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Gino Rago – Arte dello scrivere: due frammentisti  vociani a confronto: Clemente Rebora, Aldo Palazzeschi e Pier Paolo Pasolini. Un contributo alla rilettura del Novecento poetico italiano e un Commento alla poesia inedita di Giorgio Linguaglossa Preghiera per un’ombra – Relazione tenuta al Laboratorio di Poesia, Roma, 30 Marzo 2017 Libreria L’Altracittà

Testata polittico

Laboratorio 30 marzo Platea_2

Laboratorio di poesia, 30 marzo 2017 Libreria L’Altracittà, Roma

Nel sogno l’io è ovunque

Freud

il soggetto è rappresentato da un significante per un altro significante

Lacan

 Clemente Rebora (1885-1957)

La poesia è un miele che il poeta,
in casta cera e cella di rinuncia,
per sé si fa e pei fratelli in via;
e senza tregua l’armonia annuncia
mentre discorde sputa amaro il mondo.
Da quanto andar in cerca d’ogni parte,
in quanti fiori sosta, e va profondo
come l’ape il poeta!
L’ultime cose accoglie perché sian prime;
nettare, dolorando, dolce esprime,
che al ciel sia vita mentre è quaggiù sol arte.
Così porta bontà verso le cime,
onde in bellezza ognun scorga la mèta
che il Signor serba a chi fallendo asseta

     (da Canti dell’infermità in  Le poesie (1913-1957)

 Questi versi di Clemente Rebora  se da un lato non dimenticano la quasi classica istanza didascalica della poesia, aperti come sono alla tematica di quella “fratellanza” volta a trovare l’uomo solidale con Dio, dall’altro sono versi esemplari del ”frammentismo vociano”, troppo spesso e troppo superficialmente confuso con la N.O.E (nuova ontologia estetica) per frammenti.
La metafora reboriana miele-poesia-poeta-ape si sa che è di antiche origini. Ma nell’ars poetica di Rebora funziona come preparatoria alla parola-chiave della composizione: «dolorando». Ed è la dolorosa saggezza da consegnare agli uomini e al mondo, forse il messaggio più alto di Rebora…

(Il rispetto e l’ammirazione verso questo frammentista vociano sono fuori discussione. Ma oggi, a distanza di quasi 100 anni, un secolo, da questi versi, è inevitabile che la poesia esplori nuovi sentieri estetici, che viaggi verso altri approdi “formali”, sentieri e approdi che son chiamati a misurarsi con la idea lanciata da Giorgio Linguaglossa, che io trovo geniale, (perché finora da nessuno studioso di poesia era stata non dico pensata ma neanche sfiorata) tutta nuova di “Spazio espressivo integrale” con tutte le moderne percezioni  di “tempo”, di “nome”, di “immagine”, di “proposizione” con cui il poeta contemporaneo deve fare i conti se vuole sottrarsi al ruolo misero, infecondo del “seguace”, del giacente supino nella stagnazione. Anche in poesia o si è candela accesa o specchio, nella stanza al buio del mondo…
Ogni giudizio critico sull’altrui poesia  deve sempre partire dall’analisi dei versi e da qui articolarsi, senza condanne generiche, senza stroncature immotivate né lodi fuori posto).

Ars poetica? Un contributo alla rilettura del’900 lirico italiano

Per un Clemente Rebora che si cimenta con “La poesia è un miele…”, indaghiamo ora un Aldo Palazzeschi, pseudonimo di Aldo Giurlani, (1885–1974), impegnato sullo stesso tema  dell’ars poetica:

Laboratorio 30 marzo Gino Rago legge

Gino Rago, Rita Mellace e Giorgio Linguaglossa, Laboratorio di poesia 30 marzo 2017 Libreria L’Altracittà Roma

Aldo Palazzeschi (1885-1974)

Lo  Scrittore

                          (da Via delle cento stelle, Mondadori, Milano)

Scrivere scrivere scrivere…
Perché scrive lo scrittore?
C’è modo di saperlo?
Si sa?
Per seguire una carriera come un’altra
o per l’amore di qualche cosa?
Chi lo sa.
Amore della parola
per vederla risplendere
sempre più bella, lucida, maliosa,
né mai si stanca di lucidarla.
Per questa cosa sola
senza neppure un’ombra
della vanità?
Scrive con la speranza
di trovare una mano sconosciuta
da poter stringere nell’oscurità

In questa lirica la «febbre» espressiva  del poeta si fa quasi ansia di comunicazione, se non aspirazione ansiosa  alla fratellanza, di un uomo, coincidente con l’Io-poetico,  che manifesta il terrore della solitudine, di un uomo-poeta  che non vuole perché non può sentirsi  solo. Desidera febbrilmente l’accensione di  un palpito di solidarietà con i fratelli (possiamo dire «i suoi lettori») smarriti, sperduti nell’oscurità del vivere in un mondo anch’esso senza luce.

Talune istanze didascaliche, più forti in Rebora, perdurano anche in questi versi . Ma in Palazzeschi vibra  continuamente la domanda sul significato del proprio lavoro letterario, rincorrendo quasi la sentenza gelida, e saggia, nello stesso tempo, di colui che contempla  gli uomini  e le cose del mondo dall’alto  di una specola , ovvero di un osservatorio speciale: quello del poeta consapevole.

Ma in questi versi non è difficile cogliere anche  la requisitoria mordace contro inclinazioni classicistiche, contro istanze estetizzanti proprio nel ritmo prosastico  e nel tono diciamo “iconoclasta”dei suoi versi e che anche per questo entra di diritto nel substrato della sensibilità contemporanea.

Un’ altra cifra, comune ai due “frammentisti  vociani”, va individuata nell’adesione di Rebora e di Palazzeschi all’arcinota affermazione di Gertrude Stein: «Scriviamo per noi stessi e per gli sconosciuti». Affermazione che con Harold Bloom possiamo   ampliare in un apoftegma direi “parallelo”:«Leggiamo per noi stessi e per gli sconosciuti», nell’atto della critica e nell’ardente speranza di imbatterci  nel potere estetico di un’opera o più semplicemente in quella che Baudelaire definì «dignità estetica» di un’opera poetica.

 Saltiamo a piè pari , da Palazzeschi e Rebora, frammentisti  vociani  della prima stagione prezzoliniana, le esperienze rondiste, ermetiche, post-ermetiche ed anche l’esperienza della vocazione realistica in cui si chiese al poeta e alla sua parola lo  sguardo della comprensione, e della pietà, a catturare l’eco di miserie di guerra in un mondo sconvolto,  attraverso il suo stesso assioma rivelatore : «Non la poesia è in crisi, ma la crisi è in poesia»,   consideriamo il sentimento di “ars poetica“ in Pier Paolo Pasolini:

Laboratorio 30 marzo Sabino Caronia e Giorgio Linguaglossa

Sabino Caronia, Laboratorio di poesia 30 marzo 2017 Libreria L’Altracittà Roma

 

Pier Paolo  Pasolini

La mancanza di richiesta di poesia

                                     ( Da Poesia in forma di rosa,  1964)

Come uno schiavo malato, o una bestia,
vagavo per un mondo che mi era assegnato in sorte,
con la lentezza che hanno i mostri
del fango – o della polvere – o della selva…
C’erano intorno argini, o massicciate,
o forse stazioni abbandonate in fondo a città di morti
con le strade e i sottopassaggi
della notte alta, quando si sentono soltanto
treni spaventosamente lontani,
e sciacquii di scoli, nel gelo definitivo,
nell’ombra che non ha domani.
Così, mentre mi erigevo come un verme,
molle, ripugnante nella sua ingenuità,
qualcosa passò nella mia anima – come
se in un giorno sereno si rabbuiasse il sole;
sopra il dolore della bestia affannata
si collocò un altro dolore, più meschino e buio,
e il mondo dei sogni si incrinò.
«Nessuno ti chiede più poesia!»
E: «E’ passato il tuo tempo di poeta…»
«Tu con le Ceneri di Gramsci ingiallisci,
e tutto ciò che fu vita ti duole
come una ferita che si riapre e dà la morte!

Poeta per vocazione, per scelta, per sorte, per disgrazia , per necessità,  il timore della perdita della poesia in Pasolini coincide con la paura della  perdita della grazia.

Ma sebbene già insoddisfatto  del linguaggio e della forma-poesia del suo tempo (su cui non è il caso di dilungarsi, dopo l’eccellente saggio di Franco Di Carlo su Trasumanar e organizzar) Pasolini immette negli ultimi versi di questa poesia una novità formale ed estetica : il parlato…

E benché i tempi non fossero ancora favorevoli per certe imprese, Pier Paolo Pasolini già avvertiva in sé l’aspirazione di far muovere i suoi versi in un’area espressiva più vasta di quella fino ad allora esplorata e attraversata, una  area espressiva che fosse in grado d’accogliere le nuove istanze in fermento  in una società in movimento,  in tumultuosa trasformazione, una società  già sottoposta a ciò che F. Di Carlo ha analizzato come “Mutazione antropologica“ e “Omologazione” anche linguistica. Da qui la necessità pasoliniana di una nuova forma priva di forma.

