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A PROPOSITO DEL NICHILISMO E PESSIMISMO  – GIACOMO LEOPARDI, ARTHUR SCHOPENHAUER, FRIEDRICH NIETZSCHE, OTOKAR BŘEZINA – a cura di Antonio Sagredo

pittura Herbert List

Herbert List

Il poeta e filosofo ceco-moravo Otokar Březina (1868-1929) è il poeta che più d’ogni altro, tiene legati i secoli ‘800 e ‘900 in maniera indissolubile… domina le tensioni nichilistiche di entrambi i secoli conoscendo a menadito i poeti  – più sotto citati – che lo hanno preceduto  (che formano l’ossatura portante di tutto l’Occidente, ma Březina conosce profondamente anche la filosofia orientale)

[dalla mia tesi su Otokar Březina del 1974-75]

“Otokar Březina terrà sempre presente il simbolismo erotico che sostiene tutte  religioni, in primis quelle le orientali: nell’amata perdere la propria individualità, il che equivale al raggiungimento del Sé reale supremo: i mezzi sono rappresentati coi simboli; non estraneo alla sua voluttà mistica è l’influsso del poeta persiano Hâfiz, che aveva già coinvolto Goethe. Voluttà mistica è conoscenza del corpo proprio e dell’amata. Si pone contro l’ignoranza che impedisce di conoscere il corpo; ma la conoscenza una volta assolto il suo compito impedisce, proprio perché conoscenza eguale ad esperienza, di ascendere al regno celeste, al Divino.

Forse per questo si ha nostalgia della conoscenza. Il problema della gravità/gravezza terrestre, dell’essere attaccati alla dea-terra-madre morbosamente, ammaliatrice che ci trattiene oltre il dovuto – poi che prima della morte vogliamo l’ascesi suprema – è uno dei problemi principi del poeta. E l’enigma della caduta (se siamo poeti, perché siamo scherniti come l’albatro di Baudelaire?… o siamo angeli caduti a cui è negata in eterno la luce!) è altro problema di Březina: come risolverlo? Ma tanti, tantissimi sono i temi che ci propone il poeta: tantissimo ha letto e riletto – tanta conoscenza dilata i temi rendendoli più abissali! Sa di essere anche filosofo,  ma, come poeta, non si fida poi tanto della ragione. Credo che il sogno(in lui naturale o in qualche modo costretto ad esistere/essere a causa della sua personale vita privata) è il regno dove meglio poteva realizzarsi, quindi una sorta di corazza sono l’illusione e l’inganno.

Il sogno è il riscatto dell’uomo, unica arma contro il Fato o il Destino avversi entrambi al Divino… ma sarà poi vero? Il Sogno-Inganno-Illusione ha vinto il Pensiero [punto di separazione tra Leopardi e anche di Březina, da Schopenhauer], e soltanto così mi spiego perché la poesia, con l’ausilio della filologia usi la filosofia come decollo (come in Leopardi; e Březina qui gli è molto vicino!), come unità di direzione, come mezzo per un’ascesi finale, per una Nemesi!, soltanto attraverso una volontà poetica del poeta opposta alla volontà filosofica, e non certo alla no(n-vo)lontà.

arthur schopenhauer

Arthur Scopenhauer

Comunque, dalle filosofie e dalle religioni orientali come dalla civiltà greca [di cui sia Březina che Leopardi ne accettano la rassegnazione classica, dunque lo “sguardo calmo e dolce”(e qui l’italiano si ferma)]. Ma Březina vedrà una luce nella Natura, non più matrigna portatrice del Male, dunque spinta o stimolo a voler avere fede nella vita, quando invece la Ragione vi si oppone perché l’uomo sia soltanto una creatura infelice. Insomma, con Socrate e Platone, Březina ha cari temi come l’immortalità dell’anima e il mondo delle idee, la metempsicosi e la reincarnazione a quella legati: inganni forse, ma comunque realtà che vivono con/nell’uomo. E c’è il problema dell’Uno in Tutto e del Tutto in Uno; il molteplice e la pluralità e la unità (più come com/unione) sono i contrappunti costanti della sua tensione e ricerca.

Così i valori, dell’assoluto e dell’unico e della totalità: problemi affrontati, già da tutte le culture d’oriente fino al neoplatonismo e, tempo dopo(specie con Plotino, che Březina citerà più volte)diverranno l’oggetto del più sfrenato romanticismo, a cominciare da Goethe e da Schiller, per concludere con Hölderlin, con cui Březina s’intende talvolta a meraviglia, ma ancor di più col suo, forse, diletto Novalis */(1).

Con quest’ultimo Březina intrattiene [al termine di una polemica/lotta interiore con se stesso lo preferirà a Nietzsche, nonostante   sia stato s/travolto da Dioniso (1), scegliendo allora “non il superuomo di Nietzsche, ma il magico titano di Novalis, genio e santo”(2)] uno speciale dialogo: stesso amore per il Medio Evo, dove i culti della notte e della morte, [comuni anche a  Mácha (3)], e della religiosità – realizzati simbolicamente con funzione organizzativa  d’ogni cosa esistente – avranno in comune l’Amore Cosmico per le costellazioni [le sfere celesti!]: entrambi poeti cosmici essenzialmente.

Otokar Brezina e Antonio Sagredo, Praga, anni Settanta

Ma il culto della Notte e della Morte è atavico primordiale mito[per gli spiriti vicini a Březina diviene simbolo come in quei popoli arcaici che precedettero le più raffinate dinastie egiziane coi loro poemi (4) o addirittura dei tibetani nel loro Libro dei Morti. Ma se di simbologia non si finisce mai di parlare, significa forse che è nato prima il simbolo dell’uomo!? Azzardato affermare che il simbolo abbia creato l’uomo? E qualcosa di più di un atavismo ancestrale? Non lo sapremo mai. In Březina c’è il simbolismo del viaggio (è un topos di fondamentale importanza che assume caratteristiche singolari in tutta la intera cultura boema) – prima  e dopo Mácha è una ossessione devastante – e la parola errare in lui si trasforma/trasmuta in ricordo romantico con sfumature byroniane. Březina, nella poesia Moje matka (Mia madre), detta:

Pellegrinava per la vita mia madre, come una triste penitente.

