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Paolo Ruffilli, Poesie esistenzialistiche da Affari di cuore (Einaudi, 2011) con un Commento critico di Giorgio Linguaglossa

Foto Karel Teige

Una sorta di ironica, autoironica, desublimata epopea dell’amor quotidiano e dell’amor profano nell’epoca della caduta del «sacro», ed insieme diario post-lirico della passione amorosa

 Paolo Ruffilli è nato nel 1949. Ha pubblicato di poesia: Piccola colazione (Garzanti, 1987; American Poetry Prize), Diario di Normandia (Amadeus, 1990; Premio Montale), Camera oscura (Garzanti, 1992; Premio Dessì), Nuvole (con foto di F. Roiter; Vianello Libri, 1995), La gioia e il lutto (Marsilio, 2001; Prix Européen), Le stanze del cielo (Marsilio, 2008), Affari di cuore (Einaudi, 2011), Natura morta (Nino Aragno Editore, 2012, Poetry-Philosophy Award), Variazioni sul tema (Aragno, 2014, Premio Viareggio). Di narrativa: Preparativi per la partenza (Marsilio, 2003); Un’altra vita (Fazi, 2010); L’isola e il sogno (Fazi, 2011). Di saggistica: Vita di Ippolito Nievo (Camunia, 1991), Vita amori e meraviglie del signor Carlo Goldoni (Camunia, 1993); oltre a numerose curatele di classici italiani (Leopardi, Foscolo, Nievo, gli scrittori garibaldini) e inglesi (Morris, Emily e Charlotte Bronte, Dickens, G. Eliot, Compton-Burnett, Lawrence, Collins), per Garzanti, Mondadori, Rizzoli, Fazi. Ha tradotto: R. Tagore, Gitanjali (San Paolo, 1993), La Musa Celeste: un secolo di poesia inglese da Shakespeare a Milton (San Paolo, 1999), La Regola Celeste – Il libro del Tao (Rizzoli, 2004), Osip Emil’evič Mandel’štam, I lupi e il rumore del tempo (Biblioteca dei Leoni, 2013), Costantino Kavafis, Il sole del pomeriggio (Biblioteca dei Leoni, 2014), Anna Achmatova, Il silenzio dell’amore (Biblioteca dei Leoni, 2014), Boris Pasternak, La notte bianca (Biblioteca dei Leoni, 2016), K. Gibran, Il Profeta (Biblioteca dei Leoni, 2017).

Laboratorio 30 marzo Sabino Caronia e Giorgio Linguaglossa

da sx Sabino Caronia, Giorgio Linguaglossa, Laboratorio di poesia, Roma 2017

Commento critico di Giorgio Linguaglossa

Una sorta di ironica, autoironica, desublimata epopea dell’amor quotidiano e dell’amor profano nell’epoca della caduta del «sacro», ed insieme diario post-lirico della passione amorosa, canzoniere di una materia non più cantabile né orientabile: il rapporto amoroso o lo stato di innamoramento, con tutto ciò che ne consegue in termini di prevaricazione dei personaggi l’uno sull’altra; direi con prevalenza del dispositivo ottico e delle visioni  in plein air, come dall’alto di un elicottero, rispetto al dispositivo fonetico e fonematico, dove la raffinata lectio dei classici del Novecento risulta perfettamente digerita. Soluzioni post-penniane si giustappongono su un tessuto prosodico di impianto narrativo, il tutto immerso in un liquido di contrasto tipicamente post-moderno, un modernismo dove il verso libero si presenta come una linda camicia perfettamente inamidata e stirata. In questa operazione non sono più significativi l’assonanza, la rima o il significante, quanto ciò che spegne la tradizionale orchestrazione sonora, ciò che decolora e sbiadisce i panni novecenteschi. Leggiamo la poesia «In posa» della raccolta citata, dove l’andante largo si stempera in uno sviluppo poematico di stampo neocrepuscolare:

È più forte di te: / mi guardi giù le scarpe, / ti piace l’accordo / delle tinte su, / il taglio dei vestiti… / Fino a che punto / della posa / pretendi o inviti / che io sia tenuto / a questa lista / dei dettagli? / Dici che l’una / dà valore / all’altra cosa. / Era destino / che mi piacesse / un’arrivista / un po’ borghese, / però ogni volta / nel rendermene conto / per me è dolore / che ti dimentichi / del contenuto / per il contenitore.

