libertà nell’arte bizantina” (“Το πρόβλημα της ελευθερίας στη βυζαντινή τέχνη”, Κώστας Μπαρούτας, Σαββάλας εκδόσεις, 2002): “mentre i dotti scrivono in una sterile lingua atticheggiante, mentre la musica bizantina, direttamente per discendenza dall’antichità greca, si costringe a infondere la vita nei versi astrusi della poesia religiosa, mentre i poeti e gli scoliasti tentano inutilmente di mimare la lingua dei loro grandi progenitori, spesso producendo risultati infantili, il popolo anonimo si svincola sempre più dalla schiavitù romano-orientale, iniziando a produrre l’eccezionale qualità della propria poesia demotica”.

Ora, ciò che salta all’occhio con forza e immediatezza, è che il primo accenno alla lingua greca nell’istante in cui inizia a delinearsi come libera e autonoma, riguarda la poesia. È, questo, un fatto che lascia sbigottiti. Già in altre occasioni ho avuto modo di constatare quanto lontano da noi occidentali sia questo piccolo mondo che è la Grecia; e noi gli riconosciamo il lustro dei nostri natali, senza avere spesso la più pallida idea del tormentato percorso storico-culturale che l’ha portata a produrre una delle poesie più alte del Novecento.

L’accenno alla poesia “demotica” -ovvero popolare-, il sottolinearne l’immediata vitalità e bellezza, non sono meri appunti a margine di un discorso sull’arte: questo è il basamento di un edificio le cui fondazioni risalgono alla tarda antichità, e che continua a costruirsi (linguistica cattedrale di Guadì nei secoli dei secoli) fino ai giorni nostri. La lingua greca è stata malata di schizoglossia per quasi mille anni, e gli anticorpi che il popolo ha sviluppato, hanno fatto nascere uomini–poeti, esseri che per quanto m’è dato sapere, solo in Grecia sono esistiti. Non perché migliori per forza di altri, ma perché ricchi di una specificità assente altrove, proprio a causa dell’unicità della loro condizione. Rapidamente, voglio accennare a quanto il Baroùnas ci ricorda: come già durante l’Impero Bizantino iniziò a crearsi la spaccatura tra lingua viva popolare e lingua morta dei dotti; bisogna aggiungere a ciò la Turcocrazia (l’occupazione ottomana della Grecia che va dal 1453 al 1821), che ha tentato di schiacciare le manifestazioni più spontanee scaturite dalla tradizione antica, mentre blandiva quella posticcia e inutile perpetuata nelle alte sfere della chiesa ortodossa e negli ambienti di potere. Infine, non va scordato che fino al 1971 sui banchi di scuola i ragazzi imparavano quella stessa inutile lingua atticheggiante la cui formazione risale alla tarda antichità, mentre a casa si esprimevano col vivo e vibrante accento del popolo, o cantando le poesie dei loro poeti messe in musica (canti che tutt’oggi risuonano nelle taverne all’orecchio di ignari turisti).

Questo breve accenno è dovuto, per portare all’attenzione del lettore che non conosce la lingua greca e che voglia leggere poesia greca moderna (ma non solo moderna) quei particolari che altrimenti rischiano di rimanere nell’ombra, e che costituiscono una trama indispensabile, a mio avviso, per rileggere tutta la tradizione poetica europea. Non solo la poesia, ma Seferis che ci racconta Eliot, Elytis che legge Ungaretti: non sono tasselli aggiunti ad una critica fatta da poeti su altri poeti. Qualcosa viene vivificato, un punto di vista inedito e pertinente; lo stesso che ci fa vibrare davanti alle linee essenziali di un arcipelago nell’azzurro occhio all’Egeo, per quanto a digiuno si possa essere di orizzonti nella personale lettura di un paesaggio.