Il simbolismo del viaggio (il pellegrino, il viandante e vari sinonimi) è motivo primario di ogni religione, scienza, filosofia, poesia…  a cominciare da quelle orientali “la dottrina delle vestigia pedis è comune agli insegnamenti greci, cristiani, indù, buddisti e islamici”.

“I lamenti disperati di tutti i pessimisti e di tutti i nichilisti di tutte le epoche si somigliano; saranno state differenti le loro domande, ma la risposta è unica: non c’è risposta! Forse per questo che ancora esiste, per una sorta di inerzia parassita della mente umana, il gusto o il vizio della stessa domanda. Dalla parte opposta i lamenti degli speranzosi e dei credenti al mio orecchio risultano insopportabili! Un fatto è che: i lamenti filologici (filosofo/poeta) di Nietzsche e quelli poetici (poeta/filosofo) di Březina furono gli ultimi ad essere contemporanei… e chiusero un secolo… per aprirsi ad un nuovo, che si desiderava fosse più positivo e più ottimista, (dopo lo sterminio degli indiani americani e anche degli scozzesi) invece iniziò col primo sterminio etnico, degli armeni, riconosciuto dei tempi “moderni”, a cui seguì la prima carneficina moderna, e vent’anni più tardi uno sterminio mondiale “moderno” mai visto prima.

pittura Not Vidal Snowballs

Not Vidal Snowballs

Modernità non significa, sempre, progresso. E il secolo successivo a questo, come comincerà? Sarà ancora più dolce la vita?! Si, quanto più la disperazione diverrà sempre più terrificante! Poiché lo scontro occidente contro oriente o viceversa, già adombrato dal poeta russo A. Blok, io lo sottoscrivo; l’ottimismo breziniano è una beffa!    La rinuncia di Březina:

  1. a) la constatazione pessimistica che l’uomo oltre ad essere mediocre e insipido, è anche stupido. [“Mi allontano sistematicamente dalla società umana ed ho momenti di fastidio e di tristezza solo quando ritorno da essa”- lettera del 13 settembre 1892 a Bauer].
  2. b) la constatazione ottimistica che l’uomo è una creatura polifonica [all’inizio degli anni ’20 (27 dicembre 1922), nonostante la carneficina della prima guerra mondiale]. Il suo SILENZIO datato proprio all’inizio del ‘900 è il silenzio della PAROLA SCRITTA; non certo della PAROLA PARLATA, che è prerogativa (alla maniera) dei saggi orientali: Březina non farà altro che parlare e parlare, quando decide che è necessario non essere riservato; l’essere riservato, al contrario, è l’aspetto fondamentale del suo carattere. [Ma la parola orale (parlata) è prerogativa, anche, dei grandi carnefici: i dittatori. A chi appartiene la parola che uccide: ai saggi indiani? ai poeti? ai dittatori?]. Comunque, questo problema della rinuncia (punto a) il critico Pavel Fraenkl lo affronterà in modo particolare e specifico(1). Da questa rinuncia nasce l’”aristocraticismo artistico” di Březina ed insieme una sua dolce disperazione decadente.

Il passaggio da una solitudine sociale (“samota společenská”) ad  una solitudine artistica (“samota umělecká”) è contraddistinto dal fatto che “nello spirito decadente Březina sente la voluttà – e in ciò è un fedele dotto scolaro di Schopenhauer”(3). È ovvio che Baudelaire è dietro l’angolo! Ma nel poeta è presente tutta una fisiologia della voluttà[già detto, secondo il “satanista” Karásek ze Lvovic, come questa speciale voluttà è il fondamento erotico di alcuni mistici spagnoli ben noti a Březina], che è evidentissima, posso dire, in ogni poesia, poiché la voluttà usa travestirsi sotto innumerevoli e colorati vestimenti e maschere. Egli, ha si, attuato delle personali rinunce, ma il prezzo che paga è una malinconia disperante minata da desideri irrefrenabili… è dunque il poeta un Dionisio devastato dalla propria impotenza, impotenza anche di gridare! Sempre presente è il simbolo del suo dolore espresso in varie forme e svariatissimi oggetti. Per quale motivo Březina ha attaccato la Natura? Perché: “venendogli a mancare gli oggetti del desiderio, quando questo è tolto via  da troppo facile appagamento, tremendo vuoto e noia l’opprimono: cioè la sua natura e il suo essere medesimo gli diventano intollerabile peso. La sua vita oscilla quindi come pendolo di qua e di là, tra il dolore e la noia, che sono in realtà i suoi veri elementi costitutivi”.

Pittura Not Vidal Moon 1995

Not Vidal Moon 1995

da una mia nota:

* [notate questa singolarità: “dolce” in questi quattro autori:

  1. Nietzsche:

“Solo una vita piena di sofferenze e privazioni ci può insegnare come l’esistenza sia tutta intrisa di dolce miele…”; “Gli infelici raffinati, come Leopardi [e io aggiungo: Březina]… la loro inclinazione a pensare tutto quanto soffrono, la loro arte nel dirlo: tutto questo non è di nuovo – dolce miele?”; in Nachgelassene Fragmente. Frůhling 1878-November 1879; IV 3, 433. [Esempi: il celebre refrain di Březina: “dolce è la vita”; e quello di Leopardi:“m’è dolce naufragar in questo mare”]. E Franz Kafka: ”Ho detto di sì a tutto. Così il dolore diventa un incantesimo e la morte… la morte non è che una parte della dolcezza della vita” (Janouch, Gustav: Colloqui con Kafka, a cura di E.Pocar, Milano 1964).”.

