Archivi tag: Mimesis hebenon

Karel Šebek (1941-1995), 3 X Nulla, Cura e introduzione di Petr Král, Traduzione di Antonio Parente, Mimesis-Hebenon, Milano 2015, con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa: Un compiuto progetto poetico di azzeramento del sensorio

 

Foto Karel Teige

Karel Teige, collage

Commento di Petr Král

Karel Šebek, agente doppio di se stesso, castoro-conquistatore, protettore e protégé di sua nonna, usurpatore e liberatore segreto di Jilemnice, mascotte e fantasma degli Istituti di Dobřany, Sadská e Kosmonosy, guardiano notturno e scrivano che con la sua veglia ha impedito che la realtà si addormentasse per sempre.

Nato il 3 aprile 1941 a Jilemnice, misteriosamente scomparso nella primavera del 1995 (come lui stesso aveva predetto in un testo degli anni Sessanta Il mondo si punisce e piange: «I cani da caccia non fiutano ancora il luogo dove una volta mi smarrii del tutto»); dal momento che il suo corpo non è stato mai trovato, si può supporre si sia trattato di omicidio più che di suicidio, che in precedenza aveva invano tentato più volte. Cugino del poeta e psicoanalista Zbyňek Havlíček, fu grazie a lui che si avvicinò alla poesia e prese a conoscere i surrealisti di Praga, soprattutto i rappresentanti della «terza generazione surrealista», con i quali socializzò intensamente prima della partenza di alcuni di loro per l’esilio. Sempre con l’aiuto di Havlíček, divenne infermiere dell’ospedale psichiatrico di Dobřany, dal quale tentò di fuggire in Germania in compagnia di due ricoverati, e dove fece ritorno come paziente successivamente all’arresto del trio di fuggitivi da parte della polizia; soggiornò di nuovo a Dobřany anche prima della sua scomparsa, avendovi trovato l’anima gemella e protettrice (e anche co-autrice) nella dottoressa Eva Válková.

petr kral 1

petr kral

L’opera di Šebek fu influenzata da una serie di artisti surrealisti, da quelli – cechi o stranieri – che aveva conosciuto grazie alla sua opera di instancabile copista dei loro testi, a quelli che prese a frequentare di persona. Dai poeti che lo colpivano in modo particolare non esitava a prendere in prestito temporaneamente sia il tono sia l’intero stile figurativo, sviluppandolo, però, in  modo proprio e portandolo a nuove conclusioni e a scoperte di paesaggi sconosciuti. Nella sua poesia possiamo distinguere varie fasi; dopo i primi testi di inizio anni Sessanta, dove prevale soprattutto l’influenza di Zbyňek Havlíček e Vratislav Effenberger –  e dove il lirismo del primo si fonde con “l’immaginazione critica” dell’altro  –  nel 1963 rimane ammaliato dall’opera di Stanislav Dvorský (grazie alla lettura di Binari e poi anche dei testi che faranno parte di Gioco al recinto), sviluppandone gli impulsi in sistemi erratici personali, in monologhi “assurdi” e in statici microdrammi tra le quattro mura (Conversazione, 3 volte Jilemnice); verso la fine degli anni Sessanta riecheggiano nei testi di Šebek anche le poesie dell’estensore di questa nota, con il quale è in sistematica corrispondenza epistolare. Agli inizi degli anni Settanta, successivamente alla morte di Zbyňek Havlíček, nei testi di Šebek ricompare parzialmente il lirismo iniziale di Havlíček (soprattutto nel ciclo istigato dalla sua relazione con Hana K., conosciuta durante il suo soggiorno a Kosmonosy) e, contemporaneamente, aumenta anche il numero di immagini autodistruttive; per fortuna, però, l’umorismo rimane un tratto permanente di questi testi. Dopo diversi cicli di poesie scritti individualmente per vari amici, ai quali li invia come ripetute grida d’aiuto, scrive anche delle interpretazioni poetiche dei disegni di alcuni di essi, in particolare di Martin Stejskal (che Šebek stesso portò da Jilemnice introducendolo tra i surrealisti di Praga) e di Pavel Turnovský. Purtroppo crescono anche i suoi tentativi di suicidio e i soggiorni negli istituti, durante uno dei quali porta a termine, nel 1990 – prima di tale anno, a quanto pare, vi fu una lunga pausa nel suo lavoro, un silenzio durato vari anni – un testo esteso e, come lui stesso affermò, riscritto più volte, 3 x nulla, dove a suo modo fa i conti con Dio o con la propria “figura paterna”.

Il punto di vista delle poesie di Šebek muta nel corso degli anni, la fantastica obiettività delle immagini dei primi testi acquista successivamente un senso maggiormente psicologico, e alla fine i suoi scritti scadono in una confessione personale; František Dryje è l’unico critico ad evidenziare, a tal proposito, i limiti di un tale sviluppo, altri – come Jan Nejedlý – sottolineano invece in maniera abbastanza banale questa psicologizzazione. Ad ogni modo, le beffarde diagnosi del mondo nei testi di Šebek lasciano il campo ai resoconti sulle difficoltà che all’autore procura il vivere nel mondo; i testi vanno concentrandosi sempre più su poche permutazioni di motivi ossessivi,  mentre assistiamo ad una nuova ripresa lirica in quei testi scritti per la dottoressa Válková (o insieme a lei) che il poeta compone negli anni di poco precedenti la sua scomparsa. L’esperienza poetica delle prime composizioni e «corse», il cui sarcasmo e apertura al mondo per fortuna non scompaiono completamente nemmeno nelle confessioni successive, continuando così ad aprire anche alle scoperte poetiche impersonali e agli sguardi innovativi sulla realtà.

fotofilm realizzato da Cristina Boldrin e Disan Danilov Дисан Данилов per il Ponte del Sale

Contrariamente alle affermazioni di alcuni commentatori, anche gli scritti creativi iniziali di Šebek possono essere considerati poesia, ma quei testi improvvisamente crescono in ampiezza ed entrano in una particolare tensione con la prosa, alla quale a tratti si avvicinano; nei testi più lunghi di Šebek, inoltre, i brani di prosa sono intervallati da versi, mentre alcuni sono scritti completamente in prosa. Nel percorso dal delirio surrealista all’ossessione  “involta su se stessa” alla maniera di Dvorský, Karel crea anche un particolare stile ostinatamente descrittivo, con il quale gioca con i più piccoli dettagli di scenari e scene della vita quotidiana (Il giorno di scuola murato, Discussione) e al cui impatto coinvolgentemente mostruoso partecipa anche la costruzione della frase, anormalmente estesa (catene illimitate di complementi aggettivali e avverbiali) sommariamente dichiarata dai critici come mera goffaggine. Nei testi più tardi, all’oscillazione tra versi e prosa va aggiungendosi anche lo snodamento dei diversi significati oggettivi e simbolici delle espressioni usate, dove anche i più urgenti degli ultimi continuano a serbare la possibilità di un ritorno e la capacità di ritrasformarsi dalle immagini dell’ansietà di Šebek in un coltello o in una vespa veri e propri. Il verso del poeta, è vero, perde, con la sua tendenza alla confessione, l’estensione prosastica e si accorcia sensibilmente, ma anche in questo senso non chiude la via del ritorno: nelle interpretazioni delle opere di pittori suoi amici, nel testo dove alle visioni in libertà si alterna il loro commento autoriale “auto-critico” (Poche parole aggiuntive) o nella meditazione notturna 3 x nulla, il verso riacquista ampiezza e anche una struttura dettagliata, il monitoraggio dello sviluppo del pensiero poetico supera la sua sintesi figurativa.

I periodi più ispirati della sua opera sembrano essere gli anni 1962-1963, 1973-1974 e quelli a cavallo degli anni Settanta e Ottanta. La seguente selezione dei suoi scritti è tratta dagli archivi personali di Stanislav Dvorský, Jan Gabriel e mio personale. Le uniche correzioni che ho apportato riguardano evidenti refusi ed errori grammaticali.

Giorgio Linguaglossa specchio (2)

Giorgio Linguaglossa in ascensore, Praga, hotel Bila Labut, 21 agosto 2018

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Un compiuto progetto poetico di azzeramento del sensorio – Una poesia composta interamente di «stracci»

«Come un pescatore che cattura se stesso con l’amo»

Nella poesia di Karel Šebek ci troviamo il «chiacchiericcio», una grandissima quantità di chiacchiericcio, discorsi strampalati, scombiccherati, casuali, variegati. Poesia magistrale nel suo sottrarsi a qualsiasi intentio comunicativa o comunicazionale, a qualsiasi intenzione suasoria, assertoria, assolutoria, consolatoria, ma anche rigorosamente severa nel suo ritrarsi dinanzi a qualsiasi reintroduzione del «senso» (parente del suasorio e del sensorio e quindi morfologicamente concetto conformistico). Karel Šebek è forse tra i poeti cechi che ho letto nelle traduzioni di Antonio Parente, l’autore più nichilistico il più drastico nel suo progetto di disimpegno nel disegno di una poesia priva di funzione poetica, di utilizzabilità. Una poesia infungibile e inutilizzabile che avrebbe mandato in visibilio Pasolini e avrebbe fatto infuriare Montale. Leggiamo qui:

«…in cortile crescono i surrealisti e fanno smorfie agli esistenzialisti mentre m metto in piedi davanti alla mia porta come se facessi la fila per la carne.

In realtà ho cominciato a trasformarmi in cane giù all’inizio del testo quando mi sono addormentato alla macchina da scrivere col metro in mano. Ma il mio abbaiare si sentirà solo tra un istante. Finora luccica al buio soltanto il collare, tempestato di mirtilli. le orme portano dalla porta al tavolo e poi continuano nelle singole pagine. Ce ne sono esattamente tante quante i residenti di questa casa. Per il momento non ci diamo fastidio l’un l’altro quando scriviamo anche se abbiamo tutti la stessa pelliccia.

(Le righe successive devono essere lette solo con gli occhi chiusi. Allo stesso modo sono anche state scritte. Chi non lo farà sia pronto a sopportare le conseguenze delle proprie azioni:)».

Noi sappiamo che nella poesia italiana che si fa oggi, ad esempio quella  che corre in certa editoria maggioritaria, si utilizza un «chiacchiericcio», un descrittivismo tipico dei chierici, un descrittivismo senza costrutto, senza teleologia, senza metafisica, a vanvera, una fraseologia-pretesto, senza contesto, che è la contraffazione della «chiacchiera» eliotiana, quella sì, di nobile ascendenza!. In Eliot c’è sì la chiacchiera, ma dietro di essa c’è una metafisica, è questa la differenza tra i poeti di rango e i versificatori di oggidì. Nella poesia neorealista che si fa oggi in Italia non c’è davvero niente da scoprire, non c’è nessun accadimento, non c’è evento. L’aspetto grottesco del neorealismo fraseologico nostrano è che i letterati domenicali vogliono apparire intelligenti, e invece la poesia tira loro un tiro mancino, li sgambetta, gettandoli sul lastrico della banalità.

In Šebek, dicevo, c’è un progetto poetico agguerrito, micidiale, perseguito con grande severità: quello di voler sottrarsi a qualsiasi utilizzazione del suasorio e/o dell’anti suasorio. La sua poesia è esteticamente inaccettabile, e tale vuole essere; vuole essere qualcosa di infungibile. Un progetto poetico serissimo che non concede nulla a nessuno, che chiude tutti i rubinetti all’ermeneutica su ciò che è del poetico e dell’anti poetico, o dell’anipoetico, su ciò che è sensato e su ciò che non lo è. Qui siamo veramente dinanzi ad una scrittura ridotta allo zero della significazione in sibemolle, neutralizzata in quanto consapevole del proprio effimero non-progetto.

Ora, dicevo, questo non-progetto, questo grottesco-non-grottesco, che è un progetto perseguito con grande determinazione, portato alle sue estreme conseguenze, ha qualcosa di grandioso e di serissimo. Un compiuto progetto poetico di azzeramento del sensorio. Una poesia composta interamente di «stracci», come noi della nuova ontologia estetica stiamo  propugnando da tempo. Come scrive Petr Král, Šebek «con la sua veglia ha impedito che la realtà si addormentasse per sempre».

Karel Sebek

Karel Šebek (1941?)

Poesie di Karel Šebek

Questa città è una purea pepata di tanto in tanto dai poliziotti
in libreria
la carta si rivolta
insieme allo stomaco
la carta è la coccinella dai sette punti lo stomaco perfettamente
vomitevole
da qualche parte sopra la ringhiera dell’alba
perché non voglio sottrarmi alla malattia mortale della notte
la sola a produrre i batteri fantastici della poesia
contagiosa come l’idea di se stessi in un film
visto attraverso lo spioncino nella camera da letto del lupo
è stato tanto tempo fa
sento ancora il colpo di martello
nel bel mezzo della mia nascita
quando al mio posto è giunta la peste e lo scorbuto
la peste è giunta come si è allontanata
sono la peste nelle arterie della salamandra
bombardata da tempo immemorabile da un sacco di bombi
sopra di me il boccale come la bandiera sul defunto
la cicoria della morte fiorisce lentamente
come si va sformando il tendone da circo sul mondo
e come forse una volta scomparirà per sempre il terribile spettro
dell’essere umano
il rumore infernale della macchina che mi fa la terza guerra
mondiale nella testa
alla quale romperei volentieri il muso che le manca così
dannatamente
come a me i trampoli alti centinaia di metri
in modo che conosca la delizia oltrenube della solitudine
in modo che possa finalmente liberarmi dalla catena maledetta
delle parole
e il mio amore non marcisca sul foglio
le frasi si intrecciano si annodano perciò invidio anche il gomitolo
di serpenti
sono veri compagni con i testicoli come se mandati dal cielo
ed è una frase la cui arguzia riempie la pancia fino a quando
non scoppia
nel pollaio del mio sistema nervoso
e una ragazza facile che mi rende difficile il cervello
mi canta sulla strada per l’incesto
fino al punto in cui arriva l’agognato lusso della guerra

(1978)

hebenon-18-sebek_copia
* * *

Lì dove sbocciano i fiori dei naufraghi
su una nave che è porto per se stessa
infido come una scure con la quale ho colpito il bagno
a mezzanotte
poiché conosco le lune e suoi pazienti
che contemplano la luna ad ogni luna
come fosse lo stipendio mensile
dopo questi roditori davvero non rimarrà più nulla
nemmeno il piatto in mano al cameriere
questo giocoliere con la sete e la fame
diverse da quello che ho in mente
è la somma delle bolle al naso
così come il latte è proprietà delle mucche
genero il testo come un idiota
nella cassa bucata della vita
come in un cappello in cui tuona
il fulmine tradisce la sorte
e io
omaggiato di ortica al posto del rasoio
osservo il feretro della città marciare in un unico luogo
lo sgambettio da zero all’infinito
i sorrisi impastati di fango
osservo l’essenza della realtà come di un cinghiale
e il manicomio è la mia seconda casa
non sono versi da recitare sul podio
ma chiodi per la vostra bara
nella bara c’è buio
e il buio è quello che mi è rimasto dall’infanzia
è malinconico e spezzerebbe anche il cuore di un orso
che un bel giorno ha demolito la classe scolastica e mi ha mangiato
la merenda
come mille diavoli appena rilasciati dal carcere
come un libro con migliaia di orecchie d’asino reale
che mi porta ad esplorare l’interno del mio occhio
finalmente vedo davvero dentro di me
vedo l’amo che lancia un messaggio di avviso alle carpe
l’infinita solitudine del pescatore la solitudine che possiede
quest’amo
e la nostra terra lebbrosa di idiozia
l’idiozia di cui sono formato
la scacchiera sparpagliata della verginità del comunismo
poiché è notte e la notte è solitudine bellezza e sangue
poiché è notte e io noto la notte
la notte sparviero

(1978)

* * *
I denti delle unghie nel cervello
di bambino con la tenerezza di leone
davanti alla gabbia come in gabbia
il bambino con la criniera di leone
quando la pioggia recita una poesia
sul vento che lo porta
dalla scuola costruita da scheletri di insegnanti
davvero dei crani nudi
la lama prende vita nelle mie mani
nell’isola di voce o in cima alla torre
appuntita e tagliente come la solitudine di una matita inutilizzata
e le sue labbra al di là di tutti i poeti e delle loro opere
mi trasformo in un cannibale baciando le labbra
e il compasso un tempo da qualche parte traccia la copia di
un’antica foresta
vado per funghi
e i funghi raccolti come la raccolta di opere del comunismo
richiedono tatto noto solo al carnefice
ultimo nel fiacchere della speranza
il carnefice muore nell’ultimo giustiziato
e lo stupendo volto del piatto
inghiotte la fame si rimpinza di fame
la torre della fame del pranzo
quando le rose cadono dal cielo
e il giardino si solleva nell’aria
e così ci incontriamo
anche se fosse col muso rotto
e la mia insonnia
adesca gli uccelli notturni
come i maccheroni di lombrichi
al centro della città c’è la città
nella casa la casa
il mio letto con tante porte e finestre
che non ho la risolutezza di andarmene
perché esiste una sola
isola nel mio occhio
dietro le sbarre delle palpebre
quando la mostruosità di cui sono composto dorme
e dall’abbandono sguscia la poesia come un uovo che cova
la gallina

(1978) Continua a leggere

8 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, poesia ceca dl Novecento, Senza categoria

Ricorre oggi il compleanno di Petr Král. Lettura della poesia di Král dal punto di vista della Nuova ontologia estetica – Ermeneutiche a cura di Donatella Costantina Giancaspero e Giorgio Linguaglossa. Contributi di Carlo Livia e Gino Rago. Traduzioni dei testi critici di Edith Dzieduszycka e di Antonio Parente per le poesie

Praga, Moldava 1

Praga, fiume Moldava, foto di Donatella Costantina Giancaspero

Petr Král nasce a Praga il 4 settembre 1941, in una famiglia di medici. Dal 1960 al ’65 studia drammaturgia all’Accademia cinematografica FAMU. Nell’agosto del 1968 trova impiego come redattore presso la casa editrice Orbis. Ma, con l’invasione sovietica, è costretto ad emigrare a Parigi, la sua seconda città per più di trent’anni. Qui, Král si unisce al gruppo surrealista, che darà un indirizzo importante alla sua poesia. Svolge varie attività: lavora in una galleria, poi in un negozio fotografico. È insegnante, interprete, traduttore, sceneggiatore, nonché critico, collaborando a numerose riviste. In particolare, scrive recensioni letterarie su Le Monde e cinematografiche su L’Express. Dal 1988 insegna per tre anni presso l’Ecole de Paris Hautes Études en Sciences Sociales e dal ‘90 al ’91 è consigliere dell’Ambasciata ceca a Parigi. Risiede nuovamente a Praga dal 2006.

Petr Král ha ricevuto numerosi riconoscimenti: dal premio Claude Serneta nel 1986, per la raccolta di poesie Pour une Europe bleue (Per un’Europa blu, 1985), al più recente “Premio di Stato per la Letteratura” (Praga, 2016).

Tra le numerose raccolte poetiche, ricordiamo Dritto al grigio (Právo na šedivou, 1991), Continente rinnovato (Staronový kontinent, 1997), Per l’angelo (Pro Anděla, 2000) e Accogliere il lunedì (Přivítat pondělí, 2013). Curatore di varie antologie di poesia ceca e francese (ad esempio, l’Anthologie de la poésie tcheque contemporaine 1945-2002, per l’editore Gallimard, 2002), è anche autore di prosa: ricordiamo “Základní pojmy” (Praga, 2003), 123 brevi prose, tradotte in italiano da Laura Angeloni nel 2017, per Miraggi Edizioni. Attivo come critico letterario, cinematografico e d’arte, Petr Král ha collaborato con la famosa rivista “Positif “e pubblicato due volumi sulle comiche mute.

Onto Petr Kral

Petr Král, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Con Petr Král ci troviamo senza dubbio di fronte a uno dei maggiori poeti europei: più lo leggo e più me ne convinco. Certo, la sua poesia è lontanissima dalle corde foniche della poesia italiana di questi ultimi decenni. Questo dimostra proprio il valore della poesia di Král, non altro… Del resto, ricordo che il poeta praghese, in una sua noticina, avvertiva già il lettore italiano che si sarebbe trovato davanti una poesia dissimile, molto dissimile, da quella a cui è stato da sempre abituato…

La ricchezza fenomenica della poesia di Král è il risultato di un equilibrio instabilissimo tra la verosimiglianza e l’inverosimile; certi accorgimenti retorici come la sineciosi e la peritropè (il capovolgimento), il deragliamento (controllato) delle sue perifrasi, le deviazioni, l’entanglement sono gli elementi base sui quali si fonda la sua poesia, che ha il privilegio di godere dei vantaggi del surrealismo al quale Král aderì, sia a Praga che a Parigi: un surrealismo innervato nella sua storia e nella sua lingua. Egli proviene dall’esperienza del secondo surrealismo ceco filtrato attraverso la disillusione politica sopravvenuta dopo l’invasione della Cecoslovacchia ad opera dei carri armati sovietici, una esperienza traumatizzante e traumatica, che ha segnato in modo profondo molti altri poeti e scrittori praghesi. Nella prospettiva surrealista, il linguaggio cessa di essere funzionale al referente, si rende improprio alla parola, viene visto come uno strumento non utilizzabile secondo uno schema mentale di adeguazione della parola al referente.

Scrive Lacan:

«Nella misura in cui il linguaggio diventa funzionale si rende improprio alla parola, e quando ci diventa troppo peculiare, perde la sua funzione di linguaggio.

È noto l’uso che vien fatto, nelle tradizioni primitive, dei nomi segreti nei quali il soggetto identifica la propria persona o i suoi dei, al punto che rilevarli è perdersi o tradirli […]

Ed infine, è dall’intersoggettività dei “noi” che assume, che in un linguaggio si misura il suo valore di parola.

Per un’antinomia inversa, si osserva che più l’ufficio del linguaggio si neutralizza approssimandosi all’informazione, più gli si imputano delle ridondanze […]

Infatti la funzione del linguaggio non è quella di informare ma di evocare.

Quel che io cerco nella parola è la risposta dell’altro. Ciò che mi costituisce come soggetto è la mia questione. Per farmi riconoscere dall’altro, proferisco ciò che è stato solo in vista di ciò che sarà. Per trovarlo, lo chiamo con un nome che deve assumere o rifiutare per rispondermi.

Io m’identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto. Ciò che si realizza nella mia storia non è il passato remoto di ciò che fu perché non è più, e neanche il perfetto di ciò che è stato in ciò che io sono, ma il futuro anteriore di ciò che sarò stato per ciò che sto per divenire.»1]

1 J. Lacan Ecrits, 1966, Scritti I, trad. it. Einaudi, 1974, p. 293

Oggi, probabilmente, non si può scrivere, in Europa, una poesia veramente moderna, senza fare riferimento, in qualche modo, al retaggio del surrealismo: il surrealismo inteso come allontanamento consapevole del referente e dal referente. In Italia, nella tradizione poetica di questi ultimi decenni (con l’ottima eccezione della poesia di Angelo Maria Ripellino e di Maria Rosaria Madonna e a parte, ovviamente, gli autori della «Nuova ontologia estetica»), non c’è davvero molto del surrealismo: siamo ancora invischiati e raffreddati dentro un concetto di verosimiglianza con il «reale» che ha finito per impoverire la gamma espressiva della poesia italiana.
Dunque, siamo grati ad Antonio Parente per aver reso in mirabile italiano la poesia di questo “ostico” poeta ceco; altrettanto lo siamo all’editore Mimesis Hebenon che, con le sue pubblicazioni, ha fornito una sponda importantissima a quanto andiamo scrivendo intorno alla nuova poesia europea.

Il segreto di questa poesia è in quel concetto di «continuamente presente» di cui parla Petr Král, è in una modalità espressiva che non contempla la «memoria» e, al pari della «musica», risulta incoglibile, se non come assolutamente presente, unicamente presente. «Presente» come manifestazione paradossale dell’Assoluto, assoluto contro – senso, assoluto paradosso, assoluta incoglibilità del paradosso. Quel «presente» che rimane sempre incoglibile. Alla luce di questa impostazione krláiana, tutti i presenti si equivalgono, tutti sono compossibili e tutti assurdi, assoluti e, quindi, inconsistenti, incoglibili se non attraverso esso «presente». È questo il fulcro della concezione della vita e dell’arte di Petr Král. Ed è questa, senza ombra di dubbio, la linea di ricerca della «Nuova ontologia estetica».

Ciò che riesce di problematica identificazione, e perfino incomprensibile, nella poesia di Petr Král dal punto di vista della poesia italiana degli ultimi decenni, diventa pienamente intellegibile dal punto di vista della «Nuova ontologia estetica». Com’è possibile? Come può accadere questo? La risposta all’interrogativo traspare dai contributi che seguono, di Carlo Livia, di Gino Rago, è negli appunti critici di Donatella Costantina Giancaspero, così come credo sia in queste mie riflessioni. Quanto noi stiamo dicendo e facendo da tempo, è riconoscere e affermare che una nuova poesia sorge sempre e soltanto quando si profila un  nuovo modo di concepire il linguaggio poetico.