Paolo Ruffilli mette a punto la tecnica del contrappunto e del controcanto, che utilizza in tutto il libro:

Sono stato per te / il cuscino e una coperta / la sedia e la poltrona / il freno da tirare, / se serviva, / e una spinta alla salita / il puntello e la deriva / e perfino un muro, / la sponda di fronte / a tutto ciò che assale / o ciò che circonda, / il faro nella zona / del tuo scuro, / le tue scale e il / tuo tramite sicuro, / una porta aperta / e la via di uscita: / un ponte, un’autostrada / per la vita. / Che vuoi / che ti risponda? / Che, certo, ti conviene / e che, per quanto vale, / mi puoi considerare / il tuo supremo / bene strumentale.

[Paolo Ruffilli]

Mi chiami / quando hai voglia / per riempire il vuoto / di affetto e vanità. / Tanto lo sai / che sono pronto / a venirti incontro / perché per me / è importante / che ti ami io / e ti ringrazio comunque / per il modo / che hai di amarmi, / tu, in passività. / Prenditi pure / quello che ti pare: / certo che / lo puoi fare. / Ti vengo / tra le braccia / per trovarmi / e, guardandoti, / per guardarmi / in faccia / in tutta libertà / senza indulgenza, sì, /ma con pietà. / Infelice / della mia felicità.

Come recita il titolo, Affari di cuore, vuole anche alludere alla condizione commerciale narcisistica che contraddistingue le relazioni erotiche, il carattere riflesso, la sostanza riflessa e irriflessa che contraddistingue la riproduzione dei rapporti erotici sulla base dei rapporti omoerotici che regolano la vita delle post-masse, quasi che parlare di coscienza e di autocoscienza sia ormai una operazione numismatica, donde la predisposizione melanconica e autoironica del personaggio narrante. È questa la cifra stilistica significativa della poesia di Paolo Ruffilli, erede tardo novecentesco della disgregazione della lirica che il Novecento ci ha lasciato in eredità.

Minuscoli “pharmaka”, cammei pseudo narrativi, ma non ci si lasci ingannare dalla apparente leggerezza dei testi, Ruffilli non adopera rime se non per incrociarle, vanificarle, annullarle e quindi raddoppiarle quasi a ricordare che esse un tempo fecero pur parte della tradizione alta. Ritorna in quest’ultimo libro il metodo del controcanto, messo a punto nel lontano Novecento nell’opera d’esordio, Piccola colazione (Garzanti, 1987). È scomparso ogni impianto veristico, i personaggi si muovono in interni, in zone neutre, in strade, si suppone, in locali, in luoghi di incontro propri dell’evo mediatico; sembra caduta e per sempre, l’illusione di un possibile anche se improbabile riscatto, siamo al di fuori del gioco dell’autenticità; ciò che resta è soltanto un edonismo personalistico dove delusione, inganno, raggiro, sincerità, autenticità dei personaggi sono avvolti in un’unica dimensione, quella del post-contemporaneo privo di idoli, di sogni e di utopia.

Di certe cose / non vuoi parlare / e preferisci / l’intermittenza virtuale / sul display / del mio telefonino. / «Ma ho paura – mi dici nel messaggio – di non essere capace / poi a frenare». / Lo dici da vorace, / è il tuo vantaggio. / La verità è che / non ti piace / rinunciare / né a me né agli altri / compreso tuo marito / e ci pretendi / in proprietà / del tuo destino, / se non addirittura / del tuo famelico appetito. / Del resto, / proprio per questa / avidità di vita / mi hai rapito… / Ma sono stanco / per il mio amarti / di essere punito.

Sono venute a mutare le condizioni sociali e politiche del fare poesia e anche il suo oggetto: non più la ragazza Carla ma la storia di una signora borghese e del suo amante, che poi sarebbe l’autore, e noi tutti, nonché le condizioni dello stile. Siamo in pieno post-moderno, sembra dirci Ruffilli, e questo, oggi, è l’unico modo di fare poesia. Affari di cuore costituisce un raro esempio di come si possa fare un elegantissimo canzoniere dell’amore perduto e ritrovato e poi di nuovo smarrito, alla maniera moderna e alla maniera antica, alla maniera di Catullo, Orazio, Mimnermo.

