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POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DELL’ADDIO (Parte III) Gabriella Sica, Lucia Gaddo, Flavio Almerighi, Patrizio Dimitri, Meeten Nasr, Loris Maria Marchetti, Giuseppe Panetta

cornelius escher la colomba

cornelius escher la colomba

cornelius escher stelle

cornelius escher stelle

«Il tema dell’addio. L’addio è una piccola morte. Ogni addio ci avvicina alla morte, si lascia dietro la vita e ci accorcia la vita che ci sta davanti. Forse il senso della vita è una sommatoria di addii. E forse il senso ultimo dell’esistenza è un grande, lungo, interminabile addio».

gabriella sica

gabriella sica

gabriella sica Poesie familiari

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gabriella Sica

Un’inflessibile ben oliata corda lega
il primo piano al piano di sottoterra
su cui scivola un elegante ascensore
tutto in legno senza porte da dover aprire.

Cosa scende o sale di noi sul filo teso
della stessa arca? Questa storia che continua
tra il luminoso eden e l’erebo stretto e buio
l’unica via per cui in silenzio andiamo

su e giù fino al nodo scorsoio estremo,
la vena d’oro di una miniera sepolta
dove andare a ritroso nell’esosa morte.

Ma da solo si apre al pianterreno dove
noi due chiusi usciamo in via Bertoloni
all’aperto così che non si sente l’arresto.

26 luglio 2005

Da Le lacrime delle cose (2009)

Lucia Gaddo Zanovello

Lucia Gaddo Zanovello

 

labirinto

labirinto

 

 

 

 

 

 

Lucia Gaddo

Torna implume

Rincorre l’ala stretta della malinconia un sorso di te
sopra questo prato rinverdito da tanto, senza ch’io sapessi
le molli tonalità dell’alba.
Certo il succo di questo dolore distillato alla corte delle rinunce
mi divora il senno
e non potrà la mano del desiderio riaprire i cassetti chiusi dalle ore inabili
affastellate ora nella luce del tramonto, alla latitudine del vento.
Nulla attendo dal cuore attento dei fanciulli
che cimano il presente diroccato coi subbugli.
Sulla stagione aperta dall’avemaria tanti voli planano, arditi nei disegni
ma l’ebetudine antica che dimora nei tratti di quel viso
dilaga nel rovello d’oggi che macina lacrime combuste
nella mola vanesia della fronte.
Regge il drago dell’onnipotenza fra i denti
aspre remore ancora
– incuneati contrafforti fra gli astati muri dell’anima –.
Rovistano i camini il dritto del disegno, che da quaggiú dispare.

Il tempo mostra la faccia arancio della buccia
che non tiene dentro al frutto tutto il succo.
Avvizzisce tremulo il parlare delle genti sopra il molo.
Non s’ode dagli ormeggi l’eco dei fermenti
che addensano fluenti alla boa del fare inutile.
Alla somma summa dei saperi
bussa incompleto l’ordine degli addendi.
Tace la cifra ignota che manca
– l’umida canzone rinchiusa nei grani del rosario delle dita –.
Torna implume l’anima, alla fine del viaggio
sulla terra inospitale dei viventi,
torna molle il cuore
percosso duramente dagli eventi avversi, nei torrenti sguardi
lungo il corso alpino dei tornanti
dentro un cielo di rannuvoli segmenti
e fra le tenere umane giovani sementi.

(12.7.2011 inedito)

 

Lascito

Poi questa immensità possibile chiuderà le braccia
come la notte che viene sui progetti irrisolti
che non avranno domani.

Sarà di rapina
come voce inattesa alle spalle
un rapido sguardo di sorpresa

– e in un nitore improvviso
tutto questo che è tolto –

alla partenza del grande viaggio,
il cui biglietto è già in mano

manca solo il molo d’imbarco
il numero della banchina e l’ora.

Vorrei solo si sapesse
che del mio meglio non ho fatto,
che molto più avrei voluto
avere amato.