Ad esempio, negli autori della «Nuova ontologia estetica» si verifica un uso di alcune categorie retoriche piuttosto che di altre: innanzitutto la categoria retorica fondamentale (che poi, in realtà, non è una categoria retorica, ma un procedimento che concerne il modo stesso con il quale si concepisce l’essenza e la funzione del linguaggio poetico), ovvero il concetto di verosimiglianza tra il «linguaggio» e il «reale». Nei loro testi, non si dà alcuna corrispondenza equivalente e/o mimetica tra la «parola» e l’«oggetto» del reale, non si dà «corrispondenza» affatto, non si dà alcuna «riconoscibilità» a priori, in quanto la «riconoscibilità» deve essere scoperta volta per volta nell’ambito del dispiegamento del discorso poetico, deve essere «ricostruita» ogni volta ex novo. Così come  accade nella poesia di Petr Král, il raffreddamento della composizione linguistica dà luogo ad uno zampillio di deviazioni, il linguaggio viene utilizzato per una «ricostruzione» non più «mimetica» del reale, ma ultronea, sovra reale.

Un augurio speciale a Petr Král nel giorno del suo compleanno.

petr kral 1

Petr Král

Herméneutique de Giorgio Linguaglossa

(Traduction par Edith Dzieduszycka)

Avec Peter Kràl nous nous trouvons sans aucun doute en face de l’un des principaux poètes européens: plus je le lis plus je m’en persuade. Certes, sa poésie est bien loin des cordes phoniques de la poésie italienne de ces dernières décennies.  Ce qui démontre précisément la valeur de sa poésie, rien d’autre… Du reste, je me souviens que le poète praguois, dans une de ses petites notes, avertissait déjà le lecteur italien qu’il se serait trouvé devant une poésie différente, très différente de celle à laquelle il avait été habitué…

La richesse phénoménale de la poésie de Kràl est le résultat d’un équilibre très instable entre la vraisemblance et l’invraisemblable; certains moyens rhétoriques  come la sineciosi

e la peritropè (le renversement), le déraillement (contrôlé) de ses périphrases, les déviations, l’entanglement. sont les éléments base sur lesquels se fonde sa poésie, qui possède le privilège de jouir des avantages du surréalisme  auquel Kràl a adhéré, à Prague comme à Paris: un surréalisme innervé dans son histoire et dans sa langue. Il provient de l’expérience du second surréalisme tchèque, filtré à travers la délusion politique survenue après l’invasion de la Tchécoslovaquie par le chars soviétiques, une expérience traumatisante et traumatique, qui a marqué profondément beaucoup d’autres poètes et  écrivains praguois. Dans la perspective surréaliste, le langage cesse d’etre fonctionnel au référent, il devient impropre à la parole, considéré comme un instrument non utilisable selon un schéma mental d’adaptation de la parole au référent.

Lacan écrit:

“Dan la mesure où le langage devient fonctionnel il se rend impropre à la parole, et quand cela devient trop caractéristique, il perd sa fonction de langage.”

Nous savons l’usage fait dans les traditions primitives, des noms secrets à travers lesquels le sujet identifie sa propre personne ou ses dieux, au point que les relever correspond à se perdre ou à les trahir (…)

Enfin, c’est dans l’intersubjectivité des “nous” qu’il assume, que se mesure dans un langage la valeur de sa parole.

Par une antinomie inverse, on observe que plus l’usage du langage se neutralise en se rapprochant de l’information, plus on lui attribue des redondances.

Effectivement la fonction du langage n’est pas d’informer mais d’évoquer.

Ce que je cherche dans la parole est la réponse de l’autre. Ce qui me constitue  en tant que sujet est ma question. Pour me faire reconnaitre de l’autre, je profère ce qui a été  seulement en vue de ce qui sera. Pour le trouver, je l’appelle avec un nom qu’il doit assumer ou refuser pour me répondre.

Je m’identifie dans le langage, mais seulement en m’y perdant comme un objet. Ce qui se réalise dans mon histoire n’est pas le passé lointain de ce qui fut parce qu’il n’est plus, et non plus le parfait de ce qui a été dans ce que je suis, mais le futur antérieur de ce que j’aurai été pour ce que je suis en train de devenir.” 1)

J:Lacan Ecrits, 1966, trad. it. Einaudi, 1974, p. 293

Aujourd’hui il est probablement impossible, en Europe,  d’écrire une poésie réellement moderne, sans se référer de quelque façon, à l’héritage du surréalisme: le surréalisme entendu  come éloignement conscient du référent et au référent. En Italie, dans la tradition poétique de ces dernières décennies (avec l’excellente exception  de la poésie de Angelo Maria Ripellino et de Maria Rosaria Madonna, et à part, évidemment, les auteurs de la “Nouvelle ontologie esthétique”), il y a bien peu de surréalisme: nous sommes encore englués et refroidis dans un concept de vraisemblance avec le “réel” qui a fini par appauvrir la gamme expressive de la poésie italienne.

Nous sommes donc reconnaissants à Antonio Parente pour avoir admirablement traduit la poésie de ce difficile poète tchèque; comme nous le sommes envers l’éditeur Mimesis Hebenon qui, avec ses publications, a fourni un terrain d’envol important pour ce que nous sommes en train d’écrire concernant la nouvelle poésie européenne.

Le secret de cette poésie réside dans ce concept de “continuellement présent” dont parle Petr Kràl; il s’agit d’un mode expressif qui ne contemple pas la “mémoire” et,  de même que pour la musique, impossible à cueillir, se non en tant qu’absolument présent, uniquement présent. “Présent” comme manifestation paradoxale  de l’Absolu, absolu contre-sens, paradoxe absolu , impossibilité absolue à cueillir le paradoxe. Ce présent” qui reste toujours impossible à cueillir. A la lumière de cette structure “kralienne”, tous les présents s’équivalent, ils sont tous possibles ensembles  et tous absurdes, absolus et par conséquent inconsistants, “incueillables” si ce n’est à travers lui-même, “présent”. Là se trouve l’épicentre de la vie et de l’art de Petr Kràl. Et c’est là que se trouve, sans ombre de doute, la ligne de recherche de la “Nouvelle ontologie esthétique”.

Ce qui semble difficile à identifier, et même incompréhensible, dans la poésie de Petr Kràl du point de vue de la poésie italienne des dernières décennies, devient pleinement intelligible vu de la part de la “Nouvelle ontologie esthétique”.  Comment est-ce possible? Comment cela peut-il se produire? La réponse à cette demande apparait à travers les contributions suivantes, de Carlo Livia, Gino Rago, e dans les notes critiques de Donatella Costantina Giancaspero, ainsi que dans mes réflexions. Ce que nous disons et faisons depuis longtemps est reconnaitre et affirmer qu’une nouvelle poésie nait toujours et seulement avec l’apparition d’un nouveau mode de concevoir le langage poétique.

Par exemple, dans les auteurs de la “Nouvelle Ontologie esthétique”, on peut observer l’usage de certaines catégories rhétoriques  plutôt que d’autres: principalement la catégorie rhétorique fondamentale (qui en réalité n’est pas une catégorie rhétorique, mais un procédé qui concerne le moyen même avec lequel on peut concevoir l’essence et la fonction du langage poétique), autrement dit le concept de vraisemblance entre le “langage” et le “réel”. Dans leurs textes, il n’existe aucune correspondance équivalente et/ou mimétique entre la “parole” et “l’objet” du réel; il n’existe aucune “correspondance”, aucune “reconnaissance” a priori, étant donné  que la “reconnaissance” doit être découverte pas à pas au cours du déploiement du discours poétique, doit être “reconstruit” neuf chaque fois. Ainsi que nous le constatons dans la poésie de Petr Kràl, le refroidissement de la composition linguistique donne lieu à un jaillissement de déviations, le langage sert à une “reconstruction” non plus “mimétique” du réel, mais en dehors et au-dessus du réel.

Nos vœux très spéciaux à Petr Kràl pour le jour de son anniversaire.

Praga, Moldava.JPG

Praga, fiume Moldava, foto di Donatella Costantina Giancaspero

Ermeneutica di Donatella Costantina Giancaspero

In merito alle differenze, sappiamo che Petr Král è del tutto consapevole della distanza che divide la propria poesia da quella italiana. Lo dichiara esplicitamente nella nota introduttiva all’antologia Tutto sul crepuscolo:

«Di sicuro la mia poesia è necessariamente un po’ lontana dalla tradizione poetica italiana; nonostante il mio amore per l’Italia (e le poesie di questa raccolta che vi si sono ispirate direttamente) provengo da altri luoghi, da altri orizzonti, e non tutto quello che offro può risultare allettante ed eloquente per il lettore italiano. Perciò è anche possibile che vi sia uno scontro tra le mie e le sue abitudini e preferenze; laddove nella poesia italiana prevale la fluidità del canto, i miei sguardi alla realtà, spesso piuttosto perfidamente obliqui, possono anche suscitare un minimo di disturbo. Tuttavia, voglio credere che nemmeno in questo caso il mio confronto con il lettore italiano sia vano, e che ne risulti almeno qualcosa di benefico per entrambe le parti».

Petr Král ci avverte anche che, per questa antologia tradotta in italiano da Antonio Parente, ha selezionato in primo luogo le poesie ispirate all’Italia. Evidentemente, volendo così omaggiare il nostro Paese. Ma, come puntualizza nella sua nota:

«Ogni selezione di testi dal corpo poetico di un autore è necessariamente una semplificazione, mette in risalto alcuni aspetti dell’opera, e ne esclude altri che ne costituiscono un supplemento di precisazione e arricchimento – o persino un contrappeso necessario. Ciò è vero anche quando – come nel caso di questo volume – la scelta è opera dell’autore. Nemmeno lui – fortunatamente – sa tutto della sua opera, può anch’egli trascurare aspetti importanti così come sottolinearne in maniera un po’ eccessiva (ossessiva) altri. Io stesso mi sono accorto soltanto dopo aver selezionato i testi che queste poesie in maggior parte “hanno luogo” fuori, all’aria aperta, e soltanto a tratti mettono in relazione questa loro estensione con lo spazio interno. Può darsi che questa scelta sia derivata – senza esserne stato precedentemente consapevole – proprio dalla mia idea dell’Italia come di uno spazio ideale per la libertà umana; ad ogni modo, non ho cambiato nulla della mia scelta, nella speranza che sarà il tempo stesso a rivelarne il suo significato nascosto».

Ogni «selezione di testi» – dice Král – è una «semplificazione». Perciò, credo che non si possa conoscere in pieno un autore se non leggendone almeno due o tre opere intere.

La poesia di Král ci libera dall’obbligo di mirare alla cosa, e libera la stessa poesia di dover sempre mirare allo scopo della significazione; la cosa, se c’è viene colta attraverso un processo di aggiramento e di concentrazione intensiva, infrange i limiti costituiti dalla abitudine che noi abbiamo di pensare la cosa nell’assetto linguistico consolidato dalle norme linguistiche e sintattiche, perché i pensieri, quelli profondi è inevitabile che si rinnovino incessantemente altrimenti l’esperienza della cosa ne sarebbe impedita o offuscata. È la consequenzialità imprevedibile degli sviluppi delle fraseologie kraliane quella che ci offre una visione inedita dell’oggetto; ogni «deviazione» è un impensato che apre le porte del pensato, ogni «deviazione» è un indeterminato che infrange il determinato, e il contenuto di verità, se c’è, si dà nella dimensione della costellazione in divenire che non è mai un percorso sintatticamente automatico o unidirezionale ma è un percorso snodato, che contiene degli shifter, degli scambi, snodabile e orientabile all’interno di una vastissima gamma di possibilità espressive. La pratica della poesia è intesa da Král come una pratica domestica del pensiero, del pensiero che riparte ad ogni momento da zero, che vuole appropriarsi di ogni singola esperienza ma che, per assumersi questo compito, deve ogni volta ripartire da un punto dietro il quale non c’è più nulla. Quello che appare come un esercizio stilistico è in realtà un esercizio spirituale, una pratica ascetica, una via laica verso l’ascesi della composizione poetica.

E allora, l’augurio che rivolgo a Petr Král nel giorno del suo compleanno, è proprio quello di poter vedere presto tradotti in italiano molti dei suoi libri.

Herméneutique de Donatella Costantina Giancaspero Continua a leggere

19 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, nuova ontologia estetica, poesia ceca dl Novecento, Senza categoria

Sonia Raiziss (1906–1994), Poesie scelte, da A caduta libera, Mimesis Hebenon, 2018, pp. 140 € 12 con uno scritto di Alfredo de Palchi e traduzione di Elisa Biagini, un Appunto di Giorgio Linguaglossa

 

Foto Eliot Elisofon La vita come ripetizione infinita

Eliot Elisofon, La vita come ripetizione infinita

Postfazione di Alfredo de Palchi

Sonia Raiziss Giop de Palchi nel testamento lasciò le sue carte personali a me, amico ed ex marito, Alfredo Giop de Palchi in qualità di esecutore. Da scrittrice usava il nome di famiglia. Sonia Raiziss si presentava tanto signorile, generosa a ‘imprestare’ denaro a chi chiedeva, e mai pretendeva la restituzione contro il mio parere che imprestare soldi significa essere considerati dei nemici. Infatti, accadeva che l’amica, ora ‘nemica”, venisse anche derubata dalle persone che aiutava e che da quel momento evitavano d’incontrarla. Dalla sua signorilità si captava una modestia inconcepibile, nonostante io la caricassi di entusiasmo per il contrario. Non sparlava di nessuna persona. Se aveva qualcosa da ridire lo confessava a me, e basta.
Si comportava in tutta quella manifestazione perché di grande animo, non per timori. Non ne aveva.
Politicamente socialista, evitò di farsi intrappolare dal mccartismo dei tardi anni ’40 e primi anni ’50 trasferendosi a Parigi dove, nell’autunno del 1951, la incontrai al “Café de Flore”, e restò amica di comunisti ed ex comunisti in carcere negli Stati Uniti oppure in esilio, come il romanziere Richard Wright.
Figlia di un padre scienziato e professore di chimica alla University of Pennsylvania, dove creò il dipartimento di chimica e dove tuttora esiste un laboratorio in nome di George Raiziss, e di una madre che, come pioniera della professione medica, non poteva allora praticare perché donna, da adolescente iniziò a comporre versi. La sua prima silloge Through a Glass Darkly, apparve a Parigi con le Editions du Phare; con la Mercure de France, 1948, uscì una raccolta di brevi studi critici su La poésie americaine “moderniste” (1910-1940); con la University of Pennsylvania Press, 1952, il volume di critica The Metaphysical Passion: Seven Modern American Poets and the Seventeenth–Century Tradition, ristampato nel 1970 da Greenwood Reprinting; e con New River Press, 1977, la seconda raccolta di poesie Bucks County Blue.
Molto in succinto ho descritto la personalità complessa e la bibliografia di Sonia Raziss, decessa all’entrata primaverile del 19 marzo 1994.
Dal materiale ereditato, già in deposito negli archivi della “Beinecke Rare Book & Manuscript Library, Yale University”, ho tratto la scelta della presente raccolta A caduta libera. Ho creduto e deciso di soffermarmi sui testi degli ultimi suoi venticinque anni di attività, basandomi su quelli editi in varie riviste e su quelli che mi chiese di leggere nel periodo della composizione. È una raccolta che il tempo trascorso giudica valida. Quando incoraggiata da me a scartare la sua modestia, a mostrare invece grinta e arroganza verso chiunque, Sonia mi ascoltava sorridendo con devozione ma anche con soppresso sarcasmo che spiegava tutto: “I’m not you, crazy”, diceva. Io ho ancora entusiasmo per la sua figura, assente, rispetto per il suo lavoro sulla pagina che lei stessa ha trascurato, per dedicare trentaquattro anni alla direzione della rivista “Chelsea”, e per la signorilità completa che è stata in persona.

Sonia Raiziss 2

Sonia Raiziss

Appunto di Giorgio Linguaglossa

Io parafraserei le poesie di Sonia Raiziss così:

La poesia di Sonia Raiziss nasce da un percorso cosmopolita. Direi che la sua poesia può nascere quando all’orizzonte si spegne il linguaggio poetico di Carver. Quando un orizzonte di parole viene illuminato a piena luce, un secondo orizzonte non è ancora visibile, c’è ma non è visibile. Bene ha fatto dunque Alfredo de Palchi a raccogliere il meglio delle poesie di Sonia Raiziss degli ultimi 35 anni, adesso forse la sua poesia può trovare un lettore. A me la sua poesia piace, apprezzo in particolare il suo tentativo di parlare un’altra lingua, non più quella del minimalismo americano ma una lingua ricca di cose e di affettività e di perplessità psicologiche, perché non è mai troppo tardi per pensare in un altro linguaggio.

Non è troppo presto
per essere così tardi?

Poesie dei Sonia Raiziss

Kitchen clock

All along you had been yearning
for what––skeletal dial
mockup of ritual
moving in the same solo dance
with one skinny bone inviting
me into a wall of silence

Every day you pulled a hair
from my head I gave no sign
from the dreadful preoccupation
of living

Only last night in a strange eclipse
I thought to wait at the door
to surprise your implacable face
swimming in moonlight

Your finger points to no more numbers
moon sun
the flower hangs straight down
by the rigor of its stopped stem.

.
Orologio da cucina

Fin dal principio avevi desiderato
questo––quadrante scheletrico
simulacro di rituale
che si muove al solito assolo
con un magro osso che mi invita
dentro un muro di silenzio

Ogni giorno che hai strappato un capello
dalla mia testa io non ho dato segno
della terribile preoccupazione
del vivere

Solo la notte scorsa in una strana eclisse
ho pensato di aspettare alla porta
per sorprendere la tua implacabile faccia
che nuota nella luce lunare

Il tuo dito non punta più nessun altro numero
luna sole
il fiore pende giù reso dritto
dalla rigidità del suo gambo bloccato.

.

For those who died too early too late

The wind twists its watch.
The leaves fly in flocks,
hesitate, spiral down singly, are lost or
huddle. Birds hit from ambush
shudder down in doubt
if the aim is devious
and the throe ends elsewhere.
They sigh, hushed, resigned.

How easy to submit, to let the days
peel off the barked calendar. It’s
different in the killing fields,
forms shoveled under hills into holes
all over the pockmarked planet.
A dirty rag––surrender
is not the flushed leaf.

In the rafters
committees of blackbirds confer
in the dark for the next passage,
consult compasses. But if the needle
in the piled bones forgets, the compost of flesh
still stinks and the sifting
of the ashes hisses.

Around my amazed shoes,
the unconscious earth munches.
Berries or parsley will come up,
barely. The youngest dead have no next year;
most are childless.

Perpetual exiles in their own land,
expatriates in the round corners
of the globe, some get dug up,
deported in long boxes.

Per quelli che sono morti troppo presto troppo tardi

Il vento torce il suo orologio.
Le foglie volano in stormi,
esitano, scendono a spirale una ad una, sono perdute o
ammucchiate. Uccelli colpiti da un’imboscata
rabbrividiscono in giù dubbiosi
se il fine è equivoco
e lo spasmo si conclude in altro luogo.
Sospirano zittiti, rassegnati.

Come è semplice sottomettersi, lasciare che i giorni
sbuccino lo scorticato calendario. È
diverso nei campi di morte,
forme sospinte sotto colline dentro buchi
ovunque sul pianeta butterato.
Un straccio sporco – la resa
non è la foglia andata giù con l’acqua.

Sulle travi
comitati di merli conferiscono
nel buio per il prossimo viaggio,
consultano bussole. Ma se l’ago
nelle ossa ammucchiate dimentica, la concimaia di carne
ancora puzza e il vaglio
delle ceneri sibila.

Intorno alle mie stupite scarpe
l’ignara terra mastica.
Bacche o prezzemolo, radi, verranno fuori.
I morti più giovani non hanno un prossimo anno;
la maggior parte sono senza figli.

Esuli perpetui sulla loro stessa terra,
espatriati ai tondi angoli
del globo, alcuni sono riesumati,
deportati in lunghe bare. Continua a leggere

5 commenti

Archiviato in poesia americana, Senza categoria

John Taylor, Poesie da L’oscuro splendore, Mimesis Hebenon, 2018 pp. 88 € 10, traduzione di Marco Morello, con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Gif station metro

il vestito strappato che è la tua vita

John Taylor, poeta, scrittore e traduttore, e Caroline François-Rubino, pittore, lavorano insieme dal 2014. Il loro primo libro, Boire à la source / Drink from the Source, è pubblicato da Éditions Voix d’encre in marzo 2016. Il loro secondo libro, Hublots / Portholes, sarà pubblicato questa estate da Éditions L’Œil ébloui. John Taylor è anche autore di altre sei opere di racconti, di prose brevi e di poesie, di qui The Apocalypse Tapestries (2004) e If Night is Falling (2012). The Apocalypse Tapestries è stata pubblicata in italiano con il titolo Gli Arazzi dell’Apocalisse (Hebenon) et la sua raccolta di prose brevi, If Night is Falling, con il titolo Se cade la notte (Joker), i due libri nella traduzione di Marco Morello. John Taylor è editor e co-traduttore d’una ampia raccolta dei testi del poeta italiano Alfredo de Palchi, Paradigm: New and Selected Poems (Chelsea Editions, 2013). Ha ottenuto nel 2013 una borsa notevole dell’Academy of American Poets per il suo progetto di tradurre le poesie di Lorenzo Calogero — libro che è stato pubblicato: An Orchid Shining in the Hand: Selected Poems 1932-1960 (Chelsea Editions). Sito di John Taylor http://johntaylor-author.com/

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Ogni linguaggio poetico ha una propria Grundstimmung (tonalità emotiva dominante), e ogni linguaggio poetico designa incessantemente «le rien du je que je suis» (R.Barthes); ogni linguaggio poetico rende evidente che il linguaggio non è il predicato di un soggetto ma è esso stesso il soggetto di questa soggettività che è assenza, e l’assenza è produzione di forme significanti che prendono il luogo della parola. Il soggetto è un vuoto che pulsa, vuoto che respinge il pieno nel momento medesimo che lo produce. Ogni poesia nasce da una mancanza di senso e di pieno e dal negativo del vuoto e dal tentativo di trovare un senso del vuoto per il tramite del pieno delle parole. È impossibile per la poesia moderna partire da un pieno, perché il pieno si dà sempre nella configurazione del vuoto. Possiamo anche dire così: ogni poesia ha una propria tonalità  e direzione di senso. Ogni poesia ha, come dire, una sorta di auto coscienza, ogni poesia pone una distanza tra l’io del poeta e il poetatum, questa distanza è appunto la tonalità dominante: una vibrazione di elementi sonori che sono prima della parola.

Proviamo a dirlo in altri termini: noi tutti sperimentiamo ogni giorno il grado di estraneità a noi stessi, e questa estraneazione ha la sua ubicazione nel linguaggio poetico che adottiamo. Possiamo dire che ogni poeta espropria questa estraneità per trasferirla nel proprio linguaggio poetico? Se sì, allora questo libro di John Taylor manifesta questo fenomeno ben visibile nella disseminazione, nella discontinuità, nella frammentarietà, nella frantumazione della versificazione; si tratta quindi di espropriazione, e non di una riappropriazione di alcunché. Il linguaggio poetico è lo specchio ustorio che ci mostra il vero volto della nostra estraneità a noi stessi, è un simulatore di senso anche e soprattutto quando il senso non c’è, un simulatore di senso che scalda i motori a far luogo da una assenza, da un vuoto. Nella simulazione non è possibile «mentire» e non è neanche possibile dire la «verità», la simulazione non è un predicato di un soggetto ma è il linguaggio stesso in azione; menzogna e simulazione sono due aspetti della stessa procedura.

Gif waiting_for_the_train

Il nostro abitare spaesante il linguaggio è la precondizione affinché vi sia linguaggio poetico

Il nostro abitare spaesante il linguaggio è la precondizione affinché vi sia linguaggio poetico, giacché non v’è possibilità di adire al linguaggio poetico senza questa pre-condizione soggettiva. C’è un esercizio dell’«abitare poeticamente il mondo» che è la precondizione affinché vi sia un linguaggio poetico, ma noi non sappiamo in cosa consista questo «abitare poeticamente il mondo» e non potremo mai scoprirlo se non mediante la poesia stessa. In questo «abitare spaesante» il linguaggio si ha un abbandono e un ritrovarsi, un trovarsi che è un abbandonarsi in ciò che non potrà mai essere né abbandonato né ritrovato, perché se lo trovassimo cesserebbe l’abbandono e se lo abbandonassimo lo potremmo sempre ritrovare per davvero, e non c’è maieutica che lo possa ricondurre dalle profondità in cui questa condizione è sepolta. Non c’è maieutica che ci possa garantire l’ingresso nel portale del «poetico», giacché esso non è un dato, né un darsi, ma semmai è un ritrarsi, un oscurarsi.

L’entrata in questa radura di oscurità apre all’Ego la dimensione illusoria e simulatoria del linguaggio poetico, essendo l’illusorietà il parente più prossimo al dire originario in quella linea genealogica che collega il linguaggio poetico al «dire originario» del quale abbiamo smarrito per sempre il filo conduttore e la chiave del senso. Allora, non resta che accettare tutto il peso del gravame di cui ci diceva Nietzsche per gettarlo a mare come inutile zavorra e alleggerirci alla massima potenza, accettare di impiegare i resti e gli scampoli, gli stracci e i frantumi quali elementi consentanei alla nostra condizione esperienziale.

La poesia di John Taylor è sensibilissima nel recapitare questa dis-connessione di tutte le cose, la frammentazione delle parole e del senso; ciò che resta è «solo il passaggio di una mano// il suo coinvolgimento// il suo coinvolgimento di allora/ nella tua vita».