In Březina è anche presente il sentimento/sensazione di PANICO cosmico che sconvolse Pascal, (e Leopardi)

e quell’HORROR VACUI di cui sono malati cronici i poeti: [“Morire in vita e vivere nella morte spirituale, ecco la sola cosa che provoca in me orrore”; lettera del 30 aprile 1890, a Bauer].

Ma il vuoto dell’orrore non è forse più terribile?

È indubitabile che il timore/terrore per lo spazio immenso: il vuoto che si suppone infinito, dell’infinito senza finitezza spaventi Březina [Leopardi per superare questo timore è costretto a fingere un/l’infinito “…e nel pensiero mi fingo…”], e che anche per questo motivo sia monista/monoteista/sintetista ecc. Il fine è ricondurre il Tutto all’Unico, ad un rinnovato Dio cristiano, infine all’Universo cristiano: supremo principio di tutte le cose esistenti e inesistenti. Per questo poi rifiuterà il Buddismo e di conseguenza il pensiero di Solov’ëv sul buddismo, affermando che “solo il cattolicesimo è verità” [secondo la testimonianza di Deml; op. cit. pag. 131]. Insomma il Buddismo, per il poeta, è incapace di riunire il Tutto sotto l’egida del fraterno universalismo.

 In definitiva se aver fede significa puro mezzo per scacciare il timor panico, la fede in un dio è ben poca cosa! É più seria la fede nella finzione di Leopardi, che non è mezzo per aggirare il Nulla; ma con la finzione rende ancor più disperante l’horror vacui! Lo sforzo di Březina è questo: che il Nulla mai diventi Dio, e viceversa: non vuole essere un epigono di Schopenhauer! Verrà il momento che rifiuterà la sua saggezza 

Březina ha il coraggio di fare poesia anche con parole improprie, estranee al misticismo classico-trascendentale; la parola, apparentemente, grezza e rozza operaia s’insinua tra sogni e giardini, mondi estatici; forse non proprio secondo l’idea socialisticheggiante e “urbanistica” del poeta belga Verhaeren (autore che stimava), che fu acclamato dai cubofuturisti russi e dal futurismo europeo, ma non italiano.

1] La “mistica ebbrezza” della Nacht ha vinto definitivamente il superuomo di Nietzsche, ma cederà il posto alla dolce e pacata rassegnazione greca, avvicinando sempre più Březina a Leopardi: superarono ambedue un nichilismo e un pessimismo che (/li/) divoravano le loro illusioni-realtà e con ciò superarono, attraverso due direzioni differenti ma speranzose, Schopenhauer e Nietzsche. Leopardi si riconcilia in qualche modo con la Natura riconoscendole una certa “eterna saggezza e bontà (Zibaldone, 66)… e addirittura una zona della nostra esistenza affine al divino” (in: W.F. Otto, Leopardi und Nietzsche, op. cit.) – Březina invece trasforma le sue illusioni pervase da un pessimismo romantico-decadente-simbolista in una religiosità ottimistica cristiana universale: corale fraterno che canta l’armonia delle sfere assieme all’intera umanità: non è questa una sorta di classica serenità greca? Serenità, che era garantita pure dagli dei pagani. É questa serenità che tradisce la tragedia greca! O è il contrario?!].

Antonio Sagredo Letizia Leone sorridono 2

Antonio Sagredo con Letizia Leone, Roma, presentazione di Capricci, 2017

Antonio Sagredo (pseudonimo Alberto Di Paola), è nato a Brindisi nel novembre del 1945; vissuto a Lecce, e dal 1968 a Roma dove  risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini (Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial 2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: «Malvis» (n.1) e «Turia» (n.17), 1995, Zaragoza. La Prima Legione (da Legioni, 1989) in Gradiva, ed.Yale Italia Poetry, USA, 2002; e in Il Teatro delle idee, Roma, 2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile.

Come articoli o saggi in La Zagaglia:  Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (A. Di Paola); in Rivista di Psicologia Analitica, 1984, (pseud. Baio della Porta):  Leone Tolstoj – le memorie di un folle. (una provocazione ai benpensanti di allora, russi e non); in «Il caffè illustrato», n. 11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il Teatro degli Skomorochi, 1971-74. (A.   Di Paola) (una carrellata di quella stupenda stagione teatrale).

Ho curato (con diversi pseudonimi) traduzioni di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema :Tumuli di  Josef Kostohryz , pubblicato in «L’ozio», ed. Amadeus, 1990; trad. A. Di Paola e Kateřina Zoufalová; i poemi:  Edison (in L’ozio,…., 1987, trad. A. Di Paola), e Il becchino assoluto (in «L’ozio», 1988) di Vitězlav Nezval;  (trad. A. Di Paola e K. Zoufalová).

Traduzioni di poesie scelte di Katerina Rudčenkova, di Zbyněk Hejda, Ladislav Novák, di Jiří Kolař, e altri in varie riviste italiane e ceche. Recentemente nella rivista «Poesia» (settembre 2013, n. 285), per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di lettori: Otokar Březina- La vittoriosa solitudine del canto (lettera di Ot. Brezina a Antonio Sagredo),  trad. A. Di Paola e K. Zoufalová. È uscito nel 2015, per Chelsea Editions di New York, Poems Selected poems. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016)

