«Il tema dell’addio. L’addio è una piccola morte. Ogni addio ci avvicina alla morte, si lascia dietro la vita e ci accorcia la vita che ci sta davanti. Forse il senso della vita è una sommatoria di addii. E forse il senso ultimo dell’esistenza è un grande, lungo, interminabile addio».
Iosif Brodskij
Arrivederci, o magari addio
Non è necessario che tu mi ascolti,
non è importante che tu senta le mie parole,
no, non è importante, ma io ti scrivo lo stesso
(eppure sapessi com’è strano, per me, scriverti di nuovo,
com’è bizzarro rivivere un addio…)
Ciao, sono io che entro nel tuo silenzio.
Che vuoi che sia se non potrai vedere come qui ritorna primavera
mentre un uccello scuro ricomincia a frequentare questi rami,
proprio quando il vento riappare tra i lampioni,
sotto i quali passavi in solitudine.
Torna anche il giorno e con lui il silenzio del tuo amore.
Io sono qui, ancora a passare le ore in quel luogo chiaro che ti vide amare e soffrire…
Difendo in me il ricordo del tuo volto, così inquietamente vinto;
so bene quanto questo ti sia indifferente,
e non per cattiveria, bensì solo per la tenerezza
della tua solitudine, per la tua coriacea fermezza,
per il tuo imbarazzo, per quella tua silenziosa gioventù che non perdona.
Tutto quello che valichi e rimuovi
tutto quello che lambisci e poi nascondi,
tutto quello che è stato e ancora è, tutto quello che cancellerai in un colpo
di sera, di mattina, d’inverno, d’estate o a primavera
o sugli spenti prati autunnali – tutto resterà sempre con me.
Io accolgo il tuo regalo, il tuo mai spedito, leggero regalo,
un semplice peccato rimosso che permette però
alla mia vita di aprirsi in centinaia di varchi,
sull’amicizia che hai voluto concedermi
e che ti restituisco affinché tu non abbia a perderti.
Arrivederci, o magari addio.
Librati, impossessati del cielo con le ali del silenzio
oppure conquista, con il vascello dell’oblio, il vasto mare della dimenticanza.
Dalla sezione Costruzioni cinematografiche
Apologia della Libertà
La telecamera si avvicina
Lentamente al letto bianco
Al quaderno col risvolto nero
(…)
Guardate oggi è il mio turno.
Non esisto più.
Finalmente mi libero da ogni guardiano.
Muoio al mondo senza suicidarmi
(non ho questo coraggio).
Non c’è più sesso nel mio corpo.
Sola, mi lascio toccare soltanto dal letto.
Abbasso le braccia.
Non sono riuscita ad essere un centro qualsiasi.
Ho fallito.
Finalmente dico basta alla mia spoliazione.
Ad occhi chiusi e nel letto disegno il futuro.
(…)
Adesso al buio il fremito mi prepara:
“cammina, cammina la principessa
va all’appuntamento
………………………”
(…)
Senza volontà cambio volto
divento un grande orecchio
rintocco di piume
dilatazione di boccioli
voce in fondo agli abissi
………………………
Piano sequenza lentissimo sul volto e sul corpo della donna nuda.
Ecco finalmente lascio il deserto e
vado via anche da te, figlio senza padre
claudicante castellano della solitudine
dolente cavaliere di principesse e principi
ultimo regnante dalla parola magica.
Mi allontano dalle tue e dalle mie vedovanze
caro volto, voce di ambigua specie
confuso crogiuolo di lutti passati
bagliore di inaspettate gemme emotive
per comuni slanci di tenerezza.
Sì, la persistenza è fuggevole volo
a chi soffoca la sulfurea materia,
prezioso custode della malincolìa!
A te finalmente restituisco
il giardino-labirinto d’ogni incontro.
Perderò le trasfigurazioni del tuo viso.
Nel letto insieme alla respirazione
interrompo lo slancio verso il martirio,
ho imparato la carnalità dell’anima.
Oggi, alleggerita dall’ardore,
ubbidisco alla morte.
Dalla sezione La vista del Corpo
Un grido di idee dallo stomaco
e le gambe si alzano
la lingua si ferma,
il colore senza più matite
compone l’assonanza,
l’unica possibile conoscenza.
Il segreto scompare:
“E se la Morte fosse Dio
Buddha Yahvè Allah
la Grande Madre
apparsa concreta
nella vita di Cristo?
Sarebbe Lei la Verità Rivelata
dell’esistenza tutta
motore e paura degli umani?
La continuità della luce?
L’amore senza ragione
al di là di ogni pulsazione?”
“Sì. Morte è notte sole luna stelle
luogo che si perpetua
per tutti coloro che la trovano.
Cratere d’acqua, deserto,
lirico roco lamento
che turba e rasserena,
fiammella, dubbio,
tristezza nella sosta
per l’ignoto.”