(12.4.’14 inedito)

flavio almerighi

flavio almerighi

flavio almerighi

 

Flavio Almerighi

Di tutti i ricordi che ti ho dato

Di tutti i ricordi che ti ho dato
terrei per noi quell’eroe di guerra,
Onestini mi sembra si chiamasse,
morto di spagnola nel Ventuno,
la sua edicola dimenticata accesa
incubava tuorli di passero,
tu li vedevi vivi, curiosa salivi
a osservare i becchi aperti e muti
nel via vai infinito della fame
del bisogno di mettere piume
avere voce e diventare cattivi.

Al tuo ritorno erano già partiti.

 

tutto risolto

L’ultima volta ero piuttosto a soqquadro,
avevo idea del vento, i ricci sulle guance,
l’inedito del mare caricato ventre a terra
sopra un himalaya d’emozioni, la rabbia
sotto il mare agitato si alzava dal fondo
senza desiderio e senza arrivare in alto
dove le gambe solitamente nuotano
attingendo talento convulso dalla cecità,
non c’è tempo ce n’è mai, abbiamo da fare
le braccia alzate sul mento, rompere vetri,
figli perfetti della guerra fredda pronti
a farci sbranare da grandinate d’occhi,
nemmeno si trovava una stanza appartata
dove prenderci e passare inosservati,
seguire l’altalena di orari arrivati tardi
e qualcosa d’indefinito, amore non c’è Dio
dove andavamo noi credendoci
piccoli souvenir dimenticati nel mondo
e mangiati dal tempo, ora sì fai bene tu
intoccabile nel filo spinato di un sorriso
a ritornare estranei, tutto risolto.

 

patrizio dimitri

patrizio dimitri

 

Stefano Di Stasio, Addio

Patrizio Dimitri

La riparazione

Non hanno più nome
i nostri oggetti
sono carcasse trasparenti
soprammobili del vuoto
lesionati da gesti irreparabili.
Siamo abitanti remoti
silenziosi nella casa
tra noi rimane traccia
di una perduta simmetria.
Ora la crepa avanza
cede la struttura
collaudata del ricordo
il meccanismo lucido
dei rari ordigni elettrici.
La funzione compromessa
delle tubature innesca
la mia esigua attitudine
alla riparazione. Continua a leggere

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POESIE EDITE E INEDITE SUL TEMA DEL VIAGGIO E DELL’ESTRANEITA’ (Parte II) Antonio Sagredo, Lucia Gaddo, Giuseppe Vetromile, Chiara Moimas, Patrizio Dimitri, Alberto Figliolia, Gianmario Lucini, Luciano Troisio

buenos aires

buenos aires

New York bank-of-america-tower

New York bank-of-america-tower

New York bank-of-america-tower

I poeti, come ha scritto Adam Zagajevski, spesso dimorano in una strettoia tra Atene e Gerusalemme, tra la verità mai pienamente raggiungibile e il bello, tra il pensiero e l’ispirazione. «Tale viaggio – continua Zagajevski – può essere descritto nel modo migliore con un concetto preso in prestito da Platone – metaxy: essere “tra”, tra la nostra terra, il nostro ambiente ben noto (tale almeno lo riteniamo), concreto, materiale, e la trascendenza, il mistero. Metaxy definisce la situazione dell’uomo quale essere che si trova irrimediabilmente “a metà strada”». Metaxy, deriva dal platonico métechein, che significa «prender parte», «mezzo dove gli opposti trovano mediazione»

teatro Politecnico 1974, Antonio Sagredo

teatro Politecnico 1974, Antonio Sagredo

escher

escher

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Antonio Sagredo

Mi sorrise Omero con le dita e squame attiche

Si era offuscato il nitrito delle stelle e sul selciato
battevano i tacchi lugliènghe stramature e ammuffite,
se ne andavano le note avvinazzate per i vicoli sfiancate
dai suoni e dagli amplessi… i pentagrammi avevano registrato

gli osanna per i consumatori del divino e dai miracoli
traboccò un vomito di credenze, e le perline nere dei rosari
dai traini alle soglie intoccabili mostravano il lato B delle Madonne
tutte in celeste antico, le carnali mani pietose, negli occhi

il desiderio di un amore troppo consumato tra i crocicchi
e quelle lanterne in porcellana rosse erano i baci schioccanti
al passo di viandanti mentecatti… e l’Incarnato avanzava
con lei che si portava dietro un nugolo di creature spaventose!