Il timore di perdere anche il diritto al sogno ovvero la possibilità stessa di fare poesia non è stata mai estranea a Pasolini che qui recepisce il mondo della civiltà moderna come «macchina livellatrice» in grado di creare schiavi malati. Per il poeta  la città notturna , sentita  come un labirinto di sottopassaggi e strade, di suoni ridotti a sciacquii, è un incubo. E la bestia affannata del poeta  P A T I S C E l’incrinarsi del suo mondo di sogni ed è dolente il dileguarsi con i sogni di  tutto ciò che fu vita… E se nessuno ti chiede più poesia, che metamorfosi può subire quell’essere fatto per ideali voli e improvvise Navigazioni

Franco Di Carlo, Rita Mellace e Giorgio Linguaglossa Laboratorio di poesia 30 marzo 2017 Libreria L’Altracittà Roma

Giorgio Linguaglossa

Preghiera per un’ombra

I

Questa è la preghiera per un’ombra.1
Gioca a fare l’Omero, mi racconta la sua Iliade,
la sua personale Odissea.
Ci sono cavalieri ariosteschi al posto degli eroi omerici
e il Teatro dei pupi.
L’illusorietà delle illusioni.
[…]
«Le cifre pari e le dispari tendono all’equilibrio
– mi dice l’ombra –
così, stoltezza e saggezza si equivalgono,
eroismo e viltà condividono lo stesso equanime destino.
Noi tutti siamo ombre fuggevoli, inconsapevoli
della nostra condizione di fantasmi.
Gli uomini non sanno di essere mortali, dimenticano
e vivono come se fossero immortali;
il pensiero più fugace obbedisce ad un geroglifico
imperscrutabile,
un fragile gioco di specchi inventato dagli dèi.
Tutto è preziosamente precario, tranne la morte,
sconosciuta ai mortali, perché quando viene noi non ci siamo;
tranne l’amore, una pena vietata agli Immortali».
[…]
«Queste cose Omero le ha narrate», mi dice l’ombra,
«come un re vecchio che parla ai bambini
che giocano con gli eroi omerici
credendoli loro pari, perché degli dèi irrazionali
che governano le cose del mondo nulla sappiamo
se non che anch’essi sono bambini che giocano
con i mortali come se fossero immortali;
perché Omero dopo aver poetato gli immortali
cantò la guerra delle rane e dei topi,
degli uccelli e dei vermi,
come un dio che avesse creato il cosmo
e subito dopo il caos.
Fu così che abbandonò Ulisse alle ire di Poseidone
nel mare vasto e oleoso.
E gli dèi abbandonarono l’ultimo degli immortali,
Asterione, alle pareti bianche del Labirinto
perché si desse finalmente la morte per mano di Teseo.
In fin dei conti, tutti gli uomini sono immortali,
solo che essi non lo sanno.
Non c’è strumento più prezioso dello specchio
nel quale ciò che è precario diventa immagine.
A questa condizione soltanto gli uomini accettano di essere uomini».
[…]
«Giunto all’isola dei Feaci abbandonai Ulisse al suo dramma.
Perché il suo destino non era il mio.
Il suo specchio non era il mio».
[…]
«Il tempo è il regno di un fanciullo che si trastulla
con gli uomini e le Parche.
Non c’è un principio da cui tutto si corrompe.
Il firmamento è già in sé corrotto, corruzione di una corruzione.
Un fanciullo cieco gioca con il tavoliere.
Come ha fatto Omero con i suoi eroi omerici.
Come farai tu».
[…]
«Quell’uomo – mi disse l’ombra – era un ciarlatano,
ma della marca migliore
La più alta.
Egli era elegante,
e per giunta poeta…»2

*

1 Riferimento a mio padre calzolaio che mi raccontava da bambino storie di cavalieri ariosteschi
2 versi di Sergej Esenin “l’uomo nero” (1925)

Laboratorio 30 marzo Gino Rago legge_1

Gino Rago, Laboratorio di poesia 30 marzo 2017 Libreria L’Altracittà Roma

Commento di Gino Rago

Noi tutti siamo ombre fuggevoli

 è l’apoftegma linguaglossiano che sostiene il componimento ove l’idea di “ombra” è già nel titolo. Conoscendo, da lunga frequentazione, la formazione culturale di Giorgio Linguaglossa posata su chiari e irrinunciabili punti di riferimento anche di filosofia estetica, un commento organico a questa Preghiera per un’ombra non può sottrarsi al mito platonico degli uomini incatenati in una caverna,con le spalle nude rivolte verso l’ingresso e verso la luce del fuoco della conoscenza. Altri uomini si muovono liberi su un muricciolo trasportando oggetti; sicché , questi oggetti e questi uomini, colpiti dalla luce del fuoco, proiettano le proprie ombre sulle pareti della caverna. Gli uomini incatenati, volgendo le spalle verso il fuoco, possono scorgere soltanto queste ombre stampate alle pareti della caverna. Nel mito platonico, la luce del fuoco è la “conoscenza”; gli uomini e gli oggetti sul muricciolo rappresentano le cose come realmente sono, cioè la “verità “ delle cose (aletheia), mentre le loro ombre simboleggiano l’”opinione”, vale a dire l’interpretazione sensibile di quelle stesse cose (doxa). E gli uomini in catene con lo sguardo verso le pareti e le spalle denudate verso il fuoco e l’ingresso della caverna? Sono la metafora della condizione naturale dell’individuo condannato a percepire soltanto l’ombra sensibile (doxa) dei concetti universali (aletheia), fino a quando non giungono alla “conoscenza”… Senza questa meditazione filosofica a inverare l’antefatto estetico, culturale, cognitivo che sottende l’attuale, febbrile ricerca poetica di Giorgio Linguaglossa non si comprenderebbe appieno l’approdo-punto di ripartenza di questa poesia e delle sue implicazioni, nominabili in poche ma singolari parole-chiave: forma di poesia senza forma; linguaggio di molti linguaggi; astigmatismo scenografico; stratificazione del tempo e dello spazio; metodo mitico per versi frammentati; intertemporalità e distopia. Il tutto compreso in quella invenzione linguaglossiana dello spazio espressivo integrale, l’unico spazio nel quale i personaggi inventati da Giorgio Linguaglossa (Marco Flaminio Rufo, il Signor K., Avenarius, Omero, il Signor Posterius, Ettore che esorta i Troiani contro gli Achei, Elena e Paride nella casa della Bellezza e dell’Amore, il padre, la madre, Ulisse, i legionari, Asterione, etc.) simili agli eteronimi  di Pessoa, possono ricevere la piena cittadinanza attiva che richiedono al loro “creatore” quando, altra novità di vasta rilevanza estetica in questa poesia di Giorgio Linguaglossa, “parlano” nelle inserzioni colloquiali, o nel “parlato”, dentro ai componimenti linguaglossiani recenti.

Lo spazio espressivo integrale di Preghiera per un’ombra è il campo in cui “nomi”, “tempo”, “immagine”, “proposizione” vengono rifondati, ridefiniti, spingendo il nuovo fare poetico verso paradigmi fin qui esplorati da pochi poeti del nostro tempo (Mario Gabriele, fra questi, con Steven Grieco-Rathgeb, Antonio Sagredo, Letizia Leone e lo stesso Gino Rago) a costituire un “nuovo” poetico da far sentire “vecchia” ogni esperienza di poesia esterna a tale campo.

Nota.

Segnalo l’ottima interpretazione di Alfredo Rienzi a “Preghiera per un’ombra” (lapresenzadierato.wordpress.com)  alla quale non mi sono voluto sovrapporre con il mio commento del 30 marzo 2017 – Roma, Laboratorio Poesia Gratuito, Libreria L’Altracittà, Via Pavia, 106

Gino Rago nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989),Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Sue poesie sono presenti nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa Poeti del Sud (EdiLazio, 2015) Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016)   Email:  ragogino@libero.it

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Donatella Bisutti: Un itinerario attraverso la mia poesia: Relazione tenuta al Laboratorio di Poesia L’Ombra delle Parole, Roma, Libreria L’Altracittà l’8 marzo 2017

Laboratorio di poesia 8 marzo 2017

Laboratorio di Poesia L’Ombra delle Parole, Roma, Libreria L’Altracittà l’8 marzo 2017, in primo piano, Donatella Bisutti

Donatella Bisutti è nata e vive a Milano. È giornalista professionista. Ha collaborato in particolare alla collana I grandi di tutti i tempi (Mondadori) con volumi su Hoghart Dickens e De Foe e ha tenuto per otto anni una rubrica di poesia sulla rivista Millelibri (Giorgio Mondadori editore). Nel 1984 ha vinto il Premio internazionale Eugenio Montale per l’inedito con il volume Inganno Ottico (Società di poesia Guanda,1985). Nel 1990 è stata presidente della Association Européenne pour la Diffusion de la Poésie a Bruxelles. Di poesia ha poi pubblicato Penetrali (ed.Boetti & C 1989), Violenza (Dialogolibri, 1999), La notte nel suo chiuso sangue (ed. bilingue, Editions Unes, Draguignan, 2000), La vibrazione delle cose (ed. bilingue, SIAL, Madrid, 2002), Piccolo bestiario fantastico,(viennepierre edizioni , Milano 2002), Colui che viene (Interlinea, Novara 2005, con prefazione di Mario Luzi). È in via di pubblicazione a New York l’antologia bilingue The Game tradotta da Emanuel di Pasquale e Adeodato Piazza Nicolai (Gradiva Publications, New York). La sua guida alla poesia per i ragazzi L’Albero delle parole, è stata costantemente ripubblicata e ampliata dal 1979 e attualmente edita nella collana Feltrinelli Kids (2002). Il saggio La Poesia salva la vita pubblicato nei Saggi Mondadori nel 1992 è negli Oscar Mondadori dal 1998. Nel 1997 ha pubblicato presso Bompiani il romanzo Voglio avere gli occhi azzurri. Fra le traduzioni il volume La memoria e la mano di Edmond Jabès (Lo Specchio Mondadori 1992), La caduta dei tempi di Bernard Noel (Guanda 1997) e Estratti del corpo sempre di Bernard Noel (Lo Specchio Mondadori 2001).Il suo testo poetico “L’Amor Rosa” è stato rappresentato come balletto al Festival di Asti con musica del compositore Marlaena Kessick. Ha curato per Scheiwiller l’edizione postuma delle poesie di Fernanda Romagnoli, dal titolo Il Tredicesimo invitato e altre poesie (2003). È nel comitato di redazione della rivista «Poesia» di Crocetti per cui cura la rubrica «Poesia Italiana nel Mondo», nella redazione delle riviste «Smerilliana» e «Electron Libre» (Rabat, Marocco), tiene una rubrica di attualità civile, «Il vaso di Pandora», sulla rivista «Odissea» e una rubrica di interviste «La cultura e il mondo di oggi» sulla rivista di Renato Zero «Icaro». Collabora a diversi giornali e riviste, tra cui l’Avvenire, Letture e Studi Cattolici, Fonopoli, Leggendaria, La Clessidra, Semicerchio. È membro dell’Associazione Culturale Les Fioretti a Saorge in Francia. Tiene corsi di scrittura creativa per adulti, corsi di aggiornamento per insegnanti anche a livello universitario e laboratori di poesia per le scuole. Ha ideato e dirige la collana di poesia autografata “A mano libera” per le edizioni Archivi del ‘900 in cui sono apparsi finora testi di Luzi , Spaziani e Adonis. È tra i soci fondatori di “Milanocosa”.

