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Poesie di Paolo Valesio, Daniela Marcheschi, Giorgio Linguaglossa, Letizia Leone, Mariella Colonna, Mario M. Gabriele, Lucio Mayoor Tosi- L’indebolimento delle parole – Il frammento è la dimora dell’Estraneo – Il processo di de-psicologizzazione e ri-metaforizzazione nella poesia contemporanea – La civiltà degli oggetti – Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Foto Man Ray 1922

«La domanda “che cos’è l’ente in quanto tale nel suo insieme?”, rimane la domanda-guida della metafisica»

 

 Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Nel suo monumentale lavoro su Nietzsche (1961) Heidegger scrive:

«La domanda “che cos’è l’ente in quanto tale nel suo insieme?”, rimane la domanda-guida della metafisica».

Che significa questa frase apparentemente innocua? La poesia ha mai pensato che cosa significa e quali implicazioni ha questa domanda?

Con l’intervenuto «oscuramento» del pensiero metafisico che ha avuto luogo in Europa dalla seconda guerra mondiale, questa domanda è uscita fuori del discorso del pensiero filosofico e solo recentissimamente è tornata a circolare nei pensieri dei filosofi italiani ed europei molto probabilmente a seguito degli eventi che hanno visto e vedono l’Europa di nuovo protagonista. Quella «retorizzazione del soggetto» che è andata di moda nella poesia italiana ed europea a partire già dalla fine degli anni sessanta con l’annesso primato dell’io e della poesia psicologica, che psicologizzava ogni accadimento, anche il corpo visto come magazzino psicologico etc., anche quella poesia (che ha i suoi culmini nella poesia di un Mark Strand e del Montale di Satura, 1971, qui da noi), oggi è entrata nel cono d’ombra della cultura mass-mediatizzata, il si impersonale nell’ambito del quale si pone anche la domanda di poesia che produce altra poesia normalizzata dal si impersonale; oggi assistiamo ad una poesia di profilo basso, culturalmente non significativa che adotta in modo infantile la «retorizzazione del soggetto». Oggi la poesia che vuole essere significativa non può evitare di fare tre passi indietro rispetto a questa di moda invalsa in questi ultimi decenni, e ripartire da lì dove tutto ha avuto inizio: dalla fine degli anni Sessanta, e tentare di riconfezionare una forma-poesia che finalmente si liberi della deleteria psicologizzazione del testo, che ritorni ad occuparsi delle questioni «metafisiche». Prendiamo un esempio, che cosa vuole dire Paolo Valesio con questa poesia?

Foto palazzo con finestre

Vedi?/ Qui c’era una bella prigione…

 

Paolo Valesio

da La rosa verde, 1987, in Il servo Rosso / The red servant Poesie scelte 1979-2002, (2016)

Vedi?
Qui c’era una bella prigione…
La gabbia era dorata era sospesa
e sotto: Terra terra terra, vola!
Una prigione dorata? Magari …
(« la dorata prigione del vizio»*,
disse un papa al bambino nell’udienza;
e quel sottile, quell’eretto e bianco
offriva — non già la salvezza
ma la speranza di una nobiltà
a lui plebeo confuso che guardava).
Ma qui non c’è l’oro matto del vizio;
nemmeno l’oro puro della gioia.
È solo la indoratura
della umana ragione.
Adesso l’aurea crosta si è staccata,
e tra le sbarre della gabbia fradicia
la scimmia del pensiero è ormai fuggita.