è ciò che fu abbandonato

ciò che rimane in piedi
benché perduto.

Come un sensibilissimo sismografo John Taylor procede a tentoni con uno stile de-materializzato con una metratura rarefatta e pericolante che accetta il rischio di sbriciolarsi definitivamente all’atto della lettura, di assottigliarsi come scrittura per fare ingresso nel nulla dalla quale la poesia proviene nella sua linea genealogica e nel suo DNA. La poetica di Taylor ha qui il suo punto fondante: che si fonda sulla impermanenza della scrittura stessa, come un oggetto «abbandonato// l’impalcatura/ che cede la sua forma/ rivetto dopo rivetto/ sbarra dopo sbarra/ all’inevitabile inondazione…».

Taylor inserisce una distanza tra un verso e l’altro, tra una strofa e l’altra, e questa distanza è propriamente l’estraneazione di cui la poesia si fa carico, e non può non farsene carico se è poesia, quella medesima estraneazione che ci separa da noi stessi per adire un linguaggio più interno a noi stessi. Abitare una condizione esperienziale e abolirla subito dopo averla esperita è la risultanza paradossale del nostro essere nel mondo. È questo il nocciolo credo della esperienza poetica di questo libro: l’aver scoperto che in questo grattacielo di dis-connessioni e di disseminazione della sintagmazione frastica non v’è certezza se non nella «perdita» e nella avulsione.

Poesie da L’oscuro splendore

having left behind so much
except your first, your final weakness
persistent
like a forgotten heart

your only force left

—language, uncertain
fragments of faded homeland
(a homeland of sounds, of voiceless words) strands of stories
shreds of feelings from the greater cloth

you still imagine
with those voiceless words that do not fade into silence that beat like a heart
that sew and tear and resew

the torn garment that is your life

*

avendo lasciato indietro così tanto
tranne la tua prima e ultima debolezza
persistente
come un cuore dimenticato

come tua sola forza residua una lingua incerta

frammenti di patria sbiadita
(una patria di suoni, di parole afone) trefoli di storie
brandelli di sentimenti da un tessuto più grande

tu ancora immagini con quelle parole afone

che non si smorzano nel silenzio quel battito come un cuore
che cuce e strappa e ricuce

il vestito strappato che è la tua vita

 

The Five Languages

your five languages

like five streams five hills
inner landscape

*

you cup your hand to drink the water

ever something new anew
though it descends the same slope

*

words still emerge the womb unseen seen

they hesitate they doubt

motionless against the current dead branches
or trout
remembering the source

 

Le cinque lingue

le tue cinque lingue

come cinque ruscelli cinque colline paesaggio interiore

*

metti le mani a coppa per bere l’acqua

sempre qualcosa di nuovo da capo
anche se scende dallo stesso pendio

*

emergono ancora parole l’utero non visto
visto

esitano dubitano

immobili contro la corrente rami morti
o trote
che ricordano la sorgente

*

other words their flatness fits the thumb the first finger

you remember impossible fortune
skipping
across the rippled surface

*

where streams meet
you stand on the narrow bank
behind you is the endless wood sometimes you wish
for the silence of those trees windlessness

wish to walk away into the white shadows

*
imagining one language a cold current
another warm
from some deeper source

you are downstream from all the sources

*

altre parole
la loro piattezza s’adatta al pollice al primo dito

ti ricordi
che fortuna sfacciata saltellare
sulla superficie increspata

*

dove i ruscelli s’incontrano tu stai sulla stretta riva
dietro di te il bosco infinito a volte desideri
per il silenzio di quegli alberi assenza di vento

desideri incamminarti nelle ombre bianche

*

immaginando una lingua

una corrente fredda un’altra calda
da qualche sorgente profonda

tu sei a valle
di ogni sorgente

*

Foto Donna e metro 1

le tue cinque lingue/ come cinque ruscelli cinque colline paesaggio interiore

you know
those streambed stones they have been sheened
countless caresses of water

you must move on the sparkling
the whirlpools you must move on

Continua a leggere

14 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, poesia americana, Senza categoria

Giorgio Linguaglossa: Lettura comparata di due poesie di Gian Mario Villalta e di Petr Král dal punto di vista della «nuova ontologia estetica» – Commenti di Donatella Costantina Giancaspero, Carlo Livia, Gino Rago

Foto in Subway 50 years

Altrove viviamo noi, con i nostri propositi, le sconfitte / nella lotta col frigorifero, l’inferno tiepido delle bollette / e delle mollette per stendere

Faccio seguito all’intervento di Carlo Livia che ha posto nel giusto binario la nostra discussione. Che Petr Král appartenga al secondo o al terzo surrealismo praghese, è una questione storico filologica che a noi, qui, interessa fino a un certo punto. Quello che a noi interessa è la percezione, il concetto e la procedura della poesia che Král persegue e consegue con la sua opera poetica. Quello che a me appare maggiormente interessante è la portata rivoluzionaria della poesia Králiana, rivoluzionaria almeno per noi lettori italiani abituati alla lettura della poesia italiana di questi ultimi decenni.

È ovvio che, dal punto di vista della poesia italiana degli ultimi decenni la poesia di Král riesca di problematica identificazione, quasi incomprensibile. Invece, dal punto di vista della «nuova ontologia estetica» la poesia Králiana diventa pienamente intelligibile. Com’è possibile, come può essere avvenuto questo fenomeno? La risposta a questo interrogativo è già in nuce nelle riflessioni di Gino Rago, di Carlo Livia, negli appunti di Donatella Costantina Giancaspero e, credo, anche nel mio commento. Quello che noi stiamo dicendo e facendo da tempo è dire che una nuova poesia sorge sempre e soltanto quando si profila un  nuovo modo di concepire il linguaggio poetico.

Ad esempio, negli autori della «nuova ontologia estetica» si verifica un uso di alcune categorie retoriche piuttosto che di altre, innanzitutto la categoria retorica fondamentale (che poi non è una categoria retorica ma concerne il modo stesso con il quale si concepisce l’essenza e la funzione del linguaggio poetico): il concetto di verosimiglianza tra il «linguaggio» e il «reale». Negli autori della «nuova ontologia estetica» non si dà alcuna corrispondenza equivalente e/o mimetica tra la «parola» e l’«oggetto» del reale, non si dà «corrispondenza» affatto, non si dà alcuna «riconoscibilità» a priori, in quanto la «riconoscibilità» deve essere scoperta volta per volta nell’ambito del dispiegamento del discorso poetico, deve essere «ricostruita» ogni volta di nuovo.

Faccio un esempio di un tipo di poesia tipicamente italiana nella quale le parole «vedono» da vicino l’oggetto del «reale» in modo riconoscibile e condiviso. Prendo in esame un autore italiano molto noto, Gian Mario Villalta, da Telepatia (LietoColle, 2016). Leggiamo:

Strilli Catapano i suoni sono luce

Dove scola l’acqua nera tra i cocci di tegole
e i ciuffi di sorgo matto invadono le soglie
sotto i festoni di viticciòli, nell’ombra del vischio annidato sui pioppi,
una vita nuova d’insetti, di infime vittime e di minuscoli assassini feroci,
in agguato perenne tra i tubi, nei crolli dei muri, nelle canalette
interrate, ha conquistato il regno della ruggine.

Altrove viviamo noi, con i nostri propositi, le sconfitte
nella lotta col frigorifero, l’inferno tiepido delle bollette
e delle mollette per stendere, altrove noi siamo inerti
e violenti a parole, con il termo a 21, la paura di perdere
la cena fuori di sabato, e qualcosa di moda, anche poco, o l’amicizia
con un nickname, abbiamo paura, soprattutto, per la sicurezza.

Nel regno della ruggine c’è un edificio riattato
oggi vuoto di uomini soli, gentili per forza
quando arrivava il cibo.
Di loro neppure più il sorriso, di chi nel sonno stringe
il nostro paradiso.

Qui il discorso poetico è immediatamente «riconoscibile», non c’è alcuna «ridondanza», non ci sono procedure di entanglement, catene sinonimiche, metafore, non ci sono deviazioni, deragliamenti, salti temporali e spaziali, insomma, ci muoviamo in un tipico concetto di poesia come adesione della «parola» al «reale riconoscibile».
Leggiamo invece una poesia di Petr Král:

Strilli Talia la somiglianza è un addio

Sono qui
Quando dietro la silhouette maturata del passante
avanzi un po’ fino alle Zattere
tra le panchine di pietra e gli alberi come in un vecchio dipinto tremolante
– le signore sulla panchina che discutono, il fumo di luci e ombre
sparse leggere lungo la riva
tra gli alberi, pedoni, facciate rosa e grigie – ti ritroverai di nuovo lì oggi,
e te ne pentirai. Le vecchie signore sono qui come sempre, odierne e sicure,
è oggi, la pulsazione che riempie fino all’orlo i corpi e la cornice
del quadro, soltanto chi è morto
manca. Il vapore umidiccio della stiratura di vecchie flanelle, come trattengono sibili
penetra nelle fessure del giorno che si restringono, è presente come
i becconi delle gru
che si profilano minacciosi lì dietro la cala. – Di sicuro non
dimenticano nemmeno di rimpiangere nulla,
di guardare fuori dalla cornice verso il passato e scavare un po’ il quadro
col rimpianto per ciò che fu; nessuna di loro però a casa toglie
la mano davanti alla massa ringhiosa del frigorifero
e davanti al freddo dell’inverno a venire. Sono qui oggi come noi,
nessuno è in ritardo; solo il giorno d’oggi, il pulsare, pietra colma di pietra
fino al gelido midollo, l’alzare la polvere della luce e il disegno
oscurante degli alberi, delle nostre silhouette
senza un altro strato a parte la profondità della fenditura, della
percezione
e del suo pronunciamento.

(da Massiccio e crepacci, 2004)

Foto il trasporto pubblico

le signore sulla panchina che discutono, il fumo di luci e ombre / sparse leggere lungo la riva / tra gli alberi, pedoni, facciate rosa e grigie…

Dalla poesia di Gian Mario Villalta si evince che il linguaggio impiegato è pensato in quanto funzionale alla «riconoscibilità mimetica» del «reale». Nella poesia di Petr Král no, il linguaggio impiegato viene utilizzato per una «ricostruzione» non più «mimetica» del reale.

È ovvio che la «nuova ontologia estetica» guardi con molto interesse alla poesia di Petr  Král piuttosto che a quella di Gian Mario Villalta, ma non per partito presto, quanto perché nella poesia kraliana c’è un modo di intendere il «reale» in una accezione non più «mimetica» come è stato in auge nella tradizione poetica italiana maggioritaria di questi ultimi decenni, ma in una accezione diversa,  più complessa e problematica.

Mi fermo qui.

Strilli Gabriele Da quando daddy è andato viaStrilli De Palchi non si cancella niente

Scrive Lacan: «Nella misura in cui il linguaggio diventa funzionale si rende improprio alla parola, e quando ci diventa troppo peculiare, perde la sua funzione di linguaggio. Continua a leggere

2 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, nuova ontologia estetica, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Petr Král, Poesia ceca, traduzioni di Antonio Parente, con una Presentazione di Donatella Giancaspero

Laboratorio gezim e altri

Laboratorio 5 zagaroli

Quando dietro la silhouette maturata del passante avanzi un po’ fino alle Zattere

 Presentazione di Donatella  Giancaspero

Se in Internet cerchiamo Petr Král, ovvero uno dei maggiori esponenti della letteratura ceca contemporanea, verifichiamo un dato che ci rattrista e ci rallegra al tempo stesso: solo la nostra rivista telematica, L’Ombra delle Parole, gli ha dedicato ampio spazio. Pochi altri blog si sono limitati a pubblicarne due o tre poesie, al massimo, insieme a qualche breve cenno biografico, senza altro commento.

Però, l’altro giorno, cercando appunto in Internet Petr Král, mi sono imbattuta in una bella notizia: a Torino, nell’ambito della III edizione dello “Slavika Festival” (dal 18 al 25 marzo), è stata presentata l’edizione italiana di Nozioni di base (Miraggi Edizioni), un centinaio di brevi prose dello scrittore ceco, tradotte da Laura Angeloni. Precedente a questa pubblicazione, è l’eccellente antologia Tutto sul crepuscolo, che raccoglie la produzione poetica più rappresentativa di Král, realizzata con grande cura da Antonio Parente, per Mimesis (2014): lo stesso editore che, già nel 2005, aveva riunito, nel volume Sembra che qui la chiamassero neve, una pregevole selezione della poesia ceca contemporanea. Tra gli autori, il nostro Petr Král.

Nonostante questo, è sempre troppo poco per conoscere un poeta, prosatore, traduttore, saggista, autore di opere sulla storia del cinema; un grande intellettuale, insomma, che guarda la realtà con occhi “spesso piuttosto perfidamente obliqui”, come Král dichiara ironicamente nella nota introduttiva alla sua antologia Tutto sul crepuscolo.

Onto Petr Kral

Petr Král, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Ma chi è Petr Král?

Petr Král nasce a Praga il 4 settembre 1941, in una famiglia di medici. Dal 1960 al ’65 studia drammaturgia all’Accademia cinematografica FAMU. Nell’agosto del 1968 trova impiego come redattore presso la casa editrice Orbis. Ma, con l’invasione sovietica, è costretto ad emigrare a Parigi, la sua seconda città per più di trent’anni. Qui, Král si unisce al gruppo surrealista, che darà un indirizzo importante alla sua poesia. Svolge varie attività: lavora in una galleria, poi in un negozio fotografico, anche come insegnante, interprete, traduttore, sceneggiatore, critico, collaborando a numerose riviste. In particolare, scrive recensioni letterarie su Le Monde e cinematografiche su L’Express. Dal 1988 insegna per tre anni presso l’Ecole de Paris Hautes Études en Sciences Sociales e dal ’90 al ’91 è consigliere dell’Ambasciata ceca a Parigi. Risiede nuovamente a Praga dal 2006.

Petr Král ha ricevuto numerosi riconoscimenti: dal premio Claude Serneta nel 1986, per la raccolta di poesie Pour une Europe bleue (Per un’Europa blu, 1985), al più recente “Premio di Stato per la Letteratura” (Praga, 2016).

Tra le numerose raccolte poetiche, ricordiamo Dritto al grigio (Právo na šedivou, 1991), Continente rinnovato (Staronový kontinent, 1997), Per l’angelo (Pro Anděla, 2000) e Accogliere il lunedì (Přivítat pondělí, 2013). Autore anche di prosa e curatore di varie antologie di poesia ceca e francese (ad esempio, l’Anthologie de la poésie tcheque contemporaine 1945-2002, per l’editore Gallimard, 2002), è attivo come critico letterario, cinematografico e d’arte. Ha collaborato con la famosa rivista Positif e pubblicato due volumi sulle comiche mute.

La creazione poetica di Petr Král è segnata, come abbiamo detto, dall’incontro con il surrealismo. Il tema centrale è il rapporto tra realtà e immaginario. Un rapporto che, durante gli anni Settanta, diventa via via più articolato e conduce il poeta ceco verso esiti espressivi e formali di particolare interesse: la sua poesia si configura quasi come una sorta di commento della realtà, che mescola le esperienze quotidiane più banali, gli oggetti di uso comune, con l’istantanea psicologica dei personaggi, avvolti da un alone di vuoto. I luoghi descrivono gli interni domestici, dove va in scena la vita quotidiana, oppure appartengono al paesaggio urbano: strade, piazze, autobus, lampioni, treni, stazioni avanzano sulla pagina, e, spesso, un interlocutore muto condivide il colpo d‟occhio e le riflessioni che ne scaturiscono, gli interrogativi sul significato dei gesti, sul senso di un’affannosa, quanto frustrante, esistenza. Il tutto reso in modo tale da evitare il pur minimo ristagno nel cliché del patetico. In questo contesto, l’angolo visuale dal quale si osservano le cose risulta, per così dire, “spostato” rispetto alla prospettiva consueta, quella frontale, da cui ci affaccia da decenni la nostra poesia tradizionale. Viceversa, la prospettiva di Petr Král è resa di scorcio. Per questo motivo, il discorso che ne deriva non è diretto, esplicativo, ma rimane nel non-detto, è sottinteso, mascherato, indirizzato su percorsi periferici, inconsueti. Un certo ispessimento, o indurimento di espressione, e, ancora di più, il suo contrario, ovvero quel senso di ironia e auto-ironia, peculiare di talune poesie, possono essere interpretati come una reazione difensiva contro la transitorietà del mondo, contro il nulla. E l’effetto di mascheramento che l’ironia produce, quell’apparente alleggerimento della parola, rende, al contrario, più manifesta la sofferenza esistenziale e la malinconia che l’accompagna, il dramma che la suggella.

Petr Král

Appiè di fanfara

                                                                                  a Claude Courtot

Di tutti i mezzi espressivi, la musica è quello che, probabilmente, ci delude meno. Soltanto l’ascolto di alcuni dischi fonografici, quali le prime registrazioni “giunglesche” dell’orchestra di Ellington, è capace di placare almeno un po’ quella fame interiore ed indefinibile che regolarmente si impossessa di me nel periodo pre-natalizio, nelle giornate insoddisfacentemente brevi di inizio inverno e scorcio anno. Soltanto con quei suoni preziosi e soprattutto, naturalmente, con i toni leggendari della cornetta di Armstrong di fine anni Venti, riesco a venire a patti con la malinconia che mi assale nelle serate estive e di fine primavera, quando la vita rivela in maniera così opprimente tutta la sua vana bellezza. Continua a leggere

40 commenti

Archiviato in critica della poesia, poesia ceca dl Novecento, Senza categoria

LA RIVISTA SOSPENDERA’ I LAVORI DAL 12 AL 28 AGOSTO, LA REDAZIONE AUGURA AI LETTORI SERENE VACANZE – Per quest’ultimo giorno postiamo alcune Poesie di Eliza Macadan da Passi passati, Joker 2016 e Daniele Gigli da Fuoco unanime, Joker, 2016 e una nota critica di Mariella Colonna sulla poesia di Steven Grieco Rathgeb

foto roy lichtenstein interior with yellow chair

Roy Lichtenstein, interior

Giorgio Linguaglossa

11 agosto 2017

Ecco due autori che tentano strade nuove, Eliza Macadan e Daniele Gigli; quanto nuove non saprei dire, c’è ancora un eccesso di quotidianità, un eccesso di «Io»,  in specie in Eliza Macadan; mi sembra però quest’ultima una autrice  che cerca una sua autenticità di voce, direi che si nota questa ricerca di immediatezza. C’è qualcosa di buono in questa autrice e mi fa piacere proporla alla attenzione dei nostri lettori, notoriamente molto esigenti. C’è una negligenza tutta intellettuale, un aplomb, una poesia fatta di «stracci», di dettagli insignificanti come è giusto che sia. Avrei scelto queste quattro poesie, quelle meno implicate con i dettagli del quotidiano, quelle meno realistiche e più oniriche.

Quattro Poesie di Eliza Macadan (da Passi passati, Joker, 2016)

ma ci pensi?
oggi sono uscita nuda di casa
sotto la pioggia isterica
isterizzata dal fine ottobre
nemmeno un anello al dito
nessuno mi guardava
solo foglie distratte s’incollavano
al mio corpo nudo qua e là
in cerca di un punto d’appoggio
prima di sbattere sul marciapiede
ma ci pensi?
a nessuno interessa un corpo
ancora giovane

*
[…]
il mio secolo è ovunque se guardo indietro
in quella parte dell’eterno chiamato passato
è sarà ancora il mio secolo,
basta che io mi giri dall’altra parte
e vedo una creatura senza sesso
senz’anima tutta intelligenza cambiando mentre si sposta
da un pianeta all’altro in una macchina austera
messa in moto da energie nuove eppur le stesse
un occhio
quello in fronte
aperto su tutto
è il mio secolo

*
si avvicina
la stagione dei padri assenti
sono partiti per primi i cani da compagnia
nel frattempo papà guarda fuori dalla finestra
vede i tetti di Parigi
prima di pranzare sulla sedia a rotelle
nel salone vuoto
lo sguardo verso la sedia vuota di una sposa andata da tempo
donne dell’est fanno brillare la casa rimasta in piedi tre secoli interi
la montagna si è tirata indietro
sta per versare lacrime a ruscelli
in riva al Danubio da tutti e due i lati
padri sdraiati girano lo sguardo dai figli che aspettano la stessa fine
lo stesso viaggio di ritorno

*

cade il Natale prima del termine
con tutta la neve
i giorni scivolano giù con urli guerrieri
cielo e terra s’inchinano ad un profeta
che nascerà dal tubo termoionico
suoni cascano coi fiocchi di neve dagli altoparlanti
strada un’antichità recente con architetture tumorali
chi è stata per prima
la gioia o la festa
Onnipotente
Quante lacrime hai ancora da spartire
Quanto sale senza di pane hai ancora da dare ai
[tuoi figli
guarda come scompariamo svelti
leggeri
come la prima neve

*

roy lichtenstein interior with Built in Bar

roy lichtenstein interior with Built in Bar

Ecco un altro autore che vorrei segnalare:

Daniele Gigli del quale pubblico queste poesie (da Fuoco unanime, Joker, 2016)

Via Calandra, sei di sera

Qui dove ai piedi del sagrato il puzzo d’automobili e d’asfalto
sfuma sotto i passi, incenerito da un piscio di cane azzanna-gola
qui, dove la sferza ghiaccia i volti dei passanti,
è qui – fermi a contarci le ossa tra la strada e il cielo piatto,
chi in tempo chi in un oltretempo
irredimibile, significante morte.
È qui, nel porfido del marciapiede,
in questo sonno d’anima e di luce
significante morte
è qui, non oltre, non domani
che s’alzano le voci degli uomini, di chi
significante morte
chiede vita.
Su questa vita inconsapevole inginòcchiati,
pregane il silenzio ad occhi tesi.
Mormora, se il grido si è spezzato.

Né ieri né domani

«Non scambiare la croce per la quiete» s’alza una voce
da chissà che antro
mentre il tram sferraglia oltre il semaforo
e s’incurvano lungo il selciato i pali della luce.
«Non scambiarla» canta a voce folle
un grano d’incoscienza
in me o fuori di me, dall’altro.
Amare a sangue caldo, a vene aperte,
dimenticando di principio e fine, di calcolo e trattenimento.
Come il dolore scava l’ossidiana,
scortica la pietra, stiamo qui, né ieri né domani.
Prego per te, per la tua fede stanca, per la mia:
non gravi il peso più della memoria,
non più gravi dell’amore.
*

Signora, tre leopardi bianchi sedevano sotto il ginepro
nel fresco del giorno, avendo mangiato a sazietà
delle mie gambe, del mio cuore, del mio fegato e di quanto contenne
la coppa cava del mio teschio.
E disse Dio
vivranno queste ossa? Continueranno a vivere?
E tutto quanto stava nelle ossa già seccate disse berciando:
per la bontà di questa Dama,
per la sua grazia, e perché onora
la Vergine in meditazione,
per questo noi splendiamo nella luce.
Ed io che sono qui smembrato
offro i miei atti alla dimenticanza, alla posterità
del deserto e al frutto della zucca offro il mio amore.
Questo ristora
i visceri, le fibre dei miei occhi e le parti indigeste
rigettate dai leopardi.
La Signora è ravvolta
in una veste bianca, contempla, in una veste bianca.
Che la bianchezza d’ossa espii fino all’oblio
– ché in esse non c’è vita – come io son dimenticato
e vorrei esserlo, e vorrei dimenticare,
così intento, saldo nello scopo.
Quindi Dio disse
profetizza al vento, ché solo il vento
ascolterà. E le ossa cantarono berciando
il ritornello della cavalletta e dissero:
Signora del silenzio
quieta e angosciata
strappata e intera
Rosa della memoria
Rosa della dimenticanza
esausta e feconda

 
  • foto porte-moderne-leroy-merlindesign minimalista, porta marrone scuro

     

    Mario Gabriele

     

    Ovviamente, Giorgio, va a te un vivo ringraziamento per averci fatto conoscere buone poesie dopo tanta stantufferia filosofica.Le poesie di Eliza Macadan saranno pure fatte di stracci, ma si presentano omogenee nel tessuto vivo della lingua,mentre l’ultima poesia di Daniele Gigli, è veramente ineccepibile.In altre parole sembra di leggere un racconto da Genesi e da La terra desolata.di Eliot.

     
    Giorgio Linguaglossa
    11 agosto 2017
    Mi fa piacere che un poeta del livello di Mario Gabriele abbia espresso parere favorevole sui due poeti postati. Forte di questo giudizio, posto ancora qualche altra poesia di Daniele Gigli, che mi sembra poeta che ha in dotazione una metafisica, cosa molto rara oggidì, e che da quella metafisica delle parole proviene. Ricordando la massima di Brodskij:«La poesia è una terribile scuola di insicurezza e incertezza. Non si sa mai se quanto si è fatto ha qualche valore, meno ancora se si sarà in grado di fare qualcosa di buono l’indomani. Se questo non ci distrugge, l’insicurezza e l’incertezza alla fine diventano nostre amiche intime, e quasi attribuiamo loro un’intelligenza autonoma.
    Si può indovinare parecchio di un uomo dalla scelta che fa di un aggettivo».