Donatella Bisutti 1

Donatella Bisutti

Donatella Bisutti

AMBIGUITA’/ ENIGMATICITÀ/IMPOSSIBILITA’ DELLA CONOSCENZA

La mia poesia si muove in diverse direzioni, temi esistenziali che comprendono:

poesie d’amore
poesia ispirata alla natura, agli animali, agli oggetti
poesia civile
poesia mistica

ma dietro c’è una visione comune: la poesia come mezzo per raggiungere una zona psichica profonda dove conscio e inconscio si possono incontrare. Questa è soprattutto la zona dell’inconscio collettivo junghiano e quindi dei simboli: è qui che il significato di una poesia può diventare universale.

Il mio metodo di lavoro consiste nello scrivere solo quando mi viene la cosiddetta “ispirazione” cioè un incontenibile spinta interiore verso la scrittura, e nel non forzarla mai: è la condizione necessaria per raggiungere questa zona profonda. Successivamente, dopo un intervallo di tempo anche molto lungo,  lavoro sul testo per portarlo a una possibile perfezione. In una poesia come Oedipica l’inconscio viene affrontato di petto. Ma anche qui il linguaggio è fortemente simbolico:

Oedipica

Ancora oggi voglio un uomo diverso da te:
non credi all’ondeggiare dello Spirito
sulla punta della fiamma, ad ogni soffio
che l’inclina
come una foglia di luce, più salda
delle ombre,
più
testarda.

Invecchiando – più frivolo, più
infantile.
Ormai privo di doveri, giochi.
I tuoi occhi azzurri
che vedono meno bene
ritornano a stupirsi,
interrogano.

A desso non so cosa fare con te.
Non ti odio più.
Ti accarezzo la mano come a quel figlio maschio
che non ho avuto.
Forse sono diventata un po’ tua madre.
Ma siamo stati mai negli anni
semplicemente e solo
padre e figlia?
Oppure inevitabile
quell’affollato palcoscenico
quella patetica tragedia?

La fiamma è qui concretamente quella di una  candela (e si riferisce in realtà a una circostanza reale, la morte di mia madre), ma è anche uno dei simboli più forti dello Spirito, che si contrappone all’Ombra che, per parte sua, è un altro archetipo.  La fiamma secondo  varie tradizioni esoteriche simboleggia lo Spirito divino, la fiamma verticale della candela che tende all’al di là è uno dei maggiori simboli della trascendenza  Ma simboleggia anche l’anima. Anche la speranza. È d’altra parte anche  la fiamma dell’eros, o la fiamma del rogo che brucia le streghe. È dunque qui un simbolo fortissimo, posto subito all’inizio, doppio e ambiguo: Dio e Diavolo insieme. Così l’opposizione edipica  si configura  anche come opposizione fra spirituale  e il terreno. La seconda strofa rappresenta questo spazio del terreno.

Laboratorio 1bis febbraio

Laboratorio di poesia dell’8 marzo 2017, da sx Giorgio Linguaglossa, Salvatore Martino, Gabriele Pepe

Laboratorio di Poesia L’Ombra delle Parole, Roma, Libreria L’Altracittà l’8 marzo 2017

La poesia si costruisce in particolare su una serie di opposizioni:

invecchiando/infantile: opposizione sottolineata anche dalla doppia in iniziale che collega le due parole;

e anche: frivolo/infantile; dovere/gioco ;stupirsi(passivo)/interrogare(attivo); odio/accarezzo ;figlio/madre ; padre/figlia; figlio/non avuto.

In particolare, è da osservare la doppia opposizione incrociata : figlio/madre e padre/figlia.

Inoltre,  sono frequenti gli accenti sdruccioli (sempre nella mia poesia) che imprimono un ritmo al tempo stesso rapido e come di sottrazione, di fuga.: spirito, frivolo, interrogano, inevitabile, palcoscenico

Ci sono poi suoni aspri, che richiedono uno sforzo di pronuncia: maschio madre accarezzo

C’è un ripetersi della sillaba ma:  che unisce  e ribatte l’unione maschio/madre, poi anche mano mai ma assonanze anagrammate: siamo stati mai; percussività: te /più; altre assonanze con la t e il ta: diventata stati e in generale una presenza molto tagliente della t: te ti avuto diventata stati semplicemente inevitabile affollato patetica

È tutto un linguaggio simbolico: la t tagliente indica la frattura, le sdrucciole e le altre gli altri suoni aspri indicano la difficoltà del rapporto.

Anche un verso come: “oppure inevitabile” è altamente percussivo.

Nel rapporto col padre l’immagine centrale è dunque il fuoco, che rappresenta  insieme lo spirito e l’amore, il sacrifico e la ribellione; mentre in quella della madre in Anniversario dei morti sarà la neve, che è simbolo di morte.

Questa simbologia (involontaria, scaturita direttamente dall’inconscio) è per me una riprova della validità  della poesia in questione.

Anniversario dei morti è tutta giocata sulla i:come una serie di singhiozzi. È una poesia che per molto tempo mi sconvolgeva leggere in pubblico.  Anche qui i ruoli si invertono e la madre diventa  la bambina. C’è l’evocazione di un corpo vivo le cui parti vengono nominate: braccia piedi labbra mano

Anche qui simboli: la falce delle labbra e la falce della morte.

Anniversario dei morti

Tu che con braccia severe
mi allontanavi
e mi atterrivi con storie di fantasmi
ora t’affacci timida da sopra il muro
per timore di essere scacciata.
Nevica
e i tuoi piedi freddi in una
vaga foschia lasciano impronte.
Inconsolata mi tendi
la mano, ché la speranza è anche dei morti.
Così madre bambina percorri i viali
tu che dominavi, incerta,
finalmente un sorriso
sulla chiusa falce delle labbra.
Ma nevica e la giornata
volge alla sua fine – nemmeno questa volta
apportando il perdono
o l’oblio.

Laboratorio di poesia 8 marzo 2017 G. Linguaglossa prospettiva

Laboratorio di Poesia L’Ombra delle Parole, Roma, Libreria L’Altracittà l’8 marzo 2017

Enigmaticità  degli oggetti

Un tema che mi ha sempre affascinato è quello degli oggetti e della loro enigmaticità. Gli oggetti, gli esseri inanimati, ma anche le piante, gli animali – non tanto per ritrovare in loro una dimensione antropologica, quanto al contrario per individuare attraverso di essi una zona altra rispetto alla nostra umanità, il loro margine enigmatico di realtà altra. Da questa realtà altra ci vengono dei segnali che la poesia deve cercare di decifrare.

Esempio: La sfera   (da Inganno ottico):

La sfera

La sfera ci insegna questo:avere
Il proprio centro in sé,
nel punto
da cui ogni altro punto
– galassia –
Si allontna.

Questa enigmaticità si ritrova nel Lo Sguardo del gatto (Rosa Alchemica):

Lo sguardo

Il gatto
apparve dal fondo del giardino
leccò un po’ dalla ciotola
poi sedette immobile
lo sguardo diritto fisso
le sue pupille nelle mie pupille
senza ringraziare né chiedere
solo guardare.
Ed io fui intera nelle sue pupille
interamente dentro quello sguardo
senza giudizio senza attesa
quietamente fui.

Ma questa realtà altra non credo che la poesia debba pretendere di raggiungerla: fondamentale per me la grande lezione di Jabès, che ho tradotto: quello che è importante è la domanda, non la risposta.
In questa direzione per esempio va la serie dedicata alla Luna (Divagazioni sulla lunaRosa Alchemica): “a che tu non m’afferri” e “si provarono in tanti a disegnarla”.
Tuttavia per me la poesia rappresenta soprattutto uno strumento di conoscenza. Conoscenza un po’ particolare: cfr. la Conoscenza in Inganno ottico:

Conoscenza

La conoscenza avviene per semplificazione. Non è un
aggiungere, ma un togliere, fino alla perfetta trasparenza.
Lasciare depositare in fondo al vaso i detriti, il pulviscolo
inutile che si è mescolato all’acqua trasportando il vaso da
una parte all’altra dell stanza, Anche vivere non è aggiun-
gere tempo al tempo accumulato, ma sottrarre l’ecceden-
za del tempo fino alla perfetta consumazione. Anche in
questo caso il pulviscolo inutile viene depositato in un
vaso.

C’è nella mia poesia un’influenza molto forte dello zen, che è stata notata per esempio dal critico Paolo Lagazzi il quale mi ha definito tempo fa l’unico poeta zen italiano. Nei miei testi si possono trovare molti riferimenti allo zen per esempio questo: il macrocosmo è contenuto nel microcosmo come in Briciola (Inganno ottico):

Briciola

Una briciola contiene il pane.
   Una goccia
      l’acqua della ciotola
.        Non
             viceversa.