(Piazza del Duomo, Milano)

Il «frammento» sancisce l’ingresso della morte nell’opera d’arte, è la dimora dell’Estraneo. La patria ideale dell’Estraneo è il frammento, questo luogo sepolcrale. La composizione di Paolo Valesio, rende bene l’idea che la poesia è un ente prospettico, un ente che consente di scrutare a fondo ciò che c’è in quello che solitamente chiamiamo realtà e che noi identifichiamo con la dizione: contenuto di verità, intendendo con questa espressione un contenuto veritativo che appartiene alla nostra psiche, e che è una proiezione della nostra humanitas. Che cosa vuole significare la metafora della «bella prigione»?, e della «gabbia dorata»?, e perché il «papa» rivolge la domanda a un «bambino» in «udienza»?- Dopo la chiusura dell’inciso messo tra le parentesi tonde si dice qualcosa di decisivo, si dice: «È solo la indoratura / della umana ragione». Dunque, la ragione umana è solo una «indoratura» che non può adire al «vero» del messaggio che il «papa» vuole comunicare. Ma il «papa» comunica il messaggio a un «bambino» in quanto nella sua innocenza egli è libero dalla inautenticità degli uomini; gli adulti sono banditi dal messaggio, vengono esclusi perché attinti dall’inautenticità sono ormai incapaci di accedere alla verità del messaggio. Però, però, gli ultimi tre versi lasciano adito ad una speranza, perché

Adesso l’aurea crosta si è staccata,
e tra le sbarre della gabbia fradicia
la scimmia del pensiero è ormai fuggita.

«Adesso», dopo le parole del «papa», che però nella poesia non sono riportate, «adesso» che la «scimmia del pensiero è ormai fuggita», forse soltanto «adesso» il parlare diventa valore, la parola può essere proferita. E questo che cos’è se non la tematica onniavvolgente del nichilismo della nostra epoca vista dall’angolo visuale di un poeta che crede? Che soltanto «le ideologie laiche assolutizzate del fascismo e del nazismo», come afferma qualcuno, rientrino nella legalità del nichilismo, è un pensare riduttivo e fuorviante; in realtà tutte le manifestazioni spirituali e politiche di questi ultimi due secoli rientrano di diritto nel nichilismo come «quadrante» della storia spirituale occidentale degli ultimi due secoli (e io direi anche della storia non occidentale). Infatti, Heidegger scrive:

«Il nichilismo è storia. Nel senso di Nietzsche esso contribuisce a costituire l’essenza della storia occidentale, poiché contribuisce a determinare la legalità delle posizioni metafisiche di fondo e del loro rapporto. Ma le posizioni metafisiche di fondo sono il terreno e l’ambito di quella che noi conosciamo come storia mondiale, specialmente come storia occidentale. Il nichilismo determina la storicità di questa storia».1

Credo sia inutile e pleonastico e filosoficamente inessenziale fare il processo al nichilismo, come se noi ne stessimo fuori, fossimo giudici imparziali che emettono una sentenza. Purtroppo, le cose non sono così semplici, non c’è il male da una parte e il bene dall’altra, non è possibile dividerli con un colpo di forbice filosofica o, peggio, politica, o, peggio ancora, religiosa. Che il nichilismo investa in qualche modo anche la letteratura e la poesia, in ciò non ci vedo un pensiero così astruso…
Scrive Nietzsche, c’è «Il nichilismo incompleto, sue forme: noi viviamo in mezzo. I tentativi di sfuggire al nichilismo senza trasvalutare quei valori: producono il contrario, acutizzano il problema» (n. 28 [VIII, II, 125]), uno stato di «sospensione» (come lo chiama Heidegger «nel quale i valori finora validi sono stati deposti e i nuovi non ancora posti»).2

* [Mi scrive Paolo Valesio: «Quel papa era un papa vero (Pio XII, credo), e la poesia ne cita testualmente alcune parole (“la dorata prigione del vizio”), pronunciate di fronte a un bambino, insieme con una massa di altri bambini, in una vera udienza»].