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ROMA, VENERDì 11 marzo H. 17.30 Aleph Trastevere, vicolo del Bologna, 72 presentazione del POETA CECO PETR HRUSKA, “Le macchine entrano nelle navi” (ed. Valigie rosse, 2014) Intervengono Katerina Zoufalova, Antonio Sagredo, Silvia Beatrice Bellucci, Giorgio Linguaglossa. Sarà presente l’autore, canterà Yvetta Ellerova. Seguirà coktail – Petr Hruška – “Le macchine entrano nelle navi” (Valigie Rosse, 2014). Prefazione di Jan Štolba, traduzione di Jiří Špicka con la collaborazione del poeta Paolo Maccari – Commenti di Jan Štolba, Antonio Sagredo e Giorgio Linguaglossa

foto Eve Arnold, Silvana Mangano at the Museum of Modern Art, New York, 1956

Eve Arnold, Silvana Mangano at the Museum of Modern Art, New York, 1956

Commento di Jan Štolba dalla Introduzione a “Valigie Rosse

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Petr Hruška, nato nel 1964, è emerso da una generazione che ha ancora pienamente vissuto gli anni della cosiddetta «normalizzazione», l’ultima fase del regime comunista. Erano gli anni di uno strano tempo senza tempo, di acque stagnanti, quando il regime aveva tutto il Paese sotto il suo controllo, la propaganda politico-culturale dominava i media e tramite essi ostentava un’immagine di onnipotente felicità e benessere. È vero che a quest’immagine non credeva nessuno, ma quasi tutti scuotevano la testa in segno dell’ubbidiente assenso e addirittura, a loro volta, lo realizzavano con le loro personali fughe nelle casette di campagna… Gli anni della normalizzazione erano anni della «noia tautologica» (Václav Havel) e della famigerata «calma per lavorare», così esaltata, in opposizione a un qualsiasi moto di disturbo attivato da un’opposizione o da una critica sociale, da Gustav Husák, l’allora presidente della repubblica, il «presidente dell’oblio», come l’ha definito Milan Kundera. gli anni della normalizzazione erano anni in cui apparentemente non accadeva niente. ciononostante il paese era occupato dall’invisibile armata sovietica e decine di dissidenti erano perseguitati senza scrupoli, carcerati ed espulsi in esilio […] le persone si trovarono a dover fronteggiare dilemmi non facili anche in situazioni in cui non rischiavano una diretta repressione. E soprattutto la sfera dell’arte e della letteratura erano strettamente sorvegliate dagli ideologi del regime. Hruška non pubblica durante la normalizzazione, difficilmente sarebbe stato possibile. Per i gusti del regime la sua poesia era troppo cruda e sincera, anche se Hruška non trattava argomenti politici, il regime di allora avrebbe riconosciuto immediatamente la sua voce che parlava libera e senza limitazioni ideologiche. Simili voci erano giudicate automaticamente inammissibili e pericolose: manifestavano infatti la verità interiore sullo stato della società… aprivano spazi umani dentro cui il regime non aveva accesso con le sue goffaggini, gli schemi ideologici e le menzogne.
Lo stretto legame con la realtà: è questa la prima radice della poesia di Hruška. Sorprende come le poesie della sua prima raccolta, Soggiorni irrequieti, siano grezze, come riescano a creare un contatto tangibile con le cose, ma come, allo stesso tempo, siano anche inequivocabilmente, stuzzichevolmente ellittiche. Tali poesie ci rapportano in modo fisico e sensoriale con una ineludibile realtà. Tuttavia, ci permettono di intravedere una certa assenza che si trova invischiata nella realtà: urtiamo fisicamente contro la realtà, ma pur sempre troviamo in essa molto di indescrivibile e di ineffabile. Così, cerchiamo subito di riempire come possiamo questo spazio vuoto… Hruška cerca sin dall’inizio di introdurci nello spazio di questa camera di soggiorno irrequieto, dell’intesa-non intesa con la realtà.
.Petr hruska invitoDEFINITIVO
L’impressione che ci dà la poesia di Petr Hruška è quella dell’immediatezza… Un umile “maglione verde” può diventare il segno di tutti quegli anni che abbiamo vissuto con la nostra compagna. Oppure, un incontro inatteso con la propria moglie nell’oscuro della dispensa di casa può diventare miracoloso: due individui che si conoscono intimamente si incontrano improvvisamente nel buio, come due estranei che si attraggono. Dentro le nostre vite viviamo ininterrottamente altre intime ed eccitanti vite… la poesia di Hruška appare diretta e sempre a portata di mano, ma questo non vuol dire che sia banale o semplicistica. Nelle immagini che strappa alla realtà egli riesce a cogliere il mistero dell’istante con mirabile sottigliezza a svelare lo stato d’aggregazione del tempo fatale che viviamo in ogni secondo della nostra vita […]
