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Intervista a Andrea Temporelli a cura di Giorgio Linguaglossa, Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della storia?, Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?, Quale è il compito della poesia dinanzi a questi eventi epocali?

Foto Man Ray nudo

Man Ray, nudo

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Figlio di un fiore e di un piccolo merlo, Andrea Temporelli con la poesia ha esplorato Il cielo di Marte (Einaudi, Torino 2005), prima di far ritorno alla Terramadre (Il Ponte del Sale, Rovigo 2012), ma i conti con il mondo letterario contemporaneo li ha risolti con il romanzo Tutte le voci di questo aldilà (Guaraldi, Rimini 2015) e con il volume di interventi critici militanti Smarcamenti, affondi e fughe (Ladolfi, Borgomanero 2016). Insegna nella scuola secondaria a Borgomanero (dove è nato nel 1973) e interviene su YouTube con un personale Dis/corso di scrittura creativa, che s’interroga sul senso della scrittura in un tempo in cui la società letteraria non esiste più.

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Domanda

Gentile Andrea Temporelli le pongo la domanda che ho rivolto ai poeti italiani:

–  Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della storia?

–  Quale poesia scrivere nell’epoca della fine della metafisica?

–   Quale è il compito della poesia dinanzi a questi eventi epocali?

Question

Dear Andrea Temporelli, I ask you the question I asked Italian poets:

– What poetry can you write at the time of the end of the story?

– What poetry to write at the time of the end of metaphysics?

– What is the task of poetry before these epochal events?

Answer

Premessa: non esiste la poesia, esistono i singoli gesti poetici. I vari “oggetti linguistici” che accorpiamo sotto l’unica sigla di genere possono essere anche radicalmente diversi. Ciò significa che il discorso sulla poesia conta poco e deve essere sottoposto alla verifica del testo e della sua ricezione storica. Così, più che ragionare in astratto su quello che penso, cercherò di mostrare come mi sembra di aver risposto nei fatti, ovvero con i testi appena usciti nel libro L’amore e tutto il resto (Interlinea).

Ciò detto, verrebbe da affermare che “fine della storia” e “fine della metafisica” siano altrettante etichette, mentre la poesia lavora sull’esperienza concreta e reale. Però devo ammettere che, quando ho iniziato il lavoro che si è ora compiuto nel libro, percepivo effettivamente in me un senso della fine. Non era il semplice giro del millennio a dare questa percezione, era la sensazione concreta che ciò che io definivo “Novecento” si era esaurito. Tutti i poeti con cui mi confrontavo, sia i maestri riconosciuti sia i poeti contemporanei, mi parevano ancora prigionieri di un orizzonte che mi appariva come ormai privo di senso. Il Novecento è il secolo dell’ironia che distrugge ogni visione del mondo presupponendo alternative che in realtà non sa elaborare: una forma di intelligenza che si limita alla pars destruens, insomma (con ciò che di sano porta con sé, contro ogni bigottismo o fanatismo, per esempio). Il Novecento è il secolo anche della sperimentazione formale estrema. Il suo personaggio ideale è la figura umana dell’“inetto”, dell’uomo senza qualità, dell’anti-eroe (anche qui, con aspetti positivi: nessuno crede più nella figura romantica, tutta d’un pezzo, dell’eroe capace di cambiare la storia). Il suo lascito complessivo è il male di vivere, la depressione, la disillusione estrema. Ecco, io ho percepito nettamente questo senso della fine: forse non è esattamente la “fine della storia” della domanda, ma credo che la presenza nella mia raccolta di una poesia intitolata Novecento sia significativa. E dunque, che fa la poesia al tempo della fine? Rintraccia possibili indizi di un altro principio.

