Steven J. Grieco-Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi.
È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.
In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. È tra i fondatori del blog lombradelleparole.wordpress.com indirizzo email: protokavi@gmail.com

Duska Vrhovac, Giorgio Linguaglossa e Steven Grieco (a sn.) con Rita, Roma, 25 giugno 2015 Isola Tiberina
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
Il «caleidoscopio», in ambito narrativo, è anche una delle figure retoriche accostate all’entrelacement, tipo di narrazione in cui è presente un continuo intreccio di storie, proprio riferito alla molteplicità di figure (immagini) che si possono scorgere in esso.
Il caleidoscopio (dal greco καλειδοσκοπεω, «vedere bello») è uno strumento ottico che si serve di specchi e frammenti di vetro o plastica colorati per creare una molteplicità di strutture simmetriche.
Il più rudimentale caleidoscopio è formato da un semplice tubo di cartone rivestito internamente di almeno due specchi (montati solitamente fra loro in modo da formare angoli di 60°); nella parte anteriore, separati dal corpo centrale da un vetro rotondo trasparente, sono inseriti dei frammenti colorati di varie forme e colori. Un vetro smerigliato chiude il tubo all’estremità.
Appoggiando l’occhio ad un’estremità (come guardando in un cannocchiale) e ruotando l’intero strumento, o la parte terminale mobile (nei modelli più complessi), è possibile vedere delle figure geometriche simmetriche colorate, generatesi dall’unione dell’immagine diretta dei frammenti e di quelle create dalle riflessioni negli specchi; continuando a ruotare il caleidoscopio stesso, le figure mutano e cambiano colore e forma, senza mai ripetersi.
Analogamente, la tecnica compositiva di cui fa uso Steven Grieco è esemplata sul caleidoscopio, ogni strofe costituisce una immagine o gruppo di immagini, più strofe assemblate costituiscono un insieme di immagini in movimento reciproco, cangianti nel colore, nella fluidità e nella iridescenza. Il risultato complessivo indotto nel lettore è una sorta di fluidità e di incertezza denotativa, i colori delle immagini sono frammisti e, per così dire, dispersi, solubili, sfrangiati. Gli incipit sono sempre legati ad un luogo temporale o spaziale («La mattina grave», «In questa via stretta», «È spaccata la melagrana, sfera infranta», «Quel furore adesso, quel fulgore»); oppure, il riferimento temporo-spaziale viene accennato nel titolo («Che canta il merlo alle 5 del mattino?»). Il luogo temporo-spaziale quindi si amplia fino a comprendere una realtà più vasta e complessa seguendo il filo del discorso del poeta il quale è come se tracciasse più linee, una molteplicità di linee su una pagina bianca, con l’effetto di una serie di iridescenze.
C’è sempre un punto in cui la composizione tipo di Steven Grieco raggiunge il climax, in quel punto preciso si situa l’evento, il quid che accade e illumina a ritroso il percorso compiuto. È questa la significazione che viene comunicata al lettore. Una significazione complessa che ricomprende ed acquista pieno valore semantico ed iconico da tutte le strofe precedenti e dalle strofe che seguono. Nella prima composizione il climax viene raggiunto quando appare «una coppia di anatre», il cui «splendore» illumina tutta la composizione. Nella seconda composizione il climax invece è interno alla composizione, non viene mai designato, non accade perché è già indicato nel titolo, è fuori della composizione: «via de’ Canacci»; tutto ciò che avviene fa parte di questo luogo magico, luogo caleidoscopico per eccellenza. Nella terza composizione il climax viene attinto nel penultimo verso là dove «apparve il Vuoto, altissima / trave che precipita sul mondo». Ogni composizione ha dunque un punto di climax che cambia di posizione, ed ogni posizione di climax si riverbera sulla orditura orchestrale della poesia, come una chiave musicale che dà il via ad un pezzo armonico. Nella successiva poesia intitolata «Al padre», c’è un sotto titolo: «Stretto di Magellano»; la chiave di volta è qui, nel titolo, nel parallelismo tra la figura del vecchio padre e le correnti tumultuose dello stretto di Magellano, con un effetto di fusione e di confusione tra le due icone semantiche. Nella quinta composizione il fulcro della poesia è rivelato dalla citazione di Chuang Tzu: «Il Vuoto è grandezza. È come l’uccello che canta / spontaneamente, identificandosi con l’Universo». Il Vuoto viene richiamato dalla comparsa dell’«usignuolo», il quale non fa nulla ma si capisce che ciò di cui qui è questione è il suo canto, simile al canto della poesia. L’ultima poesia non poteva che essere un «indovinello» tra il critico e il poeta «sulla coda di rondine». Il critico tenta di razionalizzare: «Il non-spazio tra ricordo e speranza», parla di «presente»; il poeta, invece, non può che riferirsi al tutto, a ciò che precede e a ciò che segue il «presente», in quanto «sul bianco foglio io traccio mero inchiostro». Il suo compito finisce qui, come nella pittografia zen, nell’atto di tracciare un segno.

Duska Vrhovac, Giorgio Linguaglossa, Carlo Bordini e Steven Grieco con Rita, Roma, 25 giugno 2015 p.za Del Drago Al Ponentino
Per tornare al caleidoscopio, nel caso di caleidoscopi formati da due specchi, la forma dell’immagine risultante all’occhio dell’osservatore ricorda un fiore a sei petali; di questi sei settori uno è generato dall’immagine diretta dei frammenti di vetro mentre gli altri cinque sono le immagini riflesse. Se gli specchi sono tre le immagini sono molte di più; il loro numero dipende dal numero di riflessioni multiple che si hanno lungo gli specchi. Ciò dipende non solo dalla lunghezza del tubo ma anche dalla qualità delle superfici; se gli specchi non sono di ottima fattura, saranno visibili solamente le riflessioni principali.