Per me  è importante in ogni caso che la poesia colga una rispondenza fra microcosmo e  macrocosmo: ritengo che questa sia la nostra verità psichica. La mia poesia è ricerca, domanda, relatività: l’assoluto della poesia è non può essere che un assoluto relativo: anche in questo c’è una forte influenza zen.  Molto importante come dichiarazione di poetica è la poesia Eternità  (Rosa Alchemica), in cui si fa tra l’altro allusione all’aneddoto zen del coltello: il bravo macellaio è quello che non consuma mai la lama del suo coltello perché lo infila nell’impercettibile spazio vuoto fra l’osso e  la carne: è questo un invito alla passività attiva, cioè all’armonizzarsi con la direzione della vita, del divenire, senza farvi opposizione, ma trovando in esso gli spazi per la propria realizzazione.  Un adattamento che l’uomo deve avere nei confronti delle energie cosmiche. Ma il tema di questa  poesia,.oltre  a questa passività attiva, è proprio quello della relatività dell’assoluto: le faville sono altrettanto eterne, o non eterne, che le stelle, ma entrambe hanno nell’attimo una loro eternità, di diversa lunghezza secondo la nostra misura del tempo, ma di uguale valore rispetto all’assoluto: microcosmo e macrocosmo condividono  una stessa eternità  dell’attimo, che per me è quella stessa della poesia.

Eternità

Tu sarai il coltello che affonda
nei bui interstizi del cielo.
Io sarò la tua notte silenziosa
affinché tu penetri
negli interstizi del silenzio e accenda
un alfabeto di faville.

Aperto dal coltello il frutto del cocco
gocciola il suo denso latte.
Una stessa luna racchiude falce e frutto,
ma guarda alla docilità del coltello.

Una stessa docilità accomuna
la lingua della mite candela che divora il buio
e la favilla che si affida.
E’ il cielo che si spoglia per la luna
o è nuda la luna per il cielo?

Albero della mia nave
la tua punta squassata infilza il vento.
Nell’oscurità del legno il fuoco sale
fino alla fredda luce quieta delle stelle.
Non ricomporrai il filo
delle perle che la notte ha sparso,
a quella sempiterna, a quella chiara
luce ordinando il cosmo.
L’inquieto sciame ogni notte divora
il madido frutto della luna.

Sii legna e taglialegna.
dalla circoncisione del tronco
alto si leva lo sciame delle lettere.
Più vicino – per questo solo più ardente alfabeto
firmamento più effimero
di quello delle stelle.

                                          Sola
eternità è la docilità che si consuma.

Laboratorio 8 marzo 2017 Donatella Bisutti

Laboratorio di Poesia L’Ombra delle Parole, Roma, Libreria L’Altracittà l’8 marzo 2017, Donatella Bisutti

Da tutto questo, e da altri testi, si può concludere che attraverso la poesia io vado scoprendo e confermando una visione metafisica, esoterica, e anche mistica della realtà   che è poi quella in cui credo nella mia vita. Tutto il contrario del nichilismo, ma piuttosto qualcosa che si rifà, oltre che allo zen e allo yoga, alle varie correnti esoteriche  più o meno sotterranee che si sono avute anche in Occidente nel corso dei secoli: dai misteri di Eleusi all’ermetismo, al neoplatonismo , alla ricerca alchemica.

In questa poesia Eternità ci sono alcuni simboli archetipi che vengono alla superficie, del Maschile e del Femminile : la luna e il cielo/ l’albero e la nave: questo è anche un altro aspetto della mia ricerca: cercare di fare affiorare glia archetipi, i simboli nascosti profondamente nel nostro inconscio. Per questo sono molto affascinata dagli studi di Hillman: cerco di fare con la mia poesia l’esperienza della scoperta di una simbologia del profondo che  di solito mi è ignota e viene alla luce solo dopo , anche molto tempo dopo, la scrittura. Si tratta spesso di simboli che proprio non conoscevo affatto, come per Ireos (Inganno ottico):

Ireos

Intrepidi
finché il colpo luttuoso della spada
non penetri lo squarcio delle foglie.

Ho scoperto solo dopo per caso che l’ireos è per i giapponesi un simbolo della forza virile e questa è simboleggiata dalla spada.
Questo di scoprire che una certa immagine corrispondeva a un simbolo, magari di altre culture, a me sconosciuto, mi è successo diverse volte.
Io cerco sempre di perseguire questo tipo di scrittura ai limiti dell’inconscio e a volte la scrittura è stata un vero e proprio happening come nel caso di Ballata della nascita e della morte (Dal buio della terra)

Ballata della nascita e della morte

Separata da quel ventre
di umori e succhi
che fu la mia casa
e volendo dimenticare mi rifiuta
pezzetto di carne sanguinosa
piombo
nel precipizio oscuro della notte.

Ti capovolgi e ruoti
precipitando fra le stelle
perfori
la chiusa volta celeste
nel cunicolo del sangue e delle feci
pezzetto di carne sporca
ora puoi solo esplorare il buio
e perderti.

La notte non ha appigli
non sai se precipiti o sali
e le tue dita battono sul vetro
quando dal nero abisso d’acqua
affiori a respirare.

Tu non sei nulla.

Proiettata fuori da quel corpo
che ora ad altri si dà
il tuo solo legame è con ciò
che odi.

Ed ora questo grande corpo morto davanti a me
ha lasciato l’ormeggio
allontanandosi immenso
– quella parte di me che è morta.

Aprite questa bara
ancora non ho conosciuto il mondo.
Questo corpo che mi è stato caro
dovrà dunque disfarsi?

I morti

I morti uccidili di nuovo
strappali come male erbe
da dove stanno sospesi
e ci minacciano –
nel tempo sospesi come
vessilli spezzati
i morti ridenti
i morti dai denti lucenti
ci incalzano a nostra volta a morire
così i morti seppelliscono i morti.
Ma tu amore perdonali
e perdonando infilza il coltello
nelle loro gole di vento
strappa loro un grido
come le sirene notturne strappano gridi alla nebbia
e poi strappati gli occhi
guarda finalmente senz’occhi.

A questo proposito ho fatto anche l’esperienza dell’affioramento di quella che vorrei chiamare “memoria genetica”  prenatale come in Reticolato (Inganno ottico).

In foto: Steven Grieco Rathgeb e Vincenzo Mascolo

Una lettura  di Inganno ottico e oltre

La prosa iniziale, che dà il titolo al libro, può essere letta come un manifesto di poetica. Il suo tema è infatti un rovesciamento della visione che si produce per eccesso di concentrazione visiva sull’oggetto. Non è un ragionamento astratto, ma come sempre una mia personale esperienza: .la realtà appare come uno schermo: quello che consente di passare al di là di esso- al di là di questa realtà per trovarne un’altra, è un capovolgimento improvviso. Ma questo non ha niente a che fare per esempio con quello del dadaismo: capovolgimento della logica nell’assurdo. Qui non esiste un passaggio a una surrealtà, invece il rovesciamento della visione si identifica con il vuoto, il nulla. Questo nulla non è tuttavia quello del nichilismo. A questo proposito ci sono stati dei  fraintendimenti sulla mia poesia. Qui il nulla  è quello dello zen: un nulla colmo, una nozione positiva anche se non antropocentrica: una nozione che contiene senza volerla definire la complessità e ambiguità del reale e della vita senza inseguire spiegazioni razionali, senza ricondurla a parametri umani, ma piuttosto tentando di ricondurre l’uomo a parametri a lui esterni , se non quasi estranei, non necessariamente trascendenti, ma ignoti. Questo è qualcosa in cui io credo profondamente, la potrei forse definire una specie di metafisica preclusa. Raggiungere questo spazio è in fondo il tentativo che io faccio scrivendo poesia.

Inganno ottico

Se fissi un punto, quello soltanto, e su di esso ti concentri
intensamente, ciò che lo circonda, fosse pure un orizzonte
sterminato, diventerà semplice cornice di quel punto.
Se continui a fissarlo concentrando su di esso tutta la for-
za del tuo sguardo, insensibilmente anche la cornice intor-
no sparirà e quel punto solo rimarrà davanti ai tuoi occhi,
sempre più luminoso anche se su di esso non cade alcuna  luce.
Sarai preso allora da amore sempre più intenso per quel
punto, ch è unico, finché sarai capace di vedere il mondo
intero contenuto in esso.
Allora sarai pronto per l’ultima ineffabile rivelazione per-
ché il tuo sguardo si farà confuso e non riuscirai più a
fissarlo, non vedrai più nulla di nitido davanti a te, non
vedrai più nulla.

Questa impossibilità di arrivare alla conoscenza è detta ne Il punto  (Inganno ottico). Per la positività del vuoto si può leggere anche Gesti (Inganno ottico). Il vuoto è dunque positivo, e così l’allontanamento: anche l’allontanamento positivo della Sfera  (Inganno ottico).È questo il rifiuto di una ricerca consapevole e volontaria, di una progressione come comunemente si intende. Qui il capovolgimento  è solo un salto di percezione: cfr. Non ci chiede di avanzare  (Inganno ottico). Il modo di arrivare alla verità non solo metafisica ma anche della scrittura poetica è da un  lato quello della semplificazione e dall’altro  quello della passività: Conoscenza e Corpo e acqua (Inganno ottico):

Corpo e acqua

Più uno lotta contro le onde, più l’acqua gli invade la boc-
ca, gli occhi, se ne appropria, lo incorpora. L’acqua cessa di
essere un fuori, per penetrare dentro, diventare dentro. Ma
questa fusione è apparente: il corpo diventa totalmente
acqua solo per ricostituirsi corpo al termine di ogni ondata.
Mentre se si abbandona, l’acqua cessa di essere ostacolo
per divenire veicolo: gli scorre intorno, lo accarezza, lo
delimita in un disegno, ne fa un’isola che va galleggiando
con dolcezza nel giro infinito dei mari, trasportata dalle
correnti.