La “fine della metafisica” mi fa venire in mente alcuni versi da Verifica della storia: “vivere non basta / e dio non è possibile. Da secoli”. Eppure, se la cultura occidentale ci ha davvero condotto qui, su questo fronte, la poesia percepisce, senza barare, senza pretendere di non vedere il presente o di rendere reversibile il tempo, l’evoluzione ulteriore. E si tratta magari di un evento non prevedibile, non logico, propriamente poetico. Mi sembra di dire questo nella poesia Epoca. La penultima strofa afferma: “Per ciò elemosina giorno su giorno / un senso, scava nelle mani aperte, / dona a tutti un destino. Inventa. Annuncia: / un nuovo mondo dietro l’angolo aspetta”. Sottolineerei l’uso del verbo “elemosina”: la poesia non è fonte di un sapere precostituito, va oltre la cultura stessa: è sapienza primigenia, vitale. Può trovare la ricchezza nelle mani vuote. Può inventare un destino, come anticamente i miti “servivano” la vita, la favorivano. E se qualcosa di nuovo esiste, è già potenzialmente qui, dietro l’angolo: occorre solo trovare uno sguardo capace di dargli credito e di offrirgli la cura necessaria per svilupparsi.

Il “Novecento” che sentivo alle spalle sembra, storicamente, riproporsi ciclicamente (basti pensare alla guerra attuale), ma forse una parte dell’umanità incarna una figura umana già esausta e superata, anacronistica, mentre altri sono già altrove, già cercano di fissare i tratti distintivi di una nuova figura di uomo. Nella mia poesia il richiamo a Marte è probabilmente l’emblema di quell’altrove verso cui ci stiamo indirizzando. Dunque, il compito della poesia è di guardare “l’ultimo orizzonte” e cercare, fino alla fine, di glorificarne la bellezza – nella speranza, certo, che sia la traccia di un inizio. Ma, se anche così non fosse (come si lascia intendere nella poesia con cui chiudo il libro, Postilla per l’alieno), la poesia ha il compito di registrare e certificare la verità di quella bellezza che la morte stessa non potrà comunque smentire.

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(Andrea Temporelli)

Domanda

– Qual è la sua posizione rispetto alla poesia europea del novecento?

Question

– What is your position with respect to 20th century European poetry?

Answer

Caspita, la domanda fa venire le vertigini. Se per “posizione” si intende un giudizio critico sulla poesia europea, presuppone una levatura intellettuale straordinaria. Se per “posizione” si intende il collocamento della propria esperienza stilistica, presuppone parimenti un ego sconfinato. Di primo acchito, verrebbe da sentirsi soltanto piccoli e inadeguati, del tutto disorientati. In effetti, la risposta più corretta sarebbe: “Non so”. Avrei una nube di pensieri in movimento, e anche di sensazioni tutte da verificare… Balbetterei ipotesi su ipotesi, contraddicendomi ripetutamente.

Ma cerco appigli nel libro. Geograficamente, i richiami a luoghi di provincia sono dominanti: torrenti, montagne, boschi, ma anche cascine, case specifiche, vicini di casa… e poi il cortile, gli interni… La poesia si radica in un territorio preciso e in una lingua precisa. Dunque, guardo all’Europa da qui, dalla lingua e dalla cultura italiana. Ma l’Europa entra anche nei miei versi, sia come paesaggi (in Ballata del mese di maggio per esempio si richiama lo scenario della guerra nel Kosovo del 1999) sia come cultura: l’epigrafe del libro è di Mandel’štam, la “terra marcia” di Fronte del bene comune è prossima alla terra desolata di Eliot, l’angelo della mia poesia sembra un richiamo a Rilke (che però si innesta su un mito familiare), e poi chiamo direttamente in causa le “baldracche di Baudelaire” oppure Kafka… Sì, direi che la poesia europea lascia un velo, in queste pagine. Eppure, sempre stando ai miei versi, lo sguardo non sembra fissarsi sull’Europa, semmai sull’occidente in un senso più ampio, ma a questo punto inserito in un contesto globale…

Ahimè, avrei voluto rispondere in modo positivo, chiamando in causa un’identità europea e un posizionamento rispetto ad essa, ma non posso farlo. L’Europa è terra di confluenze diverse, un ponte sul mondo, da attraversare in entrambe le direzioni. L’Europa in generale, e la poesia europea nello specifico, sono dunque soltanto un’intercapedine tra la mia pagina e il mondo, tra il mio cortile e Marte.

Domanda

Possiamo definire la sua poesia come post-modernista?

