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Antologia bilingue della Poesia Ceca contemporanea a cura di Antonio Parente Sembra che qui la chiamassero neve – Poeti cechi contemporanei (Milano, Mimesis Hebenon, 2005 pp. 228 €  16,00) Michal Ajvaz, Petr Kabes, Petr Kral, Milan Napravnik, Pavel Reznicek, Karel Siktanc, Jachym Topol – Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Foto Brno Del Zou - Izoumi, 2012Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Segnalo un libro davvero importante e insostituibile come questo pubblicato dalle edizioni Mimesis Hebenon nella collana diretta da Roberto Bertoldo a cura di Antonio Parente Sembra che qui la chiamassero nevePoeti cechi contemporanei (Milano, Mimesis 2005 pp. 228 €  16,00). Devo riconoscere la capacità critica e la competenza del curatore Antonio Parente nell’aver saputo individuare con precisione i valori poetici degli autori presentati (Michal Ajvaz, Petr Kabes, Petr Kral, Milan Napravnik, Pavel Reznicek, Karel Siktanc, Jachym Topol), ed elogiare la perizia del traduttore che ha saputo ricostruire in un ottimo verso libero italiano il testo ceco originale. Ma l’aspetto più rilevante che mi preme sottolineare è il «nuovo» e «diverso» concetto di poesia che emerge dai numerosi testi qui presentati; con «nuovo» intendo qui individuare il valore discriminante rispetto alla linea maggioritaria che oggi sembra occupare gli scaffali della poesia italiana contemporanea. Innanzitutto, la sapiente costruzione mediante le immagini «doppie», o a «elica» (le eliche doppie, e anche le volute della scala a chiocciola), a doppio binario; in secondo luogo, la capacità di questi poeti cechi di accoppiare elementi eterogenei e contraddittori allo scopo di determinare l’immagine con più nettezza di particolari e maggiore precisione metaforica. Ecco una vera e propria dichiarazione di poetica.

Le relazioni verticali in poesia
sono fittizie.
In realtà ogni verso è parte
di un lungo testo orizzontale,
che per un attimo si rende visibile quando attraversa la pagina,
come quando il fiume sotterraneo sgorga in superficie e di nuovo scompare nella sabbia…

(Michal Ajvaz)

Ecco un esempio concreto di superamento del simbolismo per giungere ad un tipo di poesia post-simbolica. Così, se nella tradizione del Novecento il simbolo si risolve nella riunione di due immagini, nel ricongiungimento in un’unità pur se disgiunta e scissa, qui non indica più il ristabilimento di una unità in nome di una immagine pacificata e negoziata, non è più l’immagine di un tempo perduto (e da ritrovare) da cui deriva l’elegia, o del tempo scisso (da restituire al mittente) da cui deriva l’antielegia; nei poeti cechi qui presentati l’immagine prodotta non è più il risultato di una sintesi pacificata e pacificatrice ma mantiene lo strappo, la lacerazione originaria, anzi, accresce il senso di disappartenenza e di disarticolazione del testo poetico. La connessione implica e statuisce una disconnessione, la sutura implica e statuisce la lacerazione, l’immagine complessa che ne deriva non è più «negoziata», ma implica e statuisce il divorzio, la scissione, la disappartenenza, lo spaesamento, lo straniamento tra l’autore e il testo, tra l’autore e il lettore.

La «nuova poesia ceca» non ricerca affatto alcuna conciliazione fra ricerca sperimentale e cultura di massa, non persegue il raggiungimento di una coabitazione tra arte sperimentale e arte di massa, il felice o infelice accordo fra l’oggetto artistico e l’oggetto merce. Alla luce abbagliante della coabitazione spaesante nella società delle immagini virtuali, la poesia si trova paradossalmente a suo agio, i poeti qui convenuti sembrano prediligere un irrealismo magrittiano in direzione di un’arte a-concettuale, anti acustica. Prediligono a una «poesia verticale» una «poesia orizzontale». Una dizione piana, che non teme di apparire quasi noiosa, una oggettistica per lo più banale, e chi più ne ha più ne metta ma è la connessione spaesante tra gli oggetti che determina la «nuova visione», è la dis-connessione tra gli oggetti quella che determina la «nuova poesia ceca», del tutto fuorviante e a-concettuale per un lettore italiano abituato al minimalismo nostrano con tanto di perbenismo davvero piccolo borghese.