Secondo Emanuele Severino, la civiltà occidentale non riesce a pensare l’«esser sé dell’essente», cioè la verità dell’essere. Il suo nichilismo sarebbe proprio questo. Il suo nichilismo è pertanto inconscio che non indica «ciò che non appare, ma ciò che ancora non è stato portato nel linguaggio; sì che il linguaggio, che ne parla, ancora non appare. E la “consapevolezza” è l’apparire di questo linguaggio»*
Al di sotto di questo nichilismo c’è, rileva Severino, un più profondo inconscio: è l’inconscio di quell’inconscio, il sottosuolo del sottosuolo, ciò che avvolge l’avvolgente, che consiste nella struttura originaria dell’essere: «l’essere è e non può non essere». Questa è la verità dell’essere, la verità che è l’apparire dell’autonegazione della negazione dell’esser sé dell’essente. L’essente è dunque «eterno».
«Il destino della verità» non può essere smentito da alcun sapere, umano o divino e include originariamente il proprio apparire. Il destino della verità è già da sempre manifesto. Esso sta alle nostre spalle e dunque non ha senso mettersi in cerca della verità.
La poesia di Steven Grieco è alla ricerca di qualcosa che sospetta essere «irraggiungibile», cionondimeno, la ricerca continua, e continuerà fino alla fine del tempo. Questo aspetto della sua poesia si rivela chiaramente nell’ultima poesia presentata, là dove c’è la «porta mai chiusa»:
pensavo, spalancando forte
la tua porta mai chiusa
di non trovarti
È uno spasmodico domandare a quel sottosuolo del sottosuolo. Ma il destino della verità è sempre alle nostre spalle, è in quell’atto di volgersi indietro. Vive nella transitiva temporalità di quell’evento che è appena trascorso.
*Emanuele Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, p. 15.
Caro Giorgio,
hai scritto una introduzione davvero splendida a queste mie poesie. Nel caleidoscopio è stato l’ultimo gruppo di poesie in qualche modo legate, almeno dal mio punto di vista (sicuramente soggettivo), al modernismo, e cioè ad uno stile riconducibile alle esperienze poetiche del ‘900. (Anche se dentro le poesie stanno contenuti distillati da esperienze poetiche e filosofiche più che altro asiatiche, chissà se non è per questo che volli usare nel titolo questa parola “caleidoscopio”.) Questa operazione la feci, allora, quasi coscientemente: una sorta di estremo saluto, anche nostalgico, al modernismo, da parte di un poeta nato nel 1949, che si era formato a quella grande scuola, e che da essa era stato tradito… lui, come forse tutti i poeti della nostra generazione e quella successiva, nel senso che quella scuola stessa è poi naufragata sugli scogli di mille ininfluenti neo- e post-avanguardie.
E’ eccellente come dai importanza al caleidoscopio, non solo sul piano simbolico e metaforico, ma proprio come oggetto. Bellissimo! Hai commentato le mie poesie caleidoscopicamente…
Forse questa è una delle cose che abbiamo in comune, e io penso che nasca dalla curiosità di conoscere esperienze diverse dalle nostre, e magari talvolta anche a immedesimarsi in esse. Sei unico fra i poeti – non soltanto italiani, credimi – ad esserti aperto ad altre sensibilità poetiche e altre culture. Anzi, meglio dire così: tu condividi con i grandi poeti, non i piccoli, questa curiosità intellettuale. Che poi è esattamente la qualità che ha contribuito a farli diventare “grandi”. Su questo fatto non ho alcun dubbio.
E’ ovvio che Transtroemer ha quello stile così potente, come un pugno, perché è stato intrepido, avventurandosi in tutte le acque poetiche possibili e immaginabili. Curiosamente anche Joseph Conrad, scrittore di prosa, ha uno stile “potente” (e di forte denuncia), al quale non può non aver contribuito una vita di viaggi in mare per tutto il mondo.
Nelle poesie di un poeta che ha letto molto, come hai fatto tu, si avverte sempre il vento che soffia, come sul ponte di una nave. Anche nei commenti critici.
(Steven Grieco)
inediti Nel caleidoscopio (2002)
Cosa vedemmo dal ponte S. Trinita
La mattina grave,
gonfia di piogge intermittenti –
e palazzi, neri macigni in vie strozzate
ma anche strappi, ventate qua e là – e ardite,
in alto, nubi, bianchi sbuffi di locomotiva
un ricordo d’ali
che scendeva
Andava veloce il fiume limaccioso
ingombro di rottami e nudi tronchi
quando, sopra il viluppo di rami sospinto
verso riva,
vedemmo una coppia di anatre
naufraghi splendenti giunti dallo squarcio fra cielo e acqua,
da un’icona che narra il suo Nulla
E loro, rivolte ai nostri sguardi,
erano della lucentezza che scavalca i secoli:
appena consapevoli d’esser qui,
ma svegli a questo atto creatore
ancora dialoganti con un pittore sgraziato
che ha infine il pensiero che spumeggia
quietato,
e scorge di là dalle distanze, loro comporsi,
due forme sottili precipitare in corridoi d’aria
e le plasma, e stupito l’attira;
e nel tumulto è loro, fin qua sulle onde brute,
i due fulgidi corpi
doppia tenebra piumata –
Un corvo gracchiò dal cornicione
fai tua quella lucentezza!