Questa idea della passività , o ottusità c’è anche in Su una stampa di Chahine (Inganno ottico) e in Eternità (Rosa Alchemica). Essa unisce l’idea di rischio a quella di vulnerabilità: La cascata (Dal buio della terra):

La cascata

Quello che persuade nella cascata è il coraggio
con cui affronta il vuoto.
Così è generata la bellezza:
nell’assoluta indifferenza dell’economia di sé.
Come tutto ciò che è pronto a perdersi, incute timore.

Al di là dei suoi velari
intravvediamo non più la misura del Tempo
ma la sua sostanza.

Il tema della luna che ricorre spesso rappresenta il femminile, quello di tutti noi in quanto zona inconscia, junghiana. A questa zona si riferisce anche Selbst (Rosa Alchemica):

Selbst

La stanza
la voglio monacale:
una precisa
porzione di infinito.
Ed io
dentro
a risuonare il vuoto.

Ricorre anche il tema della notte .Il mio tentativo è quello di collegare la zona dei significati alla zona inconscia, di operare dei collegamenti, dei passaggi profondamente intessuti nella trama del testo: Plenilunio (Dal buio della terra):. Anche di operare a livello psichico profondo provocando una reazione fra le parole, e anche una semplificazione estrema che però raggiunga insieme la massima profondità e la massima ambiguità.

Plenilunio

Questa è l’ora in cui
il diritto è rovescio
e chiaro ciò che di giorno nasconde
oscure
profondità.
Nere serpi opprimono la notte
gli occhi acceca il pallore del mondo.
Il silenzio scivola
sull’acqua calma.
Ora vivrò della dolcezza immateriale e paurosa
dei cespugli.
Vivrò delle pallide ombre della luna
della silenziosa attesa.

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Laboratorio di Poesia de L’ombra delle parole, Roma 8 marzo 2017 – Libreria L’Altracittà – Lettura  del libro di Steven Grieco-Rathgeb Entrò in una perla (Mimesis Hebenon, 2016) Nota di lettura di Luciana Vasile: I due protagonisti l’Io che legge, il Tu che scrive – Nota di lettura di Letizia Leone del libro di Steven Grieco-Rathgeb Entrò in una perla 

Steven Grieco 8 marzo 2017 Luciana Vasile

Laboratorio di Poesia Roma, 8 marzo 2017 Libreria L’Altracittà Steven Grieco Rathgeb e Luciana Vasile

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016). Nel 2016 con Mimesis Hebenon è uscito il volume di poesia Entrò in una perla. Indirizzo email: protokavi@gmail.com

Steven Grieco Giorgio LInguaglossa Letizia Leone 15 dic 2016Nota di Lettura di Letizia Leone

L’approccio alla poesia di Steven Grieco Rathgeb necessita di una premessa. E cioè la considerazione che la riflessione estetica nella modernità ha spostato l’interesse della ricerca dall’opera d’arte al linguaggio, tanto che la più grande poesia Europea ed extraeuropea del ‘900 si colloca nell’ambito di una meditazione sulla parola non soltanto emozionale od evocativa ma anche, e soprattutto, filosofica.

Il linguaggio poetico è il punto di tangenza di istanze filosofiche non risolte come testimoniano i testi heideggeriani ( dal ’50 al ’59)  raccolti in  “In cammino verso il linguaggio” o il “Tractatus logico-filosofico” di Wittgenstein. Opere novecentesche, ambedue “creativamente ispirate” che trascendono il genere del saggio filosofico. L’analisi positivista del linguaggio approda ad una dimensione religiosa o mistica se “In cammino verso…” richiama un “peregrinare che ha una metà sacra” (A. Caracciolo) oppure se Wittgenstein giunge ad identificare il concetto di mistico con un sentimento, una “esperienza affettiva”, erlebnis, che non si può esprimere perché estranea alla descrizione scientifica dei fatti ma è qualcosa che si situa nell’ordine esistenziale, estetico, religioso.

La nozione wittgensteiniana di mistico come “ciò che non si può esprimere”, “ciò che è indicibile”, ineffabile, è diverso dall’estasi tradizionale o da una teologia negativa che dimostra l’impossibilità di pensare il Principio. Il logico austriaco afferma a proposito dell’esperienza mistica: “Credo che il modo migliore di descriverla sia dire che, quando io ho questa esperienza, mi meraviglio per l’esistenza del mondo”, ed anche nel “vedere il mondo come un miracolo”.

Comunque sia Heidegger che Wittgenstein giungono alla conclusione che la poesia costituisca l’esperienza più essenziale del linguaggio.

Mi riaggancio qui al lavoro fattivo del poeta, e a quella che è una tonalità emotiva fondamentale della poesia di Steven Grieco Rathgeb: lo stupore, il sentire e percepire il mondo come un miracolo, la tensione verso l’inesprimibile. Quella stessa tensione mistica, o tonalità emotiva, che illumina i versi del nostro poeta. Versi di un itinerario biografico, interiore e poetico, che si snoda nel tempo dal 1977 al 2010 circa (considerando revisioni e pubblicazioni di inediti) e ci conferma della vocazione all’esplorazione, spaziale-geografica e spirituale- creativa, di un autore che continuamente verifica tutti i suoi strumenti per affondare nel magma della scrittura.

La ricerca artistica si confonde con la ricerca esistenziale in questo osservatore affezionato ai dettagli naturali, agli aspetti di un mondo fenomenico vissuto con profonda empatia. Una natura esperita nella sua piena dimensione religiosa, anzi sacrale, in una empatia creaturale che evidenzia l’estraneità inevitabile ad un mondo di contingenze storico-sociali in cui non è più possibile riconoscersi. In Grieco Rathgeb la poesia è il luogo dove l’uomo riesce a trascendere la distruttiva pressione del mondo della prassi e ad esercitare pienamente la libertà individuale perché, in questo caso, il poeta in quanto esploratore dello spirito, lo è anche di civiltà e culture diverse, occidentali e orientali, come quella indiana o giapponese, assimilate nella loro essenza attraverso il medium portentoso della poesia in una condizione di felice sradicatezza in lunghe stagioni vissute in giro per il mondo, eppure in un    confronto serrato con una libertà che a volte può diventare paurosa.

Esauritasi l’illusione e il miraggio moderno dello scientismo e del tecnicismo rimane insoluta e nuda la profonda domanda sul senso (sul senso dell’Essere, della vita), interrogativo delegato in toto al dire poetico: “Le tue parole si schiusero come un grande fiore” recita un verso alare di “Sfogliavo le pagine”, testo che apre la raccolta e contiene quei semi poetici che germoglieranno, si ramificheranno e disperderanno nell’intera produzione del poeta. Numerosi gli elementi naturali come alberi trasfigurati, alberi dalle sembianze umane che diventano alter ego dell’autore se rifuggono bagliori e strade affollate: “…tre gingko ingialliti erano nessuno, / radicati come stoici in questo frastuono”; oppure una “foglia verde” che scende come una piuma “sui vecchi…assorti in questa grande angoscia”. Sembra quasi che solitudine e alienazione umane vengano spiate e soccorse nella dimensione di un altro regno, quello vegetale: “la veglia degli alberi, tutto il giorno, tutta la notte / nei loro giardini senza tempo”. Così scrive Grieco Rathgeb in “Purusha” (Termine della lingua sanscrita (“essere umano”) e nell’induismo nell’accezione di “Uomo cosmico” o “Spirito”).

Un senso di estraneità con i propri simili e di pieno pathos con alberi e fiori, gli elementi naturali e gli animali, quei regni placidi e sotto assedio, minacciati nella precarietà della loro esistenza dal disumano Leviatano tecnocratico.

Così come un’altra figura in bilico, quella del poeta, naufrago nel gurgite vasto  delle tensioni globalizzanti.

Sfogliavo le pagine, cercando
La parola φαινόμενον.

Tu dicesti: “il mondo è stato tutto scoperto.
Conosciuto i mari e i continenti,
le piante e gli animali classificati.”

Le tue parole si schiusero come un grande fiore.

Testo di apertura dichiarativo con la parola φαινόμενον, traslata dalla tradizione filosofica: participio sostantivato del verbo φαίνομαι («mostrarsi»). Ciò che appare o si manifesta ai sensi. Fenomeno. Fenomenologia. Fenomenologia come tentativo di catturare il mondo. Tentativo destinato al fallimento:

Questo mondo, riflettevo, o soltanto / Un’immagine? Ero incerto anch’io.

laboratorio-steven

laboratorio di poesia L’Altracittà, Steven Grieco Rathgeb

La parola dichiara il fallimento della presa concettuale sulle cose.

Il linguaggio, sostiene Heidegger, non è segno ma “cenno” (Wink).

“I cenni hanno bisogno di un campo di oscillazione amplissimo…nel quale i mortali si muovono in un senso e nell’altro sempre solo con ritmo lento”.

Il pensare del poeta, in questo caso, è lento. E se la poesia è intuitiva, ha tempi di maturazione lentissimi. Un verso, un pensiero “poietico” ci dice Steven, può balenare all’improvviso con un impeto creativo disturbante e rimanere nel suo bozzolo per anni, come un grumo interiore non risolto, finché non arriverà la soluzione espressiva dopo un lungo e silenzioso lavorio inconscio e magmatico. 

Ma il “campo di oscillazione” non è solo nel modo evocativo del linguaggio, l’oscillazione afferra esistenzialmente l’uomo: “Essere vivo è una continua incertezza. È continua oscillazione fra il pieno e il vuoto, fra ciò che mi appartiene e ciò che è negazione di ogni proprietà” scrive Le Clézio in “Estasi e materia”.

E quando Heidegger parla del linguaggio come “senso” vuole connotarlo come “istanza di Eternità” in quanto la parola è un “dire originario” del quale il poeta “viene faticosamente cogliendo la voce”.