Come si può notare, i colori sono sordi, freddi, l’esposizione da realismo o iperrealismo, da abbecedario e da settimana enigmistica, volutamente «basso», «triviale»; alla lettura non ci coglie nessuna emozione vertiginosa e nessuna estasi, il lettore è trasportato, come su una scala mobile o un nastro semovente, attraverso palcoscenici e quinte che trascorrono dall’ordinario routinario allo strampalato post-surreale. Tra il surreale e il reale c’è di mezzo il mare, la poesia abita un corridoio di immagini e considerazioni oziose, respingenti, prosaiche, insensate che danno il senso complessivo di iperrealtà; di qui la procedura iperrealistica auto respingente che viene però sempre immediatamente decontestualizzata dallo scorrere dei fotogrammi delle immagini ordinarie, post-surreali e/o grottesche. All’improvviso, si rivela lo squarcio, la scissione; l’enigmatico deprivato di enigma appare ancor più enigmatico. La scrittura si rivela come montaggio di istantanee che fotografano l’impossibile e il grottesco. I frammenti sono accatastati l’uno all’altro senza apparente ordine, senza rigore formale. Una poesia terremotata e disartizzata le cui membra disiecta giacciono ad imperitura memoria. Nella poesia di questi cechi possiamo ancora riconoscere attraverso l’assurda tessitura dei testi l’assurda struttura del mondo, la profonda intercapedine che esiste tra il nome e tra i nomi, non più soltanto tra il nome e la cosa. Il significato se ne è andato a farsi benedire. Il problematico è stato disartizzato ed evirato. Ciò che rimane sono i poeti che non possono più abitare poeticamente il mondo.

Classificato a ragione come uno dei principali rappresentanti del surrealismo ceco, Pavel Řezníček ha sempre messo in dubbio veementemente sia la così spesso proclamata «morte del surrealismo», sia la possibile evoluzione di questo movimento in una sorta di ‘neosurrealismo’ o ‘postsurrealismo’. Lo stesso autore ci confida la ricetta dei suoi testi: «Vedere le cose senza illusione e criticamente, aggiungendo umorismo, possibilmente nero».

Vorrei limitarmi ad indicare ai lettori lo stratagemma impiegato da Pavel Řezníček: l’inserimento nel corpo del testo poetico di lacerti del «reale», del «quotidiano», però decontestualizzati e spostati lateralmente in modo da sconvolgere l’orizzonte di attesa del lettore, sorprenderlo, scuoterlo e coglierlo d’infilata. Procedimento questo adottato dalla poesia italiana per la prima volta da autori italiani appartenenti alla Poetry kitchen. Leggiamo alcune righe del poeta ceco:

appello della rivista TVAR: chi è a conoscenza del luogo di soggiorno del poeta Karel Šebek
irreperibile dall’aprile del 1995
è pregato di comunicarlo al seguente indirizzo:
Dott. Eva Válková, Clinica psichiatrica 547
334 41 Dobřany

foto Pavel Řezníček
Tre poesie di Pavel Řezníček

Sala macchine del carciofo

L’orichicco quel vecchio spilungone
e il fruscio di banconote tra le mani delle ortiche
qualcosa si allontana e qualcosa si adagia accanto a noi
ai nostri corpi alla nostra cenere
il silenzio della lampada e la meteora dell’asciugamano
scompartimento sotto frane di pepe e arpione
portavano la megera tutta di arance sbucciate
e di piume di sparvieri che imbrattavano tutte le finestre del mondo
è solo una vampata quella che balugina
nella sala macchine del carciofo
un fazzoletto gettato sul chimico
che ispeziona la pancia del defunto Lévy-Bruhl
Il Canale di Panama e l’incidente d’auto (o di flauto?)
verga di nocciolo martelli pneumatici e la pazzia del pompelmo
appello della rivista TVAR: chi è a conoscenza del luogo di soggiorno del poeta Karel Šebek
irreperibile dall’aprile del 1995
è pregato di comunicarlo al seguente indirizzo:
Dott. Eva Válková, Clinica psichiatrica 547
334 41 Dobřany
meteora dell’asciugamano gettato sul ring del destino
un passante in lontananza di notte si soffia il naso su un globo di diamanti

