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Una poesia inedita di Donatella Costantina Giancaspero da Al quadro manca una ragione con il commento di Gino Rago e una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa 

Da qualche giorno, il sospetto che il mare è là dietro

 

Costantina Donatella Giancaspero vive a Roma, sua città natale. Ha compiuto studi classici e musicali, conseguendo il Diploma di Pianoforte e il Compimento Inferiore di Composizione. Collaboratrice editoriale, organizza e partecipa a eventi poetico-musicali. Suoi testi sono presenti in varie antologie. Nel 1998, esce la sua prima raccolta, Ritagli di carta e cielo, Edizioni d’arte Il Bulino (Roma), a cui seguiranno altre pubblicazioni con grafiche d’autore, anche per la Collana Cinquantunosettanta di Enrico Pulsoni, per le Edizioni Pulcinoelefante e le Copertine di M.me Webb. Nel 2013, terza classificata al Premio Astrolabio (Pisa). Di recente pubblicazione è la silloge Ma da un presagio d’ali (La Vita Felice, 2015).

*

Da qualche giorno, il sospetto che il mare è là dietro.
Dietro lo schermo sbavato di case.
Tra loro si afferrano ai fianchi, come sostegno.

Qui, la persiana ha una fessura puntata sulla scala di ferro battuto.
Sale a chiocciola. Dal cortile, al terrazzo condominiale – testimonia la foto
scampata al massacro dei ricordi –.

Una perfezione fonda, inconoscibile, è forse oltre.
Lo lasciano intendere i gabbiani – stanno qui, da poco tempo, dentro i muri
Più grandi, sul terrazzo condominiale. Sforano la luce.

Ma non è concesso di seguirne i voli. Dall’alto ci sorvegliano.
Se intuiscono uno sguardo intento, scendono in picchiata.
Rasentano gli occhi.

***
Commento di Gino Rago

“La remora, piccolo per statura e grande per la Potenza, costringe le superbe fregate del mare a fermarsi; avventura che, come ci racconta Plinio, toccò alla quinquereme dell’imperatore Caligola.
Mentre questi ritornava dall’Astura ad Anzio, il pesciolino, lungo mezzo piede, si attaccò succhiando al timone della nave, provocandone l’arresto.
Plinio non finisce mai di stupirsi del potere della remora.
La sua meraviglia evidentemente impressionò gli alchimisti al punto di indurli a identificare il pesce rotondo del nostro mare proprio con la remora.
La remora divenne così il simbolo dell’estremamente piccolo nella vastità dell’inconscio.
Che ha un significato tanto fatale: esso è infatti il Sé, l’Atman, quello di cui si dice che è il più piccolo del piccolo, più grande del grande.”
Carl Gustav Jung, Ricerche sul simbolismo del Sé

In questi tuoi versi recentissimi, Costantina cara, mostri di avere sconfitto la remora. Brava.

Qui, la persiana ha una fessura puntata sulla scala di ferro battuto.
Sale a chiocciola. Dal cortile, al terrazzo condominiale

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa 

L’enigma non può essere sciolto da un atto di padronanza categoriale, può solo essere rivissuto.

La poesia è un enigma ma un enigma è un labirinto che contiene innumerevoli percorsi, che non può essere sciolto da un atto di padronanza categoriale ma può soltanto essere percorso. La poesia indica questo, indica il percorso da seguire per risolvere l’enigma. Ed il percorso ha la struttura dell’esistenza, una struttura labirintica, soltanto esistendo si può sciogliere l’enigma. L’esistenza è sostanzialmente un vedere, capacità visiva, potenza della capacità visiva. Non è un caso che la poesia termini con l’accenno ai «gabbiani» i quali «sforano la luce», essi che «dall’alto ci sorvegliano», che hanno una suprema capacità di visione, e «scendono in picchiata», ci «rasentano gli occhi».

La poesia rappresenta l’impossibilità di vedere l’Altro,1] di vedere, afferrare il reale con occhio frontale. L’Altro come luogo della parola, è il luogo del reale. È impossibile vedere il reale guardandolo dritto negli occhi, previo il suo svanire. Non si può cioè fare del linguaggio l’oggetto di una visione diretta in quanto «il linguaggio è esso stesso quel presupposto che consente la visione». Il linguaggio, ci dice Giorgio Agamben,2] è ciò che deve necessariamente presupporre se stesso. Il che significa che, come tale, esso è ciò che in ultima istanza manca di presupposto, e questo mancare si dà come esperienza irriducibile, come condizione stessa affinché via sia linguaggio. Dire che non c’è metalinguaggio significa così affermare che ogni dire – e lo stesso ordine significante – si smarrisce una volta posto di fronte ai suoi presupposti.