Impiega i colori che nel tempo
risplenderanno
Risalendo in alto, rivivi la vertigine
di quelle barriere – un soffio ti schiuda
l’uscio chiaro di quaggiù:
dove i pioppi ondeggiano
dove sempre perdi
fra le acque di primavera,
ritrovi
il sentiero dell’immagine
Via de’ Canacci
In questa via stretta
dai portoni sempre chiusi,
deserta nel bagliore di mezzogiorno,
ho ricordato un poeta che io conobbi,
timoroso di finestre, timoroso di squarci,
che al tramonto aspettava,
da dietro le persiane, l’arrivo della notte
scassinatrice;
forse era proprio sua questa via dura
e decrepita, questa via dal rotto selciato
dove sul tardi appaiono sfiorite falene
dietro i cassonetti
e ubriachi spargono vino sui marciapiedi
e berciano gli spacciatori,
e piangono gli eroinomani inconsolabili
spiati da dietro le persiane da uno stormo
di vecchi ostili, e gechi, e pipistrelli.
Ma quando infine chiudono i locali,
e tacciono i tubi di scolo,
e prende sonno anche l’aria,
la via
mille volte violata
s’acquieta;
nel silenzio senza respiro
torna a fendere la sua anima tenebrosa
il canto di un ebbro d’amore,
già avviato
oltre il ciglio dell’aurora.
Nido sulle onde*
1.
È spaccata la melagrana, sfera infranta:
i suoi chicchi dispersi,
il frutto marcisce meraviglioso sulla battigia,
rotolando fra le onde.
E ancora oggi sognano i famigliari
un tavolo comune a cui sedersi,
ciascuno per proprio diritto,
solenni consanguinei
eppure seduti di sbieco l’uno all’altro.
Anche se le loro vite s’incrociano,
non vi è incrocio di sguardi,
si conoscono per riconoscere
cosa l’ha scissi.
Hanno la mossa rovescia,
l’ombra del pugnalatore;
irrompe l’odio a squarciagola,
inaudite le fiamme
divorano il proprio splendore.
Ma ci pensa infine l’avidità
a far scempio dei corpi abbracciati,
spargendone le viscere
per tutto il prato insanguinato.
Di questo castello, fatto, rifatto,
restano solo rovine e rovine.
Assaporando il fiele in ogni cibo,
scesi nelle profonde segrete
dove mi apparve il Vuoto, altissima
trave che precipita sul mondo.
2. al padre
Stretto di Magellano, 1934
Quel furore adesso, quel fulgore
è solo silenzio che fiammeggia
vedo le vene delle tue mani di vecchio –
stagliate vie, densi intrichi,
sentieri scordati e ritrovati
che hanno trascorso i fortunali
e riposato nella bonaccia dei mari:
ma tu hai preso sonno
e un punto minimo ancora
un punto tra noi, in quest’oceano,
va sul dorso di profonde correnti
e saltano gli ultimi pesci
miraggio dell’abbondanza,
spumeggiano le onde sbraitando
sprofondano tumultuose
nel cielo capovolto
Ora il tuo sonno-abisso
scioglie le mille vene
le libera un attimo
prima che antico ordito
impegni nuova trama
* Nel titolo, allusione al martin pescatore, che si pensa nidifichi sul mare greco nel periodo di quiete e sole che ogni gennaio si apre inatteso fra le tempeste invernali.
Che canta il merlo alle 5 del mattino?
“Il Vuoto è grandezza. E’ come l’uccello che canta
spontaneamente, identificandosi con l’Universo.” Chuang Tzu
Scienziati e millenaristi, gli assetati
delle origini, dovrebbero ascoltarmi:
proprio loro, strano a dirsi, i più distratti.
Pure è in questa mia voce senza strumenti
l’istantaneo rammemorarsi delle cose.
Li disorienta il mio dedalo di suoni
mentre dall’antenna eccelsa canto il vuoto sottostante,
e ruotano in alto i miei gorgheggi,
e canto tutto simultaneamente
quel che a voi giunge in temporal sequenza.
Incrocio d’ogni fenomeno e dimensione,
non temo di nuvole il cielo affollare,
né spalancare la rossa ferita all’orizzonte.
Il mio canto è acqua, e pietra che sprofonda
schizzando via dal centro su cui ricade.
Non imito l’usignuolo,
non imito il garrito di rondine,
non imito il mio stesso cantare
che si apre in crescenti dissimili cerchi.
E non siate ingannati dalle mie mille “elle”–
quando un frutto si stacca dal ramo
piangerlo è solo staccarlo di nuovo.
.
Indovinello sulla coda di rondine
Valutazione del critico:
Completo dici tu questo presente:
del domani che ci dilaga incontro
ravvisi il volo, splendida nerezza
dileguarsi in multiformi passati.
Risposta del poeta:
Sempre, volgendomi avanti, io osservo
che precede in perpetuo combaciarsi:
come l’anelito se stesso insegue,
ma sempre si specchia nei nostri occhi.
Esortazione del critico:
Il non-spazio tra ricordo e speranza
dunque è un seme che intero li contiene?
Sii lucente, supera ogni censura,
ogni assurdo: da sé, “stesso” disgiungi.
Risposta del poeta:
Abbagliato, trascuri il mio lettore:
sul bianco foglio io traccio mero inchiostro,
ma lui quel senso sprigionando incanta,
e il cieco incastro fa guizzare in alto.