La seppia pascola il ragno

Portava sempre due sacchi
Il cammello alla stazione
Non dovresti credere a queste facce piatte come la pietra
Prendi metà saccarina e metà caramello
Il cucciolo di felino non lo si riconosce
Quando finalmente inizierà la guerra?
Tutto palpitante per il Modern Jazz Quartetto
Due lanterne verdi due sigari verdi
Fece amicizia con un uccello
Portava sempre tre sacchi
Ragni con cappelli in testa
I ragni pascolano le seppie
Le seppie pascolano le puttane
Un cane micaceo picchiettava il muso
Un fiammingo
Le calze azzurro chiaro
Portava sempre tre sacchi portava quattro sacchi
Ma non le servì a nulla:
Il martello di pietra centrava sempre in pieno
La carriola
Nella quale portavano
la testa di Charles Bukowski

Le febbrili visioni di un surrealista: Omicidi, supplizi, macinatura in polvere di vivi…

(Dedicato al compagno Štěpán Vlašín per la sua recensione del mio “Caldo”nel giornale comunista HALÓ)

Nei boschi e durante la guazza
flicorno cistifellea madreperla coltelli
nel ricordo di colui che sforbiciava i giornali e faceva bambini dal formaggio
inzaccherare l’occhio
la calce porta la bicicletta
nella calce farina nelle uova sangue
la puzzola interprete della Luna
non dovremmo leccare la stufa ogni musicante poi mescolerebbe con la carriola
quello che non si deve svelare
il lebbrosario di San Giacomo
le grancasse sono in valigia qualcosa come frittate
e gli schizzi di sangue dei tuoi seni rappresentano una marcita
zeppa
di segreti granchi e aragoste massacrati
che confessano di essere aragoste
e quello che è un fungo è cristallo e i funghi sono persone
con la lingua perforata dal ferro da maglia
Poi ridusse le persone vive in polvere
e quei pochi assassinii che gli caddero dalle tasche erano un affare da nulla
come i peli che crescono dal naso di Messerschmidt
che era non solo professore
ma anche un aereo fatto con la busta
di plastica del latte
Allora: quei pochi assassinii che erano un affare da nulla
si trasformarono in pariglia di cani eschimesi husky
e la città O. si trasformò nel condrosarcoma del dio Aion
sì quello della grotta di Mitra
dove si asciuga il bucato della trascendenza

Foto, giostra con sedili

Una poesia di Karel Siktanc

Con la chiave apro Le tre rose bianche Apro la casa
Al pavone Chi si è trasferito? E chi rimane ancora
qui nel rione? Silenzio dietro le porte soltanto
in quella oltre il cortile s’ode una nota chiave Giovane
apro a me stesso

E me stessa mando altrove

Con la chiave apro la casa Alla sirena Ai tre cervi schiudo
e qualcuno sosta nel corridoio oscuro E nome dopo nome in un grido
Forse sono condannati a morte Forse
immortali chissà Nel negozio di corone funebri
ci sono dei bimbi in piedi

E intorno alla bara cantano qua e là

Con la chiave apro Ai tre violini E Alla bianca cavallina
E le pareti vuote dagli Smetana E dalla corrente una canzoncina
Volevo imparare a suonare l’organo Sembrare un coro
Non essere solo come ora Ma è troppo tardi È rimasto soltanto un leggio

che non reggerebbe più la partitura

Con la chiave apro la casa Alla ruota d’oro Apro Ai tre orsi nolenti
Avevo una casa dove capitava E adesso sarà solo altrimenti Apro la casa Al giglio
Apro Ai due amenti Avevo soltanto una
casa