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Racconta Odysseas Elytis in una sua intervista alla TV greca: “La grecità altro non è che un modo di vedere e di percepire le cose, sia su vasta che su piccola scala. Intendo dire sia se che si pensi al Partenone, sia ad una lampada a olio. La cosa assolutamente importante è la nobiltà, la qualità, di contro alla dimensione e alla quantità che caratterizzano il mondo occidentale. Il popolo europeo è fiorito sui valori greci per giungere al suo Rinascimento. Ma il loro Rinascimento è qualcosa di profondamente diverso da quello che avremmo potuto sviluppare noi, se solo non ci avesse arrestati la Turcocrazia. Anche questo lo possiamo vedere su piccola scala, che è d’altro canto l’unica che ci è toccata in sorte: sotto un certo punto di vista il cortile esterno di una casa isolana, secondo la mia modesta opinione, o il cortile di un monastero sono, percettivamente intendo, molto più vicini allo spirito in cui nacquero i Partenoni e le Madonne, piuttosto che tutte le colonne e le metope dei palazzi reali europei. Il che significa che se ci fosse stato qualcuno capace di dare un seguito alla sensibilità greca, questo sarebbe stato esclusivamente il nostro popolo”.

Questa specificità è ben chiara oggi all’artista greco; questo valore intrinseco a una lingua nata per la poesia, consapevole. Pure, grava sulla tradizione greca il peso dell’incomprensione perché questa lingua-radice che ci ricollega alla nostra più pulsante antichità mediterranea annullando ogni legge spazio temporale, è parlata da pochi milioni di persone; talmente inutile la Grecia, dal punto di vista economico e politico, che la sua cultura resta ignota – quando va bene -, viene degradata a vacuum nei casi peggiori. Parlando con un’insegnante di greco antico desiderosa di imparare il neogreco, lei stessa ha definito in modo ineccepibile la situazione di chi illetterato non è: “Si passa direttamente da Marco Aurelio all’insalata greca, senza avere la benché minima idea di cosa sia successo nel mezzo, né di cosa ci sia oggi”.

Allora possiamo provare a immergerci un po’ per volta in questa letteratura, che negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso – quando da noi era davvero il vuoto –  produceva la poesia più libera e alta d’Europa: i due Nobel nel 1963 (Seferis) e nel 1979 (Elytis) bussano alla nostra porta per ricordarci di aver dimenticato. E nel ricordare dovremmo prendere atto del fatto che la Grecia è una piccola nazione dove si legge tantissima poesia; dove anche gli ultimi analfabeti conoscono a memoria per tradizione orale i canti di liberazione scritti in esilio dai più noti in Italia Seferis e Ritsos, o sotto forma di favole (per dribblare la censura), dall’altrettanto amatissimo in Grecia Nikos Gatsos.

La grande rivoluzione della parola è avvenuta in un lembo di terra dove poche cose (il profilo scabro di un costone di roccia, il giallo degli agrumi, il bianco-azzurro di una piccola chiesa “piena di vento”, come la sentiva Ritsos) danno la dimensione di tutto. La prima rivoluzione dell’Io poetico fu quella dei lirici monodici, l’ultima quella di Elytis, che ha piegato la lingua fino a “risvegliare le cose dal loro letargo dentro le parole”; entrambe le rivoluzioni avvennero qui. E non dimentichiamo che Ritsos ha elaborato una nuova fioritura linguistica per il mito, da cui per la prima volta dopo millenni è stillata verdissima linfa. E invito i lettori a leggere in traduzione la sua Sonata al chiaro di luna, o uno dei Poemetti.

Il giorno in cui ho preso coscienza che nella lingua greca non c’è chiaroscuro, ho capito quanto sia giustificata la nostra incapacità di accettare il Rinascimento e ho visto scomparire anche l’ultimo elemento che mi impediva di comprendere l’unità più profonda dell’arte nella Grecia antica,  in Bisanzio e nella Grecia moderna. Il fenomeno della lingua vedrebbe greca ha assunto ai miei occhi le caratteristiche d’ineluttabilità che presentano i fenomeni naturali, a tal punto da credere fermamente che anche la lingua straniera più approssimativa e concisa dopo un millennio di vita in questa terra cambiare la propria natura, i suoi suoni salire dalla laringe e scendere dal naso dalla cavità orale, le parole perdere le loro sillabe superflue, lavarsi nella luce levigandosi, la loro sostanza purificarsi in una maniera, se non identica, almeno simile alla greca.