Che cos’è la poesia se non un’uscita dal silenzio? Uscita dal silenzio e ritorno al silenzio. Parola attraversata dal silenzio.

L’io che parla, il soggetto lirico, non è un io psicologico ma diventa il limite del mondo. Limite, soglia, porta, (elementi ricorrenti nella poesia di Steven Grieco) margine di un continuo interscambio con un oltre, al di là dell’esprimibile e del pensabile.

“La visione del mondo sub specie aeterni è la visione del mondo come totalità – delimitata-. Il sentimento del mondo come totalità delimitata è il sentimento mistico.”(Wittgenstein):

Finché la presenza è questo corpo oscuro
Che il pensiero intesse…
Dove il pensiero, oscuro nuotatore,
nuota al largo
respirando indicibile oscurità.

 

Steven Grieco 8 marzo 2017

Laboratorio di Poesia 8 marzo 2017 Steven Grieco Rathgeb

Nota di lettura di Luciana Vasile: I due protagonisti l’Io che legge, il Tu che scrive

 Abbasso lo sguardo. Su un tavolinetto circolare, appoggiati un po’ alla rinfusa, tanti libri. L’occhio di bue si accende su “Entrò in una perla”. Mi cattura. È un Caso – nel quale non credo – che abbia messo a fuoco solo quella copertina, il resto nella nebbia? In effetti quel titolo conferma la mia convinzione che sia il vuoto a disegnare il pieno. Il pieno della perla disegnato dal vuoto rarefatto del pensiero che si fa parola. Anima contenuta nel corpo, e non viceversa, come istintivamente saremmo indotti a pensare. Ingrandisco ancora l’immagine: l’autore Steven Grieco-Rathgeb.

Ora quel libro ce l’ho fra le mani. Lo sto per aprire. Sono curiosa. Scoprire in me le sensazioni che mi donerà la sua lettura. Perché la parola prima di tutto è comunicazione. Sono consolatori i momenti nei quali si supera la solitudine, alla quale è condannato l’essere umano, quando si trova consonanza, vicinanza fra l’IO che legge e il TU che scrive. Dipende da ciò che si tatua nella nostra sensibilità e comprensione nell’anelito di ri-conoscersi che è un attimo e/o del conoscere che è molto più lento. Sono pronta a dedicarmi all’ascolto.

Scorro con lo sguardo i segni neri e gli interstizi. A gruppi di non più di tre/quattro versi la distribuzione sul foglio bianco. Eloquenti le pause, geografia nel mare aperto del non detto. Anche la poesia ha una sua rappresentazione grafica, il disegno-progetto partecipa al significato. Io assorta. Non resto colpita nei sensi, ma il desiderio è di penetrare il frammento di un pensiero che a distanza rincorre altro pensiero, dove la mente divaga libera, galleggia nelle immagini e lancia concetti.  Dice il poeta (pag. 61): Nel silenzio la poesia parlò/ le sue parole come liane/ di un rampicante/ che saliva/ ogni nodo più alto/ verso un aprirsi, una trama/ sorpresa/ in altro esistere/ … Primo attore del libro è l’IO-pensiero che dialoga e palpita con la natura, gli alberi, i fiori; con lo sciabordio dell’acqua; con la realtà del mondo nelle sue molteplici espressioni; con l’inseguire la luna e raccontarne, attraverso lo stupore, il mistero della sua pienezza (pag. 19):

Ora che sei sorta, luna-cenere,/ quasi invisibile nella notte appena fatta,/ nel tuo silenzio, simile alla quiete del pensiero,/ mi chiedo come questo orlo di luce/ esprima l’oscura pienezza: l’oscurità vicina/ del tuo sferico splendore./ … Possa io stanotte/ dimenticando la distanza/ dire l’oscura sfera della tua pienezza.

Da parte del poeta una continua attenzione alla parola, che esiste nella sua stessa negazione, nel suo stesso inganno (pag. 35) :

Impara l’etimo di leggere./ Significa raggiungersi dentro e oltre se stessi,/ sfiorare in ogni attimo la follia?/ O esiste chissà dove la soglia/ che varchiamo verso un’origine nascosta?/ Le parole che da ogni lato si volgono false,/ non ti mostreranno tutto il visibile/ (ché lo stesso guardare così presto vanifica)/… (pag.39) … così le parole mi volano dalla bocca/ e qualcuno tende un filo/ di sillabe al cielo/ e non so come farle/ ricadere giù, una dopo l’altra,/ sprofondate nel sonno.

Steven Grieco 8 marzo 2017-3

Laboratorio di Poesia Roma, Libreria L’Altracittà 8 marzo 2017

Da parte del poeta una intensa riflessione filosofica nell’approfondimento del (pag. 41):

come se il nostro rischioso oscillare/ fra l’identità e il suo inganno,/ fosse “noi”,/ scissi per sempre fra questo e quello:/ … E ancora fino a spingersi all’orlo dove alberga l’anima (pag.43): …  E se l’universo fosse”un basamento intorno/ alla bocca del pozzo”: un basamento/ di pietre tratte dall’unico splendore/ delle sue stelle remote;/ con quanta fiducia/ ci spingeremmo all’orlo, per scorgere/ acqua limpida in fondo a quel baratro,/ berla profondamente con i nostri occhi!.

Rallegra la sintonia fra il TU che scrive e l’IO che legge, che un giorno parlò della liquidità dell’anima, indicando che bisogna fare una capovolta di 180° per immergersi in quel pozzo senza fondo, con coraggio esplorarlo.

Steven Grieco Rathgeb rifiuta la metrica come prigione, evita la musicalità come distrazione, il pensiero è libero – anche da se stesso? -. Privilegia la prosa poetica che meglio si addice a ricreare la frammentarietà del linguaggio interiore fatto di immagini flash non necessariamente conseguenti l’una all’altra, con un nesso logico o seguendo una trama, ma che esprimono lo spazio “dentro” arredato di ricordi, esperienze, visioni, in un tempo dell’IO senza cronologia, incurante del battere le ore della pendola. Tutto si dilata in un eterno presente. Il qui e ora è il tempo della scrittura (pag. 89) : …     

 I giorni si muovono veloci o pesanti,/ contraddicendosi: identici/ in come tornano sui propri passi,/ La loro irreplicabilità mozza il fiato./ Mirabile, il poema che narra questo/ inesausto rinnovarsi,/ Ciò che nelle sue pagine hai appreso ieri/ lo ascolti oggi, e forse avrà un altro senso./…

Come lettore è più diretto individuare in sé le emozioni, le suggestioni dell’Altro che scrive quando riescono a coinvolgerci, pizzicare l’anima senza intermediari. Steven Grieco Rathgeb invece ci costringe, attraverso i suoi versi, ad un impegno più faticoso, e forse per questo intrigante. Quasi una sfida. Ci invita ad entrare, senza timore, nel mondo a volte celato, criptico dell’immagine-pensiero-parola e i suoi estrosi giochi. Ma non tutto sta scritto è decifrabile ed è dato capire. Anzi, si dice, che la poesia possa essere anche mistero, che affascina e fa scattare in avanti, alla ricerca. Partendo dal fatto che istintivamente adoro le cose semplici, ma non mi piacciono le cose facili, mi dico, forse si può arrivare alla verità che, io penso, sia semplice – oppure alle emozioni, che ci fanno intravedere la verità quando lacerano i sensi – anche attraverso la complessità?

Ultimata la lettura, introitate le parole – da quale parte sono entrate? dagli occhi, dalle orecchie, dai pori della pelle che si alzano attenti, dalle sollecitate papille gustative o olfattive, dalla mente che ragiona o dallo stomaco centro dell’IO? – tanti gli interrogativi e le domande, soprattutto a chi come Grieco Rathgeb si muove nella ricca esperienza di diverse civiltà e realtà, e nel percorrere la parola di più lingue madri. Per esempio, Steven in quale idioma pensa? in quale idioma sogna? Per quanto mi riguarda, io, continuerò a ruminare. Ci sto prendendo gusto.

Poesie da Entrò in una perla (2016)

He entered a pearl

He entered a pearl inside the world
passed through walls muffling all cries

someone called it stealth
but the blue-lit night station was full of tears

The estrangement between you and me
wasn’t him – we
forgot each other standing face to face,
while He sat threading
this wrecked dream’s own escape
through good turned bad turned
good
through the same places that came back
and back

On such a rugged upward path
the way was changed into air!

into a dome of twilight, with persons
going in and going out,
as each fashioned
his own swarm of thoughts,
cocooned phantoms and naiads of image,
hanging them
in a white wilderness

Slowly he encompassed, slowly
encompassed us
till he hid

Oh, my I, now my clown,
on a fingertip spin the ball
I balance on
My heaven has split from top to bottom

And then we, unknowing prisms,
returned in brilliance
to our prisons

ill I thought this life will last forever

Entrò in una perla

Entrò in una perla dentro il mondo
attraversò muri che tacquero ogni grido

qualcuno ne parlò come di un segreto
ma l’azzurra stazione di notte era piena di lacrime

L’estraneità fra te e me
non era lui: noi
ci dimenticammo l’un l’altro pur stando faccia a faccia,
mentre lui, seduto, infilava questo sogno infranto
nella cruna della sua stessa fuga,
attraverso il bene che volge al male che volge
al bene,
attraverso gli stessi luoghi che tornarono
e ritornarono

Su un sentiero così impervio
la via si tramutò in aria!

in una cupola d’ombra
con persone che entrano ed escono,
mentre ciascuno si fabbrica
il proprio sciame di pensieri,
larvati spettri e naiadi d’immagine,
e li appende
in una bianca desolazione

Lui lentamente ci circondò,
circondò da ogni parte
finché rimase nascosto

Ah, mio Io, mio pagliaccio ormai,
sulla punta del dito fai ruotare
la sfera su cui oscilloIl mio firmamento si è squarciato da cima a fondo