È qui che ci viene in aiuto la nozione lacaniana di «fantasma», nozione singolare e alquanto oscura che Lacan introduce per descrivere la natura più profonda del desiderio umano, e cioè quel suo essere «desiderio di nulla» che presto si rovescia in un «nulla di desiderio», quel nulla in cui la parola scava la sua dimora e in cui il soggetto fa esperienza della sua propria mancanza a essere. Il soggetto della poesia scopre il proprio svanire come soggetto nel momento in cui vede per la prima volta il «reale», ma, per farlo deve necessariamente sogguardarlo da «dietro lo schermo», dal riparo di un nascondiglio.

Un pensiero ricorrente, ricorsivo, si presenta, anzi, si insinua nella soggettività «da qualche giorno», e con esso il «sospetto che il mare è là dietro», che la soggettività sia un nonnulla, un vuoto che si riempie con gli sguardi. E infatti, l’io si trova a sbirciare da dietro una «persiana»: «qui, la persiana ha una fessura puntata sulla scala di ferro battuto». La poesia ci dice che c’è una «scala di ferro battuto [che] sale a chiocciola». È un preciso frammento di realtà. Una indicazione segnaletica. Soltanto un frammento può illuminare un altro frammento. È possibile sogguardare un frammento di «reale» sostando in un altro frammento del «reale». Tra i due «reali» c’è un collegamento: il soggetto, che si scopre vuoto, che evanesce una volta posto sotto l’imperio dello sguardo, del significante. La poesia deve sfuggire all’imperio dello sguardo-significante e, per far questo, deve procedere come se la parola fosse muta, come un sogno, o meglio, un incubo silenzioso.

La rappresentazione è nitida e precisa come una pittura iperrealista, il lettore deve solo seguire i nessi e ripercorrere il percorso dello sguardo.
Pensiero ed essere sono reciprocamente estranei, non possono comunicare se non da una distanza abissale. La poesia ci narra questa distanza abissale, l’assenza del pensiero. Infatti il pensiero è nello sguardo, fuori dello sguardo il pensiero semplicemente non esiste, non c’è, in quanto l’essere del soggetto appartiene all’esperienza della parola, che è l’esperienza della mancanza. Il soggetto è cioè costantemente rimandato al di là, per la natura stessa del linguaggio, dello sguardo, alla ricerca di una significazione che lo racchiuda. Il suo essere non è, pertanto, lì dove la soggettività pensa, non è lì dove il soggetto si dice e si afferma come cogito, ma lì dove non c’è, dove si dà allo stato come mancanza, come mero sguardo.
[…]

Ecco come risponde Vincenzo Vitiello ad una mia domanda.

Domanda: Lei scrive che «noi abitiamo lo spazio, ma non siamo-nello-spazio; noi abitiamo il tempo, ma non siamo-nel-tempo; e cioè: abitiamo il mondo, ma non siamo-nel-mondo – è ben antica: la si legge in forma concisa e straordinariamente efficace in un testo che è all’origine della nostra civiltà, della civiltà dell’Occidente: «autoì en tô kósmo eisín […] ouk eisìn ek toû kósmou» («essi sono nel mondo […] ma non sono dal mondo»).

Ciò vuol dire che l’uomo è un essere quadri dimensionale, che è il solo essere vivente che vive nelle quattro dimensioni perché si muove nella dimensione temporale della memoria? Ma come possiamo «abitare» il mondo se non siamo nel tempo e non siamo nello spazio?