In questo momento non sto dando giudizi di valore, mi limito a fare delle constatazioni. È un fatto estremamente importante per me. Perché mi ha aiutato a comprendere che, oggi, perfino il piccolo codice del mio comportamento rispetto agli altri, la mia morale personale, diciamo, non è che una chiara trascrizione della mia estetica che, a sua volta, non è che una trascrizione delle condizioni naturali che hanno determinato il mio caso umano. Ma una strada simile, nella sua fase ascendente, guida fatalmente alla Metafisica. A ogni ondata di Poesia che ritorna, dopo essersi infranta sulla mia prima giovinezza, mi sento più vicino alla luce”, scrive Elytis nei suoi diari.

Tutto questo per dire che i greci più di chiunque altro continuano a indicarci la strada per una rivoluzione forte, in poesia e nel nostro intimo sentire di esseri umani. Accoglierne i tentativi, prendere atto dei traguardi al di là del personale gusto estetico, è a mio avviso una chiave importante per aprire la porta dell’innovazione della poesia italiana.

Ioulita Iliopoulou copertina

ILIOPOULOU E LA TRADIZIONE ELITYSIANA

Iulita Iliopoulou è autrice di poesie, libri per bambini e di testi per il teatro. Cura l’Opera di Odysseas Elytis, con il quale ha trascorso gli ultimi 13 anni della sua vita. Collabora con il musicista Giorgio Kouroupòs, con il teatro di Delfi, con l’Orchestra dei Colori e con la Fondazione Melina Merkouri. Come capita in Grecia, la poesia non è – solamente – parola scritta. Anzi, per i greci una poesia che sia scritta per essere semplicemente letta, magari tra sé e sé sottovoce, perde senso. Resta un atto comunitario, che parli di politica o che s’interroghi sulla morte. L’agire poetico, il Ποιείν, non è stato mai divelto dalla radice originaria omerica: memoria e recitazione. Recitare la memoria perché essa riviva poeticamente, perché qualcosa il passato insegni, perché venga assimilato – e cresca viva muoia assieme a noi. Tutto questo sta a significare che il nucleo incandescente della cultura ellenica esiste nel popolo greco, ed è materia composta indistintamente di musica, gesto e parola: il  dramma (δρᾶμα, azione).

Anche leggendo questa “Casa” di Ioulita Iliopoulou, percepiamo la lezione di Elytis, vivificatrice della lingua poetica greco moderna. Quando infatti Elytis parla della Grecia come di una “sensazione”, e paragona l’essere greco alla formulazione psicofisica del riconoscersi ad esempio omosessuale o tossicodipendente, sono certa che stia rispondendo alla domanda-fantasma sopra i greci, e che la soluzione stia appunto nella lingua. Non è una questione di tradizione e neppure un fatto culturale: la lingua greca (attorno cui non solo il lavoro di Elytis si è concentrato, ma anche quello di generazioni di scrittori e poeti) è un – per noi – misteriosissimo magma che scorre dalle antichità omeriche e ancor prima indoeuropee, fino ai giorni nostri. Un mostro linguistico senza soluzione di continuità, che quattro secoli di quasi oblio non sono riusciti ad arginare. Caduta Costantinopoli, abbattuti i ponti levatoi, il magma greco non si è disperso (come speravano i conquistatori) ma si è riversato a fecondare i secoli a venire.

La materia che l’uomo greco plasma ogni giorno, anche il più inconsapevole, attraverso l’uso della parola non porta solo dentro sé, ma decisamente è l’incredibile mitologia che chiede continuamente di essere riplasmata. Parole e suoni il cui uso millenario ha rese lucide e preziose come certa argenteria negli antichi palazzi dei re. Nulla che si possa rinchiudere in un museo o dentro un libro di grammatica.

