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A volte velo e a volte specchio – Liriche persiane (secc. IX-XIX) – a cura di Carla De Bellis e Iman Mansub Basiri, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2014 – Prefazione di Carla De Bellis, Un azzardo amoroso, e le poesie di Abu Sa‘id (967-1049), Sa‘di Shirazi (1210-1291), Fasihi Heravi (1579-1639).

Io sono quel falco di cui i cacciatori del mondo
hanno bisogno in ogni momento.

Carla De Bellis ha insegnato Letteratura italiana e Critica letteraria e Letterature comparate presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Ha pubblicato prevalentemente sulla letteratura italiana del Cinquecento e del Settecento e si occupa inoltre di letteratura contemporanea. Ha tenuto lezioni e conferenze presso varie Università, in Francia, Germania, Spagna, Polonia, Bosnia, Romania, negli Stati Uniti, in Canada, in Giappone e in Messico.
Esiti della sua ricerca sul linguaggio poetico sono anche le opere in versi: il poemetto Gli antri, le alture, la preda e l’armi (1991) e le raccolte di poesie in forma di haiku Esercizi di pieno e di vuoto e Le perle di Endimione, pubblicati a Roma presso Empirìa. Sue poesie sono apparse in varie Antologie e Riviste letterarie in Italia e all’estero. Del 2014 è il volume A volte velo e a volte specchio. Liriche persiane (secc. IX-XIX) curato con Iman Mansub Basiri e edito a Genova presso San Marco dei Giustiniani. Ha realizzato varie performances, mettendo in scena la poesia e integrandola con le arti della recitazione e della danza.

Carla De Bellis
Un azzardo amoroso

“Velo” e insieme “specchio” si fa l’anima dell’Amante di fronte allo splendore del volto dell’Amato:

A volte sono velo a volte specchio
del tuo splendore, e trasalisco attonito
dell’immagine tua nel mio pensiero.

Sono, questi, i primi versi di una delle poesie qui raccolte, scritta da Bidel Delhavī, un autore persiano vissuto tra il XVII e il XVIII secolo. Un nodo di significati potenti si stringe all’interno delle immagini che esprimono la luce e l’ombra del dramma del rapporto col trascendente: l’ombra del mistero metafisico e la luce della sua manifestazione mondana. O, nel flusso vicendevole degli estremi e nel continuo scambio delle sorti del dramma, la luce solare del divino e l’ombra del mondo, suo oscuro riflesso.
Commentando uno dei versetti del Corano, un grande teologo sciita del XIV secolo, Haydar Amolī, così parafrasa quella che si mostra come la parola di Dio:

…l’Altro non possiede una vera esistenza di per sé, perché l’Altro esprime il mio aspetto epifanico in forme individue e particolari. E queste hanno esistenza attuale in virtù del mio essere reale, universale, assoluto: così come il limite esiste per l’illimitato, come l’ombra esiste in virtù del sole e come la forma della manifestazione esiste per ciò che vi si manifesta.

Se nella gnosi islamica il Cosmo e l’Uomo appaiono stringersi in un Tutto che, in quanto insieme di “forme teofaniche”, è il riflesso dell’Unità divina, ecco emergere l’immagine dello specchio: perché l’”Essere divino” compie il gesto creativo per il desiderio di essere conosciuto attraverso il riflesso di uno specchio. Con la sua particolarizzazione fenomenica, tuttavia coesa nella coerenza di un Tutto, il Mondo appare allora come un Libro: un “fenomeno della scrittura”, dove ognuno dei segni, particolari e manifesti, è leggibile come simbolo, proprio in quanto materica manifestazione significante il divino. Il Mondo manifesto, dunque, è contesto in una sintassi simbolica e ad altro ogni suo segno rimanda. Un linguaggio, tutto da decifrare, tesse una realtà specchiante e traslata.
Come luce radiante è interpretata l’umana conoscenza, ed è l’esistenza di un intermedio mundus imaginalis, luogo eidetico assimilabile in parte all’Iperuranio platonico e “scena in cui avvengono nella loro vera realtà gli eventi visionari e le storie simboliche”, che si riflette nel trasparente cristallo intellettivo dell’illuminazione sapienziale raccogliendosi nell’insieme di quegli schemi simbolici di realtà metafisiche. In uno dei suoi trattati brevi, Il Libro dei Santuari di luce, il grande filosofo persiano Suhrawardī, vissuto nel XIV secolo, sintetizza la sua “filosofia della Luce” o dell’illuminazione conoscitiva, e, ritornando alle radici zoroastriane del dialogo metafisico tra luce e ombra, parla del Principio divino come di “una Realtà che è manifesta a sé stessa per la sua propria Essenza”, e che è “luminosa tanto da essere sciolta dal contatto con la materia, e intensa al punto di essere velata dal Suo stesso splendore”.
Tanto la relazione tra la luce e l’ombra è vista sostanziare il mondo – come anche l’atto creativo stesso – e l’attitudine conoscitiva dell’uomo, che in quella concezione filosofica l’integrazione degli opposti supera il limite concettuale del paradosso e produce sintesi mirabili: tra l’uomo e il divino, il soggetto e l’oggetto, l’Essere e il suo specchio.

Io dissi: «E per chi mai così ti adorni?»
«Per me», disse, «perché io unica sono.
Sono l’amore, l’amante e l’amata,
lo specchio e la bellezza lì riflessa».

