Mi avvicino con delicatezza al lavoro di Edith Dzieduszycka. È un fenomeno forse inedito, e io cerco al meglio delle mie possibilità di sondarne le suggestioni, anche se sarà il tempo a dire in quale modo l’autrice sia stata capace di esprimere qualcosa di nuovo e inaspettato riguardo al nostro sentire odierno.
Prendere frantumi sparsi dalle poesie di un poeta, scorporarli dal loro contesto originario perché portino con sé poco più che un bagliore, un residuo di ciò che significavano: prendere questi scampoli e ricucirli in composizioni 5-7-5 che per quanto fugaci, effimere, vivono e veicolano un inaspettato e spesso illuminante senso delle cose… altroché minimalismo! Qui siamo ben oltre. Ma prima di esplorare in quale modo, questo, diciamo che il libro è anche e soprattutto l’atto di amore di una donna verso un uomo, di una poetessa verso un poeta: un amore ideale, fantasmatico, ma non meno intensamente vissuto nelle notti buie e nei momenti di gioia o di sconforto. Perché quel poeta è in realtà l’anima dell’autrice; e rappresenta anche la disperazione di chi oggi scrive e non sa chi lo leggerà.
Laddove reggono per tensione poetica, i testi di Edith Dzieduszycka si lasciano alle spalle le tante altre composizioni con lo stesso modello sillabico, deboli rievocazioni di “mood”, “paesaggio”, “sentimento umano”. Qui tutto è spiazzante, problematico, disorientante, ma sempre in modo pacato, sottile: sembra aprire la porta ad un nuovo modo di poetare, molto digitale, che potrebbe benissimo essere introdotto in una chat room (e questo lo dico come un complimento): poi chiude, se ne va, risultando forse unico e irripetibile. Leggendo di pagina in pagina, l’effetto è di un accendersi-spegnersi, di segnali di vita intermittenti: che proprio per questo segnalano la comparsa misteriosa della stasi, il senso di animazione sospesa – ma al suo interno, quanto movimento. Ho spesso pensato a Gesang der Jünglinge di Karlheinz Stockhausen. (Ma anche ad un certo senso di “morte-nella-vita” che troviamo nel tardo Mahler.)
Possiamo parlare ad infinitum delle suggestioni che questo esperimento inquietante ma anche fortemente lirico e pieno di un senso di abbandono, evoca nel lettore: come ho detto, ognuno di noi poi dovrà leggere e decidere per sé. Sicuramente il libro rispecchia la nostra contemporaneità: il nostro vivacchiare in tempi di immensa ricchezza e grandissima povertà, in cui le questioni sociale, ambientale e culturale sono venute a fondersi in una realtà unica che invalida in un sol colpo tutte le antiquate ricette filosofiche e sociologiche del defunto Novecento, e fa apparire all’orizzonte nuovi scenari minacciosi e inquantificabili e sempre più urgenti che il nostro sistema e il nostro modello economico sono manifestamente incapaci di affrontare. Il Nulla di oggi ha come sua controparte anche questo scrivere: mirabile e insieme ‘insignificante’.
Ma tutto questo è haiku? Prima di rispondere, dico che la raccolta in ogni caso sa “citare”, riportare a mente, in vario modo rifrangere un bel po’ di poesia del passato. L’esperienza poetica europea in particolare è un po’ presente ovunque qui, molte farfalle si involano da queste erbe, il che dà loro una bella qualità prismatica.
Ma, appunto: tutto questo è haiku? Sarebbe stato possibile riferirsi a questi testi con un altro nome?
Intanto, diciamo che anche i testi di Bashō sono pieni di riferimenti al waka, così come a tutto l’arco della millenaria poesia cinese. Si inseriscono perfettamente nella tradizione letteraria del mondo sino-giapponese, non abitano un qualche mondo dematerializzato e spiritualeggiante, un empireo senza riferimenti terrestri.
Ciò malgrado, per forma e dinamica, l’haiku è davvero diverso dalle tradizionali forme poetiche del vecchio mondo: lü-shih, ghazal, sonetto. È un essere libero da pastoie, conchiuso, centripeto, un nucleo atomico carico di energia che volge verso una sua centralità inesprimibile. Ciò fa sì che a livello esistenziale, esso sappia portare l’uomo sulla strada disidentificata, verso quel centro vuoto detto Tao (che nell’uomo si può anche chiamare ‘stato pre-cogitativo’). Cosa anima la natura delle cose? L’haiku mormora in risposta, nessuna agenzia ‘esterna’, nessun creatore, nessun dio: la natura anima e origina se stessa. Roccia, nuvola, greppo erboso. Il senso profondo di tutto “questo” cui diamo un nome è non avere nome, essere immagini svolazzanti al vento. E allora come faremo a dire senza dire? Il punto più vicino a questo è, di nuovo, l’haiku. Il quale infatti tende a negare ogni costruzione artistica, filosofica o tecnico-scientifica, riportando tutto a un grado zero; eppure vicinissimo alle intuizioni degli scienziati e degli artisti più alti, prima che queste vengano piegate in prodotti tecnologici e diventino volontà di iperpotenza. Ecco la folgorante futurità dell’haiku.
Cosa di questo troviamo nei testi di Faro lontano? Per quanto riguarda la dinamica, qui vediamo più spesso pezzi costruiti come sequenza di tre frasi, tre immagini di seguito, dove il criterio strutturale nei suoi momenti migliori somiglia più alla libera eventfulness dell’aleatorietà, e basata su una forza centrifuga – ecco perché ho parlato di musica elettro-acustica. Il formato sillabico 5-7-5 ad un tempo getta un velo sulla struttura interna diversa dall’haiku, e le dà ali, libertà: e qui è l’interessante! In questo modo, l’autrice può lasciare che nei suoi fili di composizioni-perle instabilmente coesistano senso di vita e senso di morte: in ugual misura: dando loro una forza implosiva che al lettore giunge un attimo dopo come contraccolpo, come molla d’un tratto rilasciata. Ciò sicuramente è haiku, anche se cercato per vie diverse. Ma poi che importa? Questa comparazione io lo faccio soltanto per indicare come i testi qui riescono ad essere vicinissimi e nel contempo estranei all’esperienza poetica dell’haiku; sempre lontani, sempre suo specchio fedele.
giungo alla foce
una voce che canta
mare infinito
faro lontano
rivivo la mia infanzia
fuga del tempo
luce che aleggia
ascolto il mio respiro
notte d’estate Continua a leggere