Risposta: S’aggiunga poi che il mondo moderno, la Neuzeit, l’età nuova – che è pur sempre la “nostra età”, pur quando questa si definisce, per contrasto, “post-moderna” – l’ha ripresa e radicalizzata nella forma di una (metodologica, epperò “possibile”) Weltvernichtung. Quest’ultimo riferimento ci impone di chiarire subito che la tesi, or enunciata, non ha nulla a che fare con la disputa sull’“Io puro”, il “soggetto weltlos”, et similia, non foss’altro perché riteniamo che all’origine di tale disputa vi sia un radicale fraintendimento dell’epoché cartesiana e husserliana del mondo. Anticipiamo pertanto anche la conclusione del saggio: se l’abitare indica la cura per le cose del mondo, quindi il vincolo che ci lega al mondo, il non-essere-nel-mondo sta a significare che questa cura non ci “appartiene”, non è nostra “proprietà” (Eigentlichkeit), non viene da noi, non è-per-noi (ek hemôn), ma viene da “altri”, è per-“altri” (ek állon). Anzitutto: viene da “altro”, è-per-“altro” (ek hetérou).
Se qualcosa non di “nuovo”, ma di “diverso” il lettore può aspettarsi da questo saggio, che riprende questioni antiche e moderne, non è, pertanto, la via percorsa, ma il modo di percorrerla. Diverse non sono le domande. Diversa è la prospettiva da cui vengono poste.

Domanda: Perché il nesso dello spazio col tempo? Perché non possiamo uscire dal circolo dell’interrogazione? Quel circolo dal quale non possiamo uscire con la domanda e la risposta ma che la poesia ci indica allusivamente?

Risposta: Le domande, dunque: a) perché il nesso dello spazio col tempo? b) chi sono gli autoí, i “noi” che abitano spazio e tempo, il mondo, e non sono-per-sé nello spazio e nel tempo, nel mondo? E chi gli “altri”, per i quali abbiamo un mondo, abitiamo spazio e tempo? E chi, o “che” è l’“altro”? La seconda domanda, chiaramente, investe quegli stessi che pongono la domanda. Piega la domanda sull’interrogante. Quanto, allora, la domanda e la risposta, che le vien data, dipendono dallo stare nel circolo dell’interrogazione su se stessa ri-flessa? E non ha senso dire che il problema non è di uscire dal circolo, ma di saper muoversi in esso in modo appropriato, perché anche il giudizio sull’“appropriatezza” del movimento dipende dall’essere-già nel circolo.

Non resta, dunque, altro da fare che… iniziare avendo già iniziato. Non resta, cioè, che muoversi nel circolo in cui già da sempre siamo, e da dove siamo. Senza però la pretesa di porsi dal punto di vista del circolo. Come in fondo pretese Heidegger, che si pose dapprima nella prospettiva del “chi” si muove nel circolo, in seguito – un seguito già previsto e annunciato nel primo movimento – nell’opposta “visione” dell’“Es”, del neutro esso che muove il circolo.

Ci stiamo muovendo in circolo. Purtroppo in un circolo non virtuoso, anzi vizioso, viziosissimo.

il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore, volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia – può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia.

***

Dall’alto ci sorvegliano./ Se intuiscono uno sguardo intento, scendono in picchiata./ Rasentano gli occhi.

Gino Rago: La poesia è un Enigma?
(…)
Per J. Derrida «Una poesia corre sempre il rischio di non avere senso e non avrebbe alcun valore senza questo rischio».

In ultima analisi, la poesia è un Enigma. Quando qualcuno parla, parla l’Enigma […] Sicchè nella sua chiosa Linguaglossa traccia un solco fra «poesia-Enigma» e «linguaggio-comunicazione», ovvero l’uso del linguaggio per scopi contingenti o per fini socialmente necessari, utili soltanto alla comunicazione reciproca fra gli uomini di una stessa comunità.

Inoltre, sempre per Derrida «Scrivere, significa ritrarsi… dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola… lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto».3

Risposta di Giorgio Linguaglossa: La poesia è un Enigma. Ogni poesia è il tentativo di impadronirsi di una refurtiva, un tentativo di scasso, e ha senso soltanto se tenta, rischia di sottrarre alle parole del linguaggio comune il senso recondito del significato.

Gino RagoDa queste premesse alla «metafora silenziosa» (come quel qualcosa che sta prima del linguaggio) il passo è breve. Ci puoi chiarire questo aspetto?

Risposta di Giorgio Linguaglossa: La metafora silenziosa forse è la più alta forma di metafora, la più pura. È quella che non si fa vedere, che preferisce l’inappariscenza, che si mostra simile a ciò che metafora non è. La metafora per Bataille è un «istante privilegiato», l’istante in cui appare il «sacro», che serve a dare «un senso al resto degli istanti senza privilegio» della scrittura. L’apparizione della metafora spezza la normalizzazione del linguaggio. «Questa craquelure spazio-temporale circonda la pointe dell’istante privilegiato, e dimostra in crisi l’ubi consistam, insomma la sostanza, quel qualcosa che sta sotto, a cotesto istante».4

Penso che il linguaggio della nuova poesia sorge quando muore il linguaggio del secondo Montale e di Zanzotto. Penso che questa poesia della Giancaspero sia la sconfessione radicale di quel linguaggio, la sua negazione.