Allora mi affido a lei
nella cenere bagnata
la penetro,
nel renderle grazie
scuoto la difesa e vedo
vedo il giardino del tiaso.
(Venere Minima, Rupe Mutevole Bedonia (Parma) -2009)
Giovanni Turra
l’orologio da parete
Il pensile orologio da parete,
il metallo brunito della scocca.
Con tatto d’entomologo ne sfili
come altrettante ali le lancette:
un volo di lancette sul quadrante,
tutta la tua vita in un botto.
E s’accampano di getto,
come usciti dall’armadio,
i tuoi morti uno e due.
A mezzo busto dentro una cornice,
in un giorno di sole.
l’apolide
Mio padre l’apolide,
gravato nel petto per l’angina,
ben conosceva tutti i duty-free
del Norico, della Pannonia.
E mai s’è dato che per me,
l’unico figlio,
ne sia tornato senza
la stecca rossa di Marlbòro
a metà prezzo.
Così oggi persino questo
mi tocca ricordare:
dei miei vizi,
assolti impunemente
e per amore
dai miei vecchi genitori. Continua a leggere
Iosif Aleksandrovič Brodskij PENSIERI SULLA POESIA “Arrivederci, o magari addio”, a cura di Giorgio Linguaglossa
Iosif Brodskij
Un’opera d’arte, in special modo un’opera letteraria e una poesia in particolare, si rivolge all’uomo tête-à–tête, stabilendo con lui rapporti diretti, senza intermediari di sorta.
Nella storia della nostra specie, nella storia dell’ homo sapiens, il libro è un fenomeno antropologico analogo in sostanza alla invenzione della ruota.
Questa generazione la generazione nata proprio nel momento in cui i forni crematori di Auschwitz lavoravano a pieno regime, in cui Stalin era allo zenit del suo potere divino… questa generazione è venuta al mondo per continuare quello che, in teoria, doveva interrompersi in quei forni crematori e nelle anonime fosse comuni dell’arcipelago staliniano. Il fatto che non tutto si sia interrotto – almeno in Russia – è un merito che va attribuito in misura non trascurabile alla mia generazione; e io sono fiero di appartenerle. E il fatto che io sono qui oggi è un riconoscimento dei servigi che questa generazione ha reso alla cultura; anzi – vorrei aggiungere ricordando una frase di Mandel’stam – alla cultura mondiale… Esisteva, presumibilmente, un’altra via: la via di un’ulteriore deformazione, la poetica delle rovine e dei detriti, del minimalismo, della voce strozzata […] Noi l’abbiamo rifiutata perché la scelta in realtà non è stata nostra, è stata una scelta della cultura – ed è stata, ancora una volta, una scelta estetica piuttosto che morale.
La dipendenza [del poeta dalla lingua] è assoluta, dispotica; ma è anche liberatoria. Infatti, pur essendo sempre più vecchia dello scrittore, la lingua possiede ancora la smisurata energia centrifuga che le è conferita dal suo potenziale temporale, cioè da tutto il tempo che ha davanti a sé. E questo potenziale è determinato non tanto dall’importanza quantitativa della nazione che parla (benché sia determinato anche da questa) quanto dalla qualità della poesia scritta in questa lingua. Basterà ricordare gli antichi autori greci o latini; basterà ricordare Dante. E quello che oggi si va scrivendo in russo o in inglese, per esempio, garantisce l’esistenza di queste lingua anche nel corso del prossimo millennio.
Chi scrive una poesia, però, non la scrive per l’ambizione di essere ricordato dai posteri, anche se spesso coltiva la speranza che una poesia gli sopravviva, sia pure per poco. Chi scrive poesia la scrive perché la lingua gli suggerisce o semplicemente gli detta la riga seguente. Quando comincia a scrivere una poesia, di regola il poeta non sa come andrà a finire… Ed è il momento in cui il futuro della lingua interviene nel proprio presente e lo invade.
Tutti e tre sono infatti presenti nella lingua… Chi scrive una poesia la scrive soprattutto perché l’esercizio poetico è uno straordinario acceleratore della coscienza, del pensiero, della comprensione dell’universo. Quando si è provata una volta questa accelerazione non si è più capaci di rinunciare all’avventura di ripetere questa esperienza.
[Iosif Brodskij, Dall’esilio, traduzione di Gilberto Forti, Milano, Adelphi 1988, pp. 46, 59-60]
La poesia è una terribile scuola di insicurezza e incertezza. Non si sa mai se quanto si è fatto ha qualche valore, meno ancora se si sarà in grado di fare qualcosa di buono l’indomani. Se questo non ci distrugge, l’insicurezza e l’incertezza alla fine diventano nostre amiche intime, e quasi attribuiamo loro un’intelligenza autonoma.
Si può indovinare parecchio di un uomo dalla scelta che fa di un aggettivo. Continua a leggere →
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