Question

Can we define his poetry as postmodernist?

Answer

Fine e inizio, dicevamo, si compenetrano, e a tratti non si possono distinguere. Ciò che adesso è “post” qualcosa, forse si potrà definire un giorno “pre” qualcos’altro. Poeticamente sono attratto soprattutto dalla seconda ipotesi. Ho ben coscienza, per quello che è nelle mie possibilità, di ciò che ho alle spalle. Ma il senso della fine da cui sono partito ha generato una nausea alla quale ho risposto, umanamente, con il desiderio. Non so se quello che sto per dire ha senso, ma io mi sento più all’inizio di qualcosa che alla fine di altro. Per ora mi basta pensare che la mia poesia sia “pre”-sente. Essere davvero presenti, centrati nel respiro e nel pensiero, consapevoli della scena in modo da non essere “giocati” da essa: dentro i congegni della nostra società complessa, ma senza appartenere ad essi. Credo sia questa l’unica, eterna dimensione contemporanea della poesia. La poesia contemporanea è quella sintonizzata bene nel presente, ovvero quella che, in ogni epoca, riesce a guardare lungo quel crinale infinito e sottilissimo che sta tra il ricordo del noto da una parte e l’ansia dell’ignoto dall’altra (come nell’equilibrista della mia poesia Vertigine), l’unico tempo giusto perché qualcosa accada, anche il primo battito di ciò che sta per arrivare: essere presenti significa a quel punto pre-sentire…

Questa mia visione è una nuova maschera del modernismo o è il suo superamento? Francamente, non saprei dirlo. Dovrei volgere lo sguardo verso uno dei due abissi, rientrare nella prospettiva storicistica. Non ho alcuna intenzione di farlo, “Finché la carne bianca a fuoco ara / una mano ispirata”.

Domanda

Possiamo definire la sua poesia come “Poesia del tramonto”?

Question

Can we define his poetry as “Poetry of the sunset”?

Answer

“L’appuntamento è qui su questa pagina / mio capitano di poche parole, / lettore in fuga dalla somiglianza / che mi fa tuo seguace contro il tempo”. “E adesso voglio un nome impronunciato, / bianchi tutti i quaderni, persi i crediti”… “… di tutti / i confini ho dolore, / ho passione per tutti gli orizzonti”. “Lontano / i vincitori esultano – / ma il pane in tavola è più buono, i figli / sono uomini fatti e nella luce / lattiginosa del portico parlano / come guide già esperte”. No, non direi che la luce che percepisco sia una luce di tramonto.

Domanda

Come è cambiata nel corso dei decenni la sua poesia?

Question

How has your poetry changed over the decades?

Answer

L’amore e tutto il resto comprende versi composti tra il 1996 e il 2022. Le oscillazioni formali ci sono, ma erano presenti fin dall’inizio. Finora, ho sempre trapuntato le forme canoniche: ho sperimentato il loro superamento in alcuni tratti, per eccesso di formalizzazione; le ho scantonate con andamenti apparentemente più liberi, in altre fasi. Il verso perfetto rischia di generare nausea o di suonare vuoto, di interferire con la voce reale della poesia. Ma queste oscillazioni sono rimaste costanti in me, in questi anni, quindi non sono da considerare un reale mutamento, ma un movimento congenito e continuo – almeno finora. Se dunque la raccolta tiene e risulta compatta, come mi sembra, arriverei a sostenere che non c’è stato un reale cambiamento, se non una ovvia sedimentazione figurale e un illimpidimento espressivo.

Foto Man Ray Rue de la transfusion de sang

Man Ray foto rue de la transfusion de sang

Domanda

La civiltà europea è giunta alla sua fine? O è possibile un nuovo inizio?

Question

Has European civilization come to its end? Or is a new beginning possible?