Nel caleidoscopio
Quel tempo in cui pensavo
di percorrere solo questa desolazione
mi rende un pugno d’immagini rovesce:
pensavo, spalancando forte
la tua porta mai chiusa
di non trovarti,
ignaro di non poterti raggiungere;
dopo rovina, deliquio e morte
ritrovarmi uomo, padre dei miei figli,
seduto alla mia tavola
sotto la fiaba di un arco arabescato:
e stretto in questo abbraccio
perdermi al suo interno,
diventando irraggiungibile;
sì, adesso riconosco
il paradosso del tuo sguardo:
è Nessun Dove:
“tu” trovare “me”
scala
che s’attorce su nella mia dispersione,
ma di cui l’ubriaco immaginare
può rovesciarsi
Geme il catenaccio dell’abbaino
s’aprirà lo sportello aperto…
non so, ancora esito a percorrere le vie dell’aria
2002
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
Odisseo che scrive a Telemaco nella poesia di Brodskij è una grande poesia. Odisseo parla da Dopo il Viaggio e da Dopo la Guerra. Anche noi, caro Steven, parliamo da Dopo il Moderno e da Dopo la Grande Guerra, dopo le tre guerre mondiali che hanno sconvolto l’Europa. E adesso sono rimasti soltanto i filistei che officiano i loro riti apotropaici alle Icone del Successo e della Ricchezza. Nel 1971 il presidente americano Nixon annunciò la fine del cambio fisso del dollaro con l’oro. il Capitale Finanziario è stato liberato dal cambio fisso con l’oro, da allora questa deità ci domina, è il nuovo Demiurgo che esercita il proprio dominio sugli uomini. Quindi noi a ragione possiamo parlare come l’Odisseo di Brodskij da Dopo il Tramonto dell’Occidente. E che altro è la tua poesia se non un pensiero poetico che medita sul Tramonto? Sulla Luce che lentamente si estingue? La tua poesia è sempre paesaggistica, è sempre en plein air, vuole chiamare il lettore dentro la luce e i suoi mille riverberi; e che cos’è questo se non il chiamare il lettore dentro il tramonto della Luce? È in questo tramontante tramontare che la tua poesia si illumina (riceve la luce) e la proietta sul lettore… Nella tua poesia gli oggetti ricevono luce dall’alto, dal basso, da destra, da sinistra, diventano visibili e, nello stesso tempo, invisibili per un eccesso di luce, un eccesso di aria trasparente, di rifrangenze. Forse sei tu il più grande poeta, oggi, che poeta en plein air, come un novello impressionista. Le tue poesie sono Icone che hanno un fondale d’oro, monocromatico, unidimensionale, che non ha altra funzione che quella di riflettere e riverberare le luci e la luce. E che cos’è l’Icona? Non è una pittura silenziosa dove la luce viene dal un Altro Luogo?, un luogo immateriale e immortale? Ovviamente, la tua poesia en plein air, si riallaccia alla antichissima poetica delle Icone bizantine, sono dei moderni fotogrammi che prendono luce da un’altra dimensione, ricchi di aria e di vuoto, pieni di vento …
L’icona rappresenta un punto di congiunzione tra la dottrina neoplatonica e la religione cristiana. Qui l’icona non è semplicemente la raffigurazione del trascendente, ma vera e propria incarnazione dell’ente supremo nella forma sensibile. Si parla allora di epifania dell’essere supremo. In questo senso la mimesis platonica raggiunge la sua massima espressione. Questo carattere epifanico della verità di Dio non spetta allora solo al Verbo, alla parola, ma anche l’immagine, simbolo della luce divina, è manifestazione di Dio; possiamo addirittura affermare che l’arte dell’icona è poesia senza parola, messa in opera della verità in immagine silenziosa: ciò che la parola dice, l’immagine lo mostra silenziosamente. È quindi sbagliato affermare che mentre nella cultura greca è la vista l’organo privilegiato per pensare il soprasensibile – basta pensare al significato delle parole fondamentali del pensiero platonico idea e eidos che rimandano a un vedere essenziale -, nella cultura cristiana il vedere diventa un ascoltare. Non a caso una delle immagini più ricorrente in tutta la tradizione cristiana è proprio quella della luce, intesa, appunto, come immediata epifania della verità: lo Spirito santo è sia Verbo che Luce. Nella visione teologica cristiana la luce è una promanazione (secondaria quindi) dello Spirito Santo. Questa metafora della luce come immediata percezione della verità non si esaurisce in una dimensione puramente religiosa, tra luce e verità c’è un filo conduttore comune, infatti, quando l’occhio percepisce gli oggetti, ciò che in realtà percepisce è la luce riflessa di essi. L’oggetto è visibile soltanto perché la luce lo rende luminoso. Quel che si vede è la luce che si unisce all’oggetto, che in un certo modo lo sposa e prende la sua forma, lo raffigura e lo rivela. È la luce che rende bello l’oggetto, permettendo a quest’ultimo di raggiungere il suo bene, la sua essenza. L’artista dell’icone è colui che mediante la vita ascetica si svuota di tutti i desideri terreni per accogliere la luce trascendente trascrivendola su tela. Infatti, l’arte contemplativa si pone al centro della cosmologia dei Padri della chiesa: la visione dei lógoi archetipi, dei pensieri di Dio sugli esseri e sulle cose, costituisce una teologia visiva, una iconosofia. Ogni cosa possiede il suo lógos, la sua parola interiore, la sua determinazione strettamente legata all’essere concreto. Questo legame è posto dal fiat (l’imperativo “sia”) divino; esso è la corrispondenza adeguata e quindi trasparente tra forma e contenuto, il suo lógos; la loro intima compenetrazione, la loro coincidenza segreta si rivela in termini di luce e costituiscono la bellezza. La bellezza della icona sta nella trascendenza e nell’immanenza divina. Quest’arte, tipicamente orientale della cristianità ortodossa, rappresenta la possibilità che il trascendente platonico possa rendersi visibile nel mondo mediante un processo ascetico di purificazione e di accoglimento del soprasensibile.