Foto source favim-com-17546

Si nasce perché l’anima

 

Daniela Marcheschi

(da Daniela Marcheschi, Si nasce perché l’anima, ZonaFranca, Lucca, 2009)

Si nasce perché l’anima

                                           a Paolo Febbraro

Si nasce perché l’anima
vasta, ma eterea,
ad un certo punto
ha bisogno del corpo.
Il soffrire e il gioire puro
mancano del filtro della carne,
del saporoso
vivere animale –

dell’unico appetitoso
di spirito e materia.
Camminatrice è l’anima
e, come se zoppicasse,
con un gran fracasso
per un tacco rotto,
vuole una zeppa, un aggiunto
che le pareggi il passo.

L’espiazione non conta,
lo cambio l’assunto.
Si nasce perché l’anima
calda non è magra né grassa;
la Forma viene dalla materia
– è la sostanziosa impronta –
ne riceve il peso
ne trae la carcassa.

Senza misure certe,
è una femmina l’anima
ma troppo sensuale
e aspira ad occupare
e ad essere occupata.
D’amore sempre in voglia
lo fa, e senza pensare,
infine, resta impaniata.

Facile allora
che la delusione sia una soglia
larga e fatale:
così lascia il corpo
l’anima frustrata
prima o poi, per ritornare aerea,
quella traditora,
e per tornare incarnata ancora.

C’è chi più la sopporta
e per trattenerla ingrassa,
ma quale corporea vastità
potrà mai farle da sporta? Si nasce perché l’anima
forse non esiste,
perché il corpo forse non resiste
a pensarsi da solo:

si tratta d’un corpo-donna ancora
che figlia i propri inganni
che si danna perché non tollera
che il sé coincida con gli anni. Continua a leggere

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Letizia Leone POESIE da “La disgrazia elementare” (Giulio Perrone editore, 2011, Roma) Commento di Gabriella Palli Baroni – dal mito alla poesia

Giorgio Linguaglossa G. Palli Barone Letizia Leone Roberto Piperno 9 marzo 2017

Presentazione del libro La disgrazia elementare Roma, 9 marzo 2017 da sx Giorgio Linguaglossa, Gabriella Palli Barone, Letizia Leone e Roberto Piperno

Letizia Leone è nata a Roma. Ha insegnato materie letterarie e lavorato presso l’UNICEF. Ha avuto riconoscimenti in vari premi (Segnalazione Premio Eugenio Montale, 1997; “Grande Dizionario della Lingua Italiana S. Battaglia”, UTET, 1998; “Nuove Scrittrici” Tracce, 1998 e 2002; Menzione d’onore “Lorenzo Montano” ed. Anterem; Selezione Miosotìs , Edizioni d’if, 2010 e 2012; Premiazione “Civetta di Minerva”). 

Ha pubblicato i seguenti libri: Pochi centimetri di luce, (2000); L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008);  La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi ,(2013); AA.VV. La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a cura di G. Alfano), Perrone, 2011; la pièce teatrale Rose e detriti, FusibiliaLibri, 2015. Dieci sue poesie sono comprese nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016). Un suo racconto presente nell’antologia Sorridimi ancora a cura di Lidia Ravera, (2007) è stato messo in scena nel 2009 nello spettacolo Le invisibili (regia di E. Giordano) al Teatro Valle di Roma. Ha curato numerose antologie tra le quali Rosso da cameraVersi erotici delle poetesse italiane- (2012).