Nell’età che è trascorsa dal ciclostile degli anni Sessanta al computer portatile dell’era internettiana, nel mentre che sono perenti, in caduta libera, tutti gli avanguardismi e le parole innamorate, tutti i manierati eufuismi, Paolo Ruffilli ci consegna il romanzo in versi dell’amor leggero con un linguaggio trasparente e ilare, sul filo di rasoio di un tratto di penna agile ed ilare. Ogni composizione è un montaggio di fotogrammi sottratti all’inautenticità, o all’autenticità, che poi è la stessa cosa. Ciò che rimane è un profumo, un alone, un’aura desublimata, corriva, posticcia come solo è possibile nell’età della leggerezza dell’essere. E che la leggerezza sia una tremenda e deliziosa croce che si abbatte sugli abitanti del nostro tempo epigonico, opino non ci sia dubbio alcuno, se appena gettiamo lo sguardo su queste poesie così abilmente sofisticate da apparire quasi telefonate.

Non deve in alcun modo meravigliare che siano venute a cadere le ipotesi di scritture modernistiche o post-modernistiche, se per modernismo si intende una poetica che alligna, come un alligatore, sulla pellicola del Novecento. E non v’è ombra in questo canzoniere, non v’è magrezza, c’è la scioltezza e l’agilità di un’età che ha perso essenza, peso, e così la passione è occasionale, gli incontri, imbarazzanti mistificazioni o divertite dissimulazioni. Non c’è più il volo di un Hermes in grado di gettare un ponte tra gli umani, e l’oggetto erotico è confinato nella sua bidimensionale incomunicabilità. I personaggi amanti sono trattati come figurine di seta o trapezisti mossi da una mano invisibile, i gesti stereotipati e stralunati sono il frutto del sogno di un burattinaio misterioso che forse ha dimenticato che la vita ha la stessa stoffa del sogno e i burattini, a loro volta, sono il sogno di un orco de-naturato e immaginario, e che l’orco è l’invenzione di un dio assente, un deus absconditus dell’evo della civiltà mediatica.

È come se una maledizione avesse tolto la gravità da sotto al tavolo del mondo, così che gli oggetti, i personaggi burattini galleggiano sul mare dell’inessenza, sbattuti di qua e di là, senza tempo e senza spazio, in una dimensione sottile come la pellicola di un film. E il burattinaio è un orco che ha dimenticato la propria inessenza. Le parole di questo post-ironico romanzo in versi dell’amore borghese sono della stessa pasta delle nostre parole. È questa la posta in palio del libro.

Paolo Ruffilli Piccola colazione Garzanti, Milano, 1987
Paolo Ruffilli Affari di cuore Einaudi, Torino, 2011

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Kjell Espmark POESIE SCELTE da La creazione (2016) e da La via lattea (2010) L’angoscia è in Kjell Espmark la voce di una mancanza costitutiva, di una mancanza significativa. Il progettarsi per l’inautenticità. Nietzsche definì il nichilismo «il più inquietante fra tutti gli ospiti del nostro tempo».  Traduzione di Enrico Tiozzo. Presentazione di Donatella Costantina Giancaspero e Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

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Presentazione di Donatella Costantina Giancaspero

 Kjell Espmark, tra i più importanti scrittori svedesi, è nato nel 1930 a Strömsund, una suggestiva cittadina della Svezia centro-settentrionale. Professore di Letteratura comparata all’Università di Stoccolma, nel 1981 è stato nominato membro dell’Accademia di Svezia, dove, per molti anni, ha rivestito la carica di presidente del Premio Nobel.