Ora, se nella cultura cristiano-orientale l’arte dell’icona rappresenta la concreta possibilità di produrre lógoi che raccordano il mondo soprasensibile col mondo sensibile, nella dimensione occidentale si produrrà una scissione del concetto di arte e quindi di ποίησις, scissione che farà emergere i nuovi caratteri dell’arte moderna: l’abitare stabilmente nel nichilismo quale dimora della nuova epoca. Odisseo è ritornato e ritrova la vecchia Penelope, il ragazzo Telemaco, trasformato in complice dei suoi assassinii, i rozzi contadini della sua isola, sterpaglie, vento…
Non so dove mi trovo, ho innanzi un’isola
brutta, baracche, arbusti, porci e un parco
trasandato e dei sassi e una regina.
(Brodskij)
Giorgina Busca Gernetti legge Asfodeli foto di Massimo Bertari
Mirza Asadullah Ghalib affascina il lettore per la freschezza, quasi ingenuità, nel contempo profondità filosofica dei suoi versi, strutturati in distici rimati nel modo illustrato con precisione da Steven Grieco.
I veri poeti della fascinosa India, almeno per le mie scarse conoscenze, hanno questo nucleo ispirativo: il cielo notturno, le stelle, l’alba, la natura, gli uccellini, i fiori, l’amore, la sofferenza dell’uomo e la pazienza nel sopportarla. Mi riferisco anche a Rabindranath Tagore, benché l’epoca, la regione indiana, la lingua, la struttura delle poesie siano diverse da quelle di Mirza Asadullah Ghalib.
Forse è l’anima dell’India che sa creare poeti così grandi.
Mi piace riportare alcuni distici veramente pregevoli (quattro Ghazal e uno Sher):
.
“non tutti, solo alcuni apparvero nei fiori e nelle foglie –
chissà i volti che rimangono nascosti nella polvere”
.
“le figlie dell’Orsa rimasero celate nel velo diurno –
perché mai ascesero nude, radiose nella notte?”
.
“”suo è il sonno, suo l’animo, sue le notti
fra le cui braccia si sciolgono inquiete le tue chiome”
.
“al mio entrare in giardino, il coro di gorgheggi si fece attento
ascoltando i miei lamenti gli usignoli divennero poeti”
.
“non sono né il fiore del canto, né il mistero della cetra:
io sono la voce del mio stesso spezzarsi”
(Giorgina Busca Gernetti)
Giorgio Linguaglossa 2012
È che oggi forse si dovrebbe ritornare a scrivere in distici, in ritornelli di distici… riprendere le antiche formule e ripartire da lì; scrivere pensieri conchiusi in immagini nell’arco di un distico, e poi nel distico seguente percorrere di nuovo il solito schema (magari con una variante), ovvero, provare ad introdurre un altro verso (la strofe caudata di tre versi) etc., e così via.
Il fatto è che oggi si è persa la manualità della scrittura, si scrive senza far riferimento a nessun genere o sotto genere, e i risultati si vedono purtroppo! – Il parallelismo cui costringe un distico è una forza magnetica, un binario che soltanto chi sa e ha la poesia nella propria pelle può capire; il parallelismo implicito in un distico, è cosa diversa da un distico con una coda (aggiunta di un terzo verso), a volte (anzi, sempre) basta una variante a cambiare il centro di gravità di tutto il componimento.
Quindi io consiglierei chi vuole fare poesia a studiare le antiche formule, di scrivere in distici, per esempio, e in immagini di distici…
Chiedo ad Antonio Sagredo e a Steven Grieco di farci conoscere la loro dotta opinione.
Rilucono le stelle in un frammento
d’immenso nella notte senza vento.
.
L’assenza dell’amata squassa l’animo
dell’uomo che la invoca in un lamento.
.
Acceca il sole con la luce d’oro
i mietitori curvi sul frumento.
.
Prestami la tua arte, sacro vate,
perché possa cantare il mio tormento.
.
Foglie frementi nel bosco armonioso
di canti d’uccelli in festoso concento.
.
GBG
Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur India
Certo, la questione della forma a cui accenna Giorgio sarà sempre un problema per la poesia e per i poeti. Ma è proprio, e in modo sovrano, la struttura aperta o libera a valere oggi come forma poetica “tradizionale”. Quella che più ci impone un rigore. (Per il domani, chissà.)
A proposito, sembra che i giovani giapponesi usino spesso il haiku o il waka per messaggiarsi tramite telefonino… O allora è stata solo una moda qualche anno fa, che è già tramontata.
In questi tempi spietati, ma anche incredibili e entusiasmanti, in cui ogni tradizione è stata ridotta all’assurdo, sembra che un vero poeta (ma, se è per quello, anche un vero artista con i suoi dipinti e le sue installazioni) debba mettere tutto il rigore e la disciplina proprio nella forma aperta, la forma per eccellenza che ti dà tutte le possibilità, ma poi ti castiga se di essa hai fatto cattivo uso.
Lo stesso Ghalib lamentò verso la fine della sua vita, in un suo distico (che adesso non ho a portata di mano), il fatto che la forma del ghazal e le immagini convenzionali ad esso associato (rosa, usignolo, giardino, candela, rugiada, etc.) imprigionassero troppo la sua vena creativa. Più moderno dei moderni, già alla metà dell’Ottocento, quando i poeti francesi iniziavano solo vagamente a muoversi in questa direzione, Ghalib sognava la possibilità di esprimersi con una forma espressiva aperta.