Nell’antologia Le macchine entrano nelle navi del poeta ceco Petr Hruška i componimenti si snodano con un potente piglio affabulatorio che sa raggrumarsi in suggestive sintesi liriche, come pure mimare il parlottio delle città contemporanee, con l’irrespirabile inquinamento dei luoghi comuni e di una gremita solitudine […] Hruška si discosta dalla tradizione melico-metaforica della poesia ceca avvicinandosi piuttosto a quella anglosassone, rappresentata da Whitman e Williams, edificata su immagini, sensazioni, visioni. Hruška ha suscitato l’attenzione della critica fin dalla sua prima, aspra e laconica raccolta poetica, Soggiorni irrequieti del 1995) finendo per diventare una delle voci poetiche più rilevanti dell’epoca libera dopo la Rivoluzione di velluto.
Nella sua poesia, la misura della concretezza da sempre si accompagna a una straordinaria capacità di cogliere in ogni evento un sostanziale momento metafisico, una sutura invisibile ma fondamentale dentro l’esistenza umana, dove il quotidiano si incontra con il trascendente […] L’originalità e l’unità della personalità poetica di Hruška si è rivelata in pieno nel volume Zelený svetr (Il maglione verde, 2004) e il premio di Stato conferitogli nel 2013 per la sua ultima raccolta poetica, Darmata (2012).
Con una sorta di delicata crudezza di accenti e di dettagli, Hruška non di rado ricorderà ai lettori l’impeto disarmato di certe immagini di Piero Ciampi, come «il testicolo della nuda lampadina al soffitto». Fenomenico e frizzante, questo libro, di stampo fortemente ciampiano, va a indagare quel reticolato vivo e incostante che è l’umanità.
«Hruška non pubblicava durante la normalizzazione, difficilmente sarebbe stato possibile. Per i gusti del regime la sua poesia era troppo cruda e sincera. Anche se Hruška non trattava argomenti politici, il regime di allora avrebbe riconosciuto immediatamente la sua voce che parlava libera e senza limitazioni ideologiche. Simili voci erano giudicate automaticamente inammissibili e pericolose: manifestavano infatti la verità interiore sullo stato della società, quell’autentica, unica e intima verità dell’uomo».
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Commento di Giorgio Linguaglossa
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Vorrei dire che io non intendo affatto, quando sostengo una tesi pubblicistica della poesia, escludere i poeti che fanno una poesia dei propri ricordi personali, altrimenti sarei uno sciocco oltre che un mediocre analista della poesia (evito di definirmi critico). Però, c’è modo e modo di fare una poesia dell’«io», tutto sta a chiedersi dove sta l’«io», questo presunto e supposto «io», il quale è, com’è noto, una ipotesi psicologica e filosofica della modernità e che la modernità ha dissolto, smantellato e decostruito con le analisi della filosofia recente (Lacan, Derrida, Meyer, Lyotard, Eco, etc). Io vorrei presentare come esempio di una poesia a vocazione privatistica ma con esiti, nella sostanza pubblicistici, una poesia non di un poeta italiano, per non essere accusato di tirare acqua al proprio mulino, e di indicare gli amici, io prenderò ad esempio un poeta europeo, e neanche di massimo livello, perché sarebbe facile citare un grande poeta europeo per esplicitare le proprie tesi. Citerò invece una poesia del poeta ceco contemporaneo (che mi ha fatto conoscere Antonio Sagredo) Petr Hruška in un libro pubblicato da Valigie rosse (2014), traduzione di Jiří Špička con la collaborazione del poeta Paolo Maccari.
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Il maglione verde
dopo tutti gli anni insieme
il maglione verde
né pioviggina
né imbrunisce
mi alzo
da dietro abbraccio
il maglione verde.
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Mi sembra una poesia semplicissima, anzi, addirittura elementare. Una poesia che parla di un “maglione verde”, Un ricordo privato, privatissimo. Eppure, la poesia tocca una corda universale, diventa, alla lettura, il nostro maglione verde, magari brutto e fuori moda, ma il nostro di noi tutti, maglione verde. Per me questa è una ottima poesia pubblicistica.
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foto vuoto in alto.