Answer

Credo di avere già risposto. L’Europa è una terra di passaggio, un luogo di confluenze, un margine. Ammaliati dalla spiritualità indiana o dalla disciplina nipponica, abbiamo un calendario babilonese, un dio ebreo, una matematica araba, una filosofia greca e una praticità latina; vestiamo tessuti cinesi, sfruttiamo minerali africani, mangiamo frutta sudamericana e… ci scaldiamo col gas russo. In questa visione, essere un margine è una ricchezza inestimabile, perché significa essere per eccellenza luogo di commercio, di conoscenza e di scoperta. Anche politicamente, quando le forze che interpretano positivamente il concetto di “confine” vinceranno su quelle che pretendono, per paura e ignoranza, di difendere “identità nazionali” fasulle, inizierà una nuova epoca. Ma dirò di più: non esistono muri che possano fermare le migrazioni. Le resistenze saranno, alla fine, superate, volenti o nolenti. Possiamo soltanto decidere se vivere questa trasformazione in modo pacifico oppure in modo più traumatico. L’identità europea è una non-identità, una perenne prossimità all’altro. L’identità europea è la “somiglianza”. E questo fa paura a molti.

Domanda

Grazie per la sua gentile disponibilità Andrea Temporelli, vuole dire ai lettori italiani la sua opinione sul futuro della poesia?

Question

Thank you for your kind availability Andrea Temporelli, do you want to tell Italian readers your opinion on the future of poetry?

Answer

Non c’è niente da dire sul futuro della poesia. Il futuro della poesia non esiste. Il futuro della poesia si fa. Poeticamente.

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Negli anni ’30, Parigi era il centro del mondo e Montparnasse era un club, Il tema dell’identità di genere della poetry kitchen, di Marie Laure Colasson, Instant poetry di Mauro Pierno, Mario M. Gabriele, Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa, Mimmo Pugliese, Lucio Mayoor Tosi, Sull’iperbole nella poetry kitchen, di Giuseppe Gallo

Marie Laure Colasson

Sulle ragioni della Crisi

Jacqueline Goddard, una delle muse di Man Ray, azzarda un’ipotesi originale, incredibilmente semplice:
«Negli anni ’30, Parigi era il centro del mondo e Montparnasse era un club», racconta l’ex modella, una delle poche testimoni di quell’epoca leggendaria. «Joyce, Duchamp, Picasso, Bréton… ci trovavamo alla “Coupole” dove Bob, il barman, teneva liberi alcuni tavoli per noi e i nostri amici. Tutto avveniva per un tacito accordo, senza neanche bisogno di darsi appuntamenti. E questo per un fatto molto semplice: allora non c’era il telefono… Una fortuna! Nessun telefono avrebbe potuto competere con Bob. E c’è di più. Al telefono possono parlare soltanto due persone. Noi, invece, eravamo in tanti a confrontarci, a litigare, a vivisezionare le idee». Era questo il segreto? La comunicazione reale anziché quella filtrata dai media? È forse un caso che il celebre detto di Aristotele («Amici miei… non c’è più nessun amico») si affermi proprio nel Villaggio Globale governato da Sua Maestà il computer e la banda larga popolata da folle di solitari disperati? «Eravamo amici e siamo diventati estranei» (La Gaia Scienza). Ancora una volta Nietzsche è stato un lucido profeta.
Il nostro è forse il tempo della inimicizia, della competitività e della conflittualità nel rapporto tra persone, tra artisti e con i lettori. C’era una volta l’amicizia. C’era una volta il sodalizio.

Giuseppe Gallo

L’iperbole, dal greco: ὑπερβολή, hipér “sopra” e bolé “lancio”, con il significato di esagerazione, è una figura retorica di contenuto. Nel linguaggio comune e nelle affermazioni poetiche è una figura largamente diffusa, basti pensare a espressioni del tipo:

– Siamo in un mare di guai.
– «Quivi parendo lontana a Rinaldo mille miglia.» (Ariosto, L’Orlando furioso)

Da questi due semplici esempi si evince che l’iperbole eccede nella descrizione della realtà: i guai sono un mare sterminato; e la distanza che Rinaldo ha di fronte si sottrae a qualsiasi misurazione. La realtà descritta, però, può subire anche una diminuzione,

– È pronto in un minuto!
– Non hai un briciolo di cervello!