Tanti anni fa ho visto le bozze originali di diverse poesie di Shelley. Aveva già deciso il metro e la rhyming scheme, il tipo di rima, ponendo sopra il rigo gli accenti tonici (8, o 10, a seconda). Gli accenti tonici c’erano già tutti, ma qua e là ancora mancava la parola prescelta per completare quel verso (di solito all’interno del verso, per ovvie ragioni). Ecco, questo ti fa capire che il poeta che usa una forma poetica specifica deve comunque già avere nel cuore e nell’orecchio il ritmo – voglio dire la musica – del verso, prima ancora della scelta di tutte, tutte le parole. Per un poeta di secondo ordine potremmo dire: ah, ecco, la musichetta a scapito del senso, ma le bozze delle poesie di Shelley invece ci mostrano quanto la musica già contenga il senso profondo del dire, e quanto in poesia musica e significato non possono proprio scindersi.
Ed ecco che mi vien da pensare che quindi anche il poeta oggi deve imporsi una grandissima disciplina con la forma aperta: perché una poesia senza musicalità e comunicazione di un significato (quale che sia e in qualsiasi modo lo si faccia, anche a testa in giù), be’, non so, forse non si tratterebbe più di poesia. Penso ad esempio, in musica, a uno Stockhausen o uno Scelsi, che hanno lavorato con forme in qualche modo aperte ma dandosi una disciplina immensa, lo senti in ogni nota, e quel rigore è proprio una delle cose che ti entusiasma, ti fa pensare che è solo con la forma (se anche per ritrarre il chaos), che possiamo comunicare, comunicando perfino realtà, immagini, concetti sublimi.
Detto questo, faccio posto a tutte le definizioni possibili della parola poesia, ovviamente. Ancora oggi vale quello che disse Montale una volta, “in poesia tutto fa brodo.”
Questo anche per la forma della poesia.
foto di Steven Grieco
Caro Steven,
è vero quello che tu dici, che condivido al 100%. Tu scrivi che già «Ghalib sognava la possibilità di esprimersi con una forma espressiva aperta», perché si era reso conto che la forma chiusa tradizionale del distico era troppo costrittiva per la sua poesia.
Ecco, siamo arrivati al punto. Nel Novecento siamo passati attraverso una rivoluzione delle forme espressive, siamo passati dalla forma-chiusa alla forma-aperta (U. Eco L’opera aperta, 1962), fenomeno che ha investito il romanzo, la poesia, la pittura, la scultura, la musica, l’architettura etc., quindi un fenomeno globale, come si dice oggi. Ma per la poesia è poi intervenuto un fenomeno, al tempo, ancora più vistoso e più misterioso: la caducazione del verso tradizionale per il verso libero e la caducazione del verso libero per il verso arbitrario, dove ciascun autore è libero di adottare il verso (nel senso della lunghezza) che più gli aggrada. Se oggi apriamo un libro di poesia di un autore contemporaneo, troviamo appunto il verso arbitrario(non so quanti autori ne siano consapevoli), dove l’arbitro del verso è deciso dallo stesso autore, dove è l’autore che dà legittimità alla lunghezza e alle intensità (foniche e toniche e ritmiche) del verso. Siamo arrivati alla Babele del verso arbitrario, e i risultati sono piuttosto evidenti. Siamo arrivati al punto che non esistono più le differenze tra la forma-poesia e la forma-prosa, addirittura non si ha più cognizione di quella cosa chiamata un tempo laforma-poesia.
Ma torniamo al verso-arbitro o arbitrario e veniamo ad esso, esaminiamo la sua struttura interna ed esterna. Vorrei invitare i lettori ad andare a rileggersi una poesia di un poeta contemporaneo che abbiamo pubblicato su questo blog: Gezim Hajdari nella poesia “Il contadino della poesia”
https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/12/15/fare-il-contadino-della-poesia-di-gezim-hajdari-con-una-nota-di-armando-gnisci/
È chiaro che qui ci troviamo davanti ad un sistema aperto dove ciascuna frase raddoppia e ripete la struttura semantica della frase precedente mediante una variatio del significato e del ritmo interno ed esterno dei versi. Siamo davanti alla forma più elementare e primordiale del linguaggio poetico, il verso singolo che viene ripetuto con varianti all’infinito, la repetitio. Qui dunque il sistema è aperto, apertissimo, e permette al’autore di introdurre le varianti che crede opportune al fine di ottenere un effetto moltiplicatore dell’intensità orchestrale.
E fin qui ci siamo. Esaminiamo (per semplicità di ipotesi) adesso un effetto di moltiplicazione interna di un singolo verso di una, perdonatemi, mia poesia:
Kinder Nacht. Kinderschreck. Kinderspiel.*
Un cane rabbioso abbaiava.
Ma tu non c’eri. Guardai indietro.
C’era un corridoio con tante stanze chiuse. L’hotel Astoria.
(*Notte di bambini. Spauracchio. Gioco infantile.)
