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Sylvia Plath, brani da The Bell Jar – Poesie scelte a cura di Giorgio Linguaglossa, La campana di vetro. Poesie, Daddy, Papà, I am vertical, Io sono verticale, Tulips, Tulipani, Daddy, Papà, The Munich Mannequins, I manichini di Monaco, Mirror, Specchio –

Sylvia Plath_Ted_Hughs da La campana di vetro (The Bell Jar) trad. Adriana Bottini e Anna Ravano, Mondadori, 2017, pp. 244, € 12,00

… non riuscivo a provare un bel niente. […] dovunque mi fossi trovata, sul ponte di una nave o in un caffè di Parigi o a Bangkok, sarei stata sotto la stessa campana di vetro, a respirare la mia aria mefitica.

*

Lo vedi che cosa può succedere in America, avrebbero detto. Una ragazza vive per diciannove anni in un paesello sperduto, senza nemmeno i soldi per comprarsi una rivista, poi ottiene una borsa di studio per il college, vince un premio, poi un altro e finisce che ha New York ai suoi piedi, come se fosse la padrona della città. Peccato che io non ero padrona di niente, nemmeno di me stessa. Non facevo che trottare dall’albergo al lavoro ai ricevimenti e dai ricevimenti all’albergo e di nuovo al lavoro come uno stupido filobus. Sì, credo che avrei dovuto trovarla un’esperienza eccitante, come facevano quasi tutte le mie compagne, ma non riuscivo a provare niente. Mi sentivo inerte e vuota come deve sentirsi l’occhio del ciclone: in mezzo al vortice, ma trainata passivamente.

*
Sarà anche bello mantenersi pure e poi sposare un uomo puro, ma se dopo sposati lui confessa di non esserlo, come aveva fatto Buddy Willard con me? Non sopportavo l’idea che la donna debba avere una sola vita, casta, e l’uomo invece può condurre una doppia vita, una casta e l’altra no.

*
Era uno dei motivi per cui non intendevo sposarmi. L’ultima cosa che desideravo era la «sicurezza assoluta» ed essere il punto da cui scocca la freccia dell’uomo. Io volevo novità ed esperienze esaltanti, volevo essere io una freccia che vola in tutte le direzioni.

*
… mi sentii un’incapace totale. E il guaio era che lo ero sempre stata, solo che non mi ero mai fermata a pensarci. L’unica cosa che sapevo fare bene era vincere borse di studio e premi, e anche quell’epoca stava per finire. Mi sentivo come un cavallo da corsa in un mondo senza ippodromi, o come un campione di calcio dell’università che si trova tutt’a un tratto di fronte a Wall Street e al doppiopetto grigio, i suoi giorni di gloria ridotti alle dimensioni di una piccola coppa d’oro sulla mensola, con su incisa una data, come una lapide di cimitero.
*
Vidi la mia vita diramarsi davanti a me come il verde albero di fico del racconto.
Dalla punta di ciascun ramo occhieggiava e ammiccava, come un bel fico maturo, un futuro meraviglioso. Un fico rappresentava un marito e dei figli e una vita domestica felice, un altro fico rappresentava la famosa poetessa, un altro la brillante accademica, un altro ancora era Esther Greenwood, direttrice di una prestigiosa rivista, un altro era l’Europa e l’Africa e il Sud America, un altro fico era Constantin, Socrate, Attila e tutta una schiera di amanti dai nomi bizzarri e dai mestieri anticonvenzionali, un altro fico era la campionessa olimpionica di vela, e dietro e al di sopra di questi fichi ce n’erano molti altri che non riuscivo a distinguere.
E vidi me stessa seduta sulla biforcazione dell’albero, che morivo di fame per non saper decidere quale fico cogliere. Li desideravo tutti allo stesso modo, ma sceglierne uno significava rinunciare
per sempre a tutti gli altri, e mentre me ne stavo lì, incapace di decidere, i fichi incominciarono ad avvizzire e annerire, finché, uno dopo l’altro, si spiaccicarono a terra ai miei piedi.

Non aveva senso alzarsi.
Cosa aveva da offrirmi la giornata?

*
Vidi gli anni della mia vita in fila uno dietro l’altro come pali del telefono lungo una strada, collegati insieme dai cavi. Contai uno, due, tre… diciannove pali, ma dopo il diciannovesimo i cavi spenzolavano nel vuoto, e per quanto mi sforzassi, non riuscivo a scorgere nessun altro palo.