Commento di Antonio Sagredo

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Il poeta Petr Hruška è nato a Ostrava (1964), terza città della Repubblica ceca con 300.000 abitanti, situata nella regione della Moravia-Slesia. Centro carbonifero per eccellenza: si estrae carbone dal 1763. Città metallurgica, siderurgica, produce ferro e acciaio. Al tempo del comunismo era detta “Cuore d’acciaio della Repubblica”.
Le miniere furono chiuse gradatamente nel 1989, 1994 e 1998. A testimonianza di quella che fu un tempo vi è un museo di Archeologia industriale. La presenza incombente delle antiche miniere è sentita dal poeta Hruška (che ne scrive in molti versi), poi che la città in gran parte poggia su questi giacimenti di carbone e sulle gallerie delle miniere. Di un altro poeta di Ostrava, Vilém Závada (1905-1982), Angelo Maria Ripellino (nella sua Storia della poesia ceca contemporanea, del 1950) scrive che era “una terra povera, triste, centro carbonifero inquinatissimo… il cielo pesante e fumoso copre tutto d’un grezzo colore di cenere”, che agisce in profondità sul verso di Závada che è “verso pesante e nodoso, spoglio d’ogni melodia, formato di parole dure e scabre”. Il grande critico letterario František Xavier Šalda dice che il verso di Závada è fatto di un “fangoso orrore che ti strangola per intere pagine… ovunque caligine… descrizione pesante [che crea] un verbalismo assillante”.
Petr Hruška è un ingegnere specializzato nella depurazione (1987) che coltiva la sua passione: poesia e letteratura; ma dopo la caduta del regime comunista, alla facoltà di Scienze Umanistiche di Ostrava, consegue un dottorato con una tesi sulla “Prosa e poesia nella subcultura ceca contemporanea” (1990-1994), e un ulteriore titolo accademico (2003) all’Università Masaryk di Brno (tesi su “Il surrealismo del dopoguerra e la reazione al modello d’avanguardia nella poesia ufficiale”). In entrambe le università è lettore di Letteratura ceca. Lavora anche all’Accademia delle Scienze Umanistiche di Praga.
Hruška ha studiato profondamente la letteratura ceca dal dopoguerra in poi, difatti è stato coautore del IV° volume di Storia della letteratura ceca 1945-1989; del secondo volume del Dizionario degli scrittori cechi dal 1945 e del Dizionario delle riviste letterarie ceche e delle Antologie dei periodici e degli almanacchi (1945-2000).
Per cui è storico importante della letteratura ceca. Coltiva le sceneggiature sia in teatro che in televisione, articolista, organizzatore di serate letterarie e festival ed esibizioni culturali a Ostrava e altrove; è anche attore e ha recitato nel cabaret di Jiří Suruvka. Scrive su importanti e storiche riviste ceche, quali Literární noviny, Tvar, Host, Slovenská literatura, ecc. ha vinto il prestigioso Premio Jan Skácel (1922-1989), che fu un grande poeta. Ha collaborato inoltre con poeti e scrittori della sua stessa generazione come Jan Balabán (1961-2010), , Pavel Šmíd, Sabina Karasová, Radek Fridrich, Patrik Linhart e Petr Motýl che è anche pittore , autore teatrale, critico d’arte, ecc. (taluni di questi poeti sono suoi amici personali)
Ha pubblicato varie monografie su poeti cechi, tra cui una importante sull’anziano poeta ceco Karel Šktanc (1928-). Pubblica su varie riviste straniere, e saggi di letteratura in Francia, Paesi Bassi, Russia, Ungheria, Belgio, USA, ecc.
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I suoi libri di poesia pubblicati in Repubblica ceca sono:
1995 – Soggiorni irrequieti – (Obývací nepokoje; Sfinga, Ostrava 1995, ill. Adam Plaček:
1998 – Mesi – (Měsíce; Host, Brno, ill. Zdeněk Janošec-Benda
2002 – La porta si chiudeva sempre – (Vždycky se ty dveře zavíraly; Host, Brno, ill. Daniel Balabán
2004 – Maglione verde – (Zelený svetr; Host, Brno, una raccolta dei tre libri precedenti, più una collezione di prosa Odstavce, ill. Hana Puchová
2007 – Le macchine entrano nelle navi – (Auta vjíždějí do lodí; Host, Brno, ill. by Jakub Špaňhel
2012 – Darmata – (Darmata; Host, Brno, ill. Katarína Szanyi [anagramma della parola Dramata (Drammi)]; con questa raccolta ha vinto il Premio di Stato per la letteratura.
2015 – Una frase – (Jedna věta; Revolver Revue).
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Petr Hruska copPetr Hruška e i poeti e artisti cechi
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Durante la Seconda guerra mondiale in Repubblica Cecoslovacca sorsero diversi “Gruppi” formati da poeti e artisti di varia estrazione culturale e sociale.
Gruppo ’42 (Skupina ’42), con Jaroslav Seifert (Praga 1901 – 1986); Ivan Blatný (1919-1990), Jiří Orten (1919-1941); JiřÍ Kolař (1914-2002); Kamil Bednář(1912-1972) e altri.
Gruppo Ra – 1946 – (legato al marxismo viene sciolto nel 1949) – propugna il Neosurrealismo…
Gruppo dei Poeti cattolici
Gruppo Mladá Fronta (Fronte della Gioventù)
Gruppo Rudé právo (omonimo del giornale di regime comunista)
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Quando Hruška comincia a scrivere sulla poesia e letteratura ceca dal dopoguerra in poi (periodo su cui ha scritto pagine essenziali) tiene presente tutte le istanze che questi gruppi vollero esprimere. Tra le varie istanze è da sottolineare quella che volle ristabilire un nuovo e diverso Surrealismo (del Gruppo Ra), avviando la fase di un secondo surrealismo che non ebbe affatto lunga vita, anche se un critico d’eccezione come Karel Teige scrisse, per la mostra di questo “neosurrealismo” a Praga – tenuta al salone Topič – nel novembre-dicembre 1947: “Questo non è il canto del cigno, ma l’empirico prologo della prossima azione; non è il tramonto, ma l’alba di un nuovo giorno”. (nel Manifesto del 1947 del Gruppo Ra). Frase che Ripellino bolla come “anacronistica ortodossia”. (in A.M.R., Storia della poesia ceca contemporanea, le edizione d’Argo, Roma 1950, pag. 97).
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foto le maschereLa tematica del vivere quotidiano e la sua umanità
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Tenendo presente la naturale inclinazione di Hruška per tutte le vicissitudini umane che si svolgono nella quotidianità, siano esse banali, mortali, consuetudinarie, drammatiche, prive di volontà di riscatto, ecc., (aspetto sostanziale sottolineato nella prefazione di Jan Štolba), ho notato comunque nella sua poesia una tradizione che viene rispettata (senza scomodare K.H. Mácha, il padre della poesia ceca), e che inizia con Božena Němcová, grande scrittrice dell’800, assurta a simbolo della sofferenza del suo popolo. E la poesia ceca va avanti per tutto l’800 su questo tema (influenzata fortemente da una cultura folcloristica che poco concede all’allegria) fino a che il dominio austro-ungarico è sconfitto, e nasce la repubblica cecoslovacca.