E adesso sarà solo altrimenti

Con la chiave apro Al paradiso Ah, la mia fanciullezza non sento di appartenere qui
vai tu al mio posto Sento che chiedi di mamma
Sento che ti aggiri per casa di nascosto Apro il cancello Ai due
soli Qualcuno corre a prendermi una candelona E passi come se
camminasse in scarpe da cannoniere

rimbombano per via Sperone

Con la chiave apro la casa Dell’angelo Apro
Agli astri e tutte le donne che mi mentirono sono qui
sui piani lungo i pilastri “Cosa cerchi?” “Niente!”
mento mentito e sorrido ai forestiere E
nella mano bianca degli argentieri

risplende il gioiello del mio dispiacere

Apro
Chiudo a chiave

e fa freddo dappertutto E buio

È la santa Angoscia già dal principio del mondo

foto milan-napravnik-il-nido-del-buio
Una poesia di Milan Napravnik

ALL’IMBRUNIRE

È l’ora dell’eterna notte
Alcuni sono morti altri sono usciti barcollando dal cinematografo
pallidi come lenzuoli
Una foglia d’acero ha traslocato lungo il marciapiede
Dal tavolato di un bar sbarrato al negozio di generi alimentari
Ha danzato tra piedi pazientemente in fila
per un pezzo di carne
È salita all’altezza del primo piano di un fatiscente casamento
Ha dato un’occhiata alla stantia camera da letto degli amanti
Ha volteggiato oltre i fili del tram fino al recinto-orinatoio
E da lì via verso la grande lavanderia esalante il tanfo di sapone
Finché non si attaccò alla cornice del negozio
dove si vendono teste di gesso

Croci ornamentali ad uncini e senza
Semplici convinzioni e istruzioni per strangolare i miscredenti
Al negozio
Dove ogni acquirente è accolto con un dirugginio di denti
in caso
Avesse intenzione di chiedere il prezzo reale
di questa merce vergognosa
Come un animale randagio
Un cane senza litorale
Scalciato da ogni tempo nell’inguine scheletrico
Che si nasconde in biblioteche e musei inariditi
Animale senza seta ma compagno perseverante degli incubi notturni
Striscia per le gallerie di quadri lungo ritratti di nuvole morte
Lungo nature morti olandesi con la frutta fresca e una mosca
Lungo paesaggi roccoco scintillanti di sole
e popolati di pastori di pecore
Lungo battaglie navali dove gli eroi assassinati
cadono pittoreschi dal ponte di navi da guerra
In onde marine dipinte con maestria
E lungo visioni incurvate dei santi dipinti
Dell’altare di pingui cardinali
e macilenti eremiti
Di fetide monache con le fiche ricucite
Tutto in un sol boccone di manipolazione estetica
Nulla solo l’Arte un’unica e sola stronzata una truffa
Tutto solo un unico e solo aborto della civiltà
Mi dispiace, signor Péret
I tuoi tentativi di riconciliare la poesia con la lotta sui monti catalani
non hanno avuto successo
Non ti sei mai tradito ma i tuoi occhi mi raccontavano la storia
Le gocce di sangue anarchico sulla foglia di fragola riverberavano di purezza
Come il sole nel calice di Rémy Martin
Che bevemmo in primavera in un bar
della rumorosa Place Blanche
Non potevi morire con un’espressione di soddisfazione
Solo scomparire con tristezza
Meraviglioso amico dell’inflessibile disperazione
Sei vissuto sul solatio di un intelletto come oggi
non ci tocca più
Del quale sappiamo solo grazie alle testimonianze dei nostri antenati
Testimoni aviti di una tradizione remota
Viviamo al gelo
Il cielo è eternamente coperto da un triplo strato di nubi
La città è soffocata da veli di grevi zeli
E dal timore del quotidiano stritolamento dell’inutile desiderio
Leggende dappertutto crude come la carne sui ganci delle sale
alle tre e mezzo di mattina
Non si può raccontare una storia che scaturisce dalla struttura
molecolare del vino
Le inesauribili sfere di piselli con un mormorio si mescolano
al vello stradale
Dove ci sono i caffè c’è anche il caffè da asporto e le cartine di catene
Punte di seni cresciuti sulle conchiglie del tempo
L’incantevole patina di rosa
Le graticce marine di svettati come un bicchiere di Bordeaux
Se dico graticce intendo graticce
Non la fine del mondo
E nemmeno memorie astanti di cerchi alla mano e cravatte orbe
Qualche cancello di interminabili campi di patate
Rime guaste di colla
Indescrivibili cortocircuiti di sterco
E le selvagge carceri della metro che sfumano nel buio dietro ciglia
aggettanti
I tunnel affondano nella terra
Pourquoi j’écris moi-même?
Dis-moi reflet de cobalt
Pourquoi le vol de corbeaux qui t’entoure
comme le charbon étreint le feu?
Non conosco la ragione del mio respiro
Né la mia passione per le fiamme che di solito spegne la birra della ragione
Tanto meno l’indirizzo dei miei destinatari
Ad ogni modo dicono che ce ne siano pochissimi
Sembra che alcuni siano irrintracciabili
Alcuni non ne hanno il coraggio
Altri hanno fretta
Altri forse non sanno leggere
Ma la maggior parte è in effetti defunta dalla nascita

