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POESIE SCELTE di Duška Vrhovac dalla Antologia “Quanto non sta nel fiato” (Fusibilialibri, 2015, pp. 126 € 13) – “Viaggi”, “Di innumerevoli domande”,Cantico di colei che è amata” e altre poesie  – Traduzione dal serbo di Isabella Meloncelli con un Commento di Giorgio Linguaglossa

 guerra

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Duška Vrhovac, poeta, scrittrice, giornalista e traduttrice è nata nel 1947 a Banja Luka (Bagnaluca), nell’attuale Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina, e si è laureata in letterature comparate e teoria dell’opera letteraria presso la Facoltà di filologia di Belgrado, dove vive e lavora come scrittrice e giornalista indipendente, dopo aver lavorato per molti anni presso la Televisione di Belgrado (Radiotelevisione della Serbia).

Con 20 libri di poesia pubblicati, alcuni dei quali tradotti in 20 lingue (inglese, spagnolo, italiano, francese, tedesco, russo, arabo, cinese, rumeno, olandese, polacco, turco, macedone, armeno, albanese, sloveno, greco, ungherese, bulgaro, azero), è fra i più significativi autori contemporanei di Serbia e non solo. Presente in giornali, riviste letterarie, e antologie di valore assoluto, ha partecipato a numerosi incontri, festival e manifestazioni letterarie, in Serbia e all’estero.

È autrice di tre volumi di racconti per bambini e per la famiglia dal titolo Srećna kuća (La casa felice) e anche ha pubblicato sei libri in traduzione serba: due libri di prosa e quattro libri di poesia. Membro, fra l’altro, dell’Associazione degli scrittori della Serbia, e dell’Associazione dei traduttori di letteratura della Serbia, è attuale vicepresidente per Europa del Movimento Poeti del Mondo e ambasciatore in Serbia. Ha ricevuto premi e riconoscimenti importanti per la poesia, tra cui:

Duska Vrhovac

Duska Vrhovac

Majska nagrada za poeziju – Maggio premio per la poesia – 1966, Yugoslavia; Pesničko uspenije – Ascensione di Poesia – 2007, Serbia; Premio Gensini – Sezione Poesia 2011, Italia; Naji Naaman’s literary prize for complete works – Premio alla carriera – 2015, Libano e il Distintivo aureo assegnato dal massimo Ente per la Cultura e l’Istruzione della Repubblica di Serbia.

Ha pubblicato i seguenti libri di poesia:

San po san (Sogno dopo sogno), (Nova knjiga, Beograd 1986); S dušom u telu (Con l’anima nel corpo), (Novo delo, Beograd 1987); Godine bez leta (Anni senza estate) (Književne novine i Grafos, Beograd 1988); Glas na pragu (Una voce alla soglia), (Grafos, Beograd 1990); I Wear My Shadow Inside Me (Forest Books, London 1991); S obe strane Drine (Sulle due rive della Drina), (Zadužbina Petar Kočić, Banja Luka 1995); Žeđ na vodi (Sete sull’acqua), (Srempublik, Beograd 1996); Blagoslov – stošest pesama o ljubavi (Benedizione, centosei poesie d’amore), (Metalograf, Trstenik 1996); Knjiga koja govori (Il libro che racconta), (Dragoslav Simić, Beograd 1996); Žeđ na vodi (Sete sull’acqua) edizione ampliata, (Srempublik, Beograd 1997); Izabrane i nove pesme (Le poesie scelte e nuove), (Prosveta, Beograd 2002); Zalog (Il pegno), (Ljubostinja, Trstenik 2003); Zalog (Il pegno), edizione bibliofilo (Ljubostinja, Trstenik 2003); Operacija na otvorenom srcu (L’ operazione a cuore aperto), (Alma, Beograd 2006); Za sve je kriv pesnik (La colpa è di poeta), (elektronsko izdanje 2007); Moja Desanka (Lа mia Desanka), (Udruženje za planiranje porodice i razvoj stanovništva Srbije, Beograd 2008); Postoje ljudi (Ci sono persone), edizione dell’autore (Belgrado 2009); Urođene slike / Immagini innati (edizione bilingue), (Smederevo, 2010); Pesme 9×5=17 Poems (poesie scelte in 9 lingue), (Beograd 2011); Savrseno ogledalo (Lo specchio perfetto), (Prosveta, Beograd 2013); Quanto non sta nel fiato, poesie scelte, (FusibiliaLibri 2014)