Ancora studente presso l’Università di Stoccolma, Kjell Espmark esordisce come poeta nel 1956, con la raccolta L’uccisione di Benjamin, dove si coglie la netta influenza di T.S. Eliot, influenza che verrà superata, nelle opere successive, fino al raggiungimento di un suo personalissimo linguaggio. A questo lo condurrà la ricerca compiuta a partire dal 1970. Ciò che Espmark andava perseguendo in questi anni era una sorta di “traduzione dell’anima”, la sua “materializzazione” – ovvero come l’”interiore” diventa “esterno”–, ispirandosi alla tradizione del modernismo lirico internazionale (da Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, a Eliot e Breton) e, successivamente, a quella propriamente svedese (Ekelund, Lagerkvist, Södergran, Ekelöf, Thoursie e Tranströmer). La volontà di materializzare ciò che è interno è, infatti, una caratteristica sia del simbolismo, che dell’avanguardismo degli anni ’10 e del surrealismo.

Poco dopo aver ricevuto la cattedra (1978), Espmark inizia a lavorare a una nuova trilogia lirica culminante con Il pasto segreto (1984). La prospettiva s’era ormai allargata, centrando l’attenzione sull’Europa e, successivamente, sul mondo intero.

Dalla fine degli anni Ottanta al 1990, Espmark si afferma anche come romanziere. Il ciclo di sette romanzi, L’età dell’oblio, che rappresenta una delle opere fondamentali della letteratura svedese, offre un quadro sconvolgente del malessere e dell’angoscia del Novecento. Nel frattempo, pubblica altre due raccolte di poesia: Quando la strada gira (1992) e L’altra vita ((1998): traduzione a cura di Enrico Tiozzo.

All’attività di poeta e romanziere, Espmark unisce quella di drammaturgo e saggista, pubblicando, tra le altre opere, una monografia su Tomas Transtömer. In totale, al suo attivo, egli annovera una sessantina di volumi, che gli hanno valso numerosi premi nazionali e internazionali.

Sul finire del Millennio, Espmark, ben lungi dall’esaurire la propria creatività, ha scritto alcune delle sue opere poetiche più grandi; non ultima quella composta nel 2002, dopo la scomparsa della moglie, I vivi non hanno tombe. Qui il testo è affidato interamente alla voce della moglie perduta, nella rievocazione di altre figure scomparse. Punto culminante della sua scrittura lirica è senz’altro La via lattea (2007), definita “la migliore raccolta di poesie pubblicate da un autore svedese nel 2000”.

Nel 2010 esce L’unica cosa necessaria, Poesie 1956-2009. Nello stesso anno I ricordi che si trovano. Del 2014 è Lo spazio interiore e, ultimo (2016), La creazione con la prefazione di Giorgio Linguaglossa, pubblicati in Italia da Aracne Editrice, nella traduzione di Enrico Tiozzo.

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I libri di Kjell Espmark sono ordinabili tramite il sito dell’editore: http://www.aracneeditrice.it 

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Le verità convergono tutte verso una sola verità, 

ma i sentieri sono interrotti.

Nietzsche

Quando la strada gira (Ed. Bi.Bo. 1993)

 Quello che mi colpisce in queste poesie di Kjell Espmark pubblicate in Svezia nel 1992 e in traduzione italiana di Enrico Tiozzo nel 1993 (Ed. Bi.Bo Quando la strada gira), è lo spostamento autoriale. L’autore non corrisponde più al personaggio che narra. Nella poesia svedese da molti decenni, per la precisione dal finire degli anni Cinquanta, si è fatta una poesia dove si verifica la dis-locazione del soggetto. Poiché le cose non accadono per caso, occorre andare a vedere perché sono accadute. In particolare. E in effetti la poesia svedese dagli anni Sessanta ha privilegiato la dislocazione tematica, l’interpunzione frequente del verso libero, la dislocazione autoriale, la frammentazione della «forma-poesia», la adozione di una tematica esistenziale, gli «interni» stretti, etc.

E adesso passiamo al commento a braccio di queste due poesie. Nella prima poesia il protagonista è «il manico del mio ombrello», si ha qui una sineddoche, il soggetto è diventato una parte di un’altra parte più grande, ed il tempo della poesia ne è stato influenzato, anzi, direi che ne è stato determinato. Un grande ruolo viene svolto dalla metafora: la prima strofa è tutta piena di metafore, cioè di immagini simbolo che indicano qualcosa che sta fuori della poesia. È il fuori della poesia che è determinante. O meglio, è l’interno della poesia che reagisce al fuori con un di più di impenetrabilità, e questa impenetrabilità è, appunto, lo scrigno del tempo della poesia, una sorta di «tempo interno» che è regolato da un cronometro tutto diverso da quello che registra il «tempo esterno» alla poesia. Il lettore ha la percezione che questa collisione, questo attrito tra i due «tempi» è quello che genera la struttura della poesia: il suo metro libero, le sue pause, le sue riprese.