In questi ultimi esempi si esagera, sempre, ma per difetto. Ecco la verità che sta dietro le parole: ciò che si esprime non va preso alla lettera! L’iperbole è un trucco, un’illusione, rende l’idea, circuisce la nostra logica razionale e la proietta verso il fantastico. Infatti, spessissimo, l’iperbole funziona nelle favole, nei racconti per bambini e in quella letteratura consapevole che il linguaggio contiene in sé la possibilità intrinseca di un “discorso doppio”, quello dell’invenzione e quello della realtà; l’iperbole non vuole ingannare, ma quasi; un po’ di vero deve rimanere in piedi, ma deve essere stravolto, con l’iperbole l’impossibile diventa possibile!
Ma oggi, come stanno le cose? Oggi che impera l’immagine audiovisiva, a tutti i livelli. Videogiochi, fantasy, spot pubblicitari avveniristici, il cielo che cade sulla terra, l’universo che non ha alcuna legge su cui reggersi… Oggi che abbiamo a disposizione lacerti poetici di questo genere:

“Il semaforo gorgheggiò una canzone di Mina
degli anni sessanta” (Giorgio Linguaglossa)

“I lati scaleni del rettangolo scorrono sulle dune,
adesso che le albicocche sono asteroidi
il collo dell’ukulele è figlio di Andromeda” (Mimmo Pugliese)

“Roba che si vede al Bancomat: il Minotauro
e Teseo che parcheggia la Rolls Royce” (Francesco Paolo Intini)

Sembra che la metafora iperbolica investi la struttura stessa del discorso. Oggi non “affoghiamo in un bicchiere d’acqua”, ma in tutti i bicchieri e in tutte le acque, tornando ad essere bambini, incapaci di distinguere tra vero e falso, tra verosimile e improbabile, tra esagerazione e compressione…

Marie Laure Colasson

Il tema dell’identità di genere della poetry kitchen si basa su un concetto piuttosto semplice:[…] la poesia kitchen non ha identità alcuna, non dà certezze a nessuno, non è né maschio né femmina, e neanche transgender, non vuole essere trasgressiva e neanche rassicurante, disconosce i concetti di avanguardia e di retroguardia, concetti del secolo trascorso che non hanno più cittadinanza nell’epoca del Covid-19 e dei sovranismi; inoltre, si sente a suo agio nel presente, in questo presente confuso e contraddittorio, e lascia libero ciascuno di assegnarle l’etichetta che più aggrada.

La poetry kitchen non vuole essere definita da stereotipi e/o da categorie del passato. È un genere ibrido, fluido, mutevole, instabile, né poesia né prosa, tantomeno prosa poetica o poesia prosastica, non poggia su alcuna certezza, non garantisce alcuna identità, non v’è distinzione tra il genere innico e il genere elegiaco, categorie continiane che possono applicarsi ben che vada alla poesia del ‘900 e del tardo novecento; rifiuta il concetto di identità, non si presenta come un nuovo «modello», non è la gardenia di Dorian Gray e neanche la pipa o la bombetta o l’ombrello di Magritte né il ferro da stiro o l’orinatoio di Duchamp, non ricerca la identità di genere, anzi, non ricerca nessuna identità, la sua sola identità è la promiscuità e l’ibrido, l’infiltrazione e la permeabilizzazione del testo; è insieme ilare e drammatica, ideologenica e mitologenica, si esprime per assiomi infondati e per aforismi derubricati; la poetry kitchen avverte la responsabilità di promuovere la mental inclusivity di tutti i punti di vista, non chiede di essere riconosciuta ma soltanto dimenticata dopo averla letta, non rivendica che la propria inautenticità, la propria sintomaticità; fate attenzione: è una malattia esantematica e contagiosa, e poi è democratica e rivoluzionaria perché sconvolge gli stereotipi e le categorie che vorrebbero irreggimentarla, inoltre è allergica alla poesia da salotto e ai salotti tele-igienizzati del politichese letterario, infine piace ai giovani e ai giovanissimi.
Così è se vi piace. Ed anche se non vi piace.