Piangeva Omero quando il cratere eruttò i suoi colori
e i frammenti sparsi di Kostantinos il selciato mutarono
in mosaico, e non sappiamo se la farsa bizantina nascose
sotto la pietra i misteri che se eleusini erano – finzioni!

Brindisi, 29 giugno 2014

Lucia Gaddo Zanovello

Lucia Gaddo Zanovello

C. escher

C. escher

 

 

 

 

 

 

 

Lucia Gaddo

Colomba bianca

Umido porterò il saluto
del cane nero sulla mano,
liquido di lacrima
che insiste l’occhio del rimpianto

le tessere musive allusive
di quel disegno
non vanno
ricomposte
e svariano
sul pentagramma fluttuante
del vento strisciante della rinuncia
come note di concerto mancato.

Anche ignota va la colomba
bianca del martirio
alta e certa,
che accompagno per l’ala
fuori il giardino:
neppure guarda fra l’ordito
della tenda alla finestra
se sotto il lume ancora stai,
giudice latitante
della mia pena
o se invece apri all’addio
col sorriso dell’ebetudine,
lasciandoci andare,
ospiti di insondabile riguardo,
rifiutando di capire.

(Da Solargento, ‘agnusmei’, 2000)

 

Il lungo sonno dell’anima

Corona di nevosi denti
colse l’alba alpe in uscita.
− Rodare necesse, rodare − suggeriva chiuso il motore
lanciato nel bersaglio dell’appuntamento,
− guarire si può, e càpita di solito,
ma spesso mútila il tempo débito
e rútila il sangue sui muri edificati alle città
e tante strade si scrivono nel fango della lotta
per trovarsi ímpari a gemellare slanci
d’anguilla alla vivenza −

Ma l’unico posto vuoto è quello in ombra,
che non asciuga il dolore
e resta nel gorgo dimesso dell’abbandono;
quello il luogo e il rogo
che l’obbedienza cerca,
l’attratta suggestione
che suggeva tutto il sole del grano
dalla bocca dell’estate
e non resta che autunno a diradare incontri
a comandare i risvegli dell’anima
coatta a tentare ritorni nei sogni
a voler morire nel sonno.

Dunque si sdoppia ancora,
ancora làtita sorella verità,
chiara identità. Trafigge, affligge, infigge
effigie laconica,
misura d’astratto cielo
sfogo di fumo grigio

muníta di qualche storta schiarita,
questa flebile vita.

(da Solargento, ‘nel preludio rosso dell’alba’, 2000)

 

cornelius escher la colomba

cornelius escher la colomba

 Giuseppe Vetromile

Giuseppe Vetromile

Un viaggio verso le Indie

Parto. Che il vento mi porti fortuna.

M’affido alla guida d’un bravo nocchiero,
esperto di peripli e di tempeste: il mio cuore.
Ma quel nocchiero non so
se di paghe e di sangue nutre le sue tasche
per l’infinito viaggio che ripete il giro dei giorni
attorno alla boa della sera, e forse sghignazzerà
vedendomi distrutto sul cassero di poppa
disperato di raggiungere eldoradi ormai sbiaditi.
Pure, sarò il suo passeggero paziente,
origlierò di nascosto le sue cianciate
sul ponte intriso di lune raggelate.
Mi lascerò andare al suo comando
come timido piccolo mozzo
piegato sulla tolda a sciorinare.

Che la buona sorte mi assista.

Ora non sono che un fantasma d’aria condensa,
come quel velo guardingo che sfoca la luna
se migra di stella in stella in segreto silenzio.
Ma non sono perso: odo nel cieco navigare
una voce di padre antico, un prolungato richiamo
che si spande miglio per miglio, giorno per giorno,
in tutto il mio peregrinare.

Che Iddio mi aiuti.