E in effetti, una caratteristica della migliore poesia svedese è la impenetrabilità di quello che io indico «tempo interno» della poesia, della sua struttura a chiocciola, ellittica, a fisarmonica, elicoidale, sinusoidale che converge verso l’interno, ma in modo elusivo, sfuggente. Una poesia priva di «chiusura», priva di lucchetto, che lascia lo spazio per un altro spazio, dove non ci sono porte di uscita, o meglio, dove ci sono più porte. Infatti, l’ultimo verso della prima poesia suona:

Il tuono si raccoglie prima della visita
che tutto dice ma non chiude affatto.

La seconda poesia ha un inizio fulminante:

In mezzo alla vita questa porta nella tappezzeria:
deve esserci sempre stata
sebbene non ce ne siamo mai accorti.
La apro

Qui il tempo cronometrico della vita quotidiana viene squarciato da un momento, un istante privilegiato che indica la rottura della simmetria temporale per una violenta intromissione di un altro «tempo» durante il quale i protagonisti della poesia dichiarano di non essersi mai accorti della esistenza di una «porta». Il protagonista dice semplicemente: «La apro», con tutto quel che segue.
È un modo straordinariamente normale di introdurre il «tempo interno» nel tempo cronometrico che esiste là fuori, fuori della poesia.

Oltre la linea

Nel 1950, in occasione del sessantesimo compleanno di Martin Heidegger, Ernst Jünger pubblicò il saggio Oltre la linea, dedicato al tema che attraversa come una crepa non solo tutta la sua opera, ma quella di Heidegger e tutto il nostro tempo: il nichilismo. Questa parola era stata evocata da Nietzsche, come se in essa si preannunciasse un «contromovimento», un al di là del nichilismo. Dopo che la storia ha «riempito di sostanza, di vita vissuta, di azioni e di dolori» le divinazioni di Nietzsche, Jünger si domanda in questo saggio, che rimane uno dei suoi testi essenziali, se è possibile «l’attraversamento della linea, il passaggio del punto zero» che è segnato dalla parola niente. E precisa: «Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente e non ne ha subìto la tentazione conosce ben poco la nostra epoca». Cinque anni dopo, Heidegger raccolse la sfida e rispose a Jünger con un testo che è anch’esso essenziale nella sua opera: La questione dell’essere.

Nietzsche definì il nichilismo «il più inquietante fra tutti gli ospiti» del nostro tempo.

Andare «oltre i limiti della verità», oltre «la linea» scrive Heidegger (1955) in risposta a Junger in un saggio intitolato «Oltre la linea (1955).

L’essenza del nichilismo,

considerato come la normale condizione dell’uomo di cui trattano il saggio Oltre la linea, risiede nell’oblio dell’essere, nella totale soppressione dell’ombra, del chiaroscuro, dello sfumato. Secondo Heidegger, è errato pensare ad un «oltrepassamento del nichilismo», pena il ricadere nello stesso errore che ha portato all’oblio perché non possiamo oltrepassare nulla senza modificare il linguaggio in quanto prigionieri del linguaggio.

L’«oltrepassamento» diventa problematico nel momento in cui la linea che segna il bordo è messa in pericolo. Essere presso di sé, o inseguire lo «Straniero», la «Maschera», l’«Altro», il «Sosia» è possibile solo come un attendersi, come uno sporgersi verso quel confine che non possiamo individuare con esattezza e che non possiamo neanche sperare di oltrepassare. Confine che si dà in modo privilegiato nel pensiero della morte, o del vuoto che si apre dietro la soglia, nel pensiero delle porte dopo le quali non ci sono stanze:

Ci sono porte ma non ci sono stanze.
Ci sono voci ma non ci sono echi.
Tutto è abbreviato come se la Storia
avesse preso una scorciatoia attraversandomi.