E allora noi, prismi ignari,
tornammo a splendere
nelle nostre prigioni
finché pensai che questa vita durerà in eterno

*

Hesperiidae’s embroidered wings – Mani Kaul in dream

You, standing there, in some colourless shadow-life I had attained
– always so decisive – and every blacknight moth alive
every magical moth in stealthy flight – flew to the otherworld
astronomer beyond thin partitions wondering,
every moth a mystery I flew inside to the highest night skies:
You, in the unlit room I inhabit – colourless space of wonder –
expounding on expression – art – on the blood in our veins
And every one of your words came as some hurled verbal fragment
– tangible, visible splinters to unseen frontiers
and they were sound cried out—brilliant bits of nothing, and
came hurtling like cries!
Whistling, whining shrapnel – Flung! at my blank sheets of paper
with unheard-of energy, with your thrust at forbidden barriers
yet, a mere game… “the aesthetics of meaninglessness”
Fragmented – unheard of!
hurled – flung at the white sheet

Via Merulana, 11 February 2013

Ali ricamate delle esperidi: Mani Kaul in sogno

Tu lì, in qualche incolore umbravitae da me raggiunta
– sempre così decisivo – ed ogni notturna, viva falena
ogni magica falena segretamente in volo, volava all’altromondo
astronomo meravigliato oltre sottili pareti – ogni falena
un mistero in cui volavo verso i cieli altissimi della notte:
Tu, nella spenta stanza che abito, incolore spazio meraviglioso
discorrevi di espressione – arte – del sangue nelle nostre vene
E ogni tua parola giungeva come frammento verbale, scaraventato:
tangibili, visibili schegge al varco di celate frontiere
ed erano suono urlato – lucenti briciole di nulla – mi giungevano
lanciate come grida!
Fischi, sibili di frantumi – Scaraventati! contro i miei fogli bianchi
inaudita l’energia, il tuo urto alle barriere proibite –
eppure, semplice gioco… “l’estetica dell’insignificato”
Frantumi – inauditi!
lanciati – scaraventati al foglio bianco

Via Merulana, 11 febbraio 2012

Bottling wine on a high balcony
to a learned friend in Tokyo

Your flowering plum… a fragrance not of scholars!
Delusion, madness lifted you into the sky
where Heian poets wander forever
in their disembodied yearning:
the petals of those phantom minds mingling
with your dark, three-quarters sterile mind!
And time, devotion, labour: smouldering ashes.
What can I offer you but the wine I decant
on this moonless night of March:
this open-ended sky, black-starred origin
high in the numinous ravine;
this wine I translate into a whirlwind
streaming out the drunken inner blossom…
And the wakas, now, breathing depth –
subtlety – fascination!

Supersymmetries – Florence, 1999

*

Imbottigliando vino su un alto terrazzo
per un amico erudito a Tokyo

Il tuo susino fiorito… profumo non di filologi!
Con l’auto-inganno e la follia hai scalato il cielo
dove i poeti Heian vagano per sempre
nel loro anelito spettrale;
i petali di quel pensiero sfuggente, frammisti
alla tua mente buia, sterile per tre quarti!
E il tempo, la devozione, la fatica: brace morente.
Cosa posso offrirti, ho solo il vino che travaso
in questa notte di marzo senza luna:
questo cosmo a imbuto, alto lignaggio,
tenebra di stelle sul dirupo numinoso:
questo vino, che traduco in un turbine,
spira dall’inebriato, più interno fiore …
E dei waka, adesso, il respiro –
il fascino sottile!

Supersimmetrie – Firenze, 1999

letizia leone

letizia leone

Letizia Leone è nata a Roma. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF. Ha avuto riconoscimenti in vari premi (Segnalazione Premio Eugenio Montale, 1997; “Grande Dizionario della Lingua Italiana S. Battaglia”, UTET, 1998; “Nuove Scrittrici” Tracce, 1998 e 2002; Menzione d’onore “Lorenzo Montano” ed. Anterem; Selezione Miosotìs , Edizioni d’if, 2010 e 2012; Premiazione “Civetta di Minerva”). 

Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008);  La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi ,(2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011; la pièce teatrale Rose e detriti, FusibiliaLibri, 2015. Dieci sue poesie sono comprese nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016). Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da cameraVersi erotici delle poetesse italiane- (2012).

Luciana VasileLuciana Vasile è nata a Roma è architetto. Nel 2002, nella sua esperienza di aiuto volontario nel terzo mondo per la costruzione di case per gli ultimi e che dura da quindici anni, ha  scoperto il piacere di scrivere. E’ fondatrice e Presidente della HO UNA CASA-Onlus.Ha conseguito numerosi premi per la prosa e la poesia. E’ membro delle associazioni internazionali degli scrittori: P.E.N. Club Italiano e Svizzero. “Per il verso del pelo” suo primo romanzo, 2006 Editrice Nuovi Autori di Milano, ha ottenuto riconoscimenti in otto Premi Letterari. “Lo sguardo senza volto” 11 poeti del disincanto, 2008  Fermenti Editrice, volume antologico, curatore Donato Di Stasi.

“Danzadelsé” – Ho ballato per Paparone e altre storie, 2012 ProspettivaEditrice, pubblicato come opera vincitrice al concorso di narrativa per inediti Interrete, anche in ebookHa vinto il Premio Internazionale Lago Gerundo 2013 e premiato in altri quattro concorsi. Di prossima pubblicazione la raccolta di poesie “Libertà attraverso… eros, filia, agape”.

luciana.vasile@tin.it

www.lucianavasile.it

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Laboratorio Pubblico di poesia del 1 febbraio 2017 presso la Libreria L’Altracittà, Roma, via Pavia, 106 – Riassunto degli interventi di Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Donatella Costantina Giancaspero, Gino Rago e Salvatore Martino

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Intervento di Steven Grieco Rathgeb

Il poeta ha avuto un’idea per una poesia. Ha annotato delle immagini, ha formulato dei concetti. Insieme questi, chiamiamoli “segmenti”, allo stato iniziale racchiudono il grumo poetico primordiale, la ‘ispirazione’, che il poeta intende elaborare e far diventare una poesia, un’opera.

Secondo Andreij Tarkovskij, nel cinema l’inquadratura è un “segmento colmo di tempo”. E dice anche: “la consistenza del tempo che scorre nella inquadratura, si può chiamare pressione del tempo nell’inquadratura.”

Quando rifletto su queste parole, immagino di tenere in mano un recipiente pieno d’acqua. Bisogna fare attenzione che l’acqua non trabocchi. Ecco, pensiamo ad un’immagine nello stesso modo: come se  questa fosse una cosa reale, vivente. E diciamo che sull’acqua, dentro l’acqua, stanno succedendo cose: c’è movimento: qualcuno sta camminando, le fronde di un albero si muovono nel vento.  “Nel puro cerchio un’immagine ride.” (Perdonate la citazione montaliana).

Segmento di tempo, dunque: come nel cinema, così nella poesia. Le immagini di noi poeti sono virtuali, cerebrali, proprio per questo probabilmente le più universali e potenti! (E le più deboli.) E da lì, da quel punto di avvio dell’immagine, così semplice e originario, già inizia anche il senso che l’immagine può avere. E’ inutile “dare” il significato: L’immagine è già in sé significante. Infatti, l’uomo non può non dare un senso alle cose. L’opera poi diventa opera, la poesia diventa poesia, in quanto il poeta-artista segue un criterio di scelta dei segmenti-immagine e segmenti-concetto. Ciascuno con una propria vibrazione interna.

Per continuare la citazione di Tarkovskij: se l’inquadratura è ‘segmento colmo di tempo”,  “Ne consegue che il montaggio  è un metodo di collegamento dei pezzi tenendo conto della pressione di tempo all’interno di essi.”  In poesia, questa pressione vorrei forse chiamarla “densità d’immagine”.

E proprio per questo che il montaggio diventa operazione fondamentale. Per montaggio non intendo la costruzione di un sistema concettuale fatto a tavolino. Essa è l’opera di un esecutore quasi cieco, che svolge questo lavoro seguendo un solo criterio: la visione della poesia che lo ispirò all’inizio.

Montare, smontare, rimontare. Operazione imprescindibile – soprattutto per il poeta contemporaneo, che ha scordato l’antica tradizione orale, e deve “scrivere” la sua poesia. Be’, si dirà, questa operazione la fanno tutti i poeti, da sempre: che c’è di strano? Ma un conto è privilegiare il raggiungimento del  prodotto finito, un altro usare questa operazione di composizione-scomposizione-ricomposizione per far emergere la pregnanza di quel tempo interno cui allude il nostro regista. Quella densità poetica. Che poi è la viva, reale rappresentazione della visione iniziale del poeta. Che differenza c’è fra questi due modi di procedere?

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Dice Tarkovskij: “E dunque come avvertiamo il tempo nell’inquadratura? Questa sensazione particolare sorge laddove, al di là di quello che accade, viene avvertito qualcosa di particolarmente grande e importante, equivalente alla presenza della ‘verità’ nel film. Quando ti rendi conto in modo perfettamente chiaro, che quello che vedi nell’inquadratura non si esaurisce nella successione visuale, ma allude appena a qualcosa che si propaga oltre l’inquadratura, A QUALCOSA CHE CI PERMETTE DI FUORIUSCIRE DAL FILM PER ENTRARE NELLA VITA.”

Io questa la chiamo la visione del poeta. Che sia cineasta, pittore, musicista, è sempre poeta. In questo momento sono tutti poeti: nella loro mente trema la visione, s’increspa l’acqua nel recipiente, emerge il senso potente della verità artistica – solo artistica, nient’altro.

Facendo qualcosa di simile a tutto ciò anche in poesia, determiniamo un vero e proprio spostamento del baricentro interno della poesia. Uno spostamento, se posso dire, ontologico. Non è più questione, del connubio “senso-eufonia” come fine ultimo del poetare, ma cercare le radici del poetare, il punto incredibile che per un attimo collega interiorità interiorità ed esterno, microcosmo e macrocosmo, generando una rappresentazione del mondo.

