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Stanislav Dvorský (1940-2020): L’inizio del gioco a cura di Petr Král, traduzione di Antonio Parente, Dvorský  Chiama questa poetica “costellazione di parole”, l’uso coerente del potere specifico, proprio solo della poesia, dei singolari collegamenti tra le parole stesse: di ingannevoli collegamenti lessicali, nei quali l’aspetto verbale – per metà di idee e per metà puramente fonico – e quello grafico coprono tutti gli altri (narrativo, riflessivo e metaforico), si rendono indipendenti  

Lucio Mayoor Tosi, stampa digitale, Pomodoro

Stanislav Dvorský

L’inizio del gioco

non ho nessun amico dietro le finestre scure d’azzurro
lancio soltanto dei sassolini con accortezza per non rompere nulla
ricordiamo ancora i giochi giudiziosi quando sull’acqua si formano dei cerchi sbadiglianti
il cordoglio sorride non ho nulla da perdere
nemmeno le mie mani mobili
nemmeno i miei amici
nella vuotezza zincata del profondo banco di mescita
tanti avanzi convincenti dell’eternità usignola
una volta ero un eccellente tiratore e i miei amici continuano ad applaudirmi
ho sparato già quasi tutte le cartucce
non riesco a fare centro continuo ad essere
come vivo come vivo

* * *

Tarda estate

il ponte di fili bianchi sospeso
sulla baia assente di palombari inchinati

una seppia morta da tre giorni
contempla qualcuno di loro con occhio riconoscente
tutto il limaccio al centro della maestà stagnante del vetro
non volge altrove il capo
culla in grembo il bimbo d’inchiostro

gli raccontai le mie allucinazioni jazzistiche
innalzai un recinto brunito intorno all’idiota
infastidito dagli ordini perenni sul foglio senza righe
alzai i tacchi
delle scarpe sotto il tavolo
pittai il recinto color pelle con vernice color pelle
in modo da non essere troppo visibile
in modo da non stare in piedi
avevo i miei riposi illuminati i ceppi floreali
del resto è la mia missione
poche volte il sistema solare comprende tutti i simboli esterni
perché persino facendo notevole attenzione l’intonazione sfugge dalle narici

lo chiamai col nome di battesimo
nessuno si voltò

Zborcené plochy (Piani distrutti, 1996)

* * *

Bottiglia Molotov

le fiamme disegnano mandrie di animali galoppanti lungo il soffitto del vagone frigorifero che con un ampio tornante si precipita sui binari chissà dove
apicoltori portalettere spazzini intere stazioni di inseminazione un’unica enorme moltitudine armata di forconi asce e attizzatori
si precipita con terrore su piazza Democrazia popolare

questi fenomeni sono visibili nelle nostre bevande
dove cala di sbieco il basso sole primaverile
quando un vento fresco spinge a soffi la tenda nel profondo della stanza

* * *

Tra le cosce di questa primavera

pezzi di cannelli di paraffina nell’attimo in cui cambiano sostanza

della tua eterna nudità (buia: sussurro “di nicotina”)
è anche così il punto focale della notte il resto della pelliccia
dopo un istante pieno di sego caldo

poi le arterie pulsano gemi il nastro al buio fruscia
(mettiamo Wheels of Fire basso basso)
e alla finestra si accendono azzurri i fumi alcolici
invano
senza futuro

Dobyvatelé a pařezy (Espugnatori e ceppi, 2004)

Stanislav Dvorsky 2018 Petr Kral

Stanislav Dvorsky e Petr Kral

.

Petr Král

Black and Blue[2]

Quando conobbi Standa Dvorský, alla luce arancione della leggendaria “stagione del ‘59”, diventò subito per me l’amico-iniziatore (secondo la definizione di Sarane Alexandrian), colui col quale è possibile instaurare un vero dialogo, complice e contendente allo stesso tempo, colui che ci apre le porte del mondo e di ciò che vi sarà per noi di fondamentale, e che ci aiuta in maniera decisiva a chiarire i nostri pensieri.

[…]

Molti erano i tratti da noi condivisi, che costituivano la nostra esperienza e la nostra “memoria” comuni, se non altro grazie alla sistematica e reciproca comunicazione: l’esistenzialismo e il surrealismo, il poetismo e il dadaismo, la decadenza di fine secolo e l’ubriacamento degli anni Venti, le incisioni e le comiche mute, i vizi dei salottini e gli amori delle gite scolastiche, la canzone Zasu di Jaroslav Ježek e il Castello di Kafka, i vaporetti domenicali e i salotti in fondo al lago, Voskovec + Werich e Rimbaud con Verlain, la cicoria di Pečky e l’Hispano Suiza, gli smoking bianchi e i maglioni alla beatnick, l’assenzio e il jazz… Ognuno poneva l’accento su cose diverse e costruiva tutto in maniera differente; Standa lo faceva in maniera meno casuale, come se sapesse fin dall’inizio quello che voleva.