(Via lattea, Aracne, 2010, p. 89)

Non resta dunque che sopportare l’«aporia» in cui ci getta un tale pensiero, «aporia» come impossibilità di oltrepassare la soglia, aprire una porta, come impossibilità della possibilità, come qualcosa di molto simile alla «morte» apparente di cui parla Heidegger, che è l’angoscia. Quella morte apparente che per Kjell Espmark è l’esistenza. Il pensiero conforme all’aporia è un pensiero che non sa più dove andare, afferma Derrida, ma che sa dove sostare. Sosta appunto davanti «a una porta, a una soglia, a un confine, a una linea, o semplicemente al bordo o all’abbordo dell’altro come tale».1] Sosta presso una porta aperta, o una porta chiusa. Essere catturati dal confine, soggiornare nel confine significa tollerare l’aporia come altamente problematica, come ciò che fonda il significato, il senso del nostro abitare il mondo. 

Il pensiero conforme all’aporia allora diventa una esperienza frammentata e sempre ripresa, interminabile, nella quale si ha a che fare con una petizione, una chiamata, un dovere che non deve niente a nessuno, «che per essere un dovere deve non dovere niente»,1bis] un super dovere insomma, che ordina di agire al di là delle regole e delle norme. Se è vero che una decisione davvero responsabile non deve rispondere ad un qualche ordine prestabilito, ad un sapere presentabile, prendere una decisione di questo tipo significa interrompere il rapporto con ogni determinazione presentabile ma mantenere invece il rapporto con l’interruzione, dove l’interruzione somiglia alla soglia, alla linea divisoria.

Per Heidegger il capolavoro della ragione sta nel riconoscere il punto in cui bisogna cessare di ragionare,

i tentativi di oltrepassare la linea che non restano invischiati nella stessa sono ancora, secondo Heidegger, «in balia di un rappresentare che appartiene all’ambito in cui domina la dimenticanza dell’essere».2] Sarebbe quindi bene non parlare di «oltre» la linea ma di «su» la linea, per indicare il raccogliersi presso questa località senza deviare né passare oltre ma sostando e sollevando l’enigmaticità dell’ovvio. È vero: più ci approssimiamo alla linea più essa si dissolve. dobbiamo a questo punto tornare indietro, volgerci al «dimenticato», sostare in un raccoglimento, anelare un ritorno verso quelle località originarie dove il pensiero diventa  «rammemorante».

Questa ricerca è quella che opera il linguaggio poetico.

In fondo, nel nostro stesso dire «io» ricorriamo a un linguaggio, dipendiamo dal sistema delle parole, dalle loro leggi. Qualsiasi tentativo di appropriazione si muta in una «distanziazione». Nel volgerci verso il linguaggio poetico scopriamo la distanza. Ma questa «distanziazione» è però sempre un modo di approssimarsi, una ricerca di prossimità.3] Non resta quindi che assumere le spoglie di altre maschere, di altri personaggi. Esplorare i confini di altre maschere ci porta in prossimità delle «cose»; allora possiamo abitare i bordi e affacciarci  sull’ abisso.

Il grande poeta è colui che osa gettare lo sguardo dentro l’abisso del nichilismo. Kjell Espmark è uno dei pochi poeti che ha osato nel nostro tempo del disimpegno e del minimalismo sfidare le colonne d’Ercole della nostra epoca.

Il pensiero estremo ha a che fare con l’estremità del pensiero,

è affine all’abisso del quale il pensiero non può non provare nostalgia. Tutto ciò  ha  a che fare solo con situazioni estreme dell’esistenza; il pensiero poetico non può che sostare ai bordi linguistici di queste esperienze estreme. Avvertiamo qualcosa di simile quotidianamente, come quando ci accorgiamo che ciò che diciamo non corrisponde esattamente a ciò che pensiamo, e ciò che pensiamo non corrisponde esattamente a ciò che avvertiamo e  notiamo uno scarto tra significato e significante e ascoltiamo il richiamo che proviene dalle crepe che si aprono nel muro dell’ovvietà; a questo punto avvertiamo oscuramente lo spaesamento, una sorta di labirintite, il divario che si apre tra noi e noi stessi, nel nostro stesso pensiero pensato avvertiamo la presenza di un impensato, un inconciliato, un inconciliabile, un estraneo. E veniamo gettati nell’angoscia. Qui, in questo punto, risiede il fascino sinistro che l’abisso esercita su di noi, che ci rende evidente, all’improvviso, che quelle crepe nascondono in realtà un abisso, che ci attrae.