Commento di Gabriella Palli Baroni – dal mito alla poesia

A partire da Carte sanitarie, pubblicato nel 2008, Letizia Leone sa affrontare, indagando pagine ingiallite di testi di medicina, i temi ardui e dolorosi della malattia e della sofferenza fisica, coniugando scienza, pur imperfetta e superata da acquisizioni via via più moderne, e poesia.  Una poesia che è del corpo e dell’animo , che ella sa rintracciare nel ritmo dei versi di Avicenna o nella sapienza di Paracelso o nei trattati di anatomia fino a smuovere un tessuto apparentemente impoetico, percorrendolo e  facendolo suo.  La sua parola ardita e orfica, concreta e allusiva fa emergere ora le pulsazioni del “grande circo vascolare” ora le emozioni del cuore e di una musica segreta e antica (“La cura degli Dei”)  e ci accompagna al suo secondo libro La disgrazia elementare. Il titolo è quanto mai significativo dell’ombra che grava sulla vita e che –sostiene in postfazione Plinio Perilli – rende Letizia erede degli artisti postimpressionisti tedeschi (Benn Nold, Schiele, Heckel, Werfel, Celan), ma erede anche dell’arte di un Caravaggio, descritta magistralmente nelle volute barocche degli endecasillabi Largire nero ai fondi da La vocazione di San Matteo. L’arazzo dei suoi versi, che nell’intreccio metrico assai sapiente trova il compenso alla spinta centrifuga e dirompente del pensiero, si dirama  sia all’interno di un conflitto aspro tra la realtà dell’esistenza e la parola, pur fragile, che la attraversa –come scrive- “col solo seme nero d’alfabeto”. È questo “seme nero” che illumina le forze ancestrali e  oscure dell’universo, sfiora e fa emergere i chiaroscuri, penetra gli abissi e il buio, cerca unità nella frammentazione e dispersione delle cose,  trova una “goccia musicale”, una visione: “in alto intorno e dappertutto stelle”. Il contrasto che è alla base del suo versificare si evidenzia subito  nell’ossimoro che apre la raccolta Estasi della macellazione: poemetto o, al modo del Posto di vacanza  di Vittorio Sereni, poesia in otto parti ( e si noti il verso che , unico, pare racchiudere il significato profondo del tutto: “Solennemente dolore”). Ispirati al mito di Apollo e Marsia i versi traducono “dai fogli del mito”, dai “fogli del sogno” ( e si noti la cadenza iterativa e la variazione),  la nascita del canto umano in un’operazione violenta e feroce sì che quella che era “soprattutto pelle/ urlante, rantolante, vibrante / in forti spasmi e scosse” diviene “musica d’angeli inascoltabile”, ma anche “pelle/ pelle eucaristica/ stesa per un nuovo e fiammante corpo tamburo./Lenzuola rosa ad asciugare.” L’attenzione al corpo, qui sottolineata dal forte trycolon con rima interna e che rivela pieghe femminili (“bulbi di sangue, tulipani uterini; “tuorlo”), e le voci che rimandano al sacro (bastino “Tutto si squama/ sfarina in briciole giornaliere / con i chiodi arrugginiti della crocifissione” o “cuore eucaristico” detto del sole), sulla linea  di Pasolini, di Amelia Rosselli , ma anche di Sonia Gentili, entrano in un procedimento stilistico che, sia attraverso metafore accese e sorprendenti accostamenti (“i meravigliosi tagli”; “guaina impregnata di vita in convulsione … con dolcezza”; “le armoniche della lamentazione”; “scorie ardenti della metallurgia”) sia  attraverso tecnicismi e  immagini  molto dure, di metallo, di pietra, di elementi terrestri o di prodotti dell’ingegno (“brusio atomico”; “barri di uranite”; “massa di piombo piceo”; “contatore Geiger”; “sali d’uranio”; “sassi lisci”; “pietre storte”, “scorie ardenti della metallurgia”; “scorie”), affronta la storia del cosmo e dell’uomo come rivelazione di distruzione e sopraffazione, ma soprattutto come confronto tra la materia, la “massa delle cose”,  il “silicio frantumato” e le “vibrazioni” dell’anima e il rifugio della  poesia: “io me la godo come sabbia/ come deserto” in commozioni impalpabili, nell’esilio semplice / della poesia”.