*

E non mi ero lavata i vestiti e i capelli perché mi sembrava una cosa assurda.
Vedevo i giorni dell’anno come una lunga fila di scatole bianche luminose, separate l’una dall’altra dall’ombra nera del sonno. Solo che per me la lunga prospettiva di ombre che distinguevano una scatola dalla successiva si era improvvisamente spezzata, e la serie interminabile dei giorni mi si apriva davanti abbagliante come un grande viale bianco di desolazione infinita.
Mi sembrava assurdo stare a lavarmi, se poi mi toccava rifarlo di nuovo il giorno dopo.
Solo a pensarci, mi sentivo stanca.
Volevo fare le cose una volta per tutte e basta, chiuso.
Ad ogni tentativo di suicidio, il corpo di Esther, determinato a vivere, sembra ribellarsi: «la mia carne si ritrasse, vigliaccamente, da una simile morte». Quando tenta di annegare, il suo cuore ad ogni battito, fastidiosamente per Esther che vuole morire, sembra affermare la propria presenza ovvero l’esistenza stessa di Esther: «io sono io sono io sono» non è altro che la ribellione quasi naturale e istintiva alla morte e il desiderio del corpo di vivere.
Decisi di spingermi al largo finché sarei stata troppo stanca per tornare a riva. Mentre nuotavo, il battito del cuore mi rimbombava nelle orecchie ossessivo come uno stupido motore.
Io sono io sono io sono.
«Mai aveva amato tanto il proprio corpo come in questo momento nel quale il suo possesso era così precario» scrive Jack London nel capitolo 3 di Zanna Bianca e infatti ho notato una certa somiglianza tra questa parte del romanzo di Jack London e il brano qui sotto de La campana di vetro: in entrambi sembra che, essendo la propria carne in pericolo (ne La campana di vetro per via del suicidio, in Zanna Bianca la carne potrebbe essere sbranata dai lupi), ci si affeziona ad essa e così ci si attacca ancora di più alla vita.
Non so più quale filosofo romano, quando gli avevano chiesto che modo avrebbe scelto per morire, aveva risposto che si sarebbe aperto le vene in una vasca di acqua tiepida. Sembrava facile: sdraiarmi nella vasca e guardare il rosso che sbocciava dai polsi, un fiotto dietro l’altro nell’acqua trasparente, fino ad affondare nel sonno sotto una superficie sgargiante come un campo di papaveri.
Ma al momento buono, la pelle dei polsi sembrava così bianca e indifesa che non me l’ero sentita. Era come se la cosa che volevo uccidere non fosse in quella pelle e nella sottile vena azzurra che sentivo pulsare forte sotto il mio dito, ma altrove, in un luogo più profondo, più segreto, e molto più difficile da raggiungere.
Alla fine del romanzo, l’aria metifica lascia il posto ad un’aria più rarefatta, la campana vetro non rinchiude più al suo interno Esther.
La campana di vetro stava sospesa qualche spanna sopra la mia testa e l’aria circolava liberamente intorno.

*

Ma non era detto. Non era affatto detto. Chi mi assicurava che un giorno – al college, in Europa, chissà dove, dovunque – la campana di vetro non sarebbe scesa di nuovo, con le sue soffocanti distorsioni.

*

Un brutto sogno.
Per chi è chiuso sotto una campana di vetro, vuoto e bloccato come un bambino nato morto, il brutto sogno è il mondo. Un brutto sogno.
Io ricordavo tutto.
Ricordavo i cadaveri, Doreen, la storia dell’albero di fico, il brillante di Marco, il marinaio del Common, l’infermiera strabica del dottor Gordon, i termometri in frantumi, il negro con i suoi due tipi di fagioli, i dieci chili messi su per l’insulina, lo scoglio rotondo tra cielo e mare simile a un teschio grigio.
Forse l’oblio, come una neve gentile, avrebbe dovuto attutire e coprire tutto.
Ma quelle cose facevano parte di me. Erano il mio paesaggio.

*.
La cucitura delle calze era dritta, le scarpe nere screpolate ma lucide, e il tailleur rosso di lana era smagliante come i miei progetti. Qualcosa di vecchio, qualcosa di nuovo…
Ma io non andavo a sposarmi. Dovrebbe esistere un rito, pensai, per celebrare la seconda nascita – per quando si è stati rattoppati, ricostruiti e omologati per la strada.

*

Feci un profondo respiro e ascoltai il mio cuore ripetere l’antica vanteria.
Io sono, io sono, io sono.

Sylvia Plath_1

Poesie di Sylvia Plath

Io sono verticale

Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con radici nel suolo
che succhia minerali e amore materno
così da poter brillare di foglie a ogni marzo,
né sono la beltà di un’aiuola
ultradipinta che susciti grida di meraviglia,
senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero è immortale
e la cima di un fiore, non alta, ma più clamorosa:
dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.

Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo ma nessuno di loro ci fa caso.
A volte penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro nel modo più perfetto –
i miei pensieri finiti in nebbia.
Stare sdraiata è per me più naturale.
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno quando starò sdraiata per sempre:
Allora gli alberi potranno toccarmi, i fiori avranno tempo per me.