Herbert List

Herbert List

Commento di Giorgio Linguaglossa

 La poesia di Duška Vrhovac ha ancora il coraggio di porre domande, come quella dei grandi poeti serbi Vasko Popa e Desanka Maksimovic. È una poesia che non  ha attraversato il mare dello scetticismo e dell’ironisme come qui da noi nell’epoca del Dopo il Moderno, ma ha dovuto attraversare da presso l’onda di guerre tra popoli vicini, odi sanguinari, incomprensioni feroci, dissoluzione dell’unità statuale; ma, paradossalmente, nonostante tutte queste vicissitudini, la poesia serba ha saputo salvaguardare il proprio patrimonio di voci poetiche di grande valore e riconoscibilità, e quella di Duška Vrhovac è una di esse. Anche nella sua voce c’è  il ricordo di un domandare che, qui da noi, è stato reso obsoleto dalla intervenuta razionalizzazione del discorso poetico. Duška Vrhovac è  una poetessa figlia della Crisi della Ragione poetica del Novecento, ma alla maniera in cui può esserlo un poeta serbo, cioè della pars orientale dell’Impero occidentale. La Vrhovac cerca sempre di mantenere il contatto con la «terra», pone domande alla «terra»; la sua poesia proviene dalla «terra» e ritorna ad essa. E questo è il suo modo personale di rimanere in ascolto con la sua Lingua e la sua «terra».

Non a caso Duška Vrhovac è una poetessa serba, una autrice ad Oriente dell’Occidente e, come tale, istintivamente aliena dalla percezione della poesia che si ha in Occidente come quel tipo di discorso assertorizzato (assertorio e interlocutorio) che può interrogarsi su tutto, tranne che sulla propria costituzione di «verità», di «soggetto», di «realtà». Duška Vrhovac prende le distanze dalla derubricazione del discorso poetico a discorso minimale e superficiario intorno agli oggetti e al mondo. Il «soggetto» della Vrhovac è un operatore dell’interrogazione, potremmo dire, che tenta di problematizzare la débacle dell’ontologia poetica, del suo rango e del suo ruolo così come si è venuta a configurare nel corso del secondo Novecento e in questi ultimi anni nell’Occidente delle democrazie parlamentari. Il punto di partenza è: ma se non c’è più domanda, a che pro il domandare?; e se non c’è più il domandare, a che pro il rispondere?. Che è poi il dilemma entro il quale una certa poesia che si fa in Occidente rifiuta di porsi dicendo che intorno alla poesia si è detto tutto, che la poesia deve discorrere di altro, che è una esternalizzazione di un soggetto (altro) che si è venuto a trovare de-territorializzato, e quindi è un soggetto debole che ha a che fare con un proposizionalismo poetico altrettanto debole e via dicendo.

Che è un bel discorrere in termini di riduzione al minimo comun denominatore di ciò che è possibile dire senza l’onere di dirlo, un dire senza assumersi l’onere della relativa responsabilità estetica di ciò di cui si dice (pur senza dirlo). Che il «soggetto» della poesia di Duška Vrhovac sia un operatore dell’interrogazione penso non vi sia margine di dubbio, e che esso debba sottoporsi alla severa disciplina dell’interrogazione, anche qui penso non ci sia dubbio alcuno; un soggetto che totalizza il locutorio (non quindi un soggetto interlocutorio), un soggetto comunque forte abbastanza per riformulare le domande fondamentali alle quali il discorso poetico non può rinunciare, pena la sua perdita di credibilità e di solvibilità, è questa, credo, la posizione di partenza della poesia di Duška Vrhovac. «Di innumerevoli domande sapevo la risposta / e intuivo molte cose. / Conoscevo divisione e moltiplicazione / nel tempo e nello spazio / le parole della speranza e della dedizione», è rimasto soltanto il ricordo di una domanda dopo la débacle di tutte le risposte. Ma è pur sempre un nuovo inizio dell’interrogazione, già riprendere il filo del discorso dal ricordo di una domanda è un impegno e un imperativo, una petizione di principio e una posizione di partenza. O, come dicono alcuni, una posizione etica. La poesia di Duška Vrhovac riprende daccapo l’interrogazione dopo la caduta del Dopo il Moderno, è questo il segreto della sua forza.