Franano le cose; si sbriciola la catena; si spargono sul pianeta “semi di decomposizione”; i monumenti sono solo “sacchi amari e calce bianca dirompente”. Ma ecco le rare aperture di luce e di speranza; ecco versi, nell’Ora minerale, che coniugano musica “primordiale” e rinnovata “aurora” della poesia; ecco l’ intensa componente gnomica e etica del dire;   ecco i colori netti, i “rossi”, il “giallo” dell’Eufrate o la “perla nera bovina”; ecco infine la musica di una passione e di un’energia poetica che comunicano profonda emozione; l’emozione di chi si confronta con la verità e non la nega, ma la riscatta: “Mentre tutto continua a sgretolarsi/ c’è materia per una redenzione” (Notte). E, mutuando per Letizia Leone e variando l’epigrafe da Hölderlin a I riti dell’origine: “Ancora restano tante parole  d’oro nel suo affanno”.

Letizia Leone

Poesie da La disgrazia elementare  

Come se tutta l’ingiustizia bastasse seppellirla nei bidoni.
L’ora minerale è paesaggio inutile, non contemplabile, estinzione di ogni fragranza.
Intatta si, la luce. Ma neppure una maceria d’aroma.
I prati sopra alle miniere dell’uranio ad assaggiarli dovrebbero essere amari.
Erba senza colpa.
Erba che, come se niente fosse, affiora
dallo squartamento medievale di un reo legato a quattro cavalli motori. Oltre le urla più atroci non resta fiato.
Solo gelatina e il tappeto lunare della periferia.

Scrittura fredda ora.

***
Non tutto si può lavare con l’acqua,
le barriere d’arido accumulate in atti informi
per esempio,
o il grumo metallifero
dell’Energia di Satana

che tu hai cacciato all’aria
e gli hai fatto intravedere il tempo, immaginandone virtù,
fuoco d’artificio e riscaldamento

ma per lavare le bombe serve solvente
tossico e maschere di carnevale
stai maneggiando piramide, venere, fuoco

si, ma in caverne basse
a mille metri dal marciapiede
nelle buche rubate ai lombrichi.

Nascondi le tinture,
questo brodo incolore
nei barattoli stagni: lo sai che c’è materia passionale
pericolosa
dentro.

***

Uranio grezzo come un tubero
piombato alla calcolata profondità
del letargo. E così
la stessa rabbia incurabile
l’Antica
esaurita nei cori ionici
per secoli cupi di bestemmie
nel posto sacro della menta selvatica.

Prendere atto del veleno
sui piedi nudi delle bestie che brucano
e le orecchie, infiammate
dalle strida dei grifoni.

Il miscuglio delle discariche deborda
nelle vasche

là, dove le mucche andavano a bere.
***

Antonio Enrico Becquerel
spostando i sali d’uranio
di stanza in stanza si stupì di certi ghirigori
sulle lastre
che di solito fotografava il sole

certi scarabocchi stellari, strane primule
delle prime radiazioni, poi

il signor Curie con sua moglie, la signora Maria
da tonnellate di minerale
separarono un pizzico di alogenuro,
appena appena un soffio di Radio
radioattivo
forse in cucina.

Si salutarono tutti e tre al Nobel nel 1903:
i coniugi Curie e il signor Becquerel.

***

La fossa tossica
e ai margini un orto
per insalate di malve e asfodelo

l’antico rito
– che porta sogno in un fatto infelice –
del pasto pitagorico.

Giorgio Linguaglossa Letizia Leone gabriella Palli Barone 9 marzo 2017

Presentazione del libro La disgrazia elementare Roma, 9 marzo 2017 da sx Giorgio Linguaglossa, Gabriella Palli Barone, Letizia Leone

Una volta era Dio il creatore dei mondi, e senza dubbio
c’è qualcosa che è più antico del sangue,
ma da qualche tempo sono i cervelli a spingere avanti la terra,
e lo sviluppo del mondo fa la sua strada grazie ai concetti umani,
e al momento è questa evidentemente, la sua strada principale e preferita.
(G. Benn)

Poeta patologo.
Corpi aperti sui tavoli
sterili
anemoni di carne degli obitori
e un cervello sgusciato
la sua forma ancestrale e dedalica
emersa dal sangue
nella tua mano
sotto la volta svuotata come cranio
del sotterraneo
brivido.