Per questo mare, al mattino indosserò navigli,
progettando nuove rotte. Giunto a sera,
raccoglierò pochi relitti, un’oncia di terra sacra,
il diario di bordo mai scritto, la fragranza
dei pini marittimi lungo le spiagge, il ricordo
di tentate avventure…

Di terre emerse sognerò latitudini segrete,
da non dirne in giro se non al termine
di questo lungo navigare verso occidente

Raggiungerò mai le Indie?

 

Verso l’oriente

Ora che è svanito il sogno della terra, il sogno d’atomi
derelitti, nel cuore di cianfrusaglie quotidiane, dimmi:
prenderai anche tu la via di Damasco, per attenderti
un fulmine d’amore che ti sconvolga?… Oh, Saulo Saulo,
quanta pena lascerai sul cumulo di parole a capoletto,
quanti credi reciterai fino a massacrarti l’anima
di certezze irraggiungibili?… Ma sei pronto:

di te termina qui ogni confine, e l’antro della sera
immalinconisce il tuo colore vespertino. Hai preparato
un bagaglio di stoffa bruna, ma nella pasqua non c’è
vestiario, non occorre altro indumento se non la forza
di andare: di morte in morte, di vita in vita.

Lascia quindi la tua roba nell’ufficio, la vestaglia
e le scale per le stelle, il giardino degli aranci
incoltivati e il capitolo di carta appena cominciato.
Ora che la tua terra è un sogno, persa qui tra
mille e mille storie inconcludenti, vedrai luce

alla tua finestra, domani, diritto il viaggio nuovo
verso l’oriente.

Parigi foto di chiara moimas

Parigi foto di chiara moimas

chiara moimas a Parigi

chiara moimas a Parigi

 

 

 

 

 

 

 

 

Chiara Moimas

Transito

Piedi scorticati
sulla crosta del mondo
in un transito
fugace e doloroso.

Nessuna impronta.

Tracce di sangue
essiccate.
Cellule a brandelli
mescolate a quelle
di intere legioni
di scalzi viandanti.
Unni celti longobardi
turchi francesi
in una ridda di cromosomi
hanno disseminato di vita
questo lembo di terra.
Pellegrini in cerca di fede
vanitosi poeti del grand tour
hanno deposto lo sperma
nelle alcove di queste contrade.
Trovate la polvere
delle loro ossa
nel mio DNA.
Il test del carbonio mette
a dura prova la memoria
della specie.
Le voci in eterno
percuotono
pareti di silenzio
imbrigliate dentro reti
si scindono in spasimi
libere vagano
narrando storie
di ricorrenti illusioni.
Sete nella gola
del risveglio
e per noi
impazienza di andare. Continua a leggere

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POESIE INEDITE SUL TEMA DELLA NATURA MORTA di Antonella Zagaroli, Marisa Papa Ruggiero, Maria Pia Quintavalla, Adam Vaccaro, Meeten Nasr, Lucia Gaddo

De Chirico la metafisica

De Chirico la metafisica

 

duchamp bicycle wheel

duchamp bicycle wheel

Ut pictura poesis. E Leonardo ha scritto: «La pittura è una poesia muta e la poesia è una pittura muta». Ogni natura morta ci parla, parla di noi, che siamo fuori quadro. Essa è assenza che attende la presenza umana, o meglio, è una presenza umana che è scomparsa, ed è rimasta l’assenza. E l’assenza ci parla con il proprio apparire, il proprio essere là.

 

Antonella Zagaroli

Antonella Zagaroli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Antonella Zagaroli

da Trasparenze in vista di forma
(poesie su foto)

Ti dici arrabbiato cartone inanimato

ti senti in gabbia?

Agli incauti spettatori
la lastra gialla mostra cosa pensi

ti diverti con lo scherno
ma non starai lì a lungo a beffare
hai gli occhi ampliati dall’orrore

Divino accusatore
presto qualcuno ti coprirà
nella biacca
fino al buio delle pupille.