 La poesia di Duška Vrhovac ha, dunque, qualcosa di arcaico, o di «ingenuo» come ben ripreso da Ugo Magnanti autore di una nitida post-fazione, ma è proprio grazie a questa sua arcaicità che la poetessa serba può formulare un discorso poetico intenso e vero, libero, che comprende il reale e il surrazionale, il quotidiano e l’empireo, che unisce la dimensione dell’estensione a quella della intensificazione, la metafora con la perifrasi, il locutorio con l’interlocutorio, la domanda e la risposta, tutto «quanto non sta nel fiato», tutto il dicibile, dunque, come risulta inequivocabile dalla prima poesia presentata, una sorta di resoconto esistenziale della condizione umana che ha conosciuto tutti i «Viaggi».

Duska Vrhovac

Duska Vrhovac

VIAGGI

Non devo più andare da nessuna parte,
tutti i viaggi possono cessare,
le fughe, le ricerche, ogni cammino.
Tutti i paesaggi
si sono trasfusi
nelle mie parole,
i fiumi confluiti nel mio sangue,
il mare l’ho bevuto
e ho preso le montagne,
addomesticati i boschi, contate le valli,
col cielo azzurro e di tempesta
ho cucito i miei abiti festosi.
Non devo più andare da nessuna parte,
tutti i viaggi possono cessare.

.
DI INNUMEREVOLI DOMANDE

a Vittoria Tagliani

Di innumerevoli domande sapevo la risposta
e intuivo molte cose.
Conoscevo divisione e moltiplicazione
nel tempo e nello spazio
le parole della speranza e della dedizione.
Il mio passo era inafferrabile
la mano calda e reale.
La voce alto canto di solista
il mattino risveglio d’ambra.
La realtà non aveva bisogno di ricordi
ne gli inganni di lucidità.
Gli anni conoscevano i loro segreti
i frutti l’epoca della maturazione.
Di ogni parola avevo un cambio
e una preghiera per la salvezza dell’anima.
E poi, improvvisamente
parola e pensiero trafitti dal lampo.
Avvenne tutt’altra visione
cadde il frutto maturo
rotolando giù dal palmo.
Ora sto a meta di una storia incompiuta
e di tutto ho sempre meno,
in più solo domande.

Duska Vrhovac Cop

FAME

La mia fame l’ho sempre sostenuta
l’ho cresciuta con le mie cure
dandole bacche infernali
e quei piccoli frutti enigmatici
per cui si dorme male.
Cosi con la fame
s’accese pure l’insonnia
e queste due fatalità benedette
mi resero abbastanza forte.
Ho percepito giochi dimenticati
melodie perdute
parole sottese
e quel parlare d’altre sponde.
Mi forgiai sull’orma,
quadro incorniciato nei tratti
della mia stessa ombra.
Ora la mia fame e cosi insaziabile
che non la sento più
e la notte cosi interminabile
che lungo sonno, mi pare, quest’insonnia.

.
VENTITRE FEBBRAIO SETTANTASETTE

Inatteso
come un segreto
o una vendetta
per tutta la notte qualcuno
ha martoriato la mia anima
fredda la mano
ruggine il palmo
gli occhi vuoti
non terreni
come se non intuisse
che non sono morta abbastanza:
non lo sono
e non penso
di aprire gli occhi umidi
anche se e buio
e non si vede
ne quello che sono
ne quello che non sono.

Duska Vrhovac, Giorgio Linguaglossa e Steven Grieco Roma, 25 giugno 2015 Isola Tiberina

Duska Vrhovac, Giorgio Linguaglossa e Steven Grieco Roma, 25 giugno 2015 Isola Tiberina

PENSANDO A TE

Puoi tornare.
Nulla e più come prima.
Diversa l’aria e diversa la foglia
diversamente splende il sole.
Nemmeno l’usignolo canta la stessa canzone
anche se mi sveglio ancora
pensando a te.
Ancora tremo al ricordo
e mi viene di correrti incontro
e di allargarti le braccia.
Mentre leggo il giornale
e bevo la mia limonata pomeridiana
a volte ancora d’impeto mi alzo,
mi avvio leggera verso la finestra
e poi mi fermo.
E cosi rimango a lungo.
Ma puoi tornare, davvero
nulla è più come prima.

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CANTICO DI COLEI CHE È AMATA

Io sono la Regina della primavera.
Il mio abito e bianco e rosso,
cosparso di fiori disparati,
l’anima mite, serena e calda,
pronta a concepire una farfalla in volo,
una musica inebriante di corde non viste
e una vita che è eterna perche dura un giorno.