L’angoscia è la percezione della nullità del nostro Ego, quel «solido nulla», per dirla con Leopardi, che costituisce la nostra soggettività, quella forza nullificante che annienta il mondo sotto forma di volontà di potenza, ma che può anche vivificarlo, renderlo significativo.

Kjell Espmark pensa l’uomo irretito nella falsa immagine di sé e nel falso sembiante, radicato nella dimensione inautentica dell’esistenza Continua a leggere

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Anna Ventura OTTO POESIE INEDITE SUL TEMA DELL’AUTENTICITÀ Capote, Zio Gudio, La stele di Rosetta, Il coniglio bianco, I pezzi cadevano per terra, Le teste piccole, “Gli antenati – La poesia delle «cose» normali. L’inautenticità è come una ruggine che si deposita sulle parole – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

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Anna Ventura è nata a Roma, da genitori abruzzesi. Laureata in lettere classiche a Firenze, agli studi di filologia classica, mai abbandonati, ha successivamente affiancato un’attività di critica letteraria e di scrittura creativa. Ha pubblicato raccolte di poesie, volumi di racconti, due romanzi, libri di saggistica. Collabora a riviste specializzate ,a  quotidiani, a pubblicazioni on line. Ha curato tre antologie di poeti contemporanei e la sezione “La poesia in Abruzzo” nel volume Vertenza Sud di Daniele Giancane (Besa, Lecce, 2002). È stata insignita del premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tradotto il De Reditu di Claudio Rutilio Namaziano e alcuni inni di Ilario di Poitiers per il volume Poeti latini tradotti da scrittori italiani, a cura di Vincenzo Guarracino (Bompiani,1993). Dirige la collana di poesia “Flores”per la  Tabula Fati di Chieti.

Suoi diari, inseriti nella Lista d’Onore del Premio bandito dall’Archivio nel 1996 e in quello del 2009, sono depositati presso l’Archivio Nazionale del Diario di Pieve Santo Stefano di Arezzo.

È presente in siti web italiani e stranieri; sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, portoghese e rumeno pubblicate  in Italia e all’estero in antologie e riviste. È presente nei volumi: AA.VV.- Cinquanta poesie tradotte da Paul Courget, Tabula Fati, Chieti, 2003; AA.VV. e El jardin,traduzione di  Carlos Vitale, Emboscall, Barcellona, 2004. Nel 2014 per EdiLet di Roma esce la Antologia Tu quoque (poesie 1978-2013). È presente nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo Progetto Cultura, Roma, 2016.

L’autenticità

L’autenticità è un fiore
che sa di essere un fiore,
un gatto che sa
di essere gatto,
una donna che sa
di essere donna: perciò,
se possibile,
conserva il suo mistero.

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Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

C’è la possibilità che il XXI secolo riesca anche peggiore di quello che ci siamo lasciati alle spalle. Le peculiarità della rivoluzione elettronica di questi ultimi due decenni con l’annesso problema della globalizzazione economica e finanziaria, hanno avuto (e avranno) una ripercussione negativa sulle capacità del linguaggio ad esprimere una comunicazione estetica o, addirittura, una comunicazione purchessia tra gli esseri umani. Nella poesia di Anna Ventura, nella sua veste dimessa e colloquiale, è presente la consapevolezza della precarietà e della vulnerabilità insite in ogni atto di comunicazione e della stessa esistenza umana. Nel suo stile disadorno e inappariscente, Anna Ventura spoglia le «cose», le vuole nude quali sono, senza gli orpelli che le ingiungono gli uomini. L’atto dello scrivere è per lei uno scandaglio dell’intelligenza e uno scandalo della saggezza.