1] Si veda, J. Lacan, Écrits, Édition de Seuil, Paris 1966; trad. it. a cura di G. B. Contri, Scritti 2 voll., Einaudi, Torino 1970; in particolare Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano, pp. 815-16: “Partiamo dalla concezione dell’Altro come luogo del significante. Ogni enunciato d’autorità non trova in esso altra garanzia che la sua stessa enunciazione, perché è vano che la cerchi in un altro significante, che in nessun modo potrebbe apparire fuori da questo luogo. Cosa che formuliamo col dire che non c’è un metalinguaggio che possa esser parlato o, più aforisticamente, che non c’è Altro dell’Altro ”. deve necessariamente presupporre se stesso. Il che significa che, come tale, esso è ciò che un ultima istanza manca di presupposto, e questo mancare si dà come esperienza irriducibile, come condizione stessa affinché via sia linguaggio. Dire che non c’è metalinguaggio significa così affermare che ogni dire – e lo stesso ordine significante – si smarrisce una volta posto di fronte ai suoi presupposti

2] G. Agamben, La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza, Milano 2004, p. 28

3] J. Derrida La scrittura e la differenza trad. it. Einaudi, 2002 p. 177
4] P. Bigongiari La poesia come funzione simbolica del linguaggio, Rizzoli,
Milano, 1972, p.165

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Giorgio Linguaglossa: Lettura comparata di due poesie di Gian Mario Villalta e di Petr Král dal punto di vista della «nuova ontologia estetica» – Commenti di Donatella Costantina Giancaspero, Carlo Livia, Gino Rago

Foto in Subway 50 years

Altrove viviamo noi, con i nostri propositi, le sconfitte / nella lotta col frigorifero, l’inferno tiepido delle bollette / e delle mollette per stendere

Faccio seguito all’intervento di Carlo Livia che ha posto nel giusto binario la nostra discussione. Che Petr Král appartenga al secondo o al terzo surrealismo praghese, è una questione storico filologica che a noi, qui, interessa fino a un certo punto. Quello che a noi interessa è la percezione, il concetto e la procedura della poesia che Král persegue e consegue con la sua opera poetica. Quello che a me appare maggiormente interessante è la portata rivoluzionaria della poesia Králiana, rivoluzionaria almeno per noi lettori italiani abituati alla lettura della poesia italiana di questi ultimi decenni.

È ovvio che, dal punto di vista della poesia italiana degli ultimi decenni la poesia di Král riesca di problematica identificazione, quasi incomprensibile. Invece, dal punto di vista della «nuova ontologia estetica» la poesia Králiana diventa pienamente intelligibile. Com’è possibile, come può essere avvenuto questo fenomeno? La risposta a questo interrogativo è già in nuce nelle riflessioni di Gino Rago, di Carlo Livia, negli appunti di Donatella Costantina Giancaspero e, credo, anche nel mio commento. Quello che noi stiamo dicendo e facendo da tempo è dire che una nuova poesia sorge sempre e soltanto quando si profila un  nuovo modo di concepire il linguaggio poetico.

Ad esempio, negli autori della «nuova ontologia estetica» si verifica un uso di alcune categorie retoriche piuttosto che di altre, innanzitutto la categoria retorica fondamentale (che poi non è una categoria retorica ma concerne il modo stesso con il quale si concepisce l’essenza e la funzione del linguaggio poetico): il concetto di verosimiglianza tra il «linguaggio» e il «reale». Negli autori della «nuova ontologia estetica» non si dà alcuna corrispondenza equivalente e/o mimetica tra la «parola» e l’«oggetto» del reale, non si dà «corrispondenza» affatto, non si dà alcuna «riconoscibilità» a priori, in quanto la «riconoscibilità» deve essere scoperta volta per volta nell’ambito del dispiegamento del discorso poetico, deve essere «ricostruita» ogni volta di nuovo.