Ecco dove trovare quel “pochissimo” al quale i cosiddetti popoli ricchi non avrà mai accesso. Una storia che non si divarica su più piani, determinando filoni di studio che si sfiorano per confrontarsi sui rispettivi progressi: un unico coro, quasi una coscienza condivisa che come il sangue nel corpo porta nutrimento in tutte le sue periferie. La lingua greca è un tessuto vivo, ancor di più: vivificatore di per sé. In ogni suono sono raccolte come dentro il vaso di Pandora tutte le voci che l’hanno tenuto sulle labbra, dagli aedi su a ritroso fino agli eroi figli di quelle divinità il cui Olimpo non fu mai veramente conquistato dalla cristianità. Guai ad aprirlo con leggerezza, quel vaso: dai sigilli divelti si libera il vento delle maiuscole e delle iota sottoscritte, assimilate nella gestazione alle anse delle altre lettere, memento per chi resta: che non basta conoscere per sopportare. Edipo ce lo ricorda dopo più di 2000 anni.

Per avere un’idea della forza magica, della fisiologica bellezza legata non a luoghi o a settori, ma presente e quasi preesistente ad essi, bisogna nascere sentendosi sussurrare all’orecchio una nenia piena di κ o α, di μ e di δ; è necessario non aver potuto decidere se seguire il corso del magma, ma crescere osservando dal centro della corrente le sponde dell’altrui identificazione culturale.

La Poesia allora ci apparirà nella sua nuda, luminosa sostanza. Non un gioco, anche nobile, di rime e rimandi, ma l’abracadabra che ci fa spalancare gli occhi sull’essenziale, e scavalchi l’involucro che insistiamo a torto a chiamare vita. Nessun artificio sopravvivrà, perché artificiosità è semplificazione della materia ridotta a sostanza inerte. Un raccolto abbondante ottenuto con l’uso di pesticidi e fertilizzanti può apparentemente sfamare tante più bocche di quante faccia il campo osservato e amato con il sudore della fronte: la ricompensa in questo caso sarà meno per tutti, ma quel poco coincide con il fondamentale. Voglio dire che semplicità non è l’altro nome di banalità, come difficoltà non è l’altra faccia dell’intellettualità. È molto più difficile raggiungere il Bene scavalcando i secoli e le vette d’Elicona, poggiando i piedi sull’incerto destino delle ω, rischiando di rimanere infilzati nel forcone delle ψ, che distillando con la chimica del “buono per tutti” un messaggio che vale anche per il modo in cui viene veicolato.

Un piccolo paese, “provincia del Medio Oriente”, bilancia di ogni filosofia che ha fondato e nutrito il pensiero occidentale, come il suono che perennemente attraversi l’universo attirando la nostra attenzione su quel che fu l’inizio, continua a rammentarci la funzione unica e fondamentale della Poesia.

Iulita Iliopoulou ci apre in questo modo le porte della sua “Casa”. O meglio, le porte delle sue/nostre case, poiché nel libro sono 30 le porte che di volta in volta si spalancano, cigolano, escludono, accolgono, sbattono dietro di noi. Almeno in una di queste è certo ognuno di noi ritroverà la propria casa, sia quella dell’infanzia, sia invece l’ultima, piccola grande silenziosa o piena di voci. “Casa” come memoria, come amore, solitudine e patria; la casa-attesa e la casa-assenza.

(Desidero ringraziare Iulita Iliopoulou per avermi fatto dono del suo libro Το σπίτι -La casa- e per aver dato il suo benestare alla pubblicazione qui sull’Ombra delle Parole di un estratto del libro)

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Da Το σπίτι (La casa), Iulita Iliopoulou, ed. Ύψιλον, 2012, 42 pag.