Così attecchisce
dentro questa stanza di guerra
l’infinito dei mondi
le sue formazioni
col dorso che affiora dei sogni ionici
quale resurrezione;
o collasso
di chi vuole capire
il senso avido dei presagi
stirando le geometrie sterminate
di pieghe e circonvoluzioni
di un encefalo essiccato.

Allora vedi:
se da un lato il dio sole stria e dardeggia
gli smeraldi sulle coppe regali;
dall’altro
si schiudono di notte occhi bianchi
al diffuso lumine lunare;

se da un lato
spezie odorose azzurrano i cortili
mediterranei;
dall’altro organi grigi galleggiano
nei vasi refrigerati
in magazzini che non hanno luce.

Rientri da solo
attraversi la via ghiacciata
tra i detriti di cocci e di croci
mentre la primavera berlinese scongela
con i cadaveri la neve.

E tu ne rivivi
tutta la malattia di statua
la notte
di ogni morte.

****

Lingua Bovina

Di creature divorate nell’inverno
il disegno l’anatomia
la sagoma di sdegno
di ogni grande animale
Alce di fumo o Ariete
la sua marmorea pelle e rosa lingua
mozzata che posa
sviscerata dal vasto muggito
gonfia del pascolo
come massa di sale
sulla pagina di marmo.

Come si leviga nella sua pelle
ogni arto amputato
il fremito si mura alla narice
questa perla nera bovina –
nell’assaggio di creazione.
Perché una smania esausta dimora
intatta nell’umido delle gramigne
ben salda sotto il portacarte fesso
che è zoccolo quadrupede
alito fiuto calamita e
uncina curve di paesaggi d’erba crollati.

Cose della terra a raccapriccio
allora
nei depositi di carestia
il trauma del freddo ne fodera
alle pareti una figura:
bue preistorico
idea epica di bisonte
che non ha più luogo
asportato a questa luce moderna
(quale insorgenza, quale lusinga!)
della caverna.

***

Notte

Notte in crescita dell’aroma conifero
e di diamanti, certi insetti elettrici
i lampiridi. Specie estinta.
In un istante presente
superiore nocte
col suo nome pieno
com’era d’ossigeno
prima del salasso d’aria.

Forza tellurica
quasi resuscitata notte
tra mani foderate di lattice
che sono a dissodare queste piaghe
di ruggine e terra.

Mentre tutto continua a sgretolarsi
c’è materia per una redenzione:
di notte-madre
che bussa dalla sua catalessi
il fiele giallo della morte
pressato bene al fondo
e misteriosa albeggia
riseminando pipistrelli nei pozzi
di spettri il peso del mondo.

Nox noctis diafana
l’antichissima
al boomerang di una campana
orologio dei succubi
ricettacolo di ceri, roghi
che sciamano ombre quando l’errante
chierico vagante
sorpreso per via
-ricordi?-
si rannicchia nella sua invocazione
di luce.

Ma lui, se chiedesse un’altra volta
il brivido
quel ventre di foglie e buio
con sopra il cratere degli astri?

Da questi luoghi privi di senno
emergono cose, ceppi d’anime
scampati alla fusione
perché la merce dello spirito
è refrattaria
e getta in confusione
chi mai potrà conoscerla
la notte.

Un pensiero ti è caduto
dall’occhio
in questa notte a pendolo
di lampadina nuda.

Antonio Sagredo Letizia Leone sorridono 2

Letizia Leone con Antonio Sagredo con la cravatta di A.M. Ripellino

Biblioteca d’argilla d’Assurbanipal

Dentro la terra
in punta di pensiero vertebrato
– peso penetrato –
aderente all’epidermide delle radici
aorte dell’acqua e della luce
nella battitura di cecità:
ma è solo istinto di forma
quel loro rizoma
che carica i fili nervosi verso
l’abisso.