Mi portarono per la città a braccia aperte,
m’introdussero nella chiesa ricca di violette,
azzurre come la provvidenza,
splendenti come pupille di un bambino;
mi dissetarono col primo latte di tarassaco,
con rugiada attinta alle foglie delle più rare piante,
e mi incantarono la voce col suono di flauti magici.

Il mio piede avanza sopra la via lattea,
le mie mani intessono il chiaro di luna,
i miei fianchi li ha sfiorati solo
il Grande Figlio della Grande Madre,
colui che attraverso i campi del mio sogno
cavalcava Pegaso, ed era più forte
del tuono, e di ogni arma umana.

Le mie mammelle sono due fonti di vita.
Cibo per figlie e figli, dono Divino.
Solo uno sguardo sotto il velo
apre l’altra via, lunare.
Chi avanza per questa via, una volta sola,
sa che il mio letto e benedetto,
il lenzuolo ricamato con mano prodigiosa,
il suo guanciale e riposo per il giorno del giudizio.

Il mio grembo è ampio e caldo.
Profuma di forza e sudditanza,
ma solo al mio Signore dell’anima e del cuore.
C’è un’altalena inondata di sole,
primo approdo e culla ai miei figli,
ai figli dei miei figli e dei miei figli figli e figli.
Rifugio, prima e dopo tutte le battaglie.

Nel mio seno più rapido batteva il Cuore di Lui.
Sul mio petto il sorriso e spilla scintillante.
Quando attraverso la strada abbagliante e luminosa,
mi lascio dietro una traccia, una scia, sorriso di bambino.
Io taccio, ma tutti sanno e vedono, e con la preghiera
si fanno strada verso questa fonte, dove l’arcobaleno
sparge su di me una colorata pioggia primaverile.

Io sono la Figlia più amata del Dio della Soglia Domestica.
Nessuno se ne è andato via da me, ma sono venuti
tutti quelli che il sogno falso ha ingannato.
Dalla mia finestra la luce illumina la via
e il mio portone introduce nella Santa Rocca dei Primordi.

Le figlie di Gerusalemme non conoscevano ciò che so io.
Il mio amato non è venuto a chiedere
la mia mano, ma a costruire un Tempio in me.
Per pregare Dio e accendere il Focolare col mio estro.
Per avere luce dal mio occhio, e dalla mia anima splendore,
poiché nel mio seno e nel mio grembo
dimorano i suoi sogni, la sua forza,
e la fonte segreta di sua perenne giovinezza.

Duska Vrhovac, Giorgio Linguaglossa, Carlo Bordini e Steven Grieco Roma, 25 giugno 2015 p.za Del Drago Al Ponentino

Duska Vrhovac, Giorgio Linguaglossa, Carlo Bordini e Steven Grieco Roma, 25 giugno 2015 p.za Del Drago Al Ponentino

POETI

I poeti sono una banda
di presuntuosi vagabondi,
interpreti ingannevoli
del quotidiano e dell’eterno
ricercatori vani,
smodati amanti,
cacciatori di parole perdute
inseguitori di strade e mari.

I poeti sono giardinieri superbi
di intricati giardini regali,
precursori di deviazioni stellari,
messaggeri di navi affondate,
violatori di sentieri segreti,
magistrali riparatori
di Carri Grandi e Piccoli,
raccoglitori di polvere astrale.

I poeti sono ladri di visioni,
scopritori di utopie scartate,
ciarlatani di ogni specie,
degustatori di piatti avvelenati,
figli degeneri e di professione seduttori,
cavalieri che volontariamente
alla ghigliottina offrono la loro testa
eseguendo da se stessi la condanna.

I poeti sono custodi incoronati
dell’essenza risposta nella lingua,
amanti dei misteri insolubili
ammaliatori e provocatori,
sono i prediletti degli Dei,
assaggiatori di bevande portentose
e dissipatori vani
delle proprie vite.

I poeti sono gli ultimi germogli
della specie più sottile di esseri cosmici,
coltivatori di fiori bianchi interiori
e falsi creatori di mondi insostenibili.
I poeti sono interpreti dei segni perduti,
portatori di messaggi essenziali
e di avviso che la vita e inesauribile,
e l’universo un progetto mai finito.