(Traduzione di Chiara Catapano)

UN PEZZO DI CARTA gualcito… folti fasci di suoni. Schegge conducono tutta la storia sino di fronte a loro. Daccapo. Porte, finestre, stipiti, superfici trasparenti. Far finta, ora che sei grande, di comprendere. Alcuni vasi di fiori in alto scompongono il cielo in triangoli verdi. E l’urgenza delle automobili, come un grigio felino alato. Ormai lo chiamiamo gatto, strillano i vocabolari, estraendosi il linguaggio. Accento sibilante di fine estate. Le manine di una Eli che graffiano ancora e ancora la bianca e un tempo liscia superficie del tempo. Finché a un tratto tornano a essere porte e finestre, la casa. Pallidi muri nell’ombra. E un sorriso così detto ingiustificato, puntuale al momento giusto. Sei arrivato.

HO SOGNATO una casa a un solo piano e tu la sua voce. Un bacio, come quello vagabondo che si prolunga secoli. Nella penombra di una città sconosciuta. Che non mi conosce altrimenti.  Solo con te voglio esistere. Chiudi, chiudi la porta. La casa… ho sognato. Insieme a te.

PIOVE! Pietre bianconere sfavillano. Quadrati del tutto simili con la regina impercettibile assente. Le pedine dovrebbero stare giù. Tuttavia, invisibili. Solo il galoppo del cavallo che s’è perduto, presso il muro, consegna un cortile in totale oscurità. E sulle sedie, l’impronta di un antico e incancellabile peso, tutt’intorno il divano sfilacciato… – Fa freddo. – Dentro la stanza cigola come un sospiro. Serrati, due armadi pesanti. Se ti chini, sentirai lievi voci remote di Elena, di Orsalìa. Di giovani il cui gioco fu un tempo chiuderaprire le foglie. Ma più distintamente sentirai la pioggia. Mentre stilla sopra il grande letto, i cuscini, sulle coperte, lungo le tende. Ancora lì appese nascondono, nulla nascondono, altro. La casa solamente. La casa che nessuno abita. Eccetto la pioggia e il vento. Bimbo scordato, alla partenza, sul retro. Perché non sapeva come chiamare: Mamma!

GUARDANDO MARKYS. Con una fila di culle-letto. Ampie finestre ben chiuse. Penombra. Né “mio piccino” né ninna nanna. Solamente alcuni – più grandi – sussurrano paroline tra le coperte: “C’era una piccola nave, c’era una piccola nave ch’era rimasta a-a-asciutta”. Sotto il materasso al posto del talismano il desiderio di una madre che… Che può anche arrivare. A portare l’abbraccio. A portare in braccio la vera casa.

BUSSA ALLA PORTA. Con la forza di un suono elettrico. Strano! Non si muoverà nessuno. Sotto, due uomini giocano a carte sopra un grande tavolo nero. E accanto, una giovane sta cucinando, su di una vecchia stufa a legna. Qualcosa che non sbuffa vapore. Pendono dallo scaffale in alto bicchieri e bricchi. Sopra un letto da bambino. Dove solo il sonno dorme. Si distinguono: un arlecchino di pezza e una piccola scansia, semi vuota. Mentre, nella stanza accanto, quasi una nonna stesse facendo a maglia in poltrona. Il filo trapassa i muri, attraversa i pensieri, i sogni, prima di attorcigliarsi tra le zampe di un gatto. Gomitolo. La luce ovunque accesa. Riluce il tetto, sottile pizzo lavorato, deposto. Incantevole miniatura bavarese in ferro. La casa. Dove nessuno ha mai sostato, solo il ricordo di due giorni di viaggio.

GASPAR DE LA NUIT, dici e dischiudi il pianoforte, con uno strascico da vestito da sposa che la notte ha dipinto. I muri divengono tenere arcate, che il suono leviga.  E molto tardi si muovono e s’allontanano… Il pavimento in legno risponde sintonizzando il desiderio. Una meravigliosa cassa di risonanza, dici, del nostro amore. Questa – estranea – casa.

ADAGIO AZZURRO delle acque; ho nuotato anni e anni da una casa all’altra. Ti ritrovo sulla punta delle tue labbra. Aspettami. E come i bambini si risvegliano da un sogno, una goccia di latte inizia a imbiancare i muri del giorno. Un bacio trattenga l’amore. Luci cadenti dei suoni riappaiono e illuminano più forte le vecchie cose, tutto e niente. Null’altro promettendo, ancora indifeso. Te.