     

    [Iosif Brodskij, In memoria di Stephen Spender, traduzione di Arturo Cattaneo, Milano, Adelphi 2003, p. 278]

    Ancora qualche altra poesia di Daniele Gigli da Fuoco unanime, Joker, 2016

    3
    Al mezzo giro della seconda scala,
    lì mi voltai e vidi in basso
    la stessa forma avvinta alla ringhiera
    sotto un vapore d’aria fetida
    in lotta col demonio delle scale che indossava
    il volto ingannatore di speranza e disperanza.
    Al nuovo giro della seconda scala
    lì li lasciai, avvinghiati, volti in basso.
    Senz’altri volti nella scala scura,
    la scala umida e scheggiata
    come la bocca guasta e bavosa di un vecchio
    o la gola dentata di un vecchio squalo.
    Al mezzo giro della terza scala
    lì stava una finestra a grate, panciuta come un fico,
    e oltre il biancospino in fiore e la scena agreste
    la figura dalle ampie spalle vestita in verde e azzurro
    incantava il maggio con un flauto antico.
    Dolci i capelli arruffati, bruni capelli sulla bocca,
    lillà e capelli bruni;
    confusione, musica di flauti, la mente va e s’arresta sulla terza scala,
    più debole, più debole; la forza ch’è più forte di speranza e disperanza
    s’arrampica lungo la terza scala.
    Signore, non son degno
    Signore, non son degno
    ma di’ soltanto una parola.

    4
    Lei che camminò tra viola e viola
    che camminò
    lì tra le fila del verde screziato,
    in bianco e azzurro, colori di Maria,
    parlando di questioni dozzinali
    sapiente e ignara del dolore eterno;
    che mosse in mezzo agli altri che muovevano,
    che fece ancora forti le fontane e fresche le sorgenti
    e fredda la roccia inaridita, solida la sabbia
    in blu di speronella, blu del colore di Maria
    sovegna vos
    Ed ecco gli anni passano nel mezzo, portano
    via i violini e i flauti, ravvivano
    una che muove nel tempo tra sonno e veglia, che indossa
    bianca luce ravvolta, che la riveste, ravvolta.
    Scorrono gli anni nuovi, ravvivano
    gli anni, con nubi lucenti di lacrime, ravvivano
    con versi nuovi la rima antica.
    Redimi
    il tempo. Redimi
    la visione incompresa nel sogno più alto
    redimi gli unicorni ingioiellati e il catafalco d’oro.
    Silenziosa in bianco e azzurro, tra gli alberi di tasso,
    alle spalle del dio del giardino
    – non suona più il suo flauto –
    piegò la testa e fece un cenno ma non parlò parola
    la sorella velata.
    Ma la sorgente zampillò e l’uccello cantò alla terra –
    Redimi il tempo, redimi il sogno
    la parola in pegno non detta e non udita.
    Fino a che il vento non scuota dal tasso i suoi mille bisbigli –
    E dopo questo esilio

    5
    Se la parola persa è persa, se la parola spesa è spesa
    se non udita, se non detta
    la parola non è detta e non udita.
    Ferma è la parola non detta, il Verbo non udito,
    il Verbo senza una parola, la parola
    nel mondo e per il mondo.
    E la luce brillò nelle tenebre e contro il Verbo
    il mondo infermo vorticava
    attorno al centro del Verbo silenzioso.
    O mio popolo, che cosa ti ho fatto.
    Dove ritroveremo la parola, dove risuonerà?
    Non qui, dove il silenzio non basta,
    non per mare o tra le isole, non sulla terraferma,
    nel deserto o in terre piovose
    perché per chi cammina nelle tenebre
    lungo i giorni e durante le notti
    il giusto tempo e il giusto posto non sono qui.
    Nessun luogo di grazia per chi evita il volto
    nessun tempo di gioia per chi attraversa il rumore e nega la voce
    Pregherà la sorella velata?
    Pregherà per quanti vanno tra le tenebre, per quelli che
    ti scelsero e si oppongono,
    per chi si lacera sul corno d’ora in ora, tempo e tempo,
    tra una stagione e l’altra, una parola e un’altra,
    per chi si lacera potere nel potere, per quelli nelle tenebre che aspettano?
    Pregherà, la sorella velata
    per i bimbi alla porta,
    per quanti non la varcano e non sanno pregare,
    pregherà per quelli che ti scelsero e si oppongono
    O mio popolo, che cosa ti ho fatto.

    6
    Benché non speri di tornare ancora
    Benché non speri
    Benché non speri di tornare
    altalenando tra la perdita e il profitto,
    in questo breve transito dove s’incrociano i sogni,
    questo crepuscolo affollato di sogni tra la nascita e il morire
    (benedicimi padre) benché io non desideri
    desiderare queste cose
    dalla finestra spalancata incontro a rive di granito
    le vele bianche ancora volano sul mare,
    sul mare volano ali non spezzate
    E il cuore perduto si rinsalda e gioisce
    tra il giglio perduto e le voci perdute del mare,
    lo spirito debole s’affretta a ribellarsi
    per la verga dorata ricurva e le voci perdute del mare,
    s’affretta a riparare
    il grido della quaglia e il piviere che volteggia.
    E l’occhio cieco
    crea le forme vuote tra le porte d’avorio,
    l’odore ravviva il sapore salmastro della terra sabbiosa.
    È questo il tempo di tensione tra morire e nascere,
    il luogo di solitudine dove tre sogni si traversano tra rocce azzurre;
    ma quando le voci scosse via dall’albero di tasso andranno alla deriva,
    fa’ che sia scosso l’altro tasso, che risponda.
    Sorella benedetta, madre santa, spirito della fonte e del giardino,
    non sopportare che ci irridiamo con la falsità
    insegnaci a curarci a non curarci,
    insegnaci la quiete
    anche tra queste rocce,
    nella Sua volontà la nostra pace
    e anche tra queste rocce
    sorella, madre
    e spirito del fiume, spirito del mare,
    non sopportare che io sia separato
    e lascia che il mio grido giunga a Te.*

    11 agosto 2017
     
    Cosa si può dire non dicendolo di un poeta che è entrato in una perla? cercherò di evocarne l’ombra…già il titolo della raccolta è un intrigantepoetico paradosso che colpisce come un raggio di sole sopra…una “perla”, mi scuso con l’autore…l’immagine era troppo bella per evocare la sua ombra con altre parole… forse l’ombra dell’autore è davvero entrata nella perla dell’anima e, perché no, in quella trovata da un ignoto pescatore forse un millennio fa…
    Tutti i versi riportati qui hanno un fascino particolare, evocano per analogia usando le parole come se non le usasse..:
    “Una cosa era certa: eravate tutti ospiti in questo luogo
    che è solo il trascorrere del tuo pensiero: fluido,
    inafferrabile.”

    Ora vado a commentare gli ultimi versi.

    di Steven Grieco Rathgeb:

    “Cosa non deve essere riconosciuto delle parole?
    Il loro senso completo.
    Solo l’ombra deve essere riconoscibile.
    Il resto lo fa il poeta.
    Quindi la parola arrivi al lettore rallentata,
    e quindi velocissima…”

    *

    Il solo tuo vederli li riportò più volte in vita.
    I molti sempre in uno, gli sconosciuti giunti da così lontano.
    Un fremito, un singulto, uno strano singulto dell’anima.
    Chiunque poi, fossero. Se mai erano esistiti.
    Una cosa era certa: eravate tutti ospiti in questo luogo
    che è solo il trascorrere del tuo pensiero: fluido,
    inafferrabile. […]

    *

    Ma di colpo si aprirono i paesaggi: Kyōto, i colori, le colline,
    i templi addossati alle colline. Il bianco e rosso di una fanciulla.
    E nel tempio vuoto la presenza fremente del dio che inesiste.
    (Steven Grieco-Rathgeb)

    *

    Una brezza
    la porta si è spalancata. Fitto fogliame,
    nessuno,
    la soglia non varcata.
    In questo addio, sono tornato a casa.

    (Steven Grieco -Rathgeb da Entrò in una perla, Mimesis Hebenon, 2016)

    Anche qui è un ritorno senza ritorno: E’ la brezza ad aprire la porta di casa: dentro non c’è nessuno. “la soglia non varcata” ma varcata con gli affetti e il pensiero? è qualcosa di detto, ma come se fosse detto con parole diverse con un messaggio che attraversa l’anima, parole impregnate di addio e di sentimenti che restano protetti dal fitto fogliame e. dal silenzio…

    (Mariella Colonna)

     

  • *APPUNTI SUL TESTO di Daniele Gigli
    Il libro, uscito in prima edizione nel dicembre del 2015 per l’editore Raffaelli, riscrive e incorpora nella prima metà testi provenienti dalle plaquette
    Fisiognomica (2003) e Presenze (2008). I primi hanno subìto una riscrittura consistente, mentre ai secondi è toccato un semplice riarrangiamento.
    Nel primo dei due casi, considero i testi come nuovi – come una grave e presuntuosa autocitazione, se vogliamo – e non come versioni alternative e/o sostitutive di quelle già pubblicate. Alcuni dei testi della seconda parte sono invece già usciti nella medesima versione attuale in luoghi diversi: Mercoledì delle Ceneri è la versione esecuzione del testo eliotiano che pubblicai con la Locanda del Re Pescatore nel 2014. Fuoco unanime ebbe l’onore di far parte del primo Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea di Raffaelli (2013), mentre Alyscamps e alcuni altri frammenti sono stati ospitati sulle riviste
    «Atelier» e «Amado mio» (2014-2015).

    Fuoco unanime
    La struttura portante di Fuoco unanime non è che la narrazione di una dozzina di ore scarse, possiamo dire dalle 19 di una sera qualunque alle 7 del mattino successivo. Dodici ore che sono a un tempo «qui e ora», e «sempre e dovunque».
    Il «vuoto delle parole che si svuotano» del secondo frammento è ovviamente preso dal Caproni di Senza esclamativi, mentre i «vomitati dalla bocca» sono gli ignavi ammoniti da San Giovanni in Apocalisse 3,16: «Sed, quia tepidus es et nec frigidus nec calidus, incipiam te evomere ex ore meo».

    La «Signora del pruneto» è la Madonna dei Fiori di Bra, presso Cuneo, il cui pruneto fiorisce ogni anno nei giorni tra Natale e Capodanno. La tradizione fa risalire l’inizio di tale fenomeno al 29 dicembre 1336, quando con la sua apparizione la Vergine salvò Egidia Mathis, incinta di nove mesi, dal tentativo di stupro di due soldati e ne accudì il parto.

     

7 commenti

Archiviato in poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Laboratorio di Poesia de L’ombra delle parole, Roma 8 marzo 2017 – Libreria L’Altracittà – Lettura  del libro di Steven Grieco-Rathgeb Entrò in una perla (Mimesis Hebenon, 2016) Nota di lettura di Luciana Vasile: I due protagonisti l’Io che legge, il Tu che scrive – Nota di lettura di Letizia Leone del libro di Steven Grieco-Rathgeb Entrò in una perla 

Steven Grieco 8 marzo 2017 Luciana Vasile

Laboratorio di Poesia Roma, 8 marzo 2017 Libreria L’Altracittà Steven Grieco Rathgeb e Luciana Vasile

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email: protokavi@gmail.com

Steven Grieco Giorgio LInguaglossa Letizia Leone 15 dic 2016Nota di Lettura di Letizia Leone

L’approccio alla poesia di Steven Grieco Rathgeb necessita di una premessa. E cioè la considerazione che la riflessione estetica nella modernità ha spostato l’interesse della ricerca dall’opera d’arte al linguaggio, tanto che la più grande poesia Europea ed extraeuropea del ‘900 si colloca nell’ambito di una meditazione sulla parola non soltanto emozionale od evocativa ma anche, e soprattutto, filosofica.

Il linguaggio poetico è il punto di tangenza di istanze filosofiche non risolte come testimoniano i testi heideggeriani ( dal ’50 al ’59)  raccolti in  “In cammino verso il linguaggio” o il “Tractatus logico-filosofico” di Wittgenstein. Opere novecentesche, ambedue “creativamente ispirate” che trascendono il genere del saggio filosofico. L’analisi positivista del linguaggio approda ad una dimensione religiosa o mistica se “In cammino verso…” richiama un “peregrinare che ha una metà sacra” (A. Caracciolo) oppure se Wittgenstein giunge ad identificare il concetto di mistico con un sentimento, una “esperienza affettiva”, erlebnis, che non si può esprimere perché estranea alla descrizione scientifica dei fatti ma è qualcosa che si situa nell’ordine esistenziale, estetico, religioso.

La nozione wittgensteiniana di mistico come “ciò che non si può esprimere”, “ciò che è indicibile”, ineffabile, è diverso dall’estasi tradizionale o da una teologia negativa che dimostra l’impossibilità di pensare il Principio. Il logico austriaco afferma a proposito dell’esperienza mistica: “Credo che il modo migliore di descriverla sia dire che, quando io ho questa esperienza, mi meraviglio per l’esistenza del mondo”, ed anche nel “vedere il mondo come un miracolo”.

Comunque sia Heidegger che Wittgenstein giungono alla conclusione che la poesia costituisca l’esperienza più essenziale del linguaggio.

Mi riaggancio qui al lavoro fattivo del poeta, e a quella che è una tonalità emotiva fondamentale della poesia di Steven Grieco Rathgeb: lo stupore, il sentire e percepire il mondo come un miracolo, la tensione verso l’inesprimibile. Quella stessa tensione mistica, o tonalità emotiva, che illumina i versi del nostro poeta. Versi di un itinerario biografico, interiore e poetico, che si snoda nel tempo dal 1977 al 2010 circa (considerando revisioni e pubblicazioni di inediti) e ci conferma della vocazione all’esplorazione, spaziale-geografica e spirituale- creativa, di un autore che continuamente verifica tutti i suoi strumenti per affondare nel magma della scrittura.

La ricerca artistica si confonde con la ricerca esistenziale in questo osservatore affezionato ai dettagli naturali, agli aspetti di un mondo fenomenico vissuto con profonda empatia. Una natura esperita nella sua piena dimensione religiosa, anzi sacrale, in una empatia creaturale che evidenzia l’estraneità inevitabile ad un mondo di contingenze storico-sociali in cui non è più possibile riconoscersi. In Grieco Rathgeb la poesia è il luogo dove l’uomo riesce a trascendere la distruttiva pressione del mondo della prassi e ad esercitare pienamente la libertà individuale perché, in questo caso, il poeta in quanto esploratore dello spirito, lo è anche di civiltà e culture diverse, occidentali e orientali, come quella indiana o giapponese, assimilate nella loro essenza attraverso il medium portentoso della poesia in una condizione di felice sradicatezza in lunghe stagioni vissute in giro per il mondo, eppure in un    confronto serrato con una libertà che a volte può diventare paurosa.

Esauritasi l’illusione e il miraggio moderno dello scientismo e del tecnicismo rimane insoluta e nuda la profonda domanda sul senso (sul senso dell’Essere, della vita), interrogativo delegato in toto al dire poetico: “Le tue parole si schiusero come un grande fiore” recita un verso alare di “Sfogliavo le pagine”, testo che apre la raccolta e contiene quei semi poetici che germoglieranno, si ramificheranno e disperderanno nell’intera produzione del poeta. Numerosi gli elementi naturali come alberi trasfigurati, alberi dalle sembianze umane che diventano alter ego dell’autore se rifuggono bagliori e strade affollate: “…tre gingko ingialliti erano nessuno, / radicati come stoici in questo frastuono”; oppure una “foglia verde” che scende come una piuma “sui vecchi…assorti in questa grande angoscia”. Sembra quasi che solitudine e alienazione umane vengano spiate e soccorse nella dimensione di un altro regno, quello vegetale: “la veglia degli alberi, tutto il giorno, tutta la notte / nei loro giardini senza tempo”. Così scrive Grieco Rathgeb in “Purusha” (Termine della lingua sanscrita (“essere umano”) e nell’induismo nell’accezione di “Uomo cosmico” o “Spirito”).

Un senso di estraneità con i propri simili e di pieno pathos con alberi e fiori, gli elementi naturali e gli animali, quei regni placidi e sotto assedio, minacciati nella precarietà della loro esistenza dal disumano Leviatano tecnocratico.

Così come un’altra figura in bilico, quella del poeta, naufrago nel gurgite vasto  delle tensioni globalizzanti.

Sfogliavo le pagine, cercando
La parola φαινόμενον.

Tu dicesti: “il mondo è stato tutto scoperto.
Conosciuto i mari e i continenti,
le piante e gli animali classificati.”

Le tue parole si schiusero come un grande fiore.

Testo di apertura dichiarativo con la parola φαινόμενον, traslata dalla tradizione filosofica: participio sostantivato del verbo φαίνομαι («mostrarsi»). Ciò che appare o si manifesta ai sensi. Fenomeno. Fenomenologia. Fenomenologia come tentativo di catturare il mondo. Tentativo destinato al fallimento:

Questo mondo, riflettevo, o soltanto / Un’immagine? Ero incerto anch’io.

laboratorio-steven

laboratorio di poesia L’Altracittà, Steven Grieco Rathgeb

La parola dichiara il fallimento della presa concettuale sulle cose.

Il linguaggio, sostiene Heidegger, non è segno ma “cenno” (Wink).

“I cenni hanno bisogno di un campo di oscillazione amplissimo…nel quale i mortali si muovono in un senso e nell’altro sempre solo con ritmo lento”.

Il pensare del poeta, in questo caso, è lento. E se la poesia è intuitiva, ha tempi di maturazione lentissimi. Un verso, un pensiero “poietico” ci dice Steven, può balenare all’improvviso con un impeto creativo disturbante e rimanere nel suo bozzolo per anni, come un grumo interiore non risolto, finché non arriverà la soluzione espressiva dopo un lungo e silenzioso lavorio inconscio e magmatico. 

Ma il “campo di oscillazione” non è solo nel modo evocativo del linguaggio, l’oscillazione afferra esistenzialmente l’uomo: “Essere vivo è una continua incertezza. È continua oscillazione fra il pieno e il vuoto, fra ciò che mi appartiene e ciò che è negazione di ogni proprietà” scrive Le Clézio in “Estasi e materia”.

E quando Heidegger parla del linguaggio come “senso” vuole connotarlo come “istanza di Eternità” in quanto la parola è un “dire originario” del quale il poeta “viene faticosamente cogliendo la voce”.

Che cos’è la poesia se non un’uscita dal silenzio? Uscita dal silenzio e ritorno al silenzio. Parola attraversata dal silenzio.

L’io che parla, il soggetto lirico, non è un io psicologico ma diventa il limite del mondo. Limite, soglia, porta, (elementi ricorrenti nella poesia di Steven Grieco) margine di un continuo interscambio con un oltre, al di là dell’esprimibile e del pensabile.

“La visione del mondo sub specie aeterni è la visione del mondo come totalità – delimitata-. Il sentimento del mondo come totalità delimitata è il sentimento mistico.”(Wittgenstein):

Finché la presenza è questo corpo oscuro
Che il pensiero intesse…
Dove il pensiero, oscuro nuotatore,
nuota al largo
respirando indicibile oscurità.

 

Steven Grieco 8 marzo 2017

Laboratorio di Poesia 8 marzo 2017 Steven Grieco Rathgeb

Nota di lettura di Luciana Vasile: I due protagonisti l’Io che legge, il Tu che scrive

 Abbasso lo sguardo. Su un tavolinetto circolare, appoggiati un po’ alla rinfusa, tanti libri. L’occhio di bue si accende su “Entrò in una perla”. Mi cattura. È un Caso – nel quale non credo – che abbia messo a fuoco solo quella copertina, il resto nella nebbia? In effetti quel titolo conferma la mia convinzione che sia il vuoto a disegnare il pieno. Il pieno della perla disegnato dal vuoto rarefatto del pensiero che si fa parola. Anima contenuta nel corpo, e non viceversa, come istintivamente saremmo indotti a pensare. Ingrandisco ancora l’immagine: l’autore Steven Grieco-Rathgeb.

Ora quel libro ce l’ho fra le mani. Lo sto per aprire. Sono curiosa. Scoprire in me le sensazioni che mi donerà la sua lettura. Perché la parola prima di tutto è comunicazione. Sono consolatori i momenti nei quali si supera la solitudine, alla quale è condannato l’essere umano, quando si trova consonanza, vicinanza fra l’IO che legge e il TU che scrive. Dipende da ciò che si tatua nella nostra sensibilità e comprensione nell’anelito di ri-conoscersi che è un attimo e/o del conoscere che è molto più lento. Sono pronta a dedicarmi all’ascolto.

Scorro con lo sguardo i segni neri e gli interstizi. A gruppi di non più di tre/quattro versi la distribuzione sul foglio bianco. Eloquenti le pause, geografia nel mare aperto del non detto. Anche la poesia ha una sua rappresentazione grafica, il disegno-progetto partecipa al significato. Io assorta. Non resto colpita nei sensi, ma il desiderio è di penetrare il frammento di un pensiero che a distanza rincorre altro pensiero, dove la mente divaga libera, galleggia nelle immagini e lancia concetti.  Dice il poeta (pag. 61): Nel silenzio la poesia parlò/ le sue parole come liane/ di un rampicante/ che saliva/ ogni nodo più alto/ verso un aprirsi, una trama/ sorpresa/ in altro esistere/ … Primo attore del libro è l’IO-pensiero che dialoga e palpita con la natura, gli alberi, i fiori; con lo sciabordio dell’acqua; con la realtà del mondo nelle sue molteplici espressioni; con l’inseguire la luna e raccontarne, attraverso lo stupore, il mistero della sua pienezza (pag. 19):

Ora che sei sorta, luna-cenere,/ quasi invisibile nella notte appena fatta,/ nel tuo silenzio, simile alla quiete del pensiero,/ mi chiedo come questo orlo di luce/ esprima l’oscura pienezza: l’oscurità vicina/ del tuo sferico splendore./ … Possa io stanotte/ dimenticando la distanza/ dire l’oscura sfera della tua pienezza.

Da parte del poeta una continua attenzione alla parola, che esiste nella sua stessa negazione, nel suo stesso inganno (pag. 35) :

Impara l’etimo di leggere./ Significa raggiungersi dentro e oltre se stessi,/ sfiorare in ogni attimo la follia?/ O esiste chissà dove la soglia/ che varchiamo verso un’origine nascosta?/ Le parole che da ogni lato si volgono false,/ non ti mostreranno tutto il visibile/ (ché lo stesso guardare così presto vanifica)/… (pag.39) … così le parole mi volano dalla bocca/ e qualcuno tende un filo/ di sillabe al cielo/ e non so come farle/ ricadere giù, una dopo l’altra,/ sprofondate nel sonno.

Steven Grieco 8 marzo 2017-3

Laboratorio di Poesia Roma, Libreria L’Altracittà 8 marzo 2017

Da parte del poeta una intensa riflessione filosofica nell’approfondimento del (pag. 41):

come se il nostro rischioso oscillare/ fra l’identità e il suo inganno,/ fosse “noi”,/ scissi per sempre fra questo e quello:/ … E ancora fino a spingersi all’orlo dove alberga l’anima (pag.43): …  E se l’universo fosse”un basamento intorno/ alla bocca del pozzo”: un basamento/ di pietre tratte dall’unico splendore/ delle sue stelle remote;/ con quanta fiducia/ ci spingeremmo all’orlo, per scorgere/ acqua limpida in fondo a quel baratro,/ berla profondamente con i nostri occhi!.

Rallegra la sintonia fra il TU che scrive e l’IO che legge, che un giorno parlò della liquidità dell’anima, indicando che bisogna fare una capovolta di 180° per immergersi in quel pozzo senza fondo, con coraggio esplorarlo.

Steven Grieco Rathgeb rifiuta la metrica come prigione, evita la musicalità come distrazione, il pensiero è libero – anche da se stesso? -. Privilegia la prosa poetica che meglio si addice a ricreare la frammentarietà del linguaggio interiore fatto di immagini flash non necessariamente conseguenti l’una all’altra, con un nesso logico o seguendo una trama, ma che esprimono lo spazio “dentro” arredato di ricordi, esperienze, visioni, in un tempo dell’IO senza cronologia, incurante del battere le ore della pendola. Tutto si dilata in un eterno presente. Il qui e ora è il tempo della scrittura (pag. 89) : …     

 I giorni si muovono veloci o pesanti,/ contraddicendosi: identici/ in come tornano sui propri passi,/ La loro irreplicabilità mozza il fiato./ Mirabile, il poema che narra questo/ inesausto rinnovarsi,/ Ciò che nelle sue pagine hai appreso ieri/ lo ascolti oggi, e forse avrà un altro senso./…

Come lettore è più diretto individuare in sé le emozioni, le suggestioni dell’Altro che scrive quando riescono a coinvolgerci, pizzicare l’anima senza intermediari. Steven Grieco Rathgeb invece ci costringe, attraverso i suoi versi, ad un impegno più faticoso, e forse per questo intrigante. Quasi una sfida. Ci invita ad entrare, senza timore, nel mondo a volte celato, criptico dell’immagine-pensiero-parola e i suoi estrosi giochi. Ma non tutto sta scritto è decifrabile ed è dato capire. Anzi, si dice, che la poesia possa essere anche mistero, che affascina e fa scattare in avanti, alla ricerca. Partendo dal fatto che istintivamente adoro le cose semplici, ma non mi piacciono le cose facili, mi dico, forse si può arrivare alla verità che, io penso, sia semplice – oppure alle emozioni, che ci fanno intravedere la verità quando lacerano i sensi – anche attraverso la complessità?