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Paolo Lagazzi e Giancarlo Pontiggia: I VOLTI DI HERMES – In margine a una nuova collana di critica, con una  riflessione di Giorgio Linguaglossa

Foto Man Ray Still life auto portrait

Man Ray,  foto, Still life con autoritratto

  Inventare una collana di critica dedicata al dio Hermes (I volti di Hermes, Moretti & Vitali Editori) ci è sembrato più che un piccolo gioco; o, se gioco era, la sua posta ci appariva piuttosto diversa dalle solite. Se non fosse che Hermes non ama il parlare atteggiato, diremmo quasi che a guidarci era il bisogno di offrirgli un risarcimento. «Un risarcimento a un dio? e per cosa, poi?»: non è difficile immaginare perplessità del genere. Il fatto è, crediamo, che Hermes è stato troppo a lungo sottovalutato, trascurato, vilipeso: o addirittura dimenticato, rimosso, cancellato – come se non fosse colui che ha inventato la lira e la magia, il fuoco domestico e l’arte dei legami, e che dai tempi di Omero illumina la fantasia degli uomini dandole insieme penetrazione e ali, permettendole di muoversi fra la terra e il cielo, tra il reale e i sogni, fra il visibile e l’invisibile; come se non fosse il dio d’ogni guizzo creativo in cui, al fondo d’una sovrana leggerezza, brillano le rivelazioni decisive, le chiavi che ci schiudono i passaggi per l’Altrove (chi più di Mozart è, sulla soglia del moderno, fatalmente “ermetico”?); come se il suo sguardo obliquo e inafferrabile non fosse ciò che può meglio liberarci dalle trappole dell’ideologia e dalle strettoie del pensiero categorico, rigettandoci sempre, di nuovo, verso l’avventura infinita dell’universo.

  Benché nei nostri anni i discorsi sul fare critica colmino sempre più numerose pagine di riviste, di giornali e di libri, una grande, sempre meno mascherabile stanchezza sta invadendo tutti i luoghi tra cui circolano queste parole: redazioni e bar, aule e  librerie, TV e siti Internet. Presumendo di affidare i propri destini al dio delle distinzioni chiare e rigorose – Apollo, da troppo tempo ridotto a patrono degli ingegneri –, ormai lontani gli orizzonti entro cui era piuttosto l’“oscuro” Orfeo a orientare le pulsioni interpretative, la pratica critica attuale non fa, in realtà, che produrre strumenti, articolare analisi e sbandierare idee che hanno come principalissimo effetto il dilagare d’un’ombra depressiva, d’una noia, d’un grigiore assai prossimi alla terra desolata di Eliot. Quanti professorini addobbati da buoni esegeti, quanti ragionieri o notai delle lettere curvi sui loro registri o sui loro file diligenti hanno mai sospettato che l’esercizio critico può essere anche (o meglio, dovrebbe essere prima di tutto) gioco, gioia, immaginazione, invenzione? Quanti lettori “professionali” sono mai stati attraversati da quel brivido leggero e pungente, da quella fiamma rapinosa e aerea, da quella circolazione energetica che è il sangue, la linfa e il respiro di Hermes?