I am Vertical

But I would rather be horizontal.
I am not a tree with my root in the soil
Sucking up minerals and motherly love
So that each March I may gleam into leaf,
Nor am I the beauty of a garden bed
Attracting my share of Ahs and spectacularly painted,
Unknowing I must soon unpetal.
Compared with me, a tree is immortal
And a flower-head not tall, but more startling,
And I want the one’s longevity and the other’s daring.

Tonight, in the infinitesimal light of the stars,
The trees and the flowers have been strewing their cool odors.
I walk among them, but none of them are noticing.
Sometimes I think that when I am sleeping
I must most perfectly resemble them —
Thoughts gone dim.
It is more natural to me, lying down.
Then the sky and I are in open conversation,
And I shall be useful when I lie down finally:
Then the trees may touch me for once, and the flowers have time for me.

Sylvia Plath_5
Tulipani

Guarda com’è tutto bianco, com’è quieto, coperto di neve.
Imparo la tranquillità, mentendo da sola in silenzio
Mentre la luce giace su queste pareti bianche, su questo letto, su queste mani.
Non sono nessuno; Non ho niente a che fare con le esplosioni.
Ho dato il mio nome e il mio abbigliamento da giorno alle infermiere
E la mia storia all’anestesista e il mio corpo ai chirurghi.
Mi hanno appoggiato la testa tra il cuscino e il risvolto del lenzuolo
Come un occhio tra due palpebre bianche che non si chiudono.
Stupida allieva, deve assorbire tutto.
Le infermiere passano e passano, non danno fastidio,
Passano nel modo in cui i gabbiani attraversano l’entroterra con i loro berretti bianchi,
Fare le cose con le mani, una uguale all’altra,
Quindi è impossibile dire quanti sono.
Il mio corpo è un sassolino per loro, lo curano come l’acqua
Tende ai ciottoli su cui deve scorrere, li leviga delicatamente.
Mi portano intorpidimento nei loro aghi luminosi, mi portano il sonno.
Ora mi sono persa, sono stanca dei bagagli

——
La mia custodia per la notte in vernice come un portapillole nero,
Mio marito e mio figlio sorridono dalla foto di famiglia;
I loro sorrisi si attaccano alla mia pelle, piccoli ganci sorridenti.
Ho lasciato scivolare le cose, un mercantile di trent’anni
tenacemente aggrappato al mio nome e indirizzo.
Mi hanno ripulito dalle mie amorose associazioni.
Spaventata e nuda sul carrello verde con cuscini di plastica
Ho guardato il mio set da tè, i miei uffici di biancheria, i miei libri
Affondano fuori dalla vista e l’acqua mi è passata sopra la testa.
Sono una suora adesso, non sono mai stata così pura.
Non volevo fiori, volevo solo
Stare sdraiata con le mani alzate ed essere completamente vuoto.
Quanto è gratuito, non hai idea di quanto sia libero
——
La tranquillità è così grande che ti stordisce,
E non chiede nulla, un’etichetta con il nome, alcuni ninnoli.
È ciò su cui si avvicinano i morti, finalmente; Li immagino
Ci chiudono la bocca sopra, come una tavoletta da Comunione.
I tulipani sono troppo rossi in primo luogo, mi fanno male.
Anche attraverso la carta regalo li sentivo respirare
Con leggerezza, attraverso le loro fasce bianche, come un bambino orribile.
Il loro rossore parla alla mia ferita, corrisponde.
Sono sottili: sembrano galleggiare, sebbene mi appesantiscano,
Sconvolgendomi con le loro lingue improvvise e il loro colore,
Una dozzina di piombi di piombo rosso intorno al mio collo.
Nessuno mi ha guardata prima, ora sono osservata.
I tulipani si girano verso di me e la finestra dietro di me
Dove una volta al giorno la luce si allarga lentamente e si assottiglia lentamente,
E mi vedo, piatta, ridicola, un’ombra di carta ritagliata
Tra l’occhio del sole e gli occhi dei tulipani,
E non ho faccia, ho voluto cancellarmi.
I tulipani vividi mangiano il mio ossigeno.
Prima che arrivassero l’aria era abbastanza calma,
Andare e venire, respiro dopo respiro, senza problemi.
Poi i tulipani lo riempirono come un forte rumore.
Ora l’aria si impiglia e vortica intorno a loro come un fiume
Impacchi e vortici attorno a un motore rosso ruggine affondato.
Concentrano la mia attenzione, ero felice
Giocare e riposare senza impegnarsi.
Anche le pareti sembrano riscaldarsi.
I tulipani dovrebbero essere dietro le sbarre come animali pericolosi;
Si stanno aprendo come la bocca di un grande gatto africano,
E sono consapevole del mio cuore: si apre e si chiude
La sua ciotola di fiori rossi sboccia per puro amore per me.
L’acqua che assaggio è calda e salata, come il mare,
E viene da un paese lontano come la salute. Continua a leggere

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