I poeti sono lucciole sull’aia del cosmo,
conquistatori della grande fascia
di colori che fa l’arcobaleno
esecutori della musica sacra
da cui e nato l’universo.
I poeti sono invisibili interlocutori
nel silenzio sul senso e sul non senso
di tutto ciò che si vede e non si vede.
I poeti sono i miei soli veri fratelli.

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POESIE SCELTE di Alberto Toni da “Vivo così” (2014) con un estratto dalla prefazione di Mario Santagostini e un Commento di Giorgio Linguaglossa

Paul Klee

Paul Klee

 Alberto Toni (1954) vive e lavora a Roma. Tra le sue opere in versi: La chiara immagine, Rossi & Spera (1987), premio speciale opera prima L’isola di Arturo-Elsa Morante; Partenza, Empirìa (1988); Dogali, Empirìa (1997), premio Sandro Penna; Liturgia delle ore, Jaca Book (1998), premio internazionale Eugenio Montale; Teatralità dell’atto, Passigli (2004), premio Pier Paolo Pasolini; Mare di dentro, Puntoacapo Editrice (2009); Alla lontana, alla prima luce del mondo, Jaca Book (2009), finalista premio Brancati, premio Camaiore, premio Dessì; Democrazia, La Vita Felice (2011); Un padre, in Almanacco dello Specchio 2010-2011, Mondadori (2011); Polvere, sassi, oli, Il Bulino (2012); Mare di dentro e altre poesie, e-book, Vivo così Nomos (2014)
LaRecherche.it (2013) in collaborazione con Poesia 2.0; Et allons, Edizioni Progetto Cultura (2013); Stone Green. Selected Poems 1980-2010, Gradiva Publications (2014).
Ha pubblicato in prosa: Con Bassani verso Ferrara, Unicopli (2001); Quanto è lungo il sempre, Manni (2001); L’anima a Friburgo, Edup (2007). Ha tradotto, tra gli altri, testi di E. Dickinson, T. S. Eliot, M. Leiris. È anche autore di teatro: del 2003 il monologo Donna su una poltrona rossa, Editrice Ianua. Collabora con l’inserto letterario “Via Po” di “Conquiste del Lavoro”.

Paul Klee

Paul Klee

dalla Prefazione di Mario Santagostini

«[…] Alberto Toni si conferma anche e soprattutto autore anarcoide. Perché se nella sua storia è sempre stato arduo rintracciare appartenenze, ascendenze o magisteri, questo libro sembra essere, di quella storia, l’apice: nelle pagine si assiste a una testarda e, in fondo, antinarcisistica dilatazione del pathos sentimentale che rinvia al’infinito l’apparizione d’un qualsiasi plot lirico, del verso che conclude (o solidifica, o pietrifica definitivamente…) l’ispirazione in un senso e in discorso concluso. Eppure, quelle stesse pagine non raggiungono mai la struttura stabile del poema, non arrivano. a farsi racconto: molto resta allo stato liquido, ineffabile […] Toni è, in fondo, autore poco afferrabile. Scivola via. Perché lascia sempre in sospeso qualcosa, quando scrive. Dissemina dubbi. E fino a quando situazioni come quelle raccontate per accenni restano irrisolte, si ingenera in me lettore uno stato di inquieta precarietà ermeneutica. E la sensazione è d’essere invaso da domande a cui non c’è risposta. Non a prima vista, almeno. Ora: Vivo così è attraversato … da momento analoghi, da stati (chiamiamoli in questo modo) semibui che, paradossalmente, si rivelano essere i veri e propri cardini, i “fondamenti invisibili” su cui si fonda la macchina testuale. Allora, io lettore dovrò sempre di nuovo… tornare su una poesia di Toni per illuminare le opacità, le non-chiarezze. Per leggere e ascoltare meglio le parole, versi, insieme di versi, ritmi […] Penso… che i momenti migliori della poesia di Toni sono quelli in cui ritmi e versi e pagine e sezioni si danno con un carico, con una quota di equivocità. E dunque con risvolti di ombre, ombreggiature. Quando c’è qualcosa che sfugge, che si defila dallo sguardo ermeneutico, che scappa e sembra lasciarsi dietro aure indefinite. Quando, insomma, il testo o alcuni suoi frammenti privilegiatissimi instaurano tra loro stessi e il lettore una distanza. E ingenerano inquietudini strane, complessi di tensioni volte ad abolirla, quella distanza. Come se in loro allignasse un tot di oscurità […] il libro diffonde un’aria di globale irrisolutezza. Per questo, non smetto d’interrogarmi (letteralmente…) sull'”aria che tira” nelle pagine… non smetto di chiedermi se quello che sto leggendo è un endecasillabo o un più marcato, pesante, epico decasillabo con l’eventuale attacco giambico. Ma poi mi chiedo anche, più in generale e già ripensando l’opera “dall’alto”, se ho davanti un canzoniere di testi sparsi o un poema senza fine, epilogo. Se il senso globale è un surplus che si afferra alla fine opera e à rebours o se, invece, si offe gradualmente, pezzo dopo pezzo. Lascio, per forza, insoluto il quesito. Ma adesso ho rintracciato il secondo e più forte momento di originalità della poesia di Toni e di Vivo così: il suo mascherare la lirica da poema e il poema da lirica. Nel dettaglio: il suo parlare di sé raccontando una vicenda collettiva e il suo narrare da storia del “noi” a partire dall’io. Che è quanto dire: il suo inserire la voce singola in una somma, in una comunità di voci. E viceversa.