Sono l’amore, l’amante e l’amata,
lo specchio e la bellezza lì riflessa

Un’unica entità, in un sodalizio inscindibile tra la Bellezza e il suo specchio, secondo i versi di Abu Sa’id, poeta mistico dell’XI secolo.
Proprio dove intende spiegare il lessico lirico del sufismo incontrando il linguaggio dell’indicibile, il meraviglioso Giardino dei Misteri dello Sheykh Mahmūd Shabestarī (vissuto tra il XIII e il XIV secolo) avvia la sua Risposta alla Domanda circa il significato dei termini poetici degli Gnostici con l’immagine del “sole” e del suo “riflesso”:

Tutto ciò che nel mondo è manifesto
è come un riflesso che viene dal sole del mondo di là.

Per arrivare poi all’esortazione: “Scruta le celate figure, verso il loro limite estremo…”. Le “celate figure” sono oggetti dal radioso vigore visionario: tutti i particolari del volto della bellezza amata – gli occhi, le labbra, la ciocca di capelli, il neo, le sopracciglia, la peluria sottile ‒, di cui il linguaggio lirico esprime la lode e il desiderio, vestono di forme visibili gli attributi del divino, in un simmetrico mondo parallelo. Nello stadio del sogno, dell’estasi e dello smarrimento, dove i neri capelli inanellati dell’Amata sono la terribile catena del divino che lega alla follia d’amore, il mistico contempla teofanie e condivide con gli angeli ebbri lo stordimento per lo stesso vino.
Valicati insieme i limiti della fede e della miscredenza, anzi annodati strettamente insieme gli estremi, la coppa del vino dell’ebbrezza inebria col “sapore del nulla”; così come la frammentazione manifesta – reale, descrivibile oggetto d’amore – si ricompone, ancora una volta, nell’invisibile, pluri-ossimorico Tutto: l’ebbro d’amore “ha trangugiato in una volta sola / Vino, Taverna, Coppiere e Bevitore”.

Tradurre la lirica persiana è impresa rischiosa. Può affrontarsi solo a condizione di un cimento amoroso, sfidando per amore un discorso d’amore lungo l’erto cammino che esso percorre.

La poesia persiana è in genere considerata intraducibile, e soprattutto per tale motivo molti dei testi presenti in questa Antologia non sono stati finora mai tradotti in una lingua occidentale. Henry Corbin, a proposito della difficoltà del tradurre gli scritti teosofici persiani, rilevava la mancanza, nelle lingue occidentali, di un lessico e di un sistema di concetti e di immagini adeguati ad esprimere le visioni dello sciismo; rilievo che è estensibile all’insieme delle tradizioni filosofico-religiose che segnano fortemente le poesie qui tradotte.
La traduzione letterale, condotta da Iman Mansub Basiri, è stata un passaggio obbligato. Era scontato che essa risultasse quasi del tutto incomprensibile per un lettore italiano, proprio a causa della specifica natura di quel linguaggio.
Nel racconto di Suhrawardī, L’Angelo purpureo, che riempie di oggetti simbolici lo spazio imaginale dell’esperienza mistica, il “viaggio” alla soglia della Luce avviene attraverso le “tenebre”, e nei versi che suggellano lo scritto si libra la figura simbolica del “falco”:

Io sono quel falco di cui i cacciatori del mondo
hanno bisogno in ogni momento.
La mia preda sono le gazzelle dagli occhi neri,
perché il sapere è come le lacrime degli occhi.
Davanti a me scompare il senso letterale,
presso di me si illumina il senso vero.

Dunque il senso vero non è quello letterale. Avvertenza utile per la comprensione del linguaggio lirico persiano, spesso voce delle alte visioni del misticismo sufico.
Occorreva allora trovare delle parole che non tradissero il testo originale e ne trasmettessero i significati conservando nello stesso tempo anche la qualità sensuale propria del linguaggio poetico, in quanto tessuto di ritmi e di sonorità. Le strutture stilistiche della poesia persiana, con scansioni, rime, simmetrie estremamente sofisticate, si perdono nella traduzione; però il linguaggio poetico italiano ha i suoi ritmi tradizionali e la sua sintassi retorica: ritrovando ogni tanto qualcosa degli uni e dell’altra, era forse possibile ricordare che la versione stava cercando di ricostruire le ardue parole della poesia. Il passaggio intermedio alla riscrittura versificata è stato quello del discorso: un dis-currere esplorativo e tortuoso con Iman Basiri, con cui si è discusso lungamente sui testi e i loro significati occulti e la sottesa filosofia. Ogni poesia si è infine assestata in una sua forma; ma non più di un barlume della complessità e della bellezza del testo originario riuscirà a trasparirvi.

Sono la merce disprezzata e triste
per l’ostentato rifiuto di chi compra

Un esempio, per tutti, della difficoltà della traduzione. Abu Sa’id loda i neri capelli dell’Amata nel contesto di una lirica d’amore: ne loda la nerezza. Ma il termine che sta per nerezza in neopersiano significa anche miscredenza, per cui l’elogio di quei capelli contiene in sé il significato parallelo di un elogio della miscredenza, che il mistico pronuncia elevandosi al di sopra di ogni professione esteriore di fede e delle norme islamiche ortodosse, sentite come un limite nell’intimo dialogo col divino. Se si traduce secondo l’elogio dei neri capelli, si esclude non tanto il significato proprio, quanto il significato doppio del testo, e, se invece ci si pone ad esplicare la complessità del senso, si perde la sintesi del linguaggio poetico, con le sue figure. Continua a leggere

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