Ultimata la lettura, introitate le parole – da quale parte sono entrate? dagli occhi, dalle orecchie, dai pori della pelle che si alzano attenti, dalle sollecitate papille gustative o olfattive, dalla mente che ragiona o dallo stomaco centro dell’IO? – tanti gli interrogativi e le domande, soprattutto a chi come Grieco Rathgeb si muove nella ricca esperienza di diverse civiltà e realtà, e nel percorrere la parola di più lingue madri. Per esempio, Steven in quale idioma pensa? in quale idioma sogna? Per quanto mi riguarda, io, continuerò a ruminare. Ci sto prendendo gusto.

Poesie da Entrò in una perla (2016)

He entered a pearl

He entered a pearl inside the world
passed through walls muffling all cries

someone called it stealth
but the blue-lit night station was full of tears

The estrangement between you and me
wasn’t him – we
forgot each other standing face to face,
while He sat threading
this wrecked dream’s own escape
through good turned bad turned
good
through the same places that came back
and back

On such a rugged upward path
the way was changed into air!

into a dome of twilight, with persons
going in and going out,
as each fashioned
his own swarm of thoughts,
cocooned phantoms and naiads of image,
hanging them
in a white wilderness

Slowly he encompassed, slowly
encompassed us
till he hid

Oh, my I, now my clown,
on a fingertip spin the ball
I balance on
My heaven has split from top to bottom

And then we, unknowing prisms,
returned in brilliance
to our prisons

ill I thought this life will last forever

Entrò in una perla

Entrò in una perla dentro il mondo
attraversò muri che tacquero ogni grido

qualcuno ne parlò come di un segreto
ma l’azzurra stazione di notte era piena di lacrime

L’estraneità fra te e me
non era lui: noi
ci dimenticammo l’un l’altro pur stando faccia a faccia,
mentre lui, seduto, infilava questo sogno infranto
nella cruna della sua stessa fuga,
attraverso il bene che volge al male che volge
al bene,
attraverso gli stessi luoghi che tornarono
e ritornarono

Su un sentiero così impervio
la via si tramutò in aria!

in una cupola d’ombra
con persone che entrano ed escono,
mentre ciascuno si fabbrica
il proprio sciame di pensieri,
larvati spettri e naiadi d’immagine,
e li appende
in una bianca desolazione

Lui lentamente ci circondò,
circondò da ogni parte
finché rimase nascosto

Ah, mio Io, mio pagliaccio ormai,
sulla punta del dito fai ruotare
la sfera su cui oscilloIl mio firmamento si è squarciato da cima a fondo

E allora noi, prismi ignari,
tornammo a splendere
nelle nostre prigioni
finché pensai che questa vita durerà in eterno

*

Hesperiidae’s embroidered wings – Mani Kaul in dream

You, standing there, in some colourless shadow-life I had attained
– always so decisive – and every blacknight moth alive
every magical moth in stealthy flight – flew to the otherworld
astronomer beyond thin partitions wondering,
every moth a mystery I flew inside to the highest night skies:
You, in the unlit room I inhabit – colourless space of wonder –
expounding on expression – art – on the blood in our veins
And every one of your words came as some hurled verbal fragment
– tangible, visible splinters to unseen frontiers
and they were sound cried out—brilliant bits of nothing, and
came hurtling like cries!
Whistling, whining shrapnel – Flung! at my blank sheets of paper
with unheard-of energy, with your thrust at forbidden barriers
yet, a mere game… “the aesthetics of meaninglessness”
Fragmented – unheard of!
hurled – flung at the white sheet

Via Merulana, 11 February 2013

Ali ricamate delle esperidi: Mani Kaul in sogno

Tu lì, in qualche incolore umbravitae da me raggiunta
– sempre così decisivo – ed ogni notturna, viva falena
ogni magica falena segretamente in volo, volava all’altromondo
astronomo meravigliato oltre sottili pareti – ogni falena
un mistero in cui volavo verso i cieli altissimi della notte:
Tu, nella spenta stanza che abito, incolore spazio meraviglioso
discorrevi di espressione – arte – del sangue nelle nostre vene
E ogni tua parola giungeva come frammento verbale, scaraventato:
tangibili, visibili schegge al varco di celate frontiere
ed erano suono urlato – lucenti briciole di nulla – mi giungevano
lanciate come grida!
Fischi, sibili di frantumi – Scaraventati! contro i miei fogli bianchi
inaudita l’energia, il tuo urto alle barriere proibite –
eppure, semplice gioco… “l’estetica dell’insignificato”
Frantumi – inauditi!
lanciati – scaraventati al foglio bianco

Via Merulana, 11 febbraio 2012

Bottling wine on a high balcony
to a learned friend in Tokyo

Your flowering plum… a fragrance not of scholars!
Delusion, madness lifted you into the sky
where Heian poets wander forever
in their disembodied yearning:
the petals of those phantom minds mingling
with your dark, three-quarters sterile mind!
And time, devotion, labour: smouldering ashes.
What can I offer you but the wine I decant
on this moonless night of March:
this open-ended sky, black-starred origin
high in the numinous ravine;
this wine I translate into a whirlwind
streaming out the drunken inner blossom…
And the wakas, now, breathing depth –
subtlety – fascination!

Supersymmetries – Florence, 1999

*

Imbottigliando vino su un alto terrazzo
per un amico erudito a Tokyo

Il tuo susino fiorito… profumo non di filologi!
Con l’auto-inganno e la follia hai scalato il cielo
dove i poeti Heian vagano per sempre
nel loro anelito spettrale;
i petali di quel pensiero sfuggente, frammisti
alla tua mente buia, sterile per tre quarti!
E il tempo, la devozione, la fatica: brace morente.
Cosa posso offrirti, ho solo il vino che travaso
in questa notte di marzo senza luna:
questo cosmo a imbuto, alto lignaggio,
tenebra di stelle sul dirupo numinoso:
questo vino, che traduco in un turbine,
spira dall’inebriato, più interno fiore …
E dei waka, adesso, il respiro –
il fascino sottile!

Supersimmetrie – Firenze, 1999

letizia leone

letizia leone

Letizia Leone è nata a Roma. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF. Ha avuto riconoscimenti in vari premi (Segnalazione Premio Eugenio Montale, 1997; “Grande Dizionario della Lingua Italiana S. Battaglia”, UTET, 1998; “Nuove Scrittrici” Tracce, 1998 e 2002; Menzione d’onore “Lorenzo Montano” ed. Anterem; Selezione Miosotìs , Edizioni d’if, 2010 e 2012; Premiazione “Civetta di Minerva”). 

Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008);  La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi ,(2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011; la pièce teatrale Rose e detriti, FusibiliaLibri, 2015. Dieci sue poesie sono comprese nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016). Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da cameraVersi erotici delle poetesse italiane- (2012).

Luciana VasileLuciana Vasile è nata a Roma è architetto. Nel 2002, nella sua esperienza di aiuto volontario nel terzo mondo per la costruzione di case per gli ultimi e che dura da quindici anni, ha  scoperto il piacere di scrivere. E’ fondatrice e Presidente della HO UNA CASA-Onlus.Ha conseguito numerosi premi per la prosa e la poesia. E’ membro delle associazioni internazionali degli scrittori: P.E.N. Club Italiano e Svizzero. “Per il verso del pelo” suo primo romanzo, 2006 Editrice Nuovi Autori di Milano, ha ottenuto riconoscimenti in otto Premi Letterari. “Lo sguardo senza volto” 11 poeti del disincanto, 2008  Fermenti Editrice, volume antologico, curatore Donato Di Stasi.

“Danzadelsé” – Ho ballato per Paparone e altre storie, 2012 ProspettivaEditrice, pubblicato come opera vincitrice al concorso di narrativa per inediti Interrete, anche in ebookHa vinto il Premio Internazionale Lago Gerundo 2013 e premiato in altri quattro concorsi. Di prossima pubblicazione la raccolta di poesie “Libertà attraverso… eros, filia, agape”.

luciana.vasile@tin.it

www.lucianavasile.it

78 commenti

Archiviato in critica della poesia, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Antologia bilingue della Poesia Ceca contemporanea a cura di Antonio Parente Sembra che qui la chiamassero neve – Poeti cechi contemporanei (Milano, Mimesis Hebenon, 2005 pp. 228 €  16,00) Michal Ajvaz, Petr Kabes, Petr Kral, Milan Napravnik, Pavel Reznicek, Karel Siktanc, Jachym Topol – Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Foto Brno Del Zou - Izoumi, 2012Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Segnalo un libro davvero importante e insostituibile come questo pubblicato dalle edizioni Mimesis Hebenon nella collana diretta da Roberto Bertoldo a cura di Antonio Parente Sembra che qui la chiamassero nevePoeti cechi contemporanei (Milano, Mimesis 2005 pp. 228 €  16,00). Devo riconoscere la capacità critica e la competenza del curatore Antonio Parente nell’aver saputo individuare con precisione i valori poetici degli autori presentati (Michal Ajvaz, Petr Kabes, Petr Kral, Milan Napravnik, Pavel Reznicek, Karel Siktanc, Jachym Topol), ed elogiare la perizia del traduttore che ha saputo ricostruire in un ottimo verso libero italiano il testo ceco originale. Ma l’aspetto più rilevante che mi preme sottolineare è il «nuovo» e «diverso» concetto di poesia che emerge dai numerosi testi qui presentati; con «nuovo» intendo qui individuare il valore discriminante rispetto alla linea maggioritaria che oggi sembra occupare gli scaffali della poesia italiana contemporanea. Innanzitutto, la sapiente costruzione mediante le immagini «doppie», o a «elica» (le eliche doppie, e anche le volute della scala a chiocciola), a doppio binario; in secondo luogo, la capacità di questi poeti cechi di accoppiare elementi eterogenei e contraddittori allo scopo di determinare l’immagine con più nettezza di particolari e maggiore precisione metaforica. Ecco una vera e propria dichiarazione di poetica.

Le relazioni verticali in poesia
sono fittizie.
In realtà ogni verso è parte
di un lungo testo orizzontale,
che per un attimo si rende visibile quando attraversa la pagina,
come quando il fiume sotterraneo sgorga in superficie e di nuovo scompare nella sabbia…

(Michal Ajvaz)

Ecco un esempio concreto di superamento del simbolismo per giungere ad un tipo di poesia post-simbolica. Così, se nella tradizione del Novecento il simbolo si risolve nella riunione di due immagini, nel ricongiungimento in un’unità pur se disgiunta e scissa, qui non indica più il ristabilimento di una unità in nome di una immagine pacificata e negoziata, non è più l’immagine di un tempo perduto (e da ritrovare) da cui deriva l’elegia, o del tempo scisso (da restituire al mittente) da cui deriva l’antielegia; nei poeti cechi qui presentati l’immagine prodotta non è più il risultato di una sintesi pacificata e pacificatrice ma mantiene lo strappo, la lacerazione originaria, anzi, accresce il senso di disappartenenza e di disarticolazione del testo poetico. La connessione implica e statuisce una disconnessione, la sutura implica e statuisce la lacerazione, l’immagine complessa che ne deriva non è più «negoziata», ma implica e statuisce il divorzio, la scissione, la disappartenenza, lo spaesamento, lo straniamento tra l’autore e il testo, tra l’autore e il lettore.

La «nuova poesia ceca» non ricerca affatto alcuna conciliazione fra ricerca sperimentale e cultura di massa, non persegue il raggiungimento di una coabitazione tra arte sperimentale e arte di massa, il felice o infelice accordo fra l’oggetto artistico e l’oggetto merce. Alla luce abbagliante della coabitazione spaesante nella società delle immagini virtuali, la poesia si trova paradossalmente a suo agio, i poeti qui convenuti sembrano prediligere un irrealismo magrittiano in direzione di un’arte a-concettuale, anti acustica. Prediligono a una «poesia verticale» una «poesia orizzontale». Una dizione piana, che non teme di apparire quasi noiosa, una oggettistica per lo più banale, e chi più ne ha più ne metta ma è la connessione spaesante tra gli oggetti che determina la «nuova visione», è la dis-connessione tra gli oggetti quella che determina la «nuova poesia ceca», del tutto fuorviante e a-concettuale per un lettore italiano abituato al minimalismo nostrano con tanto di perbenismo davvero piccolo borghese.

Come si può notare, i colori sono sordi, freddi, l’esposizione da realismo o iperrealismo, da abbecedario e da settimana enigmistica, volutamente «basso», «triviale»; alla lettura non ci coglie nessuna emozione vertiginosa e nessuna estasi, il lettore è trasportato, come su una scala mobile o un nastro semovente, attraverso palcoscenici e quinte che trascorrono dall’ordinario routinario allo strampalato post-surreale. Tra il surreale e il reale c’è di mezzo il mare, la poesia abita un corridoio di immagini e considerazioni oziose, respingenti, prosaiche, insensate che danno il senso complessivo di iperrealtà; di qui la procedura iperrealistica auto respingente che viene però sempre immediatamente decontestualizzata dallo scorrere dei fotogrammi delle immagini ordinarie, post-surreali e/o grottesche. All’improvviso, si rivela lo squarcio, la scissione; l’enigmatico deprivato di enigma appare ancor più enigmatico. La scrittura si rivela come montaggio di istantanee che fotografano l’impossibile e il grottesco. I frammenti sono accatastati l’uno all’altro senza apparente ordine, senza rigore formale. Una poesia terremotata e disartizzata le cui membra disiecta giacciono ad imperitura memoria. Nella poesia di questi cechi possiamo ancora riconoscere attraverso l’assurda tessitura dei testi l’assurda struttura del mondo, la profonda intercapedine che esiste tra il nome e tra i nomi, non più soltanto tra il nome e la cosa. Il significato se ne è andato a farsi benedire. Il problematico è stato disartizzato ed evirato. Ciò che rimane sono i poeti che non possono più abitare poeticamente il mondo.

Classificato a ragione come uno dei principali rappresentanti del surrealismo ceco, Pavel Řezníček ha sempre messo in dubbio veementemente sia la così spesso proclamata «morte del surrealismo», sia la possibile evoluzione di questo movimento in una sorta di ‘neosurrealismo’ o ‘postsurrealismo’. Lo stesso autore ci confida la ricetta dei suoi testi: «Vedere le cose senza illusione e criticamente, aggiungendo umorismo, possibilmente nero».

Vorrei limitarmi ad indicare ai lettori lo stratagemma impiegato da Pavel Řezníček: l’inserimento nel corpo del testo poetico di lacerti del «reale», del «quotidiano», però decontestualizzati e spostati lateralmente in modo da sconvolgere l’orizzonte di attesa del lettore, sorprenderlo, scuoterlo e coglierlo d’infilata. Procedimento questo adottato dalla poesia italiana per la prima volta da autori italiani appartenenti alla Poetry kitchen. Leggiamo alcune righe del poeta ceco:

appello della rivista TVAR: chi è a conoscenza del luogo di soggiorno del poeta Karel Šebek
irreperibile dall’aprile del 1995
è pregato di comunicarlo al seguente indirizzo:
Dott. Eva Válková, Clinica psichiatrica 547
334 41 Dobřany

foto Pavel Řezníček
Tre poesie di Pavel Řezníček

Sala macchine del carciofo

L’orichicco quel vecchio spilungone
e il fruscio di banconote tra le mani delle ortiche
qualcosa si allontana e qualcosa si adagia accanto a noi
ai nostri corpi alla nostra cenere
il silenzio della lampada e la meteora dell’asciugamano
scompartimento sotto frane di pepe e arpione
portavano la megera tutta di arance sbucciate
e di piume di sparvieri che imbrattavano tutte le finestre del mondo
è solo una vampata quella che balugina
nella sala macchine del carciofo
un fazzoletto gettato sul chimico
che ispeziona la pancia del defunto Lévy-Bruhl
Il Canale di Panama e l’incidente d’auto (o di flauto?)
verga di nocciolo martelli pneumatici e la pazzia del pompelmo
appello della rivista TVAR: chi è a conoscenza del luogo di soggiorno del poeta Karel Šebek
irreperibile dall’aprile del 1995
è pregato di comunicarlo al seguente indirizzo:
Dott. Eva Válková, Clinica psichiatrica 547
334 41 Dobřany
meteora dell’asciugamano gettato sul ring del destino
un passante in lontananza di notte si soffia il naso su un globo di diamanti

La seppia pascola il ragno

Portava sempre due sacchi
Il cammello alla stazione
Non dovresti credere a queste facce piatte come la pietra
Prendi metà saccarina e metà caramello
Il cucciolo di felino non lo si riconosce
Quando finalmente inizierà la guerra?
Tutto palpitante per il Modern Jazz Quartetto
Due lanterne verdi due sigari verdi
Fece amicizia con un uccello
Portava sempre tre sacchi
Ragni con cappelli in testa
I ragni pascolano le seppie
Le seppie pascolano le puttane
Un cane micaceo picchiettava il muso
Un fiammingo
Le calze azzurro chiaro
Portava sempre tre sacchi portava quattro sacchi
Ma non le servì a nulla:
Il martello di pietra centrava sempre in pieno
La carriola
Nella quale portavano
la testa di Charles Bukowski

Le febbrili visioni di un surrealista: Omicidi, supplizi, macinatura in polvere di vivi…

(Dedicato al compagno Štěpán Vlašín per la sua recensione del mio “Caldo”nel giornale comunista HALÓ)

Nei boschi e durante la guazza
flicorno cistifellea madreperla coltelli
nel ricordo di colui che sforbiciava i giornali e faceva bambini dal formaggio
inzaccherare l’occhio
la calce porta la bicicletta
nella calce farina nelle uova sangue
la puzzola interprete della Luna
non dovremmo leccare la stufa ogni musicante poi mescolerebbe con la carriola
quello che non si deve svelare
il lebbrosario di San Giacomo
le grancasse sono in valigia qualcosa come frittate
e gli schizzi di sangue dei tuoi seni rappresentano una marcita
zeppa
di segreti granchi e aragoste massacrati
che confessano di essere aragoste
e quello che è un fungo è cristallo e i funghi sono persone
con la lingua perforata dal ferro da maglia
Poi ridusse le persone vive in polvere
e quei pochi assassinii che gli caddero dalle tasche erano un affare da nulla
come i peli che crescono dal naso di Messerschmidt
che era non solo professore
ma anche un aereo fatto con la busta
di plastica del latte
Allora: quei pochi assassinii che erano un affare da nulla
si trasformarono in pariglia di cani eschimesi husky
e la città O. si trasformò nel condrosarcoma del dio Aion
sì quello della grotta di Mitra
dove si asciuga il bucato della trascendenza

Foto, giostra con sedili

Una poesia di Karel Siktanc

Con la chiave apro Le tre rose bianche Apro la casa
Al pavone Chi si è trasferito? E chi rimane ancora
qui nel rione? Silenzio dietro le porte soltanto
in quella oltre il cortile s’ode una nota chiave Giovane
apro a me stesso

E me stessa mando altrove

Con la chiave apro la casa Alla sirena Ai tre cervi schiudo
e qualcuno sosta nel corridoio oscuro E nome dopo nome in un grido
Forse sono condannati a morte Forse
immortali chissà Nel negozio di corone funebri
ci sono dei bimbi in piedi

E intorno alla bara cantano qua e là

Con la chiave apro Ai tre violini E Alla bianca cavallina
E le pareti vuote dagli Smetana E dalla corrente una canzoncina
Volevo imparare a suonare l’organo Sembrare un coro
Non essere solo come ora Ma è troppo tardi È rimasto soltanto un leggio

che non reggerebbe più la partitura

Con la chiave apro la casa Alla ruota d’oro Apro Ai tre orsi nolenti
Avevo una casa dove capitava E adesso sarà solo altrimenti Apro la casa Al giglio
Apro Ai due amenti Avevo soltanto una
casa

E adesso sarà solo altrimenti

Con la chiave apro Al paradiso Ah, la mia fanciullezza non sento di appartenere qui
vai tu al mio posto Sento che chiedi di mamma
Sento che ti aggiri per casa di nascosto Apro il cancello Ai due
soli Qualcuno corre a prendermi una candelona E passi come se
camminasse in scarpe da cannoniere

rimbombano per via Sperone

Con la chiave apro la casa Dell’angelo Apro
Agli astri e tutte le donne che mi mentirono sono qui
sui piani lungo i pilastri “Cosa cerchi?” “Niente!”
mento mentito e sorrido ai forestiere E
nella mano bianca degli argentieri

risplende il gioiello del mio dispiacere

Apro
Chiudo a chiave

e fa freddo dappertutto E buio

È la santa Angoscia già dal principio del mondo

foto milan-napravnik-il-nido-del-buio
Una poesia di Milan Napravnik

ALL’IMBRUNIRE

È l’ora dell’eterna notte
Alcuni sono morti altri sono usciti barcollando dal cinematografo
pallidi come lenzuoli
Una foglia d’acero ha traslocato lungo il marciapiede
Dal tavolato di un bar sbarrato al negozio di generi alimentari
Ha danzato tra piedi pazientemente in fila
per un pezzo di carne
È salita all’altezza del primo piano di un fatiscente casamento
Ha dato un’occhiata alla stantia camera da letto degli amanti
Ha volteggiato oltre i fili del tram fino al recinto-orinatoio
E da lì via verso la grande lavanderia esalante il tanfo di sapone
Finché non si attaccò alla cornice del negozio
dove si vendono teste di gesso

Croci ornamentali ad uncini e senza
Semplici convinzioni e istruzioni per strangolare i miscredenti
Al negozio
Dove ogni acquirente è accolto con un dirugginio di denti
in caso
Avesse intenzione di chiedere il prezzo reale
di questa merce vergognosa
Come un animale randagio
Un cane senza litorale
Scalciato da ogni tempo nell’inguine scheletrico
Che si nasconde in biblioteche e musei inariditi
Animale senza seta ma compagno perseverante degli incubi notturni
Striscia per le gallerie di quadri lungo ritratti di nuvole morte
Lungo nature morti olandesi con la frutta fresca e una mosca
Lungo paesaggi roccoco scintillanti di sole
e popolati di pastori di pecore
Lungo battaglie navali dove gli eroi assassinati
cadono pittoreschi dal ponte di navi da guerra
In onde marine dipinte con maestria
E lungo visioni incurvate dei santi dipinti
Dell’altare di pingui cardinali
e macilenti eremiti
Di fetide monache con le fiche ricucite
Tutto in un sol boccone di manipolazione estetica
Nulla solo l’Arte un’unica e sola stronzata una truffa
Tutto solo un unico e solo aborto della civiltà
Mi dispiace, signor Péret
I tuoi tentativi di riconciliare la poesia con la lotta sui monti catalani
non hanno avuto successo
Non ti sei mai tradito ma i tuoi occhi mi raccontavano la storia
Le gocce di sangue anarchico sulla foglia di fragola riverberavano di purezza
Come il sole nel calice di Rémy Martin
Che bevemmo in primavera in un bar
della rumorosa Place Blanche
Non potevi morire con un’espressione di soddisfazione
Solo scomparire con tristezza
Meraviglioso amico dell’inflessibile disperazione
Sei vissuto sul solatio di un intelletto come oggi
non ci tocca più
Del quale sappiamo solo grazie alle testimonianze dei nostri antenati
Testimoni aviti di una tradizione remota
Viviamo al gelo
Il cielo è eternamente coperto da un triplo strato di nubi
La città è soffocata da veli di grevi zeli
E dal timore del quotidiano stritolamento dell’inutile desiderio
Leggende dappertutto crude come la carne sui ganci delle sale
alle tre e mezzo di mattina
Non si può raccontare una storia che scaturisce dalla struttura
molecolare del vino
Le inesauribili sfere di piselli con un mormorio si mescolano
al vello stradale
Dove ci sono i caffè c’è anche il caffè da asporto e le cartine di catene
Punte di seni cresciuti sulle conchiglie del tempo
L’incantevole patina di rosa
Le graticce marine di svettati come un bicchiere di Bordeaux
Se dico graticce intendo graticce
Non la fine del mondo
E nemmeno memorie astanti di cerchi alla mano e cravatte orbe
Qualche cancello di interminabili campi di patate
Rime guaste di colla
Indescrivibili cortocircuiti di sterco
E le selvagge carceri della metro che sfumano nel buio dietro ciglia
aggettanti
I tunnel affondano nella terra
Pourquoi j’écris moi-même?
Dis-moi reflet de cobalt
Pourquoi le vol de corbeaux qui t’entoure
comme le charbon étreint le feu?
Non conosco la ragione del mio respiro
Né la mia passione per le fiamme che di solito spegne la birra della ragione
Tanto meno l’indirizzo dei miei destinatari
Ad ogni modo dicono che ce ne siano pochissimi
Sembra che alcuni siano irrintracciabili
Alcuni non ne hanno il coraggio
Altri hanno fretta
Altri forse non sanno leggere
Ma la maggior parte è in effetti defunta dalla nascita

foto Poeti cechi contemporanei
Una poesia di Jachym Topol:

Al mattino un pezzo di stella attraversò in volo l’aria
e si sotterrò nel marciapiede
vicino alla casa dove abitiamo. Sfondò il lastrico
e fece a pezzi le tubature. Dal cratere zampilla l’acqua.
presi nella palma un pezzo
di quella materia nera compatta
quando si raffreddò. Era come un teschio ma più pesante.
a mezzogiorno la luce si intensificò
e penetrò la tenda.
E la rivista ghignò. La statua ballonzolò. Il Signore del mondo
sollevò un libro da terra e lo gettò via. “La cultura europea
è nata dal racconto di una storia.” Ma qui non succede nulla.
Ti voleva uccidere una stella. La rivoluzione è finita
accenditi una sigaretta. Gli intellettuali vanno in gita
in Provenza. O mi vendo oppure no.
Se sì
potrò andare in tassì per almeno tre mesi.
Ho sempre ammirato quelli nati prima
avevano per più decenni
la possibilità
di riflettere su quello che succede cos’è l’amore la morte la solitudine ecc.
e sono sopravvissuti
e non hanno risolto niente. Oggi la violenza scoppiava in ogni secondo
nei movimenti nelle parole la tensione avvelenava l’aria densa pesante
irrespirabile come se arrivasse dal deserto. La sera arrivò in quel
vestito rosso e dice: “Oggi c’è l’eclisse. Spero
che te lo ricordi. Guarderemo dal tetto della casa
verso la strada.”
Mentre il cielo si spaccava in pezzetti
una voce diceva: “Sì, l’inferno,
lì ci sono merde cadaveri e coltelli e vermi
come qui…”
poi all’orizzonte la luce si spegneva
prima i suoi contorni opachi
poi iniziarono a sparire anche le nubi
ambrate e vermiglie
lucenti come la luce
e poi guardammo nel buio
e non si vedeva niente

(Martedì ci sarà la guerra, 1992)

Michal Ajvaz 1

Michal Ajvaz

:

Tre poesie di Michal Ajvaz

Petřín

Allo Slavia il caffè costa otto corone e quaranta,
sebbene lo preparino da elitre di coleotteri.
Prendono comunque buona cura del divertimento:
al centro di ogni tavolo c’è un pianoforte in miniatura,
sul seggiolino siede un nano
e suona una melodia sentimentale.
I nani hanno l’abitudine di fare un sorso dalle tazze;
i clienti non vedono di buon occhio la cosa, si dice
che i nani abbiano varie malattie.
In sostanza i clienti e i nani si odiano,
di continuo gli uni sparlano degli altri col personale.
Ne vien fuori una gran confusione, soprattutto quando (come proprio in questo momento)
passa per il locale una mandria di renne.
Con quelle renne bisognerebbe proprio fare qualcosa.
Non ho nulla contro le renne vere, queste invece
sono spesso posticce. Una ha un guasto,
è ferma vicino al mio tavolino e perde delle rotelle dentate.
Per la verità, mi sono più simpatici i koala,
che si arrampicano senza sosta sui clienti,
anche se ufficialmente si continua a sostenere
che l’ultimo fu catturato venticinque anni fa.
(Ma sappiamo come vadano queste cose.) È già notte, ascolto la silenziosa melodia
strimpellata sulla tastierina e guardo la buia Petřín,
le enigmatiche luci sul suo declivio che penetrano
come malvagie costellazioni il mio volto sbiadito nel vetro,
ricordo la mia ragazza, la quale anni fa si unì
come psicologa ad una spedizione che aveva il compito
di mappare l’area ancora inesplorata di Petřín.
Siede adesso nel palazzo della leggenda e guarda
attraverso il fiume verso le finestre accese dello Slavia?
Oppure è stata rapita dai selvaggi indigeni di Petřín
che continuano a minacciare la città?
Gli abitanti della Città Piccola spesso nel mezzo della notte
sentono in lontananza il loro canto strascicato.
Secondo il bonton non si dovrebbe parlare di queste cose.
Fanno tutti finta di non sentire il lugubre corale
che da lontano si mescola alle conversazioni,
e tuttavia sanno che la malvagia musica inconfessata
si infiltra tra le loro parole, libera i remoti significati della foresta vergine in esse contenuti.
Di cosa stiamo conversando, in effetti?
È chiaro che tutti, dopo un po’, vorrebbero
interrompere le conversazioni e unirsi al lontano canto.
Le norme della buona educazione però non lo permettono.

(In E i ligli tarri, 2002)

*
La foca

D’accordo, ho passato una mano di marmellata su una vecchia foca nella metro, ma non dimenticate anche che fui l’unico
ad indovinare il nome della medusa viola fosforescente
sotto l’oscura superficie d’acqua nella Piazza della Città vecchia,
lungo la quale abbiamo veleggiato in barchetta,
sotto facciate silenziose, ubriachi di birra.
Successe l’ultima notte dell’Età dell’oro.
Fate assegnamento su un argomento sofistico con un Cartesio
di peluche, ma avete dimenticato la malerba della scrittura indecifrabile, grazie alla quale inarrestabilmente, con silenzioso fruscio, crescono le nostre poesie più aggraziate,
e come è evidente, anche lo scalfito manichino automatico,
che di notte siede nello scompartimento buio del treno sganciato
su un binario morto della stazione di Smíchov
e parla con disprezzo delle vostre sterili estasi
nelle cupe piazzette dei villaggi. Penso sia già ora di rassegnarsi
al fatto che la sciovia abbia trascinato via il nostro direttore
all’interno di un tempio barbaro, verso un altare con una spina di metallo,
di iniziare ad abituarsi al fatto che i corpi di alcuni corpi siano coperti da un guscio bianco d’uovo,
lo battiamo leggermente assorti con un cucchiaino
e lo sbucciamo, un po’ alla volta appaiono sulla pelle rosata i versi tatuati dell’epos dei lupi, che corrono lungo i corridoi lucenti della facoltà di filosofia,
del grasso pesce voltante, che vola dentro la birreria Carlo IV
e come impazzito sbocconcella le teste dei clienti –
e tutto si ripete nuovamente, anche con conchiglie cacciatrici di cuccioli,
come un gruppo di statue d’oro al centro di una piazza spopolata in una città straniera,
rilucente nell’inesorabile meridiano del sole.

(In E i ligli tarri, 2002)

Turisti

Nell’ultimo appartamento dove ho abitato mi accadeva spesso
che quando la mattina mi svegliavo
c’era nella stanza un gruppo di turisti.
Una giovane guida mostrava ai turisti gli oggetti sulle mensole:
statuette cinesi, scatoline di tè e palle di vetro,
presentava loro il contenuto dei miei cassetti,
prendeva dalla mia libreria delle preziose edizioni e le passava tra il pubblico.
Spiegava tutto con professionalità.
I turisti fissavano a bocca aperta le mie stoviglie come se fossero strumenti medievali di tortura
e fotografavano e toccavano tutto.
I bambini si rincorrevano per la stanza. Si sentiva:
“È possibile comprare delle cartoline qui?”
“Devo fare pipì.”
“Non toccare, sporcaccione, è cacca!”
Fortunatamente non si accorgevano quasi di me,
soltanto di tanto in tanto un anziano turista si sedeva
sul bordo del letto dove giacevo
e tirava un sospiro profondo.
Queste cose mi succedevano continuamente.
In un altro appartamento con me viveva un cinghiale
e in un altro ancora di notte passava per la camera da letto un espresso internazionale.
Presto ci feci l’abitudine ma ancora oggi ricordo
il terrore della prima notte, quando fui svegliato
da un baccano infernale e dal turbinio delle luci.
Peggio era quando di notte mi trovavo in dolce compagnia.
È vero però che alcune donne erano eccitate all’idea
e volevano fare l’amore al fragore di quei terribili boati,
tra gli sciami apocalittici delle scintille.
Ora che vivo nei boschi e la città
è per me soltanto una striscia tremolante di luci,
interrotta da tronchi neri
che guardo prima di addormentarmi
su un mucchio di foglie bagnate, so già
come sia necessario accettare e dare il benvenuto agli intrusi,
imparare a voler bene agli sciacalli, che si aggirano per la stanza,
agli animali di grossa taglia che vivono negli armadi, al loro malinconico canto notturno,
alle sfingi assonnate delle ottomane pomeridiane.
A chi non è mai successo di toccare con la palma della mano sul fondo dell’armadio
dietro ai cappotti flosci la pelliccia umidiccia di un animale sconosciuto?
Nessuno spazio è chiuso.
Nessuno spazio è solo di nostra proprietà.
Gli spazi appartengono a mostri e sfingi.
La cosa migliore per noi è /cuius regio…/
adattarsi alle loro abitudini, al loro antichissimo ordine
e comportarci con modestia e in silenzio. Siamo ospiti.
Comportarsi senza dare nell’occhio, venire a patti con la silenziosa terra.
I tronchi tribali selvatici
di quest’autunno passano per gli ingressi.

(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)

L’uccello

Nella conclusione del sillogismo
compare un grande uccello bianco col becco dorato,
che non era in neanche una delle premesse.
Non è più valido,
nella conclusione da qualche parte penetra sempre qualche animale sconosciuto.
L’uccello siede sulla mia scrivania
e mi punta col suo lungo becco ricurvo.
Ci guardiamo a vicenda silenziosi e immobili per dodici ore
e nel momento in cui squilla il telefono
mi becca proprio in mezzo alla fronte.
Mi sento venir meno
e sogno che piazza S. Venceslao sia ricoperta da una giungla impenetrabile
e di essere disteso di notte ai piedi del monumento a S. Venceslao,
tra la boscaglia di rami e liane traspare il neon azzurro della Casa della moda
e la sua luce si riflette sulle foglie umide delle palme.
Mi assopisco in un nido di foglie
e sogno di essere nella birreria di Doubravčice,
è piena di gente e l’aria è irrespirabile;
un vicino di tavolo, uno zingaro, mi sussurra all’orecchio:
“Due cose mi riempiono di ammirazione e rispetto:
il cielo stellato sopra di me e le stupende tigri che passeggiano
nell’estesa rete di corridoi sotterranei sotto Praga.
Lo dico affinché non disperiate tanto
per l’impossibilità di rispondere ad alcune domande.
Non che un domani si troveranno delle risposte, ma
quando le tigri saliranno in superficie,
le domande si porranno in altro modo”.

(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)

petr kral 1

petr kral

Due poesie di Petr Kral

Edward Thomas (1878-1917)

I

Non solo gonne di fogliame
e sotto precocemente insinuante nelle grazie il buio arroventato da improvvisi fulgori come cascate di gioielli Se il passante getta lo sguardo al di là degli alberi
sarà omaggiato di bronzo da campana illividito del cielo di cenere conciliantemente pulsante
di un palombo e del suo immobile conficcamento
presso l’ardesia intenerita del comignolo La tipula dello stupore nella luce dispersa
ronza silenziosamente alle distanti
cupole E così da qualche parte
qualcosa è redenta senza grido

II

Oltre alla liquida notte nel fogliame anche diamanti
della fugace luce, sbriciolati qui dalla mano di nessuno,
il dorso del tetto lì oltre gli alberi è contornato
con un singolo tratto; stupore
immoto ammutolito.
Il cielo finora limpido adagio impietrisce oltre il vecchio
comignolo, un refolo vellutato lenisce la pietra del comignolo quasi in cenere,
un colombo si abbarbica dietro il comignolo come pietra alleggerita di luce.
E da qualche parte – forse solo in lontananza – qualcosa
è redenta così senza rumore.

(Per l’angelo, 2000)

13 commenti

Archiviato in critica della poesia, poesia ceca, poesia ceca dl Novecento, Senza categoria

Letizia Leone: Nota di lettura  sulla poesia di Steven Grieco-Rathgeb in occasione della presentazione del libro Entrò in una perla (Mimesis Hebenon Edizioni, 2016) alla Biblioteca “Nelson Mandela” di Roma il 15 dicembre 2016 con Poesie scelte dell’autore

foto di Steven Grieco

Traffic of Sakurabana

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email:protokavi@gmail.com

steven grieco piccioni sul terrazzo

India

Nota critica di Letizia Leone

L’approccio alla poesia di Steven Grieco Rathgeb necessita di una premessa. E cioè la considerazione che la riflessione estetica nella modernità ha spostato l’interesse della ricerca dall’opera d’arte al linguaggio, tanto che la più grande poesia Europea ed extraeuropea del ‘900 si colloca nell’ambito di una meditazione sulla parola non soltanto emozionale od evocativa ma anche, e soprattutto, filosofica.

Il linguaggio poetico è il punto di tangenza di istanze filosofiche non risolte come testimoniano i testi heideggeriani ( dal ’50 al ’59)  raccolti in  “In cammino verso il linguaggio” o il “Tractatus logico-filosofico” di Wittgenstein. Opere novecentesche, ambedue “creativamente ispirate” che trascendono il genere del saggio filosofico. L’analisi positivista del linguaggio approda ad una dimensione religiosa o mistica se “In cammino verso…” richiama un “peregrinare che ha una metà sacra” (A. Caracciolo) oppure se Wittgenstein giunge ad identificare il concetto di mistico con un sentimento, una “esperienza affettiva”, erlebnis, che non si può esprimere perché estranea alla descrizione scientifica dei fatti ma è qualcosa che si situa nell’ordine esistenziale, estetico, religioso.

La nozione wittgensteiniana di mistico come “ciò che non si può esprimere”, “ciò che è indicibile”, ineffabile, è diverso dall’estasi tradizionale o da una teologia negativa che dimostra l’impossibilità di pensare il Principio. Il logico austriaco afferma a proposito dell’esperienza mistica: “Credo che il modo migliore di descriverla sia dire che, quando io ho questa esperienza, mi meraviglio per l’esistenza del mondo”, ed anche nel “vedere il mondo come un miracolo”.

Comunque sia Heidegger che Wittgenstein giungono alla conclusione che la poesia costituisca l’esperienza più essenziale del linguaggio.

Mi riaggancio qui al lavoro fattivo del poeta, e a quella che è una tonalità emotiva fondamentale della poesia di Steven Grieco Rathgeb: lo stupore, il sentire e percepire il mondo come un miracolo, la tensione verso l’inesprimibile. Quella stessa tensione mistica, o tonalità emotiva, che illumina i versi del nostro poeta. Versi di un itinerario biografico, interiore e poetico, che si snoda nel tempo dal 1977 al 2010 circa (considerando revisioni e pubblicazioni di inediti) e ci conferma della vocazione all’esplorazione, spaziale-geografica e spirituale- creativa, di un autore che continuamente verifica tutti i suoi strumenti per affondare nel magma della scrittura.

La ricerca artistica si confonde con la ricerca esistenziale in questo osservatore affezionato ai dettagli naturali, agli aspetti di un mondo fenomenico vissuto con profonda empatia. Una natura esperita nella sua piena dimensione religiosa, anzi sacrale, in una empatia creaturale che evidenzia l’estraneità inevitabile ad un mondo di contingenze storico-sociali in cui non è più possibile riconoscersi. In Grieco Rathgeb la poesia è il luogo dove l’uomo riesce a trascendere la distruttiva pressione del mondo della prassi e ad esercitare pienamente la libertà individuale perché, in questo caso, il poeta in quanto esploratore dello spirito, lo è anche di civiltà e culture diverse, occidentali e orientali, come quella indiana o giapponese, assimilate nella loro essenza attraverso il medium portentoso della poesia in una condizione di felice sradicatezza in lunghe stagioni vissute in giro per il mondo, eppure in un    confronto serrato con una libertà che a volte può diventare paurosa.

Esauritasi l’illusione e il miraggio moderno dello scientismo e del tecnicismo rimane insoluta e nuda la profonda domanda sul senso (sul senso dell’Essere, della vita), interrogativo delegato in toto al dire poetico: “Le tue parole si schiusero come un grande fiore” recita un verso alare di “Sfogliavo le pagine”, testo che apre la raccolta e contiene quei semi poetici che germoglieranno, si ramificheranno e disperderanno nell’intera produzione del poeta. Numerosi gli elementi naturali come alberi trasfigurati, alberi dalle sembianze umane che diventano alter ego dell’autore se rifuggono bagliori e strade affollate: “…tre gingko ingialliti erano nessuno, / radicati come stoici in questo frastuono”; oppure una “foglia verde” che scende come una piuma “sui vecchi…assorti in questa grande angoscia”. Sembra quasi che solitudine e alienazione umane vengano spiate e soccorse nella dimensione di un altro regno, quello vegetale: “la veglia degli alberi, tutto il giorno, tutta la notte / nei loro giardini senza tempo”. Così scrive Grieco Rathgeb in “Purusha” (Termine della lingua sanscrita (“essere umano”) e nell’induismo nell’accezione di “Uomo cosmico” o “Spirito”).

Un senso di estraneità con i propri simili e di pieno pathos con alberi e fiori, gli elementi naturali e gli animali, quei regni placidi e sotto assedio, minacciati nella precarietà della loro esistenza dal disumano Leviatano tecnocratico.

Così come un’altra figura in bilico, quella del poeta, naufrago nel gurgite vasto  delle tensioni globalizzanti.

Sfogliavo le pagine, cercando
La parola φαινόμενον.

Tu dicesti: “il mondo è stato tutto scoperto.
Conosciuto i mari e i continenti,
le piante e gli animali classificati.”

Le tue parole si schiusero come un grande fiore.

Testo di apertura dichiarativo con la parola φαινόμενον, traslata dalla tradizione filosofica: participio sostantivato del verbo φαίνομαι («mostrarsi»). Ciò che appare o si manifesta ai sensi. Fenomeno. Fenomenologia. Fenomenologia come tentativo di catturare il mondo. Tentativo destinato al fallimento:

Questo mondo, riflettevo, o soltanto
Un’immagine? Ero incerto anch’io.

Finché la presenza è questo corpo oscuro
Che il pensiero intesse…
Dove il pensiero, oscuro nuotatore,
nuota al largo
respirando indicibile oscurità.

La parola dichiara il fallimento della presa concettuale sulle cose.

Il linguaggio, sostiene Heidegger, non è segno ma “cenno” (Wink).

“I cenni hanno bisogno di un campo di oscillazione amplissimo…nel quale i mortali si muovono in un senso e nell’altro sempre solo con ritmo lento”.

Il pensare del poeta, in questo caso, è lento. E se la poesia è intuitiva, ha tempi di maturazione lentissimi. Un verso, un pensiero “poietico” ci dice Steven, può balenare all’improvviso con un impeto creativo disturbante e rimanere nel suo bozzolo per anni, come un grumo interiore non risolto, finché non arriverà la soluzione espressiva dopo un lungo e silenzioso lavorio inconscio e magmatico. 

Ma il “campo di oscillazione” non è solo nel modo evocativo del linguaggio, l’oscillazione afferra esistenzialmente l’uomo: “Essere vivo è una continua incertezza. È continua oscillazione fra il pieno e il vuoto, fra ciò che mi appartiene e ciò che è negazione di ogni proprietà” scrive Le Clézio in “Estasi e materia”.

E quando Heidegger parla del linguaggio come “senso” vuole connotarlo come “istanza di Eternità” in quanto la parola è un “dire originario” del quale il poeta “viene faticosamente cogliendo la voce”.

Che cos’è la poesia se non un’uscita dal silenzio? Uscita dal silenzio e ritorno al silenzio. Parola attraversata dal silenzio.

L’io che parla, il soggetto lirico, non è un io psicologico ma diventa il limite del mondo. Limite, soglia, porta, (elementi ricorrenti nella poesia di Steven Grieco) margine di un continuo interscambio con un oltre, al di là dell’esprimibile e del pensabile.

“La visione del mondo sub specie aeterni è la visione del mondo come totalità – delimitata-. Il sentimento del mondo come totalità delimitata è il sentimento mistico.”(Wittgenstein):

Poesie di Steven Grieco Rathgeb

Sulla veranda: Meena e Beena Mathur

Due sorelle sulla veranda, in vestiti giallo-sera.
(Fuori, un giardino.)

Dopo il tramonto la loro quiete
si ritira dal cielo rosa pieno di aquiloni
mentre scende la notte –

e nell’incrocio-intreccio, intessersi di traiettorie
su vanno i triangoli e rombi di carta
mentre da ogni terrazzo gesticolano i festanti

Pensiero furtivo, sorvola la Jothwara Road, verso Gangori Bazaar
radioso di nude lampadine, stoffe, folle che si muovono, pigiano mescolano

perfino un albero morto in un terreno deserto si agghinda di colori

Il grido umano di questa terra troppo complessa, sale
nel cielo frenetico, strisciato di rosa

agli stormi di piccioni in volo

agli aquiloni che danzano più su

alle rondini nel più alto

Meena: «ho fatto un sogno della
nostra madre morta.
Da 25 anni, ormai.
la incontro in altri luoghi.»
La veranda incupita piange questa perdita di visibilità,
i prodigi che la nostra psiche non illumina.

«Ti sento cantare quando fai il bagno la mattina.»

Ma io dico che siamo già venuti qui
smemorati, disarmati – benché dicano, È, non È –
soltanto per affermare la vita (e vivere).

Nudo, il cuore percorre un gelido corridoio.

E così, a poco a poco, l’imbrunire ruba
i lineamenti dei loro visi – ma ancora invia

(un riflesso incantevole)

Jaipur, Makar Sakranti, gennaio 2006

Steven Grieco_A Shilp Gram, Udaipur  India

.

Entrò in una perla

Entrò in una perla dentro il mondo
attraverso muri che tacquero ogni grido

qualcuno ne parlò come di un segreto
ma l’azzurra stazione di notte era piena di lacrime

L’estraneità fra te e me
non era lui: noi
ci dimenticammo l’un l’altro pur stando faccia a faccia,
mentre lui, seduto, infilava questo sogno infranto
nella cruna della sua stessa fuga,
attraverso il bene che volge al male che volge
al bene,
attraverso gli stessi luoghi che tornarono
e ritornarono

Su un sentiero così impervio
la via si tramutò in aria!

in una cupola d’ombra
con persone che entrano ed escono,
mentre ciascuno si fabbrica
il proprio sciame di pensieri,
larvati spettri e naiadi d’immagine,
e li appende
in una bianca desolazione

Lui lentamente ci circondò,
circondò da ogni parte
finché rimase nascosto

Ah,, mio Io, mio pagliaccio ormai,
sulla punta del dito fai ruotare
la sfera su cui oscillo

Il mio firmamento di è squarciato da cima a fondo

E allora noi, prismi ignari,
tornammo a splendere
nelle nostre prigioni

finché pensai che questa vita durerà in eterno

Prakriti – queste piante, questi animali

Qualcuno parla di questi esseri,
e le sue sillabe sono bianche, come loro, e vanno
nell’aria pacata
di mezzogiorno

perché ogni albero possa ascoltare e risplendere
immoto
                                raccogliersi nella foresta chiarissima

e questo essere lo spazio più chiaro
un non-spazio
come di tronchi abbattuti

e l’ascolto allargarsi fra le case radiose,
quasi un grido fanciullesco che
tutto questo È
è il perfetto e puro
                                                        “irrealizzato”

e perché ogni essere irreale venato d’azzurro,
immarcescibile radice erbosa
del sempre-presente

possa chinarsi
reale ed incorrotto,
discendere in questo tempo finito

queste migliaia in ogni dove
egrette in una danza
abbagliate dal reciproco bianco delirio,
questi esseri che vivono vividi, occhieggiandosi
in magica fissità.

Ah, il vostro attimo di panica creazione

Ma attraverso il mio Io,
attraverso la zolla di fango che mi racchiude

di quando in quando
                                 va il raggio luminoso
l’alto fischiare di parole…

Faridabad, ottobre 2004; Delhi, dicembre 2005

steven-grieco-giorgio-linguaglossa-letizia-leone-15-dic-2016

da dx Letizia Leone, Steven Grieco Rathgeb e Giorgio Linguaglossa Biblioteca Nelson Mandela in occasione della presentazione del libro il 15 dic. 2016, Roma

 

Letizia Leone è nata a Roma. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF. Ha avuto riconoscimenti in vari premi (Segnalazione Premio Eugenio Montale, 1997; “Grande Dizionario della Lingua Italiana S. Battaglia”, UTET, 1998; “Nuove Scrittrici” Tracce, 1998 e 2002; Menzione d’onore “Lorenzo Montano” ed. Anterem; Selezione Miosotìs , Edizioni d’if, 2010 e 2012; Premiazione “Civetta di Minerva”). 

Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008);  La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi ,(2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011; la pièce teatrale Rose e detriti, FusibiliaLibri, 2015. Dieci sue poesie sono comprese nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016). Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da cameraVersi erotici delle poetesse italiane- (2012).

19 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Steven Grieco-Rathgeb: Appunti per una difesa del «Frammento» – Il «Frammento» in una Poesia di Steven Grieco-Rathgeb da Entrò in una perla (Mimesis Hebenon, 2016) – Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

gif-luna-park-in-bianco-e-nero

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia.

Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email:protokavi@gmail.com

gif-novelSteven Grieco-Rathgeb

Voglio difendere qui a spada tratta la poesia per frammenti, per motivi che elenco di seguito. Ma prima vorrei anche dire che non mi metto in nessun modo in competizione con Linguaglossa, Gabriele, e altri, che usano il frammento in senso specifico, e in base a loro precisi studi teorici che hanno sviluppato negli anni, cosa che io non ho mai fatto in maniera metodica. Mi sento comunque, a modo mio, partecipe della stessa generica ricerca.