La Ventura ha la percezione della estrema precarietà da parte di uno scrittore o di un poeta di trovare un linguaggio non ancora sporcato, o consunto dai luoghi comuni, svuotato dalla inflazione scriteriata indotta in esso dalla moltiplicazione delle emittenti linguistiche della nostra civiltà mediatica. La poetessa abruzzese non ama la poesia-confessione, la poesia del cuore ferito che oggi molte poetesse prediligono in quanto facilmente recettibili. Nella sua poesia non c’è mai alcuna confessione, anzi, questa viene guardata con estremo sospetto. Per la poetessa abruzzese confessione vuol dire confusione e menzogna, innanzitutto verso se stessi e poi verso gli altri; la poesia deve tornare a nominare una parola chiara e trasparente, è una moneta con due facce, ma una moneta trasparente, attraverso la quale puoi vedere entrambe i lati, semmai è il verso libero che viene adoperato in modo singolare, con dei rientri e delle giustapposizioni che mettono in evidenza il significato delle parole, e ciò appare chiaro in certi enjambement molto puliti, direi educati.

In una poesia paradigmatica, Zio Gudio, avviene un fatto paradossale: durante un terremoto i parenti di un esiliato politico si rifugiano tutti insieme a casa dell’esiliato come in un territorio franco. La poetessa si limita ad elencare i fatti nudi e crudi, i ricordi della figura zio Gudio il quale, ad ogni parata del fascismo, veniva prelevato e messo in prigione. Quasi un resoconto stenografico. Con i ricordi insignificanti della poetessa bambina:

…….. Fuori, nel giardinetto,
c’era la tartaruga Uga,
e mi veniva concesso di andarla a vedere.

Perché nella vita l’insignificante è inestricabilmente intrecciato con il significativo. Nel finale della composizione, c’è solo la registrazione di un pensiero che le attraversa la mente: «È questa, la gente», con quella dizione «gente» che vibra di intenzionato genericismo. È una poesia della descrizione della «normalità» con cui avvengono le «cose». La poesia adotta un punto di vista «normale» per un tipo di esposizione «normale», quella scandita dalla successione temporale e spaziale degli eventi. Uno stile della «normalità» per le cose della cosiddetta normalità, o meglio, che la pubblica opinione considera «normali».

Il «silenzio» è quel quid che si insinua in mezzo ad una quantità di cose «normali», in mezzo ad una quantità di «rumore». Possiamo dire che il «silenzio» di questa poesia abita la «normalità» delle «cose». Possiamo dire che la poesia di Anna Ventura si occupa, wittgensteinianamente, «di ciò di cui si può parlare», lasciando cadere «ciò di cui non si può parlare».
Il problema se il poeta debba parlare o restarsene in silenzio, è divenuto, dopo Auschwitz, un problema sempre più serio impellente, ma è proprio nel mezzo della civiltà mediatica che un poeta degno di questo nome non può non avvertire la pressione del «silenzio» e della «inautenticità» che sovrasta ogni atto comunicativo umano. L’inautenticità è come una ruggine che si deposita sulle parole. È questa la problematica centrale della poesia di Anna Ventura: il racconto di una sobria e dimessa inautenticità, un resoconto icastico e disilluso dei fatti, delle nude «cose», con rarissime inserzioni dei pensieri dell’autrice, che resta sempre al di fuori delle composizioni, come un estraneo o un terzo escluso. È il modo intelligente di Anna Ventura di convocare il lettore: Tu quoque, come scritto nel titolo della omonima Antologia delle sue poesie del 2014.

Scrive George Steiner: «La nostra civiltà, grazie alla disumanità che ha messo in mostra e condonato – siamo complici di ciò che ci lascia indifferenti – ha perso i propri diritti a quel flusso indispensabile che si chiama letteratura. Non per sempre, non ovunque, ma soltanto in questo tempo e in questo luogo, come una città assediata perde i propri diritti alla libertà dei venti e al fresco della sera al di fuori delle proprie mura».1

1 In Linguaggio e silenzio, Rizzoli, 1972 p. 71

Poesie inedite di Anna Ventura

Capote

È tornata all’improvviso,
nel mio immaginario,
la zia di Capote, quella
dell’ “Arpa d’erba”. Il suo mantello leggero,
il cappello di velluto
ornato di fiori finti,
appeso all’attaccapanni di legno
dell’ingresso della casa. Per dire
che lei non c’è più, è andata a finire chi sa dove,
e questo è irrevocabile.

.
Zio Gudio

Zio Gudio stava sempre seduto
davanti al caminetto acceso, e con l’attizzatoio