Al punto del nulla più si muove
segni
imbottiti di sepoltura
serrano intatto un nutrimento
d’amido
un umore
nell’amalgama di barite e cenere.
E’ una traversata cieca dello spirito
col solo seme nero d’alfabeto
per arrivare così
senza nessun coagulo di sangue
la bocca sigillata di chi ha dormito la morte
piena ancora di sonno in velluto
dell’azzurro abbagliato
segreto secreto
sulle crete.

***

Da “LARGIRE NERO AI FONDI”
(Caravaggio, Vocazione di San Matteo. 1599-1600 Roma, San Luigi dei Francesi)

Il quadro tela del contemporaneo
tempo come oro avaro mercenario
trattato a chiara d’uovo è pavimento
resistente vernice ai vuoti d’aria

di rapina.

***

Il montatore di scheletri
(L’azione)

Dall’arteria aperta di luce erosa
raggio morto del dio mitraico avanza
il corpo ombra del cielo minore
– a pugno – solida massa di Cristo.

Fin dove arriva il cerchio cerebrale
leggerezza e peso dati – nel cono –
dalla caduta dei gravi lacrima
il più vivo planetario il suo sudore

quell’oro di sangue sulla spina
che scioglie in colature illuvie scure
articolazioni della materia
dure matematiche dei cristalli.

Nella stanza caravaggesca il tratto
stringe ogni gioioso stato d’animo
del montatore di scheletri e i ciechi
labirinti armati per i Pinocchi.

***

Che muro d’ossa ti usura, chiude a terra?

Iaculo, dardo, bisecante accetta
su frutti caduchi e Io sono la luce
decapitata, fetta, nell’incerto
crepuscolo dei sensi e dell’assenza

quel puro paragone oltre l’umano
i nudi piedi a che pianure aeree
della mente assiderata, affondo
lieve di palma scorticata gonfia

papilla. Ma che lucidità…festa
del tatto. O fredde paglie alpine o fresco
vegetale a irritare il plantare.
Sei fiaccato apostolo magro sciacallo

di un te stesso morto paralisi
dell’allegranza di carezze, passo
fermo all’analisi del mondo e tutto
evapora: àncore !
piedi !
àncore !

Gabriella Palli Baroni risiede a Roma. Scrittrice e critica, si è dedicata in particolare a studi sulla letteratura del Novecento e sulla poesia contemporanea. Collaboratrice di numerose riviste, da “Nuovi Argomenti” a “Poesia”, da “Il Ponte” a “Il Caffè illustrato”, da “Moderna” a “Strumenti Critici” a “Poeti e poesia”, ha curato di Attilio Bertolucci il carteggio con Vittorio Sereni Una lunga amicizia. Lettere 1938-1982 (Garzanti 1994) e, con Paolo Lagazzi, il Meridiano Opere (Mondadori 1997); Ho rubato due versi a Baudelaire. Prose e divagazioni (Mondadori 2000); l’antologia Dagli Scapigliati ai Crepuscolari (Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato 2000); la riedizione di Fuochi in Novembre (San Marco dei Giustiniani 2004); Riflessi da un paradiso. Scritti sul cinema (Moretti & Vitali 2009); Lezioni d’arte (Rizzoli 2011) e, con Paolo Lagazzi, Il fuoco e la cenere. Versi e prose dal tempo perduto (Diabasis 2014). Curatrice con altri autori del Meridiano L’opera poetica di Amelia Rosselli (Mondadori 2012), ha pubblicato inoltre Tavolozza di Emilio Praga (Edizioni Nuova SI 2008), e il carteggio Giuseppe Ungaretti –Vittorio Sereni, Un filo d’acqua per dissetarsi. Lettere 1949-1969 (Archinto 2013). Suoi versi si leggono in poeti e paesaggi (2008) e poeti domani (2010) (XIV e XV Biennale Internazionale di Poesia di Alessandria).

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