LETTO con volta stellata, matrimoniale, che significa: realmente casa. Distendi le coperte bacio. Un sospetto musicale che lasciano sempre le mani sulla pelle per esser cancellato; pochissime venuzze azzurre portano l’acqua della luna. Bevi. Io ancora assetata.

VEILLEUSE. O, in altre parole, giovane chiarore dei sogni. Che ti protegga, da un cantuccio segreto. Trattenga il fiato la casa. Non spaventi quel ragazzino dal pullover verde. Che ancora mi scruta dentro ogni nostro bacio.

CASA SOTTERRANEA che odora di terra. Solo una vecchia al suo interno, sistema bicchieri con caffè umido e altri vuoti, sopra il tavolo. Poi, molto tardi travasa il liquido da bicchiere a bicchiere, due, tre, quattro, cento volte. La fermentazione del tempo richiede pazienza, parla da sola, come l’uva. Dopo siede stanca a bere la bevanda che ha preparato. Fuori per la strada pedoni procedono in fretta. Solo per poco si mostrano le loro scarpe alla finestra. Dove nessuno si gira a guardare. Peccato, non sono venuti i bambini, pensa. La raggiunge il sonno sulla sedia. Anche stasera. Come sempre.

Allora possiamo provare a immergerci un po’ per volta in questa letteratura, che negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso – quando da noi era davvero il vuoto –  produceva la poesia più libera e alta d’Europa: i due Nobel nel 1963 (Seferis) e nel 1979 (Elytis) bussano alla nostra porta per ricordarci di aver dimenticato. E nel ricordare dovremmo prendere atto del fatto che la Grecia è una piccola nazione dove si legge tantissima poesia; dove anche gli ultimi analfabeti conoscono a memoria per tradizione orale i canti di liberazione scritti in esilio dai più noti in Italia Seferis e Ritsos, o sotto forma di favole (per dribblare la censura), dall’altrettanto amatissimo in Grecia Nikos Gatsos.

La grande rivoluzione della parola è avvenuta in un lembo di terra dove poche cose (il profilo scabro di un costone di roccia, il giallo degli agrumi, il bianco-azzurro di una piccola chiesa “piena di vento”, come la sentiva Ritsos) danno la dimensione di tutto. La prima rivoluzione dell’Io poetico fu quella dei lirici monodici, l’ultima quella di Elytis, che ha piegato la lingua fino a “risvegliare le cose dal loro letargo dentro le parole”; entrambe le rivoluzioni avvennero qui. E non dimentichiamo che Ritsos ha elaborato una nuova fioritura linguistica per il mito, da cui per la prima volta dopo millenni è stillata verdissima linfa. E invito i lettori a leggere in traduzione la sua Sonata al chiaro di luna, o uno dei Poemetti.

Il giorno in cui ho preso coscienza che nella lingua greca non c’è chiaroscuro, ho capito quanto sia giustificata la nostra incapacità di accettare il Rinascimento e ho visto scomparire anche l’ultimo elemento che mi impediva di comprendere l’unità più profonda dell’arte nella Grecia antica,  in Bisanzio e nella Grecia moderna. Il fenomeno della lingua greca ha assunto ai miei occhi le caratteristiche d’ineluttabilità che presentano i fenomeni naturali, a tal punto da credere fermamente che anche la lingua straniera più approssimativa e concisa dopo un millennio di vita in questa terra vedrebbe cambiare la propria natura, i suoi suoni salire dalla laringe e scendere dal naso dalla cavità orale, le parole perdere le loro sillabe superflue, lavarsi nella luce levigandosi, la loro sostanza purificarsi in una maniera, se non identica, almeno simile alla greca.