foto Poeti cechi contemporanei
Una poesia di Jachym Topol:

Al mattino un pezzo di stella attraversò in volo l’aria
e si sotterrò nel marciapiede
vicino alla casa dove abitiamo. Sfondò il lastrico
e fece a pezzi le tubature. Dal cratere zampilla l’acqua.
presi nella palma un pezzo
di quella materia nera compatta
quando si raffreddò. Era come un teschio ma più pesante.
a mezzogiorno la luce si intensificò
e penetrò la tenda.
E la rivista ghignò. La statua ballonzolò. Il Signore del mondo
sollevò un libro da terra e lo gettò via. “La cultura europea
è nata dal racconto di una storia.” Ma qui non succede nulla.
Ti voleva uccidere una stella. La rivoluzione è finita
accenditi una sigaretta. Gli intellettuali vanno in gita
in Provenza. O mi vendo oppure no.
Se sì
potrò andare in tassì per almeno tre mesi.
Ho sempre ammirato quelli nati prima
avevano per più decenni
la possibilità
di riflettere su quello che succede cos’è l’amore la morte la solitudine ecc.
e sono sopravvissuti
e non hanno risolto niente. Oggi la violenza scoppiava in ogni secondo
nei movimenti nelle parole la tensione avvelenava l’aria densa pesante
irrespirabile come se arrivasse dal deserto. La sera arrivò in quel
vestito rosso e dice: “Oggi c’è l’eclisse. Spero
che te lo ricordi. Guarderemo dal tetto della casa
verso la strada.”
Mentre il cielo si spaccava in pezzetti
una voce diceva: “Sì, l’inferno,
lì ci sono merde cadaveri e coltelli e vermi
come qui…”
poi all’orizzonte la luce si spegneva
prima i suoi contorni opachi
poi iniziarono a sparire anche le nubi
ambrate e vermiglie
lucenti come la luce
e poi guardammo nel buio
e non si vedeva niente

(Martedì ci sarà la guerra, 1992)

Michal Ajvaz 1

Michal Ajvaz

:

Tre poesie di Michal Ajvaz

Petřín

Allo Slavia il caffè costa otto corone e quaranta,
sebbene lo preparino da elitre di coleotteri.
Prendono comunque buona cura del divertimento:
al centro di ogni tavolo c’è un pianoforte in miniatura,
sul seggiolino siede un nano
e suona una melodia sentimentale.
I nani hanno l’abitudine di fare un sorso dalle tazze;
i clienti non vedono di buon occhio la cosa, si dice
che i nani abbiano varie malattie.
In sostanza i clienti e i nani si odiano,
di continuo gli uni sparlano degli altri col personale.
Ne vien fuori una gran confusione, soprattutto quando (come proprio in questo momento)
passa per il locale una mandria di renne.
Con quelle renne bisognerebbe proprio fare qualcosa.
Non ho nulla contro le renne vere, queste invece
sono spesso posticce. Una ha un guasto,
è ferma vicino al mio tavolino e perde delle rotelle dentate.
Per la verità, mi sono più simpatici i koala,
che si arrampicano senza sosta sui clienti,
anche se ufficialmente si continua a sostenere
che l’ultimo fu catturato venticinque anni fa.
(Ma sappiamo come vadano queste cose.) È già notte, ascolto la silenziosa melodia
strimpellata sulla tastierina e guardo la buia Petřín,
le enigmatiche luci sul suo declivio che penetrano
come malvagie costellazioni il mio volto sbiadito nel vetro,
ricordo la mia ragazza, la quale anni fa si unì
come psicologa ad una spedizione che aveva il compito
di mappare l’area ancora inesplorata di Petřín.
Siede adesso nel palazzo della leggenda e guarda
attraverso il fiume verso le finestre accese dello Slavia?
Oppure è stata rapita dai selvaggi indigeni di Petřín
che continuano a minacciare la città?
Gli abitanti della Città Piccola spesso nel mezzo della notte
sentono in lontananza il loro canto strascicato.
Secondo il bonton non si dovrebbe parlare di queste cose.
Fanno tutti finta di non sentire il lugubre corale
che da lontano si mescola alle conversazioni,
e tuttavia sanno che la malvagia musica inconfessata
si infiltra tra le loro parole, libera i remoti significati della foresta vergine in esse contenuti.
Di cosa stiamo conversando, in effetti?
È chiaro che tutti, dopo un po’, vorrebbero
interrompere le conversazioni e unirsi al lontano canto.
Le norme della buona educazione però non lo permettono.