[…]

Dopo aver letto i suoi primi testi, fu chiaro che la nostra generazione aveva in Dvorský uno dei suoi autori chiave, il proprio poeta, il quale in modo unico ma essenziale riassumeva le idee, “le sensazioni” e le posizioni degli altri. In molti di quelli che allora lo conobbero i suoi testi ebbero di colpo un influenza determinate; ad esempio, l’opera di Karel Šebek non sarebbe stata la stessa senza di loro, e anch’io non sono sicuro se le mie “visioni” poetiche non siano per metà di Standa – tanto intimamente alcune delle sue immagini si sono impresse nella mia memoria.

Nei suoi testi poetistico-dadaistici del periodo precedente il 1959, nei quali andava assumendo sempre più vigore l’influenza surrealista, traspare la sua caratteristica concezione delle tre componenti che – in diverse proporzioni e relazioni – formeranno l’intera sua opera: il lirismo, la narrazione poetica, il discorso sarcastico. Se la sua narrazione ha, fino a quel momento, una comunanza con le poesie-sogno del Nezval surrealista e il suo discorso con la provocazione dadaista, dietro il lirismo di Dvorský trapela soprattutto, ed è cosa non senza significato, Halas. E ciò sia per quel che riguarda la visione del mondo del poeta e il suo sviluppo personale, sia per il ruolo dello stesso Halas nello sviluppo della poesia ceca. Continua a leggere

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Viola Fischerová (1935) Poesie scelte – Frammenti del discorso lirico nella poesia ceca – A cura di Annalisa Cosentino

Foto Jason Langer, Canary Wharf no. 1, 2008

Foto Jason Langer

Viola Fischerová nasce a Brno nel 1935. Figlia del filosofo Josef Ludvík Fischer, cresce in un ambiente di intellettuali e sin dagli anni dell’università frequenta scrittori e artisti tra cui ama ricordare ad esempio Vera Linhartová, Václav Havel, Jan Zábrana, Jan Vladislav, Mikuláš Medek (vedi l’intervista concessa a Michael Špirit, in «Revolver Revue» 28, 1995). La sua prima raccolta di versi, Propadání (Sprofondando), completata sul finire degli anni Cinquanta, non viene accettata nelle case editrici sottoposte alla censura del regime totalitario; alcune di quelle poesie sono uscite nel 1995 in «Revolver Revue».

Dopo il primo vano tentativo di pubblicare, la Fischerová smette per lungo tempo di comporre poesie; entra tuttavia proprio come poetessa nella coscienza dei lettori per alcuni suoi versi che Bohumil Hrabal – negli anni Sessanta già molto popolare – pone in epigrafe alla raccolta di racconti Inserzione per una casa in cui non voglio più abitare (1965): «La latteria potrebbe vendere anche quando è buio / Cominciare a vivere da sola è più di una nascita / Si può intendere la mancanza di fede / come attenzione indiscriminata / Del resto metto un’inserzione per una casa / in cui non voglio più abitare». Questi versi contenevano il concetto di «attenzione indiscriminata» che sarebbe stato tanto produttivo nella poetica di Hrabal: se per la Fischerová era questo un modo per definire diffidenza e indifferenza, per il grande scrittore ceco aveva invece un significato positivo, indicava la capacità di osservare la realtà senza pregiudizi, prestandole un’attenzione incondizionata.

https://youtu.be/xgJGCQuKE54

Laureata in letteratura ceca e polacca, negli anni Sessanta la Fischerová lavora soprattutto alla redazione culturale della radio cecoslovacca, curando programmi dedicati alla letteratura e scrivendo tra l’altro adattamenti radiofonici di opere letterarie. Nell’autunno 1968, dopo l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del patto di Varsavia, come altri intellettuali che avevano creduto nella possibilità di riformare il cosiddetto socialismo reale sceglie l’esilio insieme al marito Pavel Buksa (noto come scrittore con lo pseudonimo di Karel Michal) e si stabilisce a Basilea. Qui alterna varie occupazioni mentre studia per prendere una seconda laurea in germanistica e storia. Negli anni Ottanta si trasferisce in Germania, a Monaco, dove ricomincia a scrivere versi, affiancando nuovamente la poesia alla pubblicistica: collabora infatti con periodici e case editrici del dissenso e dell’esilio, e inoltre con la redazione di Radio Free Europe. È rientrata nel suo paese dopo i cambiamenti politici e istituzionali seguiti alla cosiddetta ‘rivoluzione di velluto’ del novembre 1989 e dopo la morte del secondo marito, lo scrittore Josef Jedlicka. Attualmente vive a Praga.