E qui, di nuovo, mi chiedo se è un coro che si fa sentire, o un assolo a cui il coro fa da sfondo. O un assolo che risponde al coro, o viceversa […] questo mix tra il e “noi” che non è né ancora io né ancora noi sembra davvero essere l’archetipo sonoro di tutte le civitates e le comunità… che Toni ha saputo ascoltare, verbalizzare, portare nella terra istituzionale della letteratura rimanendo, paradossalmente, un anarchico doc».

Alberto Toni Vivo così 1Commento di Giorgio Linguaglossa

Direi che tutta la poesia di Alberto Toni, fino a quest’ultimo lavoro poetico, è il racconto ininterrotto del «non finito», è la poesia di un «racconto» costantemente infirmato dalla oggettiva difficoltà di narrare ciò che oggi diventa ogni giorno di più non-narrabile, non afferrabile, non orientabile. Non che Toni sia elusivo per sua propria volontà, ma è la materia stessa del suo racconto, credo, ad essere infirmata ed inferma, che si sottrae al racconto sia della memoria che dell’indagine ricostruttiva, retrospettiva. La particolare predilezione di Alberto Toni per un endecasillabo poetico ipotonico e prosastico sta forse nella sua dedizione alla povertà delle parole, nella sua poesia non trovi mai o quasi un innalzamento del diapason, del tono o del lessico, tutto viene detto come in sottovoce, in sordina, con un abito dimesso, pesca in quella zona d’ombra che sta tra il quotidiano e il quotidiano delle cose, di qui la varia ombreggiatura che rappresenta la sua personale gamma-impronta di sfumature del grigio, del grigio dell’esistenza, dei momenti grigi del grigio, del grigio della memoria. Se c’è un colore dominante in questa poesia quello è per l’appunto il colore del grigio, è la scelta estetica e coloristica di Alberto Toni ma è anche la ragion d’essere di una poesia che tenta di ripercorrere a ritroso le proprie tracce, le tracce della vita trascorsa, perché «la bestia ogni tanto si allontana e prende la via sbagliata»; le situazioni colte dal flash di Alberto Toni sono tutte indistinte, non localizzabili in alcuna topografia precisa:

Mi manca la strada. Li ricordo tutti in un giorno
in un cunicolo di luce in piedi come fosse ieri.
Sì, tornano per strade già battute, ma non sono nuove
come gli abiti nel ricucito impegno a nuova vita.

C’è una interrogazione sottesa, implicita, appena velata se sia possibile davvero una «nuova vita». Qua e là si trovano timidi accenni a un’epifania che non avviene, sempre prorogata e rinviata: «La porta è spalancata». E questa incertezza o incompiutezza del discorso narrativo diventa anche lo stigma del suo particolare modo di narrare il non-narrabile.

da Vivo così, Nomos Edizioni, 2014 pp.98 € 14

Alberto Toni foto di DIno Ignani

Alberto Toni foto di DIno Ignani

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vivo così: d’attesa,
spergiurando su cosa mai può essere:
cuculo, tortora d’attesa. Oscilla il lume,
la calda mano degli altri.

*

Raffaele, operaio Fiat, la notte al muletto,
è solo un tempo fantasma
che racconta di sé e del dolore non smette
mentre dall’altra parte il nipote non sa,
poi chiude gli occhi per pensare al domani.
Forse, si chiederà più tardi, il tormento
non passa così in fretta e ci sarà bisogno
di ricordare.