30 maggio 2011 (foto Uno sguardo)

*

Paesaggio d’ombre illuminate
spiraglio d’ inconcludente materia
l’ occhio cerca un nome
anche nella polvere
anche in un angolo appartato

1 luglio 2011 (foto Tre sedie)

*

marisa papa ruggiero

marisa papa ruggiero

 Marisa Papa Ruggiero

A Paxos

Il grido secco di un corvo
su rupi calve di fronde
zittisce gli uccelli
rompe la simmetria del cancello
appena schiuso

Paxos riflesso nell’occhio del corvo
strapiomba nel mio occhio

Voli plumbei di nubi corrono a Paxos
Il fragore in acqua di un sasso
La foresta di querce esce dal quadro
Intere genealogie alfabetiche
aderiscono al crollo e tacciono
Laggiù fra i sassi
la nudità di un’orma dice
la calibratura esatta del mio corpo
attraverso lo spazio vuoto che la cinge

Io non giungo né mi allontano
acque vanno nella direzione opposta
più al largo di noi
dove mai torneremo

A Paxon il mio idillio in punta di piedi con la morte

Non mi adesca di queste acque il virus
che sbianca il viso il corpo
di chi la lingua ha mozzata
ma ne allatta l’assenza la concima
Del nuovo regno riconosco le piste
le ombrose spore tra nervo e nervo
le mucillagini remote
Papille di resina fiutano antichi Sali
sottolingua e le cortecce fibrose e i succhi
sulfurei
negli antri della carne

Invio segnali da questa pagina strappata
fumo nero da comignoli divelti
in lotta sulla mia pelle
le mie dita su tavolette di cera sanno
i codici rizomatici
esposti al flash al raggio

Scavo dentro le ossa la mia fatica
di minatore per ogni segnalibro
di germi vivi
tacendo tutto gridando
la sveglia senza lancette sul cuscino
l’ininterrotto crimine

A Paxos mi corre incontro mi acceca la parola mai stata

Ha strida gelate il corvo vola in cerchio
Il concentrico volo dentro il nulla
il corvo ha nell’occhio il soffio
ribollente e il sangue di tenebra
che lampeggia a distanza tra i tronchi

L’altra faccia che mai si mostra dorme di fianco
dice l’ombra che non ha suono
nella lingua dei vivi
dice l’erranza di tutte le parole
che mi hanno bucato palato e lingua
la mia zattera sempre più al largo
che scende il fiume
il sasso in ogni tasca
l’approdo mai stato

Paxos sogna se stesso nel quadro
in qualche piega storta della galassia
che adesso è fumo
Il gabbiano è quietamente sazio
Nessun albero da nessun suicidio è scosso
Il guardiano dello scoglio
reclina il capo sull’ala

30 maggio 2014

 

Maria Pia Quintavalla

Maria Pia Quintavalla

 

 

 

 

 

 

 

Maria Pia Quintavalla

Natura morta

Un cavallo legato
ad una grande fiamma che brucia

un annegamento dolce in un fiume
che rapidamente

una strada stretta di pioggia
che appoggia
tra due campi uno verde
l’altro marrone.

 

adam vaccaro

adam vaccaro

 

 

 

 

 

 

 

 

Adam Vaccaro

Nature morte

Osso era un signore duro e fragile che riteneva di
essere il perno portante di ogni massa, somma
quasi di una forma di dio. Ma bastò una piccola
pozzanghera, come un occhio di cielo che celava
una pietra aguzza, a togliergli l’illusione e
ogni idea senza fondamento

*

Pelo, un povero privo di ogni possibile risorsa
propria incontrò finalmente un vento così forte
che lo inebriò al punto di fargli perdere misura
senso delle cose e di sé. Si abbandonò a quel
delirio di onnipotenza che lo condusse alle rive
del nulla, dove Pelo scorse il piede di tutto

*

Il Sapore di quel pomodoro in campo aperto e
suo padre che diceva un po’ di sale da esperto
le rimarranno dentro gioia di un rubino rubato
in un sogno di libertà mai più ritrovato dentro
questa città in cui cammina gobba muro muro

pronta a fare balzi appena fila odore di potere
a fare versi e dire assaporando il suo sfintere
persino in nome delle donne pur di salire
scalini pronta a offrire fessure seno e gonne
facendo misture di fiele e miele Continua a leggere

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