(In E i ligli tarri, 2002)

*
La foca

D’accordo, ho passato una mano di marmellata su una vecchia foca nella metro, ma non dimenticate anche che fui l’unico
ad indovinare il nome della medusa viola fosforescente
sotto l’oscura superficie d’acqua nella Piazza della Città vecchia,
lungo la quale abbiamo veleggiato in barchetta,
sotto facciate silenziose, ubriachi di birra.
Successe l’ultima notte dell’Età dell’oro.
Fate assegnamento su un argomento sofistico con un Cartesio
di peluche, ma avete dimenticato la malerba della scrittura indecifrabile, grazie alla quale inarrestabilmente, con silenzioso fruscio, crescono le nostre poesie più aggraziate,
e come è evidente, anche lo scalfito manichino automatico,
che di notte siede nello scompartimento buio del treno sganciato
su un binario morto della stazione di Smíchov
e parla con disprezzo delle vostre sterili estasi
nelle cupe piazzette dei villaggi. Penso sia già ora di rassegnarsi
al fatto che la sciovia abbia trascinato via il nostro direttore
all’interno di un tempio barbaro, verso un altare con una spina di metallo,
di iniziare ad abituarsi al fatto che i corpi di alcuni corpi siano coperti da un guscio bianco d’uovo,
lo battiamo leggermente assorti con un cucchiaino
e lo sbucciamo, un po’ alla volta appaiono sulla pelle rosata i versi tatuati dell’epos dei lupi, che corrono lungo i corridoi lucenti della facoltà di filosofia,
del grasso pesce voltante, che vola dentro la birreria Carlo IV
e come impazzito sbocconcella le teste dei clienti –
e tutto si ripete nuovamente, anche con conchiglie cacciatrici di cuccioli,
come un gruppo di statue d’oro al centro di una piazza spopolata in una città straniera,
rilucente nell’inesorabile meridiano del sole.

(In E i ligli tarri, 2002)