*

Uscire dal corpo si può,
per tenere il fuori campo, dibattersi,
controllare il flusso con tutto che rallenta.
Simili richieste dovresti tenerle per riprendere
fiato, una volta era più facile: bastava la vita
battente che si alzava a vortice. Non ora che
tutto è in bilico. Ma non c’è abiura, solo
nascondersi.

*

Potrebbe essere
uno di passaggio che gli rivela qualche
verità momentanea, tanto per dire,
o una duratura immersione, altre acque
di nascita e diluvio, parto e nuova
ragione, con il tempo che si rinnova
spariscono i vecchi sepolcri della fuga.
Da questo momento tutto è possibile,
lo sentivo rodere invelenito, il peggio
è passato ed è più disteso nel parlare.

*

Con tecniche da iniziato,
sarà un districarsi lento e vuoto.
Perché di sofferenza in sofferenza
la luce non molla la sua presa?

*

Il rumore sordo del cuore,
animarlo delle solite cose e un salto
verso il cielo, quando è caverna e la perla
che qui consumava l’errabondo. Vedeva
e non vedeva, scavalcava. Lo sentivo appena.
Poteva non conoscere, non sapere dove
svetta la chioma dell’ultimo albero rimasto?
E gli altri, i nostri vicini così lontani.
Tutti lo sanno: distinguere l’ultima scintilla,
l’opaco del fuoco in brace che sconfina
nelle periferie, ciò che appena si vede, non si vede.
*

G. ora allo stesso posto dell’altro.
Caricava un sorriso al mio rientro,
la moglie preoccupata di lasciarlo solo.
È l’umanità mite al suo bivio, mentre
per noi, carichi di presente, il cielo
è un improvviso transito di tutto ciò
che è stato. Il dubbio era proprio
negli occhi che bruciavano, sibilava già maturo in me.
Come dirlo? Come spiegarlo senza perdere il filo,
la vita, dormire un po’ tra le tue braccia in abbandono.

*

Dell’ultraconosciuto non voglio sapere.
Mi manca la strada. Li ricordo tutti in un giorno
in un cunicolo di luce in piedi come fosse ieri.
Sì, tornano per strade già battute, ma sono nuove
come gli abiti nel ricucito impegno a nuova vita.
Qualcuno ha riacquistato il vecchio smalto,
non soffre, sembra anzi la giudichi una fine
ancora imprecisa.

*

Quel parlar forte nelle luminarie
al volo della colombina. Te lo ricordi?
Pianti di giovinezza, ma se ora non regge
la visione, qualcuno tornerà a dirlo.
Succede così che all’urto tra passato
e presente l’altro da sé sorride scavalcando il muro.

*

A te che nel riparo come per la Minerva
del Campidoglio mostri lo scudo, una volta
lo dicevo, io mi mostro, ricreami fuori della
freddezza che non mi appartiene. Tienilo a mente
per gli anni che verranno, la pietà, la pietà che Dio
ha mostrato e che di nuovo scenderà su me. L’ora,
temevo, sopra le mie scelte di sempre, le tue semplici
mani a guarirmi.

*

Una mano sul fianco, con l’altra stretta alla sua,
serrata, se mancava alla presa ne avvertiva
una mancanza dolorosa. Presto, per la raggiunta
libertà, parte, non guarda indietro. Con gli anni
la ritrova nell’abbandono, con la voce che dalla
strada sale e dagli anni, non più quelli, sente
forte l’urgenza, il richiamo. Ci sarà pure
un modo per l’angelo della dimenticanza,
cercare nei cieli e nel disperso anelito
sbiadito. Lascia che sia la piccola mano,
perché non c’è più tempo sulla terra.
Vuole così.

*

Saliva ancora agilmente.
Per me d’antico pianto già si prefigurava,
abbandonato il miracolo del tempo,
di grado in grado lo sento muoversi
in me, l’incendiario della mente sembra
l’angelo del desiderio che ogni notte
al mio corpo parla. Ogni linea nel battito,
ogni ora senza più la pietà necessaria.
Infilava le strade della città nuova
e non chiedeva, l’occhio sempre
vigile e pronto al frutto già maturo.
Libero alla sua casa nel trasloco,
si farà vivo, dicono, al momento
opportuno.

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