Faccio un esempio di un tipo di poesia tipicamente italiana nella quale le parole «vedono» da vicino l’oggetto del «reale» in modo riconoscibile e condiviso. Prendo in esame un autore italiano molto noto, Gian Mario Villalta, da Telepatia (LietoColle, 2016). Leggiamo:

Strilli Catapano i suoni sono luce

Dove scola l’acqua nera tra i cocci di tegole
e i ciuffi di sorgo matto invadono le soglie
sotto i festoni di viticciòli, nell’ombra del vischio annidato sui pioppi,
una vita nuova d’insetti, di infime vittime e di minuscoli assassini feroci,
in agguato perenne tra i tubi, nei crolli dei muri, nelle canalette
interrate, ha conquistato il regno della ruggine.

Altrove viviamo noi, con i nostri propositi, le sconfitte
nella lotta col frigorifero, l’inferno tiepido delle bollette
e delle mollette per stendere, altrove noi siamo inerti
e violenti a parole, con il termo a 21, la paura di perdere
la cena fuori di sabato, e qualcosa di moda, anche poco, o l’amicizia
con un nickname, abbiamo paura, soprattutto, per la sicurezza.

Nel regno della ruggine c’è un edificio riattato
oggi vuoto di uomini soli, gentili per forza
quando arrivava il cibo.
Di loro neppure più il sorriso, di chi nel sonno stringe
il nostro paradiso.

Qui il discorso poetico è immediatamente «riconoscibile», non c’è alcuna «ridondanza», non ci sono procedure di entanglement, catene sinonimiche, metafore, non ci sono deviazioni, deragliamenti, salti temporali e spaziali, insomma, ci muoviamo in un tipico concetto di poesia come adesione della «parola» al «reale riconoscibile».
Leggiamo invece una poesia di Petr Král:

Strilli Talia la somiglianza è un addio

Sono qui
Quando dietro la silhouette maturata del passante
avanzi un po’ fino alle Zattere
tra le panchine di pietra e gli alberi come in un vecchio dipinto tremolante
– le signore sulla panchina che discutono, il fumo di luci e ombre
sparse leggere lungo la riva
tra gli alberi, pedoni, facciate rosa e grigie – ti ritroverai di nuovo lì oggi,
e te ne pentirai. Le vecchie signore sono qui come sempre, odierne e sicure,
è oggi, la pulsazione che riempie fino all’orlo i corpi e la cornice
del quadro, soltanto chi è morto
manca. Il vapore umidiccio della stiratura di vecchie flanelle, come trattengono sibili
penetra nelle fessure del giorno che si restringono, è presente come
i becconi delle gru
che si profilano minacciosi lì dietro la cala. – Di sicuro non
dimenticano nemmeno di rimpiangere nulla,
di guardare fuori dalla cornice verso il passato e scavare un po’ il quadro
col rimpianto per ciò che fu; nessuna di loro però a casa toglie
la mano davanti alla massa ringhiosa del frigorifero
e davanti al freddo dell’inverno a venire. Sono qui oggi come noi,
nessuno è in ritardo; solo il giorno d’oggi, il pulsare, pietra colma di pietra
fino al gelido midollo, l’alzare la polvere della luce e il disegno
oscurante degli alberi, delle nostre silhouette
senza un altro strato a parte la profondità della fenditura, della
percezione
e del suo pronunciamento.

(da Massiccio e crepacci, 2004)

Foto il trasporto pubblico

le signore sulla panchina che discutono, il fumo di luci e ombre / sparse leggere lungo la riva / tra gli alberi, pedoni, facciate rosa e grigie…

Dalla poesia di Gian Mario Villalta si evince che il linguaggio impiegato è pensato in quanto funzionale alla «riconoscibilità mimetica» del «reale». Nella poesia di Petr Král no, il linguaggio impiegato viene utilizzato per una «ricostruzione» non più «mimetica» del reale.

È ovvio che la «nuova ontologia estetica» guardi con molto interesse alla poesia di Petr  Král piuttosto che a quella di Gian Mario Villalta, ma non per partito presto, quanto perché nella poesia kraliana c’è un modo di intendere il «reale» in una accezione non più «mimetica» come è stato in auge nella tradizione poetica italiana maggioritaria di questi ultimi decenni, ma in una accezione diversa,  più complessa e problematica.

Mi fermo qui.

Strilli Gabriele Da quando daddy è andato viaStrilli De Palchi non si cancella niente

Scrive Lacan: «Nella misura in cui il linguaggio diventa funzionale si rende improprio alla parola, e quando ci diventa troppo peculiare, perde la sua funzione di linguaggio. Continua a leggere

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