Come si vede, la ripetizione di parole (composte, in tedesco) che iniziano con una medesima parola (Kinder, ovvero, bambini), serve ad introdurre un effetto moltiplicatore (e straniante) della forza semantica, inoltre i punti introducono delle cesure, degli stop. Così che si ha: moltiplicazione della ripetizione + cesure = Ritmo a singhiozzo, ritmo interrotto, interruzione e ripresa = effetto di straniamento. I tre versi che seguono (sono frasi nominali e dichiarative) sono spezzati da punti. Con l’ovvio effetto di concentrazione e di spezzatura interna dove il lettore è costretto a fermare l’occhio e la lettura a voce (o silenziosa). Qui mi sono permesso di impiegare il verso-arbitrario nel senso che sono io l’autore ed io soltanto posso intervenire sul dove e sul come interrompere l’ordine del discorso e riprenderlo a mio gradimento. Ho scelto una mia composizione per non fare torto a nessuno. È chiaro che nelle mie intenzioni definire un verso verso arbitrario non c’è alcuna connotazione negativa o spregiativa, è semplicemente un dato di fatto, un evento. Ed è una procedura che io utilizzo spessissimo nelle mie composizioni in vista di un determinato fine; cioè è una procedura consapevole, filtrata però da quella particolarissima cosa chiamata sensibilità verso la Lingua e i suoi linguaggi letterari.
Ecco, io ritengo che l’italiano di oggi abbia in sé DELLE ENORMI POSSIBILITA’ DI ESPRESSIONE, È UNA LINGUA MATURA…
Dimenticavo: altra cosa dal verso arbitrario è il verso inventato, cioè quella entità che non si distingue in nulla dalla prosa. E allora non si capisce perché in tanti ci si ostina ad andare a capo (dal punto di vista narrativo e metrico) quando non c’è alcuna ragione di andare a capo. Potrei, di ciò, portare migliaia di esempi, ma diventerebbe un gioco al massacro che non mi diverte, anzi, che mi deprime.
Giorgio, vado subito all’ultima cosa che dici nel tuo commento più sopra. Sì, hai perfettamente ragione. Poesia è poesia, prosa è prosa. E’ anche vero che la linea di demarcazione è molto vaga, ma mai così tanto da permettere una totale confusione fra i due generi. E allora Baudelaire, che scriveva i poèmes en prose? Perché ricorrere a un ritmo totalmente prosaico quando grandi poeti del passato hanno indicato come si potrebbe “usare la prosa nella poesia?” – e cioè una forma più attuale, che può dare maggiore libertà nell’esprimere concetti e realtà che inevitabilmente finirebbero per straripare dalle forme poetiche tradizionali (e forse anche dalla forma libera con verso spezzato sul lato destro della pagina). Anche altri, più di recente, l’hanno fatto, Transtroemer è un esempio. Ma poi c’è René Char, e tantissimi altri.
Quando scrivo una poesia in inglese, non dimentico mai la metrica interna della lingua, è una cosa naturale. Forse è più difficile per un italiano pensare in endecasillabi (eccezion fatta per Dante) che per un inglese pensare in versi giambici di quattro-cinque piedi. La prosa inglese tende già di per se stessa a scomporsi abbastanza spontaneamente in versi giambici di questo tipo. E quindi quando scriviamo un verso, molto spesso il nostro pensiero già ci offre questa forma, questa soluzione. Che però nel mondo odierno talvolta suona piuttosto scontata, old-fashioned, soprattutto quando viene coltivata di proposito, come fanno migliaia di poeti di lingua inglese oggi che non hanno molto da dire.
Nemmeno Shakespeare rispettò sempre quel metro, spesso i suoi versi sono endecasillabi, o versi di nove sillabe – eventualmente con una compensazione nel verso precedente o successivo, ma si tratta di giochetti inventati principalmente da critici e filologi: Shakespeare non pensava in questo modo, solo in casi precisi e specifici ebbe forse un reale bisogno di contare (per infondere quella inaudita musicalità ai sonetti, per es.). Anzi, egli è più di tutti colui che infranse le regole linguistiche eppure seppe rispettarle, che optò per un pensiero aperto, dettato dalla sua dinamica interna, eppure seppe rimanere dentro le forme tradizionali poetiche, espandendole e nobilitandole.
Dobbiamo sforzarci oggi di “sentire” il verso prima di scriverlo, di “far succedere” il proprio pensiero dentro una forma in bilico fra “chiusa” e “aperta”, dentro un verso più dinamico, continuo o spezzato, se vogliamo veicolare il mondo in cui viviamo.
L’esempio che tu, Giorgio, dai nel tuo commento citando un brano di una tua poesia è quello che ho in mente io. Mi rende felice che altri la pensino, almeno in parte, come me. (A proposito, bel ritmo dinamico, repentino, complimenti!)
Zeitgeist: ci sono soluzioni che ci fornisce proprio il tempo in cui viviamo.
Vado avanti: penso a uno dei più grandi poeti russi della seconda metà del Novecento, Gennady Aygi, messo nel dimenticatoio dai letterati del suo paese perché era ciuvascio, e perché nei suoi versi non rispettò la metrica e le convenzioni tradizionali della poesia russa. Peter France, suo amico storico e traduttore in inglese da sempre, individua nel verso di Aygi, totalmente “libero”, una metrica interna prevalentemente giambica, che comunque finisce per rispettare il ritmo della lingua e della poesia russa.
Vedete l’ironia? Certo, Aygi era troppo grande per non saperlo: ma sentì forte il bisogno di scarcerare il verso russo da quei versi troppo regolari, troppo inamidati e incravattati, creando invece sulla pagina linee di parole più lunghe, di colpo spezzate, riprese al rigo successivo, con spazi vuoti, parentesi, tutto quello che gli serviva per esprimere quel suo pensiero così forte, così lacerato e profondo.
In Italia oggi è raro lo slavista che abbia anche soltanto tradotto una poesia di Aygi. Assenza macroscopica, che ha dell’incredibile ma dice tutto sulla pavidità e sul conservatorismo degli studi letterari. Sarà un grande giorno quando qualcuno si deciderà a compiere quest’opera.