La poesia ceca abbandona questo suo triste e malinconico tema dominante anche per l’avvenuta autonomia e sovranità politica di un nuovo Stato: l’euforia è dunque dominante; e infine con la corrente del Poetismo dei primissimi anni ’20 celebra la gioia di vivere in tutte le manifestazioni possibili; ma dura poco poi che le prime avvisaglie (fra tante altre di altri poeti) di una malinconia quasi drammatica che ritorna, sotto altre forme, si hanno col poema di Vitězslav Nezval l’Edison del 1928.
Il Surrealismo e l’espressionismo accentuano questa fine della spensieratezza, e già s’intravede una poesia dalla fine degli anni ’20 in poi (tutte le arti seguono questo andazzo) con presentimenti pessimistici già in parte delineati (faccio soltanto alcuni nomi) con Holan, Josef Hora, Vilém Závada (già su ricordato), František Halas che, alcuni anni dopo, con la sua raccolta Staré ženy del 1935, (Vecchie donne) descriverà i tristi pomeriggi domenicali della gente comune, una esistenza piatta, orizzontale; con Jaroslav Seifert (futuro Premio Nobel, che simbolicamente premia tutti i suoi compagni di strada) che diviene il mesto cantore di Praga.
Il sentimento pessimistico si unisce a un fatalismo che non lascia speranza alcuna, e ancora di più sotto il regime comunista. Assistiamo alla falcidie dei poeti coi loro destini tragici (faccio giusto due nomi) p.e. come il poeta cattolico Jan Zahradníček che muore poco dopo essere uscito dalla prigione; o come quello dell’ amico-poeta Josef Kostohryz (1907-1987), che si fa 14 anni di carcere duro per poi essere assolto per non aver commesso alcunché, e che nel suo poema Mohyly (Tumuli) racconterà la sua esperienza. Insomma, la poesia ceca ritorna al suo secolare destino d’essere poesia tristissima sia per sua implicita natura che per eventi esteriori, e che si esprime alternativamente con versi aspri o melici, tragici o metafisici, baroccheggianti; insomma negli anni bui del dopoguerra in poi prevalgono versi funerei, nerastri, davvero pervasi da presagi oscuri che si cerca di stemperare con contorcimenti linguistici. E infine, dopo la caduta del comunismo, e, per giungere ai giorni nostri, si manifesta con una semplicità disarmante, ma mai banale, come in Petr Hruška, p.e., uno dei maggiori rappresentanti della poesia ceca odierna.
Dal mio punto di vista la poesia di Hruška si origina anche dalle assillanti quotidianità studiate analiticamente… quasi operazioni da bisturi: una vivisezione continua che diviene ossessione e che talvolta sfiora una troppa e calcolata ostentazione di ciò che si osserva, come del resto in tantissimi poeti cechi. E se la poesia di Halas è una poesia segnata da una “tenerezza ferita”, timida e stanca accettazione del provvisorio, una sensitiva mestizia (tklivost), l’angoscia per la fugacità del tempo e per lo sfiorire, la sua amarezza per il disagio dei poveri” (Ripellino), anche Petr Hruška , secondo Štolba nella prefazione a questo libretto, “offre anche tenerezza nella sua poesia”. Questo termine, “tenerezza”, è presente due volte.
È Halas (e non solo questi) che si schiera contro il mielismo (il prefatore Jan Štolba dichiara che anche Hruška è contro il mielismo ), contro le lambiccature linguistiche, contro i vocaboli arcaici, disprezza la melodia e il posticcio ottimismo. Certo, è ovvio che la sua poesia ha aspetti marcatamente distinti da quella di Halas, che è pieno di strabilianti metafore. Certo che il quotidiano umanistico di Hruška non è affatto “malsano” come quello di Halas. L’umanismo di Hruška è invece pervaso da sentimenti misericordiosi, compassionevoli, così come nella poesia Štěkot (L’abbaio) e Co ještě chci (Cosa voglio ancora). Halas non è mai melico (per ripicca verso alcuni suoi accusatori scrisse qualcosa di assolutamente melico:, e lo fece burlandosi dei suoi detrattori). Ma, infine, scrive Halas “la poesia è il sangue della libertà”.
Questa frase lascia in eredità ai poeti cechi e in generale a tutti i poeti slavi e non, che vissero interamente sotto il dominio sovietico (noi sappiamo che furono per primi i poeti russi a sanguinare). Hruška ha fatto una breve esperienza di cosa vuol dire non poter pubblicare sotto un potere che non ti lascia respirare liberamente: aveva 25 anni quando questo potere scompare nel 1989. Poi ha potuto cantare come ha sempre desiderato, ma non ha cantato il trionfo e tutte le su sfaccettature, ha cantato l’alta profondità che si cela nell’umano o nel disumano e che si maschera (ma non tanto) sotto la quotidianità, o sotto la sua “apparente” banalità.
Allo stesso modo, anche Hruška presenta una caratteristica della poesia di Halas che è assenza di verticalità, slanci verso l’alto per celebrare qualcosa… la loro poesia è puramente orizzontale, come il tempo quotidiano che è incapace di darti un sogno, ma solo di descrivere o di rappresentare con le parole lo svolgimento terribilmente eguale del ticchettio temporale, e in questo svolgimento figure concrete che si muovono, quasi automi votati alla rassegnazione di vedere nella propria vita domestica sempre le stesse cose, stessi movimenti, stessi pensieri, ecc. Ma è indubbio che lo stile dei due poeti è diverso: lo stesso tema è ovvio che sia cantato con aspetti poetici completamente distinti.
Come dice Ivan Wernisch della poesia di Hruška: “Lei riesce a scrivere poesia priva di cose inutili e senza fronzoli lirici”. Ma lo stesso poeta conferma: “La poesia non è la decorazione della vita”. Insomma la sua poesia nonostante tutto deve poter “togliere la sicurezza dal lettore e deve demolire qualsiasi estetica lirica”.
Forse per questo motivo che il prefatore Jan Štolba scrive nella introduzione a questo volumetto di poesie di Petr Hruška che il poeta “si discosta non poco dalla tradizione melico-metaforica della poesia ceca avvicinandosi piuttosto a quella anglosassone rappresentata da Whitman e Williams edificata su immagini, sensazioni, visioni”. [William-Carlos]. Lo stesso traduttore delle poesie di Hruška, Jiří Špička, in una e-mail che mi ha inviato dice con candore: ”io non trovo molto Whitman in questi versi; su Williams non mi posso esprimere, perché lo conosco troppo poco”. Personalmente ho dubbi seri circa questo avvicinamento di Hruška ai due poeti americani o alla poesia americana in generale, che è parecchio melica; se mai, senza andare tanto lontano, avvicino la poesia di Hruška a quella concreta e realisticamente quotidiana dell’inglese Philp Larkin; e per finire a certe opere del pittore americano Edward Hopper. E giusto per essere molto più vicino a Petr Hruška, nella sua stessa terra natale, accosto due poeti: Zbyněk Hejda (1930-2013) e Katerina Rudčenková (1976-); spero in futuro che qualche studioso possa confrontare questi tre poeti.
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Poesie di Petr Hruška – “Le macchine entrano nelle navi” – Valigie Rosse, 2014
*
(dalla raccolta Soggiorni irrequieti 1995)