  Presa in questa spirale di seriosità, la critica vacilla, annaspa, soffoca; e non le serve molto fingersi in buona salute, tentando a getto continuo di rifarsi il look attraverso nuove parole d’ordine o “dibattiti” montati ad hoc: trovate tanto efficaci quanti iniezioni ricostituenti, terapie fisiatriche o lampade abbronzanti somministrate al capezzale d’un moribondo. D’altra parte, nemmeno compiangersi serve molto alle schiere dei critici. «C’era una volta la critica…»: quante volte non abbiamo udito questa specie di favola triste dalla bocca di esegeti tutt’altro che privi di responsabilità riguardo ai più giovani, tutt’altro che immuni da scelte improntate, per anni e anni, allo spirito dell’aridità? Ciò che questi studiosi non osano ammettere è che la rottura-chiave, la linea di non ritorno nella vicenda critica dal Novecento a oggi va colta, semplicemente, nel calo di fantasia creativa, cioè nell’idea che il movimento della scrittura sia del tutto secondario, e in fondo irrilevante, rispetto alla capacità di cogliere la “verità” dei testi. L’Hermes maestro nell’arte dei nodi, degli intrecci e dei legami ci insegna ben altro: ci ricorda che ogni autentico confronto con quelle reti di senso che sono le opere non può fare a meno di mettere a frutto una profonda sapienza linguistica, una conoscenza non teorica ma “artigiana” di come le parole si legano tra loro, di come l’ordito e la trama delle frasi si generano sulla spola mobile della sintassi: di come il senso sia  anzitutto “ritmo”, battito, pulsazione: di come ogni stile vitale nasca da un diverso movimento della mano o da un affondo originale del piede nel terreno plastico dell’esperienza. Da questo punto di vista, è chiaro che la critica è scrittura oppure non è nulla; o essa continua, con altri mezzi, la letteratura di cui si occupa, o la interrompe, la frena, la spegne, la castra: ne ottunde il respiro, ne comprime le potenzialità proprio mentre pretende di farsene garante, di fornirle la presa rigorosa delle proprie analisi. Capire, ci sussurra Hermes se sappiamo ascoltarlo, non significa in letteratura circoscrivere il senso, cercare di intrappolarlo nel nostro sguardo, nella luce immobile della nostra volontà di possedere il testo.

  Come Eros di fronte a Psiche mentre tenta di guardarlo – di inchiodarlo nella sua nudità –, il senso sfugge se cerchiamo di fermarlo. Ogni ermeneutica vitale deve, viceversa, sposare il volo di Eros fra l’evidenza sensibile e la trasparenza, tra il concreto e il fantastico, tra la notte dei segreti cruciali e l’alba delle sorprese e dei doni: deve sapersi fare “erotica”: deve osare abbandonarsi al flusso, irriducibile alle teorie, del desiderio creativo. Solo nel coraggio di questa leggerezza, in questo abbandono alla grazia e alla necessità della seduzione, l’esercizio critico può ritrovare la sua anima: può riscoprire i fondamenti sacri, misterici, sapienzali della letteratura, della poesia e dell’arte.

Foto Man Ray Linda Lee

Man Ray, foto, Lee Miller

  In volo, Hermes si affianca a Eros, e ci invita a non sigillare la pratica interpretativa in qualche secco, borioso rituale mondano. Mentre la critica contemporanea è quasi sempre un lavoro da geometri o da burocrati della precisione – o uno scavo da chirurghi, da disossatori, da detective –, Hermes ci esorta a moltiplicarci, a osare ruoli, percorsi e racconti diversi, a capire che un critico può riconoscersi, con gioia, in tanti volti, differenti tra loro come i  colori dell’arcobaleno: può essere via via un affabulatore, un conoscitore di grandi storie, di miti, di leggende e di fiabe (al modo d’un Gaston Bachelard o d’un James Hillman); un maestro dell’intuizione fulminante, dell’aforisma, del paradosso e dello humour (sulla linea Wilde-Cioran); un pasticheur, un goloso praticante di sapori, un degustatore di combinazioni linguistiche e sinestetiche (giusta l’esempio del sommo Praz); un navigatore, un esploratore, un avventuriero, un “corsaro” (come l’ultimo Pasolini, ma anche come il Parise dei viaggi in Giappone); un artigiano del legno, dell’ebano, della creta, della stoffa o dei gioielli (si pensi alla funzione del tatto nelle ricognizioni testuali d’un Jean-Pierre Richard); un mago, nel senso ampio d’un praticante le vie diverse e complementari dell’alchimia, della Cabala, dell’astrologia, o anche quelle della prestidigitazione (osserviamo in Citati la capacità di riprendere e rilanciare gli insegnamenti di Goethe, questo innamorato di tutte le forme e le esperienze del magico); un ritrattista, un pittore verbale, un allievo di Sainte-Beuve, di Giovanni Macchia o di Giacomo Debenedetti, e della loro inesausta scommessa di disegnare destini in forma di parole; un giardiniere, teso con le sue antenne sensibili a riconoscere le linfe circolanti tra i rami, gli steli e le foglie delle opere… Continua a leggere

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