1° punto: Ho iniziato a scrivere poesie per frammenti nel 1970. Ho sempre usato questa forma quando il sentimento di ciò che desideravo esprimere lo richiedeva. Spesso evitavo ogni utilizzo del verbo “essere”, e anche i verbi più importanti li usavo solo in forma gerundiva (procedimento comunque normale nella lingua inglese), per dare più il senso dello “spezzettato”. Il mio stile non era allora e nemmeno oggi è riconducibile ad uno specifico indirizzo letterario, questo perché il mio passato linguistico fin troppo diversificato è stato foriero anche di isolamento. Forse per questo motivo scrivere per frammenti mi era più che naturale. Dalla poesia “Poem in March” del 1970:

The particles of dreams. Think me
their drumming that clusters the void.
Bustle of iridescent bits
transforming against the gate-vastness.
Summer thronged to death.
Climb! to the ganging! gates!
sick and silent. rushing upwards.

(…)

The gates behind, past the rain,
through the orchard, past the orchard,
body breathing striding rising

sun-struck metal, axe at stone;
steel in fisted brilliance
scattering out the chits of light

Nel corso degli anni ho scritto spesso usando questo modo, che io trovo in genere incredibilmente creativo e capace di spezzare ogni linearità temporale, quando è questo che vogliamo fare.

2° Punto: Ma comunque di cosa stiamo parlando? Il frammento è già inscritto come metodo stilistico in tutto il Wasteland di T. S. Eliot, da capo a coda! E’ LO STESSO ANDAMENTO DI QUESTO POEMETTO CHE È BASATO SUL FRAMMENTO. E c’è la chiarissima dichiarazione d’intenti, nel verso

These fragments I have shored against my ruins.

Cosa di più chiaro? Allora, che dice l’amico Salvatore Martino (che in ogni caso io stimo tantissimo)? Il verso citato è altresì sapiente ed elegante, e comunica un senso certamente di malinconia, di una civiltà smarrita, ma formula anche una vaga speranza nei due giambi finali, che ravvivano il pessimismo dei primi due piedi, che mi sembrano un amphibraco e un anapesto. (Anche se non ne sono assolutamente certo, il verso si potrebbe anche scansionare come pentametro giambico, ma avrebbe allora un ritmo troppo cadenzato, tipo musichetta.)

3° punto: Qui di seguito trascrivo alcuni dei miei pensieri sulla poesia per frammenti, così come li avevo annotati quattro anni fa quando abitavo in via Merulana (Roma):

12 gennaio 2012: nella tua poesia spezza quella linea di pensiero il cui unico pregio è avere un andamento “logico-consecutivo”: che ha bisogno di darsi certezze circa la sua capacità di formare appunto un discorso logico. E’ quello che abbiamo imparato alla scuola elementare, e che quando siamo diventati grandi è servito per comunicare con gli altri, per siglare contratti, fare affari e le diecimila altre cose della vita di ogni giorno: ma non necessariamente per la poesia. La frase narrativa o il verso in poesia, hanno invece bisogno di essere spezzati, perché possano oggi produrre una sorta di senso.
Ma queste sono “scoperte” di più di un secolo fa. Eppure, si rende necessario oggi “riscoprirle”.
Cosa dire del fatto che così tanta musica classica contemporanea oggi è impressionistica? Dopo Scelsi, Cage, Stockhausen, Xenakis e gli altri grandi della decostruzione del suono musicale, sembra che oggi i compositori non siano in grado di superare la barriera concettuale fra lo “sperimentalismo creativo” ed una espressione artistica più ricca e diversificata degli eventi umani e fenomenici che dicono il nostro contraddittorio mondo contemporaneo. Ed è proprio perché quella barriera non è stata superata, che così tanti compositori delle ultime generazioni sono ricaduti nella palude dell’ “impressionismo”. Abbiamo già figure somme di impressionsti, per es. Debussy e Skrjabin, questi epigoni non aggiungono niente a quella esperienza estetica di un secolo fa.
(E questo è forse uno dei motivi per cui la gente è tornata ad ascoltare solo Mozart e Beethoven.)

steven-grieco-28-nov-2016

Steven Grieco-Rathgeb

19 gennaio 2012: Se la durata temporale di un verso è “giusta”, “sufficiente”, allora il suo senso, che il poeta offre al fruitore, spezzerà tutti e preconcetti culturali che ne ostacolano la “giusta” fruizione. Il suo “sapore estetico” sarà pieno. (In cos’altro sta l’arte se non nel sapore estetico?)
Se questa condizione viene sostanzialmente soddisfatta, non ci saranno filtri che innescano la reazione del “già visto”, o “già sentito”: che fa sì che il fruitore fulmineamente pensi: “questa immagine la conosco già, questo concetto lo conosco già”. Perché è proprio questa falsa sensazione del “già conoscere” che innesca in lui una inevitabile svalutazione di quel senso, che a sua volta gli nega la fruizione completa del verso. Ne perde insomma la verginità. Soddisfatta questa condizione, l’immagine poetica avrà imparato la lezione della immagine cinematografica: la quale ci appare oggi essere la più “reale” in campo artistico: quella che interpone meno barriere, meno filtri, fra se stessa e la “realtà” esterna osservata ad occhio nudo. Ciò che la rende anche la più velocemente fruibile. (La poesia, liberatasi delle sue tante pastoie e incrostazioni “letterarie”, potrebbe anch’essa avere questa velocità di arrivo al fruitore.)

11 febbraio 2012: Ho fatto un sogno di Mani (Mani Kaul, regista indiano e mio amico dal 1979 fino alla sua morte nel 2011). Era nella mia stanza qui a Roma e parlava di arte, di espressione artistica. Parlava, ma in realtà dalla sua bocca uscivano frammenti di parole, frantumi visibili di una qualche sostanza solida, che allo stesso tempo erano pezzettini luccicanti di… nulla (infatti il suono non ha sostanza materiale.)
E queste schegge arrivavano ad altissima velocità, come urli, come shrapnel, a percuotere il foglio bianco di un mio quaderno, aperto, dove poi si incollavano, e perduravano.
Nel sogno mi era chiaro che arte è, almeno in questo senso, espressione verbale, e non importa quale sia il mezzo artistico impiegato per veicolarla: cinema, pittura, scultura, poesia, non fa nessuna differenza, rimane comunque un “dire”. E l’espressione artistica (da ex-pressus, spremuto) a quanto pare per uscire ha bisogno spesso di una forza, una energia, quasi una violenza.
Allora ho capito qualcosa della “frammentazione” del dire poetico, su cui ho pensato in questi giorni: perché quelle schegge luccicanti arrivavano in sequenza temporale, sì – ma raggiungevano il foglio bianco senza ordine apparente, e colpivano il foglio in diversi angoli, in zone diverse, in modo apparentemente aleatorio.
Sembra dunque che la ineludibile sequenza temporale di un prodotto artistico non produca necessariamente “ordine”, almeno non nel senso abituale della parola “ordine”.
La frammentazione del dire sembra contenere una profonda verità, una profonda riflessione sui nostri tempi.
(L’estrema compressione semantica usata da poeti come René Char o Samuel Beckett, non corrisponde necessariamente ad una poesia per frammenti, ma nemmeno è da essa così lontana.)

25 febbraio 2012: Una volta che si è capito che la maggior parte dei compositori classici contemporanei (gli Spettrali, Toshio Hosokawa, e quanti altri) sono in realtà degli impressionisti – mentre Scelsi non lo è affatto – allora è necessario riflettere sul perché di questo: e pensare che c’è grandissima differenza fra descrizione-imitazione artistica delle cose (ciò che in parte non piccola costituisce questo “impressionismo” di ultima generazione) e una narrazione artistica “esistenziale”: narrazione del senso delle cose come sono, e quindi del loro “profondo essere”: laddove il senso dell’evento è già inscritto nell’osservazione:

Hanno tagliato del giunco per un tetto.
Sulle canne dimenticate
cadono morbidi fiocchi di neve.

4° punto: Perché le frasi di una narrazione o i versi di una poesia possono avvantaggiarsi dell’andamento spezzato, o frammentato? Perché anche quando interiorizziamo un evento fenomenico esterno o interno, questo processo non ha andamento univoco e perfettamente scorrevole.
Mettiamo che io voglia descrivere un albero in fiore che ho appena intravisto di sfuggita in un cortile desueto una grigia mattina di primavera. “E’ primavera!” Tutto si riassume in una frase, certamente. Ma a ben vedere l’esperienza percettiva appena avuta è molto più complessa così come, lo sappiamo bene, il cervello è complesso assai, ed elabora tantissimi dati in un attimo di tempo.
Questo già lo sapevano uomini come Scelsi, Stockhausen o Xenakis: che prendevano un suono, lo ingigantivano per trovarvi al suo interno un intero universo sonoro.
Per tornare a noi: se studiamo bene (come il poeta deve senz’altro fare!) la nostra reazione psichica a quell’albero fiorito, ci renderemo conto che il processo di interiorizzazione non è affatto piano e lineare: la reazione emotiva ha determinato una scossa interiore, che chiamiamo “meraviglia” (“è primavera!”) e questo determina una ripetizione interna di 10, 100, 1,000 volte l’evento nello spazio di un attimo. Come il riverbero di luce. Solo quando è passata la meraviglia iniziale (quindi dopo qualche secondo), l’immagine dell’albero si assesta un po’ nella coscienza, e la nostra mente riprende la sua strada interminabile di interiorizzazione di nuovi eventi interni o esterni. Ma ancora durante tutta la nostra giornata, l’immagine dell’albero (o qualsiasi altra esperienza forte) si riaffaccerà in noi come “after-image”, “scia d’immagine”.
(E’ proprio questo, mi sembra, che molti compositori contemporanei non fanno: “imitano” impressionisticamente l’evento, invece di sondarne la profondità fenomenica.)

(Gli indiani vedono questo processo mentale che ho descritto sopra come un aspetto di कर्म, karma: il lavorio mentale che appropria, possiede, l’evento vissuto, e se lo porta dietro per tutta la vita come traccia psichica, e oltre, attraverso le esistenze.)

Concludendo questo mio contributo a L’Ombra delle parole: ecco una delle ragioni, almeno dal mio punto di vista, per cui la scrittura per frammenti può aiutare la poesia ad inserirsi in questo mondo: un mondo che nell’ultimo secolo ha enormemente esteso la gamma fra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, e anche le ricerche in campo neurologico; un mondo quindi che richiede una descrizione più approfondita, folgorante, e meno impressionistica, dell’evento.

steven-grieco-entro-in-una-perla-cop

 

Il «Frammento» in una Poesia di Steven Grieco-Rathgeb da “Entrò in una perla” (Mimesis Hebenon, 2016) – Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/12/01/limmagine-nella-poesia-tra-il-mondo-di-avanscena-e-il-mondo-di-retroscena-nella-poesia-di-tomas-trastromer-e-la-teoria-dellunificazione-dei-modelli-di-simulaz/comment-page-1/#comment-16369

Scrive René Char: «Le parole che sorgono sanno di noi ciò che noi ignoriamo di loro».

Maurizio Ferraris: «La vita è l’origine non rappresentabile della rappresentazione».1]

In questa sede mi occuperò di una poesia di Steven Grieco-Rathgeb che tratta della vita dal punto di vista della vita, da un punto di vista esterno. La poesia inizia con una annotazione da diario: oggettiva e sintetica, quasi stenografica:

Due sorelle sulla veranda, in vestiti giallo-sera.
(Fuori, un giardino.)

L’autore sembra non esserci. In tal modo, si attua una dis-locazione dell’autore il quale non è più presente all’interno della composizione, ma si trova in un altro luogo. La frequente apparizione di verbi all’infinito e in forma riflessiva rende evidente questo allontanamento dell’autore il quale è fuori scena. Tutto accade perché accade, come gli «stormi dei piccioni in volo», non c’è un perché circoscritto nella poesia, e neanche all’esterno della poesia. Anche il sogno di Meena della «madre morta», accade e, in quanto accadimento, ha significato. Il significato quindi è svincolato dall’autore e dalla stessa poesia. La poesia non reca il significato perché questo le preesiste («Le parole che sorgono sanno di noi ciò che noi ignoriamo di loro»), e il poeta non fa che prenderne atto. Il significato è contenuto in un frammento di immagine, è tutto lì.

Sulla veranda: Meena e Beena Mathur

Due sorelle sulla veranda, in vestiti giallo-sera.
(Fuori, un giardino.)

Dopo il tramonto la loro quiete
si ritira dal cielo rosa pieno di aquiloni
mentre scende la notte –

e nell’incrocio-intreccio, intessersi di traiettorie
su vanno i triangoli e rombi di carta
mentre da ogni terrazzo gesticolano i festanti

Pensiero furtivo, sorvola la Jothwara Road, verso Gangori Bazaar
radioso di nude lampadine, stoffe, folle che si muovono, pigiano mescolano

perfino un albero morto in un terreno deserto si agghinda di colori

Il grido umano di questa terra troppo complessa, sale
nel cielo frenetico, strisciato di rosa

                                                                                             agli stormi di piccioni in volo

                                                                    agli aquiloni che danzano più su

                                             alle rondini nel più alto

Meena: «ho fatto un sogno della
nostra madre morta.
Da 25 anni, ormai.
la incontro in altri luoghi.»

La veranda incupita piange questa perdita di visibilità,
i prodigi che la nostra psiche non illumina.

«Ti sento cantare quando fai il bagno la mattina.»

Ma io dico che siamo già venuti qui
smemorati, disarmati – benché dicano, È, non È –
soltanto per affermare la vita (e vivere).

Nudo, il cuore percorre un gelido corridoio.
E così, a poco a poco, l’imbrunire ruba
i lineamenti dei loro visi – ma ancora invia

(un riflesso incantevole)

(Jaipur, Makar Sakranti, gennaio 2006)

gif-porte

Si tratta dunque, dunque, di ripensare la vita umana al di là dell’essere-per-la-morte in cui l’aveva chiusa Heidegger: la nostra esistenza non può essere solo «empirico-condizionata» ma è anche metafisico-incondizionata, il discorso sull’essere non può ridursi all’essere ente umano. Sul ciglio delle riflessioni dell’ultimo Derrida, come nella poesia di Steven Grieco-Rathgeb, si intravede, da lontano, la soglia della condizione post-umana che è il superamento, definitivo, della condizione postmoderna di Jean-François Lyotard. Un umano non più chiuso dentro il circolo dei suoi predicati in cui la dialogicità della coscienza non costituisce più soltanto un pretesto per pensarsi in opposizione all’altro da noi ma si pone in dialogo con tutti gli esseri della terra, animati e inanimati (vedi gli uccelli, gli aquiloni, la Gangori Bazaar della poesia di Steven Grieco, etc.). E questo significa, «gettare ponti tra le epoche»2] e tra gli uomini tra di loro.
La poesia segna la scomparsa «del primo significante», narra di un luogo dove è avvenuta una visione. La poesia si pone così «in prossimità assoluta con l’essere», o nelle sue vicinanze immediate, con un senso leggibile, che permette di preservarlo dal movimento corrosivo ed ambiguo del processo della significazione. Il modello di questo logos puro e naturale è, per Derrida, contemporaneo all’epoca teologica, «il segno e la divinità hanno lo stesso luogo e tempo di nascita» dice Derrida, come il verbo divino è parola assoluta di una soggettività creatrice infinita, che crea le cose solo nominandole, così il linguaggio della metafisica. La parola poetica di Steven Grieco-Rathgeb reca una traccia, è una parola onirica che guarda la vita dal punto di vista della vita. È un sogno, o meglio, un frammento infinitesimale di un sogno.

1] Jacques Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1990, p. 301.
2] Maurizio Ferraris, Postille a Derrida, Rosenberg e Sellier, Torino 1990, p. 215.

69 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, poesia italiana contemporanea

SEI POESIE di MICHAL AJVAZ (cura e traduzione di Antonio Parente) da Autori vari, da “Sembra che qui la chiamassero neve. Poeti cechi contemporanei”, Hebenon-Mimesis, Milano 2004 con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa.

primavera di Praga, 1968

primavera di Praga, 1968

città-praga-lampione-di-strada-tram

praga-lampione-di-strada-tram

Giorgio Linguaglossa

Michal Ajvaz si riallaccia a quella grande tradizione filosofico-fantastica che fa capo a Borges, Calvino, Perec. Il suo è un viaggio fantastico attraverso un futuribile, modernissimo e improbabile mondo quotidiano di Gulliver. I personaggi che intervengono nelle poesie di Ajvaz sono persone qualsiasi, i nostri vicini di casa, magari un po’ stralunati, che sembrano venuti da un altro pianetaAjvaz presenta delle situazioni dove personaggi improbabili attraversano il nostro quotidiano come fosse una dimensione onirica, e attraversano la dimensione onirica come fosse il nostro quotidiano. Ajvaz tratta il quotidiano alla stregua di una dimensione onirica e farsesca, con tutto ciò che ne consegue in termini di svalutazione della Storia e delle ideologie. Non si dimentichi che Ajvaz proviene da quella generazione che ha vissuto il 1968 praghese, i carri armati sovietici, la restaurazione e la fine violenta della Primavera di Praga, il gelo della nuova guerra fredda, la fine del comunismo e l’inizio di una nuova era capitalistica, il liberismo sfrenato e una sfrenata liberalizzazione dei mercati. Una vera ecatombe della semiosfera e della ecosfera politica e antropologica del popolo praghese. E che cosa poteva fare la poesia praghese dinanzi a questi eventi macrostorici? Che cosa poteva fare Ajvaz se non rispondere con una carica energetica notevolissima, con un nuovo «realismo onirico», come è stato chiamato o «irrealismo onirico», come io lo chiamerei? Forse, la poesia reagisce come la coda di un rettile: si ritrae istintivamente di fronte alla crudeltà della storia. Se il «realismo» rientra in quella grande ideologia della semiosfera che crede che il «reale» stia lì e noi qui a rappresentarlo, l’irrealismo di Ajvaz parte dal presupposto opposto, che il «reale» è scomparso e che noi dobbiamo ricreare il «reale» ogni volta che gettiamo uno sguardo su di esso. Ha scritto Boris Groys: «La vittoria del materialismo in Russia portò alla totale scomparsa nel paese di qualsiasi materia».1  Verissimo. Potremmo dire, parafrasando Groys, che la dittatura staliniana, la fine prematura della primavera di Praga del ’68, ha finito per far scomparire presso la poesia ceca i concetti di «reale» e di «materia», ha decretato la scomparsa di tutte le ideologie che peroravano la bontà  e l’eternità di quel «reale» e di quella «materia». Ecco la scaturigine profonda dell’«irrealismo» post-surreale di Ajvaz. Perché un certo tipo di poesia «realistica» consegue sempre da un certo concetto di «reale», è un atto di formazione estetica di quel «reale», un rafforzativo di una certa visione del mondo, rientra, insomma, in un determinato concetto della semiosfera e della sua utilizzazione in chiave conservativa. Ecco, a me sembra che la poesia di Ajvaz ci dica che non c’è nulla che valga la pena di conservare, che non c’è un «tutto», e che esso «tutto» è soltanto una costruzione ideologica che serve di «rinforzo» di una certa visione di un certo «reale». «Le relazioni verticali in poesia / sono fittizie», scrive Ajvaz. Appunto, un concetto di «relazione verticale»  in poesia ha cessato di essere stilisticamente propulsivo, vitale; ciò che resta di vitale è tutto ciò che non rientra in questo tipo di concetto di «relazione verticale», gerarchica.

L’autore ceco non pensa più di disporre del potere di regolare il «reale» e di «dominare» il materiale poetico, concetto questo tipico delle avanguardie novecentesche, in Ajvaz il testo è una relazione orizzontale non gerarchica. È una poesia che si affida alla procedura metonimica. Ecco, leggiamo: la mattina dei turisti giapponesi entrano nella stanza dove il poeta vive, ecco quello che accade:

I bambini si rincorrevano per la stanza. Si sentiva:
“È possibile comprare delle cartoline qui?”
“Devo fare pipì.”
“Non toccare, sporcaccione, è cacca!”
Fortunatamente non si accorgevano quasi di me,
soltanto di tanto in tanto un anziano turista si sedeva
sul bordo del letto dove giacevo
e tirava un sospiro profondo.
Queste cose mi succedevano continuamente.
In un altro appartamento con me viveva un cinghiale 
e in un altro ancora di notte passava per la camera da letto un espresso internazionale.

Oppure, ecco un nano che strimpella su un pianoforte allo Slavia caffè dove il caffè «costa otto corone e quaranta», e succede un gran parapiglia con i clienti del bar, perché «i clienti e i nani si odiano»… Ed ecco che all’improvviso irrompe «una mandria di renne», e, subito dopo compaiono dei koala che litigano con gli avventori del bar, e poi ecco «un animale bianco» che non sa cosa fare… etc. È un tipo di poesia dove l’organizzazione sintattica ha smesso di funzionare come relazione razionale verticale, dove il «dominio» ha cessato di esercitare le sue qualità taumaturgiche e le sue bontà razionali, dove l’unica regola ferrea è quella della orizzontalità di tutto quanto noi designiamo con l’antiquato concetto di «reale» e quant’altro.

Le relazioni verticali in poesia
sono fittizie.
In realtà ogni verso è parte
di un lungo testo orizzontale,
che per un attimo si rende visibile quando attraversa la pagina,
come quando il fiume sotterraneo sgorga in superficie e di nuovo scompare
nella sabbia.

Vorrei richiamare la classificazione di Cesare Segre, delle posizioni del «narratore» rispetto al «testo», procedura che può essere adottata anche in poesia, anzi, che mi sembra calzare a pennello per la poesia di Michal Ajvaz. La sottopongo alla attenzione dei lettori. Si tratta di una procedura di «irrealismo onirico»:

1) narratore presente come personaggio nella storia (omodiegetico) che analizza gli avvenimenti dall’interno (intradiegetico);

2) narratore presente come personaggio nella storia (omodiegetico) che però analizza gli avvenimenti dall’esterno (extradiegetico);

3) narratore assente come personaggio dalla storia (eterodiegetico), che analizza gli avvenimenti dall’interno (intradiegetico);

4) narratore assente come personaggio dalla storia (eterodiegetico), che analizza gli avvenimenti dall’esterno (extradiegetico).

La caratteristica della poesia di Michal Ajvaz è che egli utilizza un po’ tutti questi punti di vista insieme secondo una procedura multicentrica e poliprospettivistica.

 I turisti fissavano a bocca aperta le mie stoviglie come se fossero strumenti medievali di tortura
e fotografavano e toccavano tutto.
I bambini si rincorrevano per la stanza. Si sentiva:
“È possibile comprare delle cartoline qui?”
“Devo fare pipì.”
“Non toccare, sporcaccione, è cacca!”
Fortunatamente non si accorgevano quasi di me,
soltanto di tanto in tanto un anziano turista si sedeva
sul bordo del letto dove giacevo
e tirava un sospiro profondo.
Queste cose mi succedevano continuamente.
In un altro appartamento con me viveva un cinghiale
e in un altro ancora di notte passava per la camera da letto un espresso internazionale.

*Nella conclusione del sillogismo
compare un grande uccello bianco col becco dorato

La grande qualità di Ajvaz è quella di saper inserire nello scorrimento del «verosimile» delle sue poesie delle deviazioni di senso, delle proposizioni incidentali e parentetiche che sospendono e sviano il senso, i significati delle poesie per convogliarvi un sopra senso, un sotto senso, dei sensi obliqui, significati diagonali, spostati, ellittici. È una procedura sconosciuta alla poesia italiana del secondo Novecento, perché noi in Italia non abbiamo avuto una scuola poetica surrealista e siamo rimasti orfani, orfani di un approccio squisitamente «realistico» al problema del «reale». Abbiamo avuto delle ottime manifatture di bottega (la cd. linea lombarda è una di queste) che hanno però prodotto risultati estetici prevedibili e, in qualche modo, programmabili e programmati. In Ajvaz invece abbiamo un poeta che ha fatto tesoro della procedura surreale o surrazionale di costruzione del testo poetico, senza dubbio Ajvaz ci presenta dei testi che esulano dagli stilemi realistici della nostra tradizione letteraria,  il nocciolo di questa procedura è costituito dalla deviazione.
Nel brano riportato è davvero bizzarra quella invenzione dei turisti che entrano ed escono dall’appartamento mentre fotografano tutto, e quel treno espresso internazionale che passa per la camera da letto. Si tratta di inserti a metà tra il surrazionale e l’assurdo che ci svelano un nuovo rapporto con il «reale» cui siamo abituati.
Se lo stile di un autore è individuato dal sistema delle deviazioni (deviazioni dalla langue, dal linguaggio letterario, dai cliché e dai modelli letterari invalsi in un sistema letterario), dobbiamo riconoscere che i testi di Ajvaz risultano avere uno stile di eccellente fattura.
Credo che da Ajvaz ci sia molto da imparare.