E quindi, la forma “arbitraria” è ben diversa dalla forma aperta secondo il rigore che questa esige. Quando questa è ricercata fortemente, dinamicamente, anche dolorosamente per dire la realtà che ci sta davanti, e non per dire una nostra idealizzata riduzione e privatizzazione del mondo, ecco che salta fuori quello che cerchiamo – il verso veicolante, illuminante.
Non è un sogno, oggi ci sono poeti in tutte le lingue che riescono a fare questo.
Vorrei ricordare, caro Steven, l’acutissima notazione di Fenollosa della poesia come «arte del tempo» e delle immagini come «idee in movimento». Questo è stato il contributo fondamentale di Fenollosa alla poesia occidentale di cui il solo Pound comprese appieno la sua novità. La possibilità di creare una poesia incentrata su una «immagine in movimento» precorreva la dottrina poundiana del vortex e ne permetteva il superamento. La poetica dell’ideogramma di Fenollosa consentiva una spiegazione ottimale della immagine come sintesi di staticità e dinamismo.
Fenollosa aprì a Pound la possibilità di fare un tipo di poesia in cui l’elemento fondamentale è l’«azione», la quale altro non era che la rappresentazione di due immagini in movimento. Per Fenollosa l’ordine della frase è appreso dalla natura: ogni atto non è che un «trasferimento di potere» e il fulmine – che scocca tra le nubi (a quo) e la terra (ad quem) ne è la migliore illustrazione. Il processo della natura è lineare e si svolge attraverso tre elementi essenziali: «termine dal quale», «trasmissione di forza», «termine al quale». La frase linguistica rappresenta la struttura fondamentale della natura. Per Fenollosa l’«azione» ha un termine da cui parte (a quo) e un termine a cui arriva (ad quem), e quindi la «cosa» è sempre una «relazione» di cose, non si dà mai la cosa in sé. Infatti per l’ideogramma cinese l’entità elementare espressa nel linguaggio è l’azione, la quale è unione di due simboli. (Fenollosa)
Per Fenollosa il linguaggio ideogrammatico è forte perché ricco di verbi transitivi, capaci di esprimere il principio fondamentale della realtà, il moto, l’azione; in una parola, è forte perché è concreto, e un linguaggio forte è anche naturalmente poetico.
Per tornare alla poesia, la poesia è una rappresentazione verbale di un moto, di una azione, di una relazione, e tanto più questo fatto è evidente quanto più essa conserva in sé la struttura fondamentale del linguaggio che è l’immagine (statica e/o dinamica); ma non dobbiamo dimenticare che l’immagine è una «funzione del tempo», è un elemento essenziale di ogni linguaggio umano. Forse i super umani di una civiltà di tipo 3 avranno a disposizione altri strumenti linguistici più precisi, noi questo non lo sappiamo e non lo sapremo mai, ma è una possibilità da non sottovalutare.
Per esempio tu, in una tua poesia, nel tuo linguaggio ripeti mimeticamente la struttura elementare dell’universo. Mi spiego:
Giravo le spalle all’orto, immerso
nel grigio smisurato del cielo
una voce chiarissima risuonò:
“non hai visto?”
con fatica alzai gli occhi, vidi un albero sconosciuto
in una nuvola di fiori
“Ah, sì, il susino…”
È chiaro che qui siamo davanti ad una macro immagine che contiene al suo interno altre immagini minori in relazione reciproca; anche la «voce» che risuona viene trattata come se fosse una immagine che si collega alla immagine di un «io» visto di spalle il quale alza gli occhi e.. scopre «il susino». La poesia così prende vita dalla relazione tra le cose e tra le immagini riprodotte nel contesto linguistico, piuttosto che dal discorso lessemico fonetico di matrice lineare che viene utilizzato da poeti di minore consapevolezza critica della cosa chiamata poesia. Tutto il complesso cinetismo di questa strofe si situa entro un tempo brevissimo che passa dal momento del richiamo al momento in cui il protagonista scopre il «susino».
Una poesia come la tua, che potrebbe sembrare astratta ad un occhio poco educato a questa concezione della lingua e dell’immagine, è invece, qualcosa di quanto più concreto si possa immaginare
Questo discorso, che spesso, teniamo privatamente io e Giorgio Linguaglossa è fondamentale. Il verso libero va preso con cautela. Come la forma rima e le metriche. Giorgio con Uccelli (1992), scritto in endecasillabi, mostra una padronanza totale del verso. E la mostra poi anche con il verso libero sperimentale in Blumenbilder (2013). Altri poeti che hanno la padronanza metrica e libera sono primo fra tutti Antonio Sagredo o Alfredo De Palchi, Maria Rosaria Madonna. Quanto è utile tornare al distico? Potrebbe essere utilissimo, come puntare all’haiku, solo che i temi andrebbero variati, in modo che avessero un’attinenza sociologica maggiore. Il problema è che non li si evolve e penso sia gravoso per la poesia. Il verso libero è diventato una grande piaga, come la rima. Così, il verso libero a volte rischia di creare solo confusione, ho letto ultimamente poesie scritte da sedicenti poeti incapaci di capire che i loro versi erano goffi, degli a capo fatti a caso. Mentre la rima è un problema perché rischia di cadere nella scontatezza. e se non la si maneggia bene, diventa fumo. Ed è singolare che una giovanissima poetessa come Siria Eva Comite abbia compreso tutto ciò e scriva una poesia razionalissima, studiatissima, precisissima, senza perdere di intensità ma aumentandola, rispetto ad alcuni suoi precedenti tentativi di verso libero goffi.