In questo momento non sto dando giudizi di valore, mi limito a fare delle constatazioni. È un fatto estremamente importante per me. Perché mi ha aiutato a comprendere che, oggi, perfino il piccolo codice del mio comportamento rispetto agli altri, la mia morale personale, diciamo, non è che una chiara trascrizione della mia estetica che, a sua volta, non è che una trascrizione delle condizioni naturali che hanno determinato il mio caso umano. Ma una strada simile, nella sua fase ascendente, guida fatalmente alla Metafisica. A ogni ondata di Poesia che ritorna, dopo essersi infranta sulla mia prima giovinezza, mi sento più vicino alla luce”, scrive Elytis nei suoi diari.

Tutto questo per dire che i greci più di chiunque altro continuano a indicarci la strada per una rivoluzione forte, in poesia e nel nostro intimo sentire di esseri umani. Accoglierne i tentativi, prendere atto dei traguardi al di là del personale gusto estetico, è a mio avviso una chiave importante per aprire la porta dell’innovazione della poesia italiana.

Presentazione Steven Grieco Chiara Catapano Franco Di Carlo

da sx Steven Grieco Rathgeb, Chiara Catapano, Franco Di Carlo

Chiara Catapano nasce a Trieste nel 1975. Si laurea nell’ateneo tergestino in filologia bizantina. Vive per alcuni anni tra Vienna, Atene e Creta, approfondendo così i suoi studi sulla cultura e la lingua neogreca.

Collaborazioni recenti:
Fondazione Museo storico del Trentino: assieme al dott. Andrea Aveto dell’Università di Genova; riedizione dei “Discorsi militari” di Giovanni Boine, nell’ambito di uno studio sull’autore portorino.

Per Thauma edizioni: ha curato l’edizione di “Per metà del cielo”, della poetessa slovena Miljana Cunta (trad. Michele Obit).  Per l’Istitucio Alfons el Magnanim CECEL – Consejo Superior de Investigaciones Cientìficas, rivista “Anthropos” numero di febbraio 2015, l’articolo: “Sopra la rappresentazione transmoderna del sé”.
http://www.anthropos-editorial.com/DETALLE/LA-CONDICION-TRANSMODERNA.-ROSA-MARIARODRIGUEZ-MAGDA-RA241
L’attività prevalente e continuativa (da ottobre 2012), consiste nella direzione, accanto allo scrittore Claudio Di Scalzo, della rivista d’autore on-line Olandese Volante (www.olandesevolante.com); al cui interno, oltre alla pubblicazione di testi letterari in poesia e prosa dei direttori e di alcuni collaboratori, vengono curati autori e maestri in modo “transmoderno”, come la rivista attesta nel sottotitolo:“Transmoderno, arti, pensosità, letterature.”
Con Giulio Perrone esce a giugno 2011 la sua prima raccolta “Apice stretto” in “Verso libero- antologia poetica a cinque voci” con prefazione di Letizia Leone, in ottobre 2011 esce la sua raccolta “La fame” edita da Thauma Edizioni; in novembre 2013 pubblica la raccolta “La graziosa vita” (Thauma edizioni) dialogo sulla tomba di Giovanni Boine, uscita sotto l’eteronimo di Rina Rètis – opera dedicata allo scrittore portorino.
Ha collaborato fino al 2013 con l’associazione culturale “Thauma” di Pesaro, per la cui casa editrice è stata curatrice. Ha curato per il Comune di Bolzano, assieme alla regista Katia Assuntini un cortometraggio nell’ambito di un progetto d’integrazione delle giovani ragazze immigrate: in particolare ha coordinato il lavoro di traduzione per una giovane poetessa pakistana.
Cortometraggio poetico basato sul poemetto inedito “Alìmono”, in collaborazione con gli artisti pugliesi Iula Marzulli, Marianna Fumai (RecMovie) e Gaetano Speranza: prima proiezione il 26 dicembre 2016 al Lecce Film Fest.
Collabora con la compagnia teatrale Fierascena, fondata dall’attrice e regista Elisa Menon. Sue poesie e prose poetiche sono apparse in riviste, siti e blog letterari, 

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