  1. Groys Lo stalinismo, ovvero l’opera d’arte totale, Garzanti, 1998 p. 28
onto ajvaz

Michal Ajvaz, grafica di Lucio Mayoor Tosi

primavera di Praga, 1968

primavera di Praga, 1968

La foca

D’accordo, ho passato una mano di marmellata su una vecchia foca nella metro, ma non dimenticate anche che fui l’unico
ad indovinare il nome della medusa viola fosforescente
sotto l’oscura superficie d’acqua nella Piazza della Città vecchia,
lungo la quale abbiamo veleggiato in barchetta,
sotto facciate silenziose, ubriachi di birra.
Successe l’ultima notte dell’Età dell’oro.
Fate assegnamento su un argomento sofistico con un Cartesio
di peluche, ma avete dimenticato la malerba della scrittura indecifrabile, grazie alla quale inarrestabilmente, con silenzioso fruscio, crescono le nostre poesie più aggraziate,
e come è evidente, anche lo scalfito manichino automatico,
che di notte siede nello scompartimento buio del treno sganciato
su un binario morto della stazione di Smíchov
e parla con disprezzo delle vostre sterili estasi
nelle cupe piazzette dei villaggi. Penso sia già ora di rassegnarsi
al fatto che la sciovia abbia trascinato via il nostro direttore
all’interno di un tempio barbaro, verso un altare con una spina di metallo,
di iniziare ad abituarsi al fatto che i corpi di alcuni corpi siano coperti da un guscio bianco d’uovo,
lo battiamo leggermente assorti con un cucchiaino
e lo sbucciamo, un po’ alla volta appaiono sulla pelle rosata i versi tatuati dell’epos dei lupi, che corrono lungo i corridoi lucenti della facoltà di filosofia,
del grasso pesce voltante, che vola dentro la birreria Carlo IV
e come impazzito sbocconcella le teste dei clienti –
e tutto si ripete nuovamente, anche con conchiglie cacciatrici di cuccioli,
come un gruppo di statue d’oro al centro di una piazza spopolata in una città straniera,
rilucente nell’inesorabile meridiano del sole.

(In E i ligli tarri, 2002)

Michal Hajvaz copertina

Turisti

Nell’ultimo appartamento dove ho abitato mi accadeva spesso
che quando la mattina mi svegliavo
c’era nella stanza un gruppo di turisti.
Una giovane guida mostrava ai turisti gli oggetti sulle mensole:
statuette cinesi, scatoline di tè e palle di vetro,
presentava loro il contenuto dei miei cassetti,
prendeva dalla mia libreria delle preziose edizioni e le passava tra il pubblico.
Spiegava tutto con professionalità.
I turisti fissavano a bocca aperta le mie stoviglie come se fossero strumenti medievali di tortura
e fotografavano e toccavano tutto.
I bambini si rincorrevano per la stanza. Si sentiva:
“È possibile comprare delle cartoline qui?”
“Devo fare pipì.”
“Non toccare, sporcaccione, è cacca!”
Fortunatamente non si accorgevano quasi di me,
soltanto di tanto in tanto un anziano turista si sedeva
sul bordo del letto dove giacevo
e tirava un sospiro profondo.
Queste cose mi succedevano continuamente.
In un altro appartamento con me viveva un cinghiale
e in un altro ancora di notte passava per la camera da letto un espresso internazionale.
Presto ci feci l’abitudine ma ancora oggi ricordo
il terrore della prima notte, quando fui svegliato
da un baccano infernale e dal turbinio delle luci.
Peggio era quando di notte mi trovavo in dolce compagnia.
È vero però che alcune donne erano eccitate all’idea
e volevano fare l’amore al fragore di quei terribili boati,
tra gli sciami apocalittici delle scintille.
Ora che vivo nei boschi e la città
è per me soltanto una striscia tremolante di luci,
interrotta da tronchi neri
che guardo prima di addormentarmi
su un mucchio di foglie bagnate, so già
come sia necessario accettare e dare il benvenuto agli intrusi,
imparare a voler bene agli sciacalli, che si aggirano per la stanza,
agli animali di grossa taglia che vivono negli armadi, al loro malinconico canto notturno,
alle sfingi assonnate delle ottomane pomeridiane.
A chi non è mai successo di toccare con la palma della mano sul fondo dell’armadio
dietro ai cappotti flosci la pelliccia umidiccia di un animale sconosciuto?
Nessuno spazio è chiuso.
Nessuno spazio è solo di nostra proprietà.
Gli spazi appartengono a mostri e sfingi.
La cosa migliore per noi è /cuius regio…/
adattarsi alle loro abitudini, al loro antichissimo ordine
e comportarci con modestia e in silenzio. Siamo ospiti.
Comportarsi senza dare nell’occhio, venire a patti con la silenziosa terra.
I tronchi tribali selvatici
di quest’autunno passano per gli ingressi.

(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)

Michal Ajvaz

Michal Ajvaz

L’uccello

Nella conclusione del sillogismo
compare un grande uccello bianco col becco dorato,
che non era in neanche una delle premesse.
Non è più valido,
nella conclusione da qualche parte penetra sempre qualche animale sconosciuto.
L’uccello siede sulla mia scrivania
e mi punta col suo lungo becco ricurvo.
Ci guardiamo a vicenda silenziosi e immobili per dodici ore
e nel momento in cui squilla il telefono
mi becca proprio in mezzo alla fronte.
Mi sento venir meno
e sogno che piazza S. Venceslao sia ricoperta da una giungla impenetrabile
e di essere disteso di notte ai piedi del monumento a S. Venceslao,
tra la boscaglia di rami e liane traspare il neon azzurro della Casa della moda
e la sua luce si riflette sulle foglie umide delle palme.
Mi assopisco in un nido di foglie
e sogno di essere nella birreria di Doubravčice,
è piena di gente e l’aria è irrespirabile;
un vicino di tavolo, uno zingaro, mi sussurra all’orecchio:
“Due cose mi riempiono di ammirazione e rispetto:
il cielo stellato sopra di me e le stupende tigri che passeggiano
nell’estesa rete di corridoi sotterranei sotto Praga.
Lo dico affinché non disperiate tanto
per l’impossibilità di rispondere ad alcune domande.
Non che un domani si troveranno delle risposte, ma
quando le tigri saliranno in superficie,
le domande si porranno in altro modo”.

(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)

Michal Ajvaz

Michal Ajvaz

Fiume sotterraneo

Le relazioni verticali in poesia
sono fittizie.
In realtà ogni verso è parte
di un lungo testo orizzontale,
che per un attimo si rende visibile quando attraversa la pagina,
come quando il fiume sotterraneo sgorga in superficie e di nuovo scompare
nella sabbia. Il foglio bianco dopo l’ultima lettera del rigo
ancora indistintamente espira parole insabbiate (ora piuttosto
soltanto il loro profumo), di tanto in tanto si solleva
nel candido vuoto un frammento di frase, un’immagine indistinta
come l’allucinazione di un esploratore polare sulla distesa di neve.
Sono immagini di sogno di porti pullulanti di gente sul molo,
immagini di una giungla dove sui ruderi del tempio sorge un sole rosso,
nei sui raggi rilucono roride statue d’oro, gli uccelli stridono.
Riusciremo a seguire l’orma del verso che svanisce?
Non annegheremo nella pagina bianca,
avremo abbastanza coraggio da lasciare la riva sicura del nero tipografico?
Sembra che se non impariamo ad ascoltare la confidenza della pagina vuota,
non capiremo neanche il senso delle parole stampate.
Il senso delle parole si alimenta delle linfe del tutto, che si estende
fino alla foresta vergine e fino alla riva. L’oceano è vicino.
Quando vi troverete alla fine del verso,
dimenticate la stupida abitudine di tornare all’inizio
del seguente e continuate, superate finalmente il confine.
Non abbiate paura di perdervi nel giardino di immagini che maturano.
Andate finalmente per una volta fino alla fine del cammino,
verso l’inferriata argentea: già da anni vi aspettano pazientemente.

(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)

hebenon

Petřín

Allo Slavia il caffè costa otto corone e quaranta,
sebbene lo preparino da elitre di coleotteri.
Prendono comunque buona cura del divertimento:
al centro di ogni tavolo c’è un pianoforte in miniatura,
sul seggiolino siede un nano
e suona una melodia sentimentale.
I nani hanno l’abitudine di fare un sorso dalle tazze;
i clienti non vedono di buon occhio la cosa, si dice
che i nani abbiano varie malattie.
In sostanza i clienti e i nani si odiano,
di continuo gli uni sparlano degli altri col personale.
Ne vien fuori una gran confusione, soprattutto quando (come proprio in questo momento)
passa per il locale una mandria di renne.
Con quelle renne bisognerebbe proprio fare qualcosa.
Non ho nulla contro le renne vere, queste invece
sono spesso posticce. Una ha un guasto,
è ferma vicino al mio tavolino e perde delle rotelle dentate.
Per la verità, mi sono più simpatici i koala,
che si arrampicano senza sosta sui clienti,
anche se ufficialmente si continua a sostenere
che l’ultimo fu catturato venticinque anni fa.
(Ma sappiamo come vadano queste cose.) È già notte, ascolto la silenziosa melodia
strimpellata sulla tastierina e guardo la buia Petřín,
le enigmatiche luci sul suo declivio che penetrano
come malvagie costellazioni il mio volto sbiadito nel vetro,
ricordo la mia ragazza, la quale anni fa si unì
come psicologa ad una spedizione che aveva il compito
di mappare l’area ancora inesplorata di Petřín.
Siede adesso nel palazzo della leggenda e guarda
attraverso il fiume verso le finestre accese dello Slavia?
Oppure è stata rapita dai selvaggi indigeni di Petřín
che continuano a minacciare la città?
Gli abitanti della Città Piccola spesso nel mezzo della notte
sentono in lontananza il loro canto strascicato.
Secondo il bonton non si dovrebbe parlare di queste cose.
Fanno tutti finta di non sentire il lugubre corale
che da lontano si mescola alle conversazioni,
e tuttavia sanno che la malvagia musica inconfessata
si infiltra tra le loro parole, libera i remoti significati della foresta vergine in esse contenuti.
Di cosa stiamo conversando, in effetti?
È chiaro che tutti, dopo un po’, vorrebbero
interrompere le conversazioni e unirsi al lontano canto.
Le norme della buona educazione però non lo permettono.

(In E i ligli tarri, 2002)

Parchi

Dopo che apparve nell’ingresso un animale bianco,
non ci fu più ragione di evitare le aree proibite della città.
Passando per la tavola calda illuminata con pareti piastrellate,
ci avviammo verso gli estesi parchi, da dove da anni e anni
trasudavano febbri, nebbia, il vizio molesto della germinazione
all’interno di guardaroba serrati, tra pagine di libri,
dove poi iniziarono a crescere i lattari. Non leggevamo più,
raccoglievamo funghi in biblioteca. Le malattie di mobilia
si infiltrarono nei nostri sistemi filosofici, accumularono
i loro succhi nel garbuglio di frasi condizionali e causali,
dai concetti alitò il respiro dell’erba imputridente. Cristalli di veleno estraneo,
che interessano solo alle malvagie statue di malachite, che si avvicinano,
adesso già definitivamente, lungo le cupe rampe delle case
in stile liberty, tutto ciò che è rimasto dagli anni passati.
Dopo che apparve nell’ingresso un animale bianco,
non ci fu più ragione di evitare le aree proibite della città.
Fummo insigniti della sconfitta, fredda e radiosa
come luci di locomotive negli spessi specchi della prima repubblica
nelle camere estranee con la luce spenta vicino alla ferrovia,
la porticina si apre verso uno strano paradiso, in foglie bagnate
oltre la macchia di umidi cappotti maleodoranti di dolciastro.

(In E i ligli tarri, 2002)

17 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea, poesia ceca, realismo magico, surrealismo praghese

TRE POEMETTI di Milan Nápravník da “Il nido del buio” “Ruggine di sangue”, “Samovar siamese”, “All’imbrunire”, traduzione dal ceco di Antonio Parente

Foto Bronislava Nijinska by Man Ray, 1922; November 1922Milan Nápravník Il nido del buio traduzione dal ceco di Antonio Parente Mimesis Hebenon, 2009 pp. 124 € 13

   MILAN NÁPRAVNÍK nasce in Cecoslovacchia nel 1931 e da circa quarant’anni vive in Germania. Conseguita a Praga la maturità scientifica, lavorò per un anno nelle miniere d’oro di Jílové, vicino Praga, dopo essere stato etichettato, essendo uno studente appassionato di jazz, come un “ammiratore dello stile di vita americano”. Dal 1952 al 1957 studiò drammaturgia alla Facoltà di Studi cinematografici dell’Accademia delle arti performative di Praga. Dopo tre anni di lavori provvisori, nel 1960 iniziò a lavorare alla Televisione cecoslovacca come direttore artistico della redazione per le Trasmissioni per bambini e ragazzi. Dalla seconda metà degli anni 1950 collaborò con il Gruppo surrealista di Praga, la cui attività non fu immune da intrichi perpetrati dalla polizia segreta e i cui tentativi di  esporre o pubblicare le proprie opere furono ostacolati dai divieti delle Autorità. Fece il suo debutto letterario nel 1966 con la raccolta Básně, návěstí a pohyby (Poesie, avvisi e movenze), pubblicata privatamente e in numero limitato nell’edizione Speciálky dal pittore František Muzika.  Emigrò dopo l’occupazione sovietica del 1968, dapprima a Berlino occidentale per alcuni mesi e successivamente a Parigi. Dal 1970 si è stabilito definitivamente a Colonia. Duranti gli anni dell’esilio, lavorò prima come redattore radiofonico e successivamente, dalla metà degli anni 1980, come pittore, scultore e fotografo artistico freelance.

Praga

Praga

Nel 1977 ha scoperto l’originale metodo fotografico dell’inversaggio: “l’unione inversa di parti bilateralmente simmetriche” di una struttura naturale (cortecce, pietre, ecc.). Nel 1978 organizzò a Bochum, in Germania, un’ampia mostra internazionale dell’arte surrealista e immaginativa, Imaginace (Immaginazione). Ha soggiornato più volte per lunghi periodi in Indonesia, dove ha portato avanti studi etnografici sulle isole Borneo (Kalimantan), Giava, Sulawesi, Bali e Nuova Guinea (Irian Jaja). Ha scritto varie opere poetiche, dalle quali è possibile tracciare lo sviluppo della sua arte, a partire dagli esperimenti linguistici, che sottolineano il carattere emozionale dell’espressione e dell’attività poetiche, fino alla poetica plasmata dalla contemplazione, che registra il movimento della realtà interiore. Quello che al momento è possibile considerare  il culmine dell’opera di Nápravník, l’opus magnum Příznaky pouště (Deserte visioni, 2001), è una vasta parabola sul minaccioso stato della civiltà contemporanea; contro il nostro mondo inquinato e sovrappopolato, contro l’aggressività e le tendenze distruttive, si pone il flusso iettatorio di pensieri e immagini della vita interiore, – “l’assiduo tentativo del narratore di conservare desideri, speranze, amore e immaginazione,  ‘e di non lasciare che alle nostre spalle le vie dei nostri desideri si coprano d’erba’ (A. Breton) e ciò nonostante tutto il pessimismo di Nápravník.” (rivista Tvar, aprile 2002). È autore anche di vari studi e saggi teorici. Negli anni 1990, suscitarono grande interesse alcuni suoi saggi dove metteva a frutto lo studio sistematico pluriennale nel campo della storia delle religioni.

(Antonio Parente)

Praga Agosto 1968 i tank sovietici sono nelle strade di Praga una ragazza fischia gli invasori

Praga Agosto 1968 i tank sovietici sono nelle strade di Praga una ragazza fischia gli invasori

Milan Napravnik

Milan Napravnik

RUGGINE DI SANGUE

Nebbie autunnali sfumano nelle vallate di ogni supplica
Soffi di vento schivo si spargono in baratri d’erba
E solo le canne d’india si raddrizzano
Quando sentono la parola forse
Oppure la parola spero
La realtà però nel frattempo si è ammantata di brina
E una lontana risata che frana dai monti
Sul granito dei rupi rocciosi si frange in grida
Che si accrescono nel vento degli echi come cellule maligne
in metastasi d’impotenza

Persino la roccia clastica di errori e proprie limitazioni
È capace di sanguinare
Sospesa sul proprio essere su rugginosi ganci di dolore
Il suo capo stanco pieno di domande che sobbalzano confusamente
fa cenni indecisi su tutti i lati
Non è chiaro se si tratti di un’espressione di assenso o di disaccordo
Invano ricorda il posto al caldo nell’incrinatura del contesto
Dove una volta inalava l’odore dei cespi di spigo
E osservava le eleganti movenze della mantide religiosa
Che ricambiava il suo sguardo con ostentose simpatie
Come può dimostrare soltanto una serva sanitaria
alla lampante sfortuna
Del resto la sua ingordigia risanata sa bene
Ciò che si è indebolito e non può null’altro che ruggine
Chiunque fissi è condannato a morte

Il primo gelo porta il romantico bestiame dai monti
Verso la valle della realtà
Sfuggenti profezie che strisciano tra le rovine del convento
I cui abitanti sembra si fossero un tempo sterminati da soli
mordendosi a vicenda i peni
E questo dimenticato anfratto dei Pirenei
Dove fortunatamente non porta più nessun cammino
Percepisce il loro mormorio funesto
Come un magico ologramma per lo stoccaggio di quanti
di orrore contrattato

Mentre il vento autunnale lo barcolla di speranza in speranza
Mentre le arterie coronariche sono costrette dal gelo
Questo fantasma si aggira coi ganci tra le costole
Con le pietre delle illusioni nello stomaco
E con in pugno i cristalli di ghiaccio del proprio seme
Accecato dal dolore
E schiacciato dal peso di propositi derisi
Come incarnazione di uno stupido Minotauro
Nell’infinita spirale della poesia
Che ingorda continua a divorare i propri figli

Sì è un poeta
Lo certificano centinaia di pedate
Che ha incassato direttamente in faccia
Alcuni coltelli alle spalle
E le profonde ferite per le frustate di derisione
Poiché ha peccato contro il pio e sensato alternarsi
dei giorni e delle notti
Dei giorni zeppi di proficuo lavoro
Della lotta per il potere
E della costruzione di argini contro la paura archetipica
di un’esistenza senza ripe
Poiché cocciutamente sostiene che all’irrazionalità del desiderio
Di libertà e amore
Si deve in ogni circostanza sacrificare
qualsiasi razionalità di arricchimento

È una torbida mattina di un settembre macchiato
Una giornata di pallida lama
Dall’ancor caldo giaciglio si diffonde l’aroma della notte vegliata
Il lenzuolo è coperto di spine di rosa sanguinanti
Oltre la finestra imbrunisce
E la colonna della pallida cella
È coperta dall’edera immune dell’implacabile disprezzo

Milan Napravnik Il nido del buio
SAMOVAR SIAMESE

Mentre vagabonda per il mercato
Dalle tasche bucate gli scorrono zolle di silenzio
Scruta le crudeli palle d’oro
E le collane di diamanti di pretzel appesi al filo
della magia nera
La vecchietta in cappotto che vende mobili Luigi XIV
Frammenti di macchinette
Lunghi sipari di facezie
Curvi bilancieri iridescenti tubi degli obblighi e un coltello patrizio
Poi stringe la mano al venditore di baccani
E si ferma davanti alla mostra di specchi scannatori
Dall’amico Jean-Louis Bedouin uomo dal vino amaro
E dal carattere forte
Armadi di umorismo schietto e di rabbia creativa
Je n’écris rien au cours de douze ans! urla
con disperata alterigia
Je n’ai pas perdu l’usage de mom sens!

Mon sens
Si fa strada nel labirinto di cerchi veneziani
E dà una scorsa a libri di autori ignoti
che immolarono ai propri scritti tutto il loro sangue
S’incurva di cordoglio per l’eccedenza di chiavi
Per la brillantezza delle lucerne delle barche
Per le scatole di fotografie brunite di sconosciuti bruniti
Palpeggiate consunte e ingiallite
Per i documenti di bruniti destini e speranze
Che ancor oggi vanno a fargli visita in sogno
Qui si trovano anche schiere di cent’occhi di bottiglie più disparate
Mare di spezie
Lacrime di strumenti d’ottone per conciare i palmi
E casse e riviste opache che ricordano i tempi di una volta

Non ha ancora fame ma già lo stuzzicano con crauti e senape
Qui c’è anche una credenza stile impero del diciannovesimo secolo
E un antico cassettone su cui posò la mano Mirabeau
Alcuni abiti difettati
Un calamaio di stagno e un frac piomboso
Le grezzi reti di bimbi sgomenti accecati dalle curve
Che sottraggono la lesina
Scogli d’intralcio lame di morti muraglie agglomerate
E profezie
Che lo illudono che incontrerà una donna
Con la quale potrebbe fondersi per dar vita ad una creatura androgena
Senza dover per questo perderla
Soltanto astiose profezie che simulano grandine dorata
Astiosa sfera dell’impossibile

Certo
Tutto è solo ciarpame
Le grezze scodelle per il male hanno migliaia di anni
Così come i ciottoli di agata
Lo zolfo postumo dei sogni
Dune di morte e vento nel non lontano cimetière de Batignolles
dove riposa il siderale André Breton
La curva del girasole
Che segue la luce della Luna da sud a nord
Il cratere della solitudine nel bel mezzo di monti forestieri
Pietra-stella
L’oro del tempo
L’istinto sovversivo dei geni creativi
L’acciaio degli spari
L’infinita preghiera della poesia all’infinita indifferenza dell’essere

Che farne delle angosce che nessuno vuole?
Non si può pagare qualcosa in più affinché qualcuno le porti via da lui
Non le si possono regalare a meno che il regalo non debba somigliare ad un assassinio
Non ci si può far strada da vedenti attraverso i vicoli ciechi
Alla fine del cimitero compra la statua spezzata del figlio
Veritiera solo perché
È senza testa

milan napravnik cop

ALL’IMBRUNIRE

È l’ora dell’eterna notte
Alcuni sono morti altri sono usciti barcollando dal cinematografo
pallidi come lenzuoli
Una foglia d’acero ha traslocato lungo il marciapiede
Dal tavolato di un bar sbarrato al negozio di generi alimentari
Ha danzato tra piedi pazientemente in fila
per un pezzo di carne
È salita all’altezza del primo piano di un fatiscente casamento
Ha dato un’occhiata alla stantia camera da letto degli amanti
Ha volteggiato oltre i fili del tram fino al recinto-orinatoio
E da lì via verso la grande lavanderia esalante il tanfo di sapone
Finché non si attaccò alla cornice del negozio
dove si vendono teste di gesso

Croci ornamentali ad uncini e senza
Semplici convinzioni e istruzioni per strangolare i miscredenti
Al negozio
Dove ogni acquirente è accolto con un dirugginio di denti
in caso
Avesse intenzione di chiedere il prezzo reale
di questa merce vergognosa

Come un animale randagio
Un cane senza litorale
Scalciato da ogni tempo nell’inguine scheletrico
Che si nasconde in biblioteche e musei inariditi
Animale senza seta ma compagno perseverante degli incubi notturni
Striscia per le gallerie di quadri lungo ritratti di nuvole morte
Lungo nature morti olandesi con la frutta fresca e una mosca
Lungo paesaggi roccoco scintillanti di sole
e popolati di pastori di pecore
Lungo battaglie navali dove gli eroi assassinati
cadono pittoreschi dal ponte di navi da guerra
In onde marine dipinte con maestria
E lungo visioni incurvate dei santi dipinti
Dell’altare di pingui cardinali
e macilenti eremiti
Di fetide monache con le fiche ricucite
Tutto in un sol boccone di manipolazione estetica
Nulla solo l’Arte un’unica e sola stronzata una truffa
Tutto solo un unico e solo aborto della civiltà

Mi dispiace, signor Péret
I tuoi tentativi di riconciliare la poesia con la lotta sui monti catalani
non hanno avuto successo
Non ti sei mai tradito ma i tuoi occhi mi raccontavano la storia
Le gocce di sangue anarchico sulla foglia di fragola riverberavano di purezza
Come il sole nel calice di Rémy Martin
Che bevemmo in primavera in un bar
della rumorosa Place Blanche
Non potevi morire con un’espressione di soddisfazione
Solo scomparire con tristezza
Meraviglioso amico dell’inflessibile disperazione
Sei vissuto sul solatio di un intelletto come oggi
non ci tocca più
Del quale sappiamo solo grazie alle testimonianze dei nostri antenati
Testimoni aviti di una tradizione remota
Viviamo al gelo
Il cielo è eternamente coperto da un triplo strato di nubi
La città è soffocata da veli di grevi zeli
E dal timore del quotidiano stritolamento dell’inutile desiderio

Leggende dappertutto crude come la carne sui ganci delle sale
alle tre e mezzo di mattina
Non si può raccontare una storia che scaturisce dalla struttura
molecolare del vino
Le inesauribili sfere di piselli con un mormorio si mescolano
al vello stradale
Dove ci sono i caffè c’è anche il caffè da asporto e le cartine di catene
Punte di seni cresciuti sulle conchiglie del tempo
L’incantevole patina di rosa
Le graticce marine di svettati come un bicchiere di Bordeaux
Se dico graticce intendo graticce
Non la fine del mondo
E nemmeno memorie astanti di cerchi alla mano e cravatte orbe
Qualche cancello di interminabili campi di patate
Rime guaste di colla
Indescrivibili cortocircuiti di sterco
E le selvagge carceri della metro che sfumano nel buio dietro ciglia
aggettanti
I tunnel affondano nella terra

Pourquoi j’écris moi-même?
Dis-moi reflet de cobalt
Pourquoi le vol de corbeaux qui t’entoure
comme le charbon étreint le feu?
Non conosco la ragione del mio respiro
Né la mia passione per le fiamme che di solito spegne la birra della ragione
Tanto meno l’indirizzo dei miei destinatari
Ad ogni modo dicono che ce ne siano pochissimi
Sembra che alcuni siano irrintracciabili
Alcuni non ne hanno il coraggio
Altri hanno fretta
Altri forse non sanno leggere
Ma la maggior parte è in effetti defunta dalla nascita

9 commenti

Archiviato in poesia ceca, recensione libri di poesia