Dunque, invito il poeta anche a vedere la materia grezza della sua poesia, e il suo stesso senso di autorialità, come una unica seppure molto complessa creatura vivente ( tra l’altro non interamente sua). La poesia in fase compositiva, e la poesia finita, non sono più, come dice un altro regista, Mani Kaul, uno “spazio sacro”, mentre tutto il resto è “spazio profano”. Ora la poesia è minuscolo spazio dicibile, il mondo intorno spazio indicibile. Ma anche: come organismo vivente, essa è un tutto insieme, dicibile e indicibile. LA POESIA È FUORIUSCITA NELLA VITA.

Questo processo segna la fine della lunga strada della decostruzione della poesia del XX secolo. E’ l’apertura dell’opera artistica al mondo. Si arriva, come la musica contemporanea 60 anni fa con Stockhausen, a dire che c’è una assoluta equivalenza tra suono e rumore.

E aggiungo un’altra cosa: la poesia che vuole darsi una valenza sociale, politica, religiosa, filosofica non convince più. La poesia trasmette una sua propria verità artistica, non un’altra. E lì la cosa deve rimanere. Il lettore, in seguito, darà il significato che vuole lui. Può sembrare gratuito, perché poi questi significati, queste suggestioni comunque affiorano nella poesia.

E’ vero. La poesia stessa si aprirà ad un ventaglio infinito di interpretazioni. Indubbiamente. Ma intanto il poeta deve pensare soltanto a rappresentare quella verità artistica, quella specifica persuasione.  In questo modo la poesia, e la disciplina necessaria per rappresentarla, trovando se stesse, si innalzano sopra tutto il resto, sopra tutto quello che nella fase compositiva “sporca” la visione del poeta: e ridonano pienamente la dignità all’opera, quella dignità che i poeti stessi hanno negato alla poesia in questi ultimi 50 anni.

In questo modo si spezza anche il laccio che lega il lettore ad una lettura obbligata della poesia. Il poeta ha trovato la sua piena libertà artistica, così la poesia rende al lettore la sua libertà, che poi non è nient’altro che il semplicissimo ma sfuggente senso dell’opera artistica compiuta. La poesia compiuta.

Completo con una mia poesia del 1976:

Senza Titolo

sorge il sole degli addormentati
inonda di rosso i visi

dalla botola di luce dilaga
un cielo basso incendiandosi

i visi sono serrati in solitudine
le fronti riflettono fiammate di luce
dietro, navigano in sogni illimitati

laboratorio-1-febbraio-gruppo

Laboratorio, backstage

Letizia Leone

Lettura e interpretazione di una poesia di Gottfried Benn, REQUIEM, dal ciclo “Morgue”, 1912. Una bibliografia.

Requiem

Auf jedem Tisch zwei. Männer und Weiber
kreuzweis. Nah, nackt, und dennoch ohne Qual.
Den Schädel auf. Die Brust entzwei. Die Leiber
gebären nun ihr allerletztes Mal.

Jeder drei Näpfe voll: von Hirn bis Hoden.
Und Gottes Tempel und des Teufels Stall
nun Brust an Brust auf eines Kübels Boden
begrinsen Golgatha und Sündenfall.

Der Rest in Särge. Lauter Neugeburten:
Mannsbeine, Kinderbrust und Haar vom Weib.
Ich sah, von zweien, die dereinst sich hurten,
lag es da, wie aus einem Mutterleib.

*

Due su ogni tavolo. Di traverso tra loro uomini
e donne. Vicini, nudi, eppur senza strazio.
Il cranio aperto. Il petto squarciato. Ora
figliano i corpi un’ultima volta.

Tre catini ricolmi ciascuno: dal cervello ai testicoli.
E il tempio d’Iddio e la stalla del demonio
Ora petto a petto in fondo a un secchio
Ghignano a Golgota e peccato originale.

Il resto giù nelle bare. Tutte nuove nascite:
gambe di uomini, petto di fanciulli e capelli di donna.
Vidi, di due che fornicavano un tempo,
là se ne stava l’avanzo, come sortito da un utero. Continua a leggere

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INVITO al LABORATORIO PUBBLICO GRATUITO di POESIA mercoledì 1 febbraio 2017 presso la libreria L’Altracittà di Roma, via Pavia, 106 – inizio ore 18:00 – termine ore 20:00

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INVITO al LABORATORIO PUBBLICO GRATUITO di POESIA mercoledì 1 febbraio 2017 presso la libreria L’Altracittà di Roma, via Pavia, 106 – inizio ore 18:00 – termine ore 20:00

La «Nuova Poesia» non può che essere il prodotto di un «Nuovo Progetto» o «Nuovo Modello», di un lavoro tra poeti che si fa insieme, nel quale ciascuno può portare un proprio contributo di idee: questa è la finalità del Laboratorio di Poesia che la Redazione della Rivista telematica L’Ombra delle Parole intende raggiungere.
Il primo Incontro/test tenutosi il 29 dicembre scorso ha rafforzato la consapevolezza e l’intenzione di proseguire questa operazione, attraverso letture, confronti e riflessioni. Sarà presente la Redazione.
L’Invito a partecipare è gratuito e rivolto a tutti e tutti saranno i benvenuti. Vi aspettiamo.

Programma di base:

1) Steven Grieco Rathgeb: costruzione e decostruzione dei segmenti di una poesia attraverso le suggestioni del montaggio cinematografico, lettura e commento di un suo testo.

2) Sabino Caronia: Lettura della poesia di Gottfried Benn.

3) Letizia Leone: Esempi pratici e testuali della costruzione nominale, «frammento» e montaggio fascinatorio da un testo di Gottfried Benn.

4) Giorgio Linguaglossa: Lettura e commento del suo testo Chiatta sullo Stige e di due poesie di Maria Rosaria Madonna tratte dalla Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016, p. 352 € 16).

5) Franco Di Carlo: Lettura e commento di Trasumanar e organizzar (1971) di P.P. Pasolini

6) Interventi e Letture del Pubblico.

°°–°°

Ringraziamo L’altra Città per la disponibilità e invitiamo i partecipanti a sostenere la Libreria indipendente con l’acquisto di un libro di loro interesse.

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«Poesia dell’Avvenire»? La nuova poesia ontologica

Qualche tempo fa una riflessione di Steven Grieco Rathgeb mi ha spronato a pensare ad una Poesia dell’Avvenire. Che cosa significa «Poesia dell’Avvenire»? – Direi che non si può rispondere a questa domanda se non facciamo riferimento, anche implicito, alla «Poesia del Passato», e quindi alla «tradizione». Ecco il punto. Non si può pensare ad una «Poesia dell’Avvenire» se non abbiamo in mente un chiaro concetto della «Poesia del Passato», sapendo che non c’è tradizione senza una critica della tradizione, non ci può essere passato senza una severa critica del passato, altrimenti faremmo dell’epigonismo, ci attesteremmo nella linea discendente di una tradizione e la tradizione si estinguerebbe.

«Pensare l’impensato» significa quindi pensare qualcosa che non è stato ancora pensato, qualcosa che mette in discussione tutte le nostre precedenti acquisizioni. Questa credo è la via giusta da percorrere, ci induce a pensare qualcosa che non è stato ancora pensato… Ma che cos’è questo se non un Progetto (non so se grande o piccolo) di «pensare l’impensato», di fratturare il pensato con l’impensato? Ma, mi sorge un dubbio: che idea abbiamo della poesia di oggi? E di quella di ieri? – Come possiamo immaginare la poesia del prossimo Futuro se non tracciamo un quadro chiaro della poesia di Ieri? e di Oggi? Che cosa è stata la storia d’Italia nel primo Novecento e nel secondo Novecento? Che cosa farci con questa storia, cosa portare con noi e cosa abbandonare alle tarme? Quali poeti salvare e quali invece abbandonare? Quale lezione da trarre dal Novecento e da questi anni di Stagnazione spirituale e stilistica?

Sono tutte domande legittime, credo, anzi, doverose.

Dove andare? E Perché?

Se non ci facciamo queste domande non potremo andare da nessuna parte. Tracciare una direzione è già tanto, significa aver sgombrato dal campo le altre direzioni, ma per tracciare una direzione occorre aver pensato su ciò che è stato, e su ciò che siamo diventati.

(g. l.)

Riporto qui una Glossa che avevo scritto a margine della poesia di Mario Gabriele:

Il fatto che la scrittura sia radicalmente seconda, ripetizione della lettera, e non voce originaria che accade in prossimità del senso, occultamento dell’origine più che suo svelamento, innesta costitutivamente nella sua struttura di significazione la differenza, la negatività e la morte; d’altra parte solo quest’assenza apre lo spazio alla libertà del poeta, alla possibilità di un’operazione di inscrizione e di interrogazione che deve «assumere le parole su di sé» e affidarsi al movimento delle tracce, trasformandolo «nell’uomo che scruta perché non si riesce più ad udire la voce nell’immediata vicinanza del giardino». Perduta la speranza di un’esperienza immediata della verità, il poeta si deve affidare al lavoro «fuori del giardino», alla traversata infinita in un deserto senza strade prefissate, senza un fine prestabilito, la cui unica eventualità è la possibilità di scorgere miraggi. Partecipe di un movimento animato da un’assenza, il poeta non solo si troverà così a scrivere in un’assenza, ma a diventare soggetto all’assenza, che «tenta di produrre se stessa nel libro e si perde dicendosi; essa sa di perdersi e di essere perduta e in questa misura resta intatta e inaccessibile». Assenza di luogo quindi, e, soprattutto, assenza dello scrittore. Per Derrida «Scrivere, significa ritrarsi… dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola… lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto» .

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