è giorno
gennaio
una luce acuta
si può usare in svariati modi
entrare per sbaglio in un vicolo cieco
dove una sorpresa
dove una donna sorpresa e magra
alzerà
gli occhi

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Tutto quel piccolo parco

Da qualche parte ci deve essere
tutto quel piccolo parco
ma per quale via
diomio
nel crepuscolo spicca
il chiodo arrugginito del novembre
nella memoria danno freddo
i cuscinetti delle altalene
e i pali
degli uccelli

*
(dalla raccolta “Mesi” – 1998)

Luglio

a Jan Balabán

Alla finestra della camera notturna
come al finestrino del treno
ma fuori sta immobile
il buio dell’albero
dietro la schiena gli animali guardano
sul pigiamino
*
Luglio

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Il maglione verde
dopo tutti gli anni insieme
il maglione verde
né pioviggina
né imbrunisce
mi alzo,
da dietro abbraccio
il maglione verde.

*
(dalla raccolta La porta si chiudeva sempre – 2002)

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La porta

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La porta si chiudeva sempre, da sola,
per tutti gli anni, con uno scatto lento.
Ora non si muove di un dito.
Di fronte a lei una donna, raccoglie una larga
sottoveste, colpevole, che di notte è caduta dalla corda.
L’uomo guarda la donna con la sottoveste. Forse il vento.
In un istante della notte.
Tutti e due vorrebbero sapere precisamente quando
è accaduto, tutti e due vorrebbero vivere quell’istante.

Petr-Hruska Premio Valigie Rosse V edizione

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La dispensa

Una volta ci imbattemmo uno nell’altro nel buio della dispensa,
catturati a vicenda – con il sangue d’oca e il petrolio,
con le camicie di casa rimboccate,
con gli sporgenti tumori delle patate.
Siamo venuti a predare.
Si sente il respiro colto sul fatto,
il magro filamento di luce, che filtra dal finestrino
giace sotto l’imbarazzo steso fra di noi.
*
Inizio di primavera

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Già stavamo per sederci sul letto. Poi l’uomo si è ricordato
che l’ala posteriore era rimasta aperta. Ha strascicato lungo il corridoio,
attorno ai buchi neri delle officine e degli spazi.
Attorno ai buchi neri delle maniche su un appendiabiti comune.

La casa era spalancata, infilata in se stessa.
La mano sul chiavistello, ha visto accanto ai noccioli
sotto il tetto l’ultimo pezzo di neve.
Giaceva bianco e grosso, come un animale con la testa drizzata,
come una spalla nuda.
Come soltanto, così tanto, poche cose nella vita.
Giaceva bianco e inappropriato, vicino alla porticina dell‘ala posteriore.

Ha strascicato indietro, lento e silenzioso,
tante volte la donna si fosse già addormentata.

*

Prima del bagno

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ti sei spogliata
con le mani quarantenni
e ti sei girata
verso i cassetti
dove da un tempo terribilmente lungo
abbiamo creme e rasoi e utensili
ho sviato gli occhi
davanti a quella bellezza,
e ricordo soltanto
il dorso bianco
della monografia di Giotto

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(dalla raccolta Le macchine entrano nelle navi, 2007)

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Mentre siamo in cucina

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Entreremmo nel buio
i rami gialli degli aceri selvatici
si allungherebbero avidi
sull’auto
In un luogo ai margini
ci sarebbe una cappella imbrattata
ma potrebbe anche non esserci
neanche quella lamiera abbandonata alla pioggia
potrebbe non esserci niente
Scenderemmo
staremmo insieme in piedi
irresoluti e fermi
dentro la luce dei fanali e nei maglioni
– uno stupendo fumo della bocca
Solo dopo
scenderei giù,
a chiedere la strada.

*

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Le macchine entrano nelle navi

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Le macchine entrano nelle navi,
nell’alto inguine bianco
che rimane immobile,
nel trionfo assordante del rumore
Funi tese ganci cardini noi due
dopo un lungo viaggio
un lucido strapazzo del metallo
mandriani delle macchine in camicie bagnate
Un tumulto immenso, eppure una calma
della realtà imperiosa
non possiamo strapparci
– appartiene a noi –
da quella sozzura del mare in porto
da fetore dei mezzi pesanti
che entrano lenti nelle navi immobili

*
Dopo l’incidente

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Per ora mettete le cose qui.
Qualcuno ha fatto spazio sulla mensola,
nel cassetto o nell’armadio.
E qualcuno dopo l’incidente
mette qui i suoi oggetti personali,
miseri e orgogliosi.
Non importa che è successo.
Non importa in quale orfanotrofio siamo.
Tutto indietreggia davanti la terribile bellezza
di quel per ora,
in cui qualcuno sta mettendo ordine tra le cose rimaste.

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petr hruska

(dalla raccolta „Darmata“ – 2012)

Cincia

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La prima neve accentua tutto.
La libertà degli arboscelli.
I metri quadrati dei monolocali.
La sottigliezza dei bambini
delle famiglie divise.
La cincia è volata dentro la mia paura
che se fossi morto ora
la mia ultima parola sarebbe
sego

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L’eccedenza del padre

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Quella carne,
quella pesante carne in eccedenza del padre,
che corre verso di voi.
Già state indietreggiando.
Già notate la manica
bruciata del giaccone,
il gomito sporco.
Ma ancora state in piedi,
guardando avanti,
vi dite padre,
un’eterna guardia di notte,
che in questo momento è entrata nella luce;
alabarde e vessilli
disordinati dall’inquietudine.
Ha gettato nuovamente pietre nel buio,
contava e ascoltava,
quando e quale si avrà risposta.
E ora corre qui,
nel vostro crescere,
l’eccedenza del padre.

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L’abbaio

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La madre guarda
il figlio che un’altra volta sta imitando il retriever.
Lui ha ventisette anni,
lei quarantacinque,
tutti e due al mondo fino al collo.
Hanno provato diverse cose,
per lo più tramite annunci e tramite dottori.
Tutti e due plausibilmente credenti.
Tutti e due regolarmente in quel bar ventiquattrore,
reali come un gancio
di bellezza.
Il figlio appoggiato contro il tavolo
la madre che ascolta immobile,
fin dove giunge, qui,
l’abbaio del retriever.

*
Un bel tonno

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Un bel tonno
per essere scossi
da quell’insopprimibile argento del pesce
sbattuto sui fogli del giornale
giornale morto per i pesci.
Un bel tonno
che sarebbe bastato per un po‘ di tempo
che una altra volta
avessimo sentito freddo a i polsi,
riguardo al pesante argento del mondo,
portarlo a lungo
le schiene ripide
dei palazzi delle banche
e poi a casa aprire il giornale insieme
i brutti ceffi pre-elettorali macchiati di pesce
danno l’impressione di essere ancora più birbanti
un grande corpo sull’asciutto del giornale,
sull’asciutto del tavolo
Un bel tonno
per increspare
i logori volant del silenzio domestico,
per ricordarsi ad un tratto
tutto quello che cazzo
volevamo qui.

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