La costante tensione della riflessione esistenziale accomuna le poesie qui presentate in traduzione italiana, scritte a distanza di anni; sono pervase dal tema dell’assenza, del lutto e della perdita, condizioni psicologiche e materiali di cui si indagano le conseguenze nell’esistenza quotidiana di chi le subisce. Le cose di ogni giorno, con la loro implacabile presenza, si manifestano come segni dolorosi: così ad esempio la porta di casa, solitamente varco e soglia della sicurezza, non è altro che l’«ingresso in una ferita aperta»; i simboli più ovvi della gioia familiare – come ad esempio la vigilia di Natale – si capovolgono a significare la più pura assenza: del resto, nel percorso verso una vicinanza discosta, eppure ormai matura, cresciuta, autonoma, l’io lirico guadagna «una visione più chiara / dell’altra faccia / opposta delle cose». La faccia opposta delle cose non ne rappresenta il contrario ma il completamento, così come l’affinarsi della percezione non si realizza nei versi per ossimori: grazie ai frequenti accostamenti inusuali, la prospettiva si fa dinamica e si approfondisce, permettendo di scoprire altre dimensioni dell’esistenza.

Un’altra componente importante e produttiva nella poesia di Viola Fischerová è la memoria: i ricordi sono narrati attraverso la rievocazione lirica di eventi, ma soprattutto attraverso le sensazioni, le percezioni e i sentimenti riproposti nei versi con tale efficacia che a ogni lettura sembra di poter sperimentare nuovamente la loro intensità. Il lirismo dell’evocazione non ha nulla di astratto, le scene della vita spirituale si svolgono anzi in uno spazio ben individuato all’interno di coordinate fisiche, in luoghi descritti dalla loro componente emotiva, quasi avessero un carattere umano («La porta di casa / ingresso in una ferita aperta»; «Di notte mi dispiace / per quella via»;

«Ma chi mangerebbe / da piatti passati / e si ubriacherebbe / da bicchieri di prima» ecc.).

Il verso libero, mosso e scandito da pause diverse seppure distribuite con regolarità, risulta attraversato soprattutto da allitterazioni. La leggerezza della misurata tessitura fonica rivela una padronanza sicura della lingua; questa poesia dall’intonazione pacata e dall’espressione matura rifugge dai facili virtuosismi. L’andamento dei versi è dialogico: si percepisce molto forte la presenza di un interlocutore esplicito, un ‘tu’ cui l’io lirico si rivolge, che potrebbe talora identificarsi con una persona cara scomparsa, a volte è un dialogo con se stessi, altre volte sembra scandire le battute di una conversazione tra amici o, ancora, impersona un dio cui ci si appella. Pochissime poesie hanno un titolo, mentre sono individuate dall’incipit: si presentano così come tasselli di un unico discorso sempre ripreso.

(Annalisa Cosentino)

Dalle raccolte Zádušní básne za Pavla Buksu (Poesie in morte di Pavel Buksa; scritta tra il 1985 e il 1986, ma pubblicata a Brno solo nel 1993); Babí hodina (L’ora del tramonto; 1994), Odrostlá blízkost (Discosta vicinanza; 1996), Matešná samota (Solitudine madre; 2002), Nyní (Adesso; 2004)

Viola Fischerova

Viola Fischerová

(Traduzione di Annalisa Cosentino)

Domovní dveše
vchod do otevšené rány
nuova poesia ceca
Schody se lesknou Ani kapka krve ani pešícko
Celý náš život trval 16 let
a odehrál se ve tšech pokojích

***

V noci mi bývá líto té ulice
Není v ní jediné okno o nemž chci vedet kdo za ním bdí

***

Bože mnj
nemeli jsme nikdy jistotu že žít je samozšejmé
a nárok na to slušný Nebyli jsme vlažní Jestliže jsme první vyklízeli pole nehnala nás bázen ale stud
Tedy pýcha
První hších

***

Taky na mne nemyslíváš kolik dní?
Taky sis našel jiný život?

Co ale když se stmívá než se rozední

Dnes po celý vecer tkvely na cerné vode dve labute
a ani se nehnuly

***

A nekdy k ní pšichází
její nenarozený
Má plavé vlasy její nelásky
a stejný úsmev a zuby
Znstává nikdy však nepromluví

*

La porta di casa
ingresso in una ferita aperta Le scale brillano
Né una goccia di sangue né una piccola piuma Tutta la nostra vita
è durata sedici anni
e si è svolta in tre camere

***

Di notte mi dispiace per quella via
Non c’è neppure una finestra di cui vorrei sapere
chi vi veglia

***

Dio mio
non abbiamo mai avuto la certezza che vivere sia ovvio
e opportuno averne il diritto Non siamo stati tiepidi
Se abbiamo per primi sgombrato il campo
non ci ha spinto il timore ma il pudore
Quindi l’orgoglio Il primo peccato

***

Anche tu non pensi a me da quanti giorni?
Anche tu hai trovato un’altra vita?

E se facesse buio prima di albeggiare

Tutta la sera oggi fissi sull’acqua nera due cigni
senza muoversi

***

E talvolta le si avvicina il figlio non nato
Ha i capelli biondi del suo nonamore e lo stesso sorriso gli stessi denti Rimane ma non parla mai Continua a leggere

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