Turisti

Nell’ultimo appartamento dove ho abitato mi accadeva spesso
che quando la mattina mi svegliavo
c’era nella stanza un gruppo di turisti.
Una giovane guida mostrava ai turisti gli oggetti sulle mensole:
statuette cinesi, scatoline di tè e palle di vetro,
presentava loro il contenuto dei miei cassetti,
prendeva dalla mia libreria delle preziose edizioni e le passava tra il pubblico.
Spiegava tutto con professionalità.
I turisti fissavano a bocca aperta le mie stoviglie come se fossero strumenti medievali di tortura
e fotografavano e toccavano tutto.
I bambini si rincorrevano per la stanza. Si sentiva:
“È possibile comprare delle cartoline qui?”
“Devo fare pipì.”
“Non toccare, sporcaccione, è cacca!”
Fortunatamente non si accorgevano quasi di me,
soltanto di tanto in tanto un anziano turista si sedeva
sul bordo del letto dove giacevo
e tirava un sospiro profondo.
Queste cose mi succedevano continuamente.
In un altro appartamento con me viveva un cinghiale
e in un altro ancora di notte passava per la camera da letto un espresso internazionale.
Presto ci feci l’abitudine ma ancora oggi ricordo
il terrore della prima notte, quando fui svegliato
da un baccano infernale e dal turbinio delle luci.
Peggio era quando di notte mi trovavo in dolce compagnia.
È vero però che alcune donne erano eccitate all’idea
e volevano fare l’amore al fragore di quei terribili boati,
tra gli sciami apocalittici delle scintille.
Ora che vivo nei boschi e la città
è per me soltanto una striscia tremolante di luci,
interrotta da tronchi neri
che guardo prima di addormentarmi
su un mucchio di foglie bagnate, so già
come sia necessario accettare e dare il benvenuto agli intrusi,
imparare a voler bene agli sciacalli, che si aggirano per la stanza,
agli animali di grossa taglia che vivono negli armadi, al loro malinconico canto notturno,
alle sfingi assonnate delle ottomane pomeridiane.
A chi non è mai successo di toccare con la palma della mano sul fondo dell’armadio
dietro ai cappotti flosci la pelliccia umidiccia di un animale sconosciuto?
Nessuno spazio è chiuso.
Nessuno spazio è solo di nostra proprietà.
Gli spazi appartengono a mostri e sfingi.
La cosa migliore per noi è /cuius regio…/
adattarsi alle loro abitudini, al loro antichissimo ordine
e comportarci con modestia e in silenzio. Siamo ospiti.
Comportarsi senza dare nell’occhio, venire a patti con la silenziosa terra.
I tronchi tribali selvatici
di quest’autunno passano per gli ingressi.

(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)

L’uccello

Nella conclusione del sillogismo
compare un grande uccello bianco col becco dorato,
che non era in neanche una delle premesse.
Non è più valido,
nella conclusione da qualche parte penetra sempre qualche animale sconosciuto.
L’uccello siede sulla mia scrivania
e mi punta col suo lungo becco ricurvo.
Ci guardiamo a vicenda silenziosi e immobili per dodici ore
e nel momento in cui squilla il telefono
mi becca proprio in mezzo alla fronte.
Mi sento venir meno
e sogno che piazza S. Venceslao sia ricoperta da una giungla impenetrabile
e di essere disteso di notte ai piedi del monumento a S. Venceslao,
tra la boscaglia di rami e liane traspare il neon azzurro della Casa della moda
e la sua luce si riflette sulle foglie umide delle palme.
Mi assopisco in un nido di foglie
e sogno di essere nella birreria di Doubravčice,
è piena di gente e l’aria è irrespirabile;
un vicino di tavolo, uno zingaro, mi sussurra all’orecchio:
“Due cose mi riempiono di ammirazione e rispetto:
il cielo stellato sopra di me e le stupende tigri che passeggiano
nell’estesa rete di corridoi sotterranei sotto Praga.
Lo dico affinché non disperiate tanto
per l’impossibilità di rispondere ad alcune domande.
Non che un domani si troveranno delle risposte, ma
quando le tigri saliranno in superficie,
le domande si porranno in altro modo”.

(Assassinio all’hotel Intercontinental, 1989)

petr kral 1

petr kral

Due poesie di Petr Kral

Edward Thomas (1878-1917)

I

Non solo gonne di fogliame
e sotto precocemente insinuante nelle grazie il buio arroventato da improvvisi fulgori come cascate di gioielli Se il passante getta lo sguardo al di là degli alberi
sarà omaggiato di bronzo da campana illividito del cielo di cenere conciliantemente pulsante
di un palombo e del suo immobile conficcamento
presso l’ardesia intenerita del comignolo La tipula dello stupore nella luce dispersa
ronza silenziosamente alle distanti
cupole E così da qualche parte
qualcosa è redenta senza grido

II

Oltre alla liquida notte nel fogliame anche diamanti
della fugace luce, sbriciolati qui dalla mano di nessuno,
il dorso del tetto lì oltre gli alberi è contornato
con un singolo tratto; stupore
immoto ammutolito.
Il cielo finora limpido adagio impietrisce oltre il vecchio
comignolo, un refolo vellutato lenisce la pietra del comignolo quasi in cenere,
un colombo si abbarbica dietro il comignolo come pietra alleggerita di luce.
E da qualche parte – forse solo in lontananza – qualcosa
è redenta così senza rumore.

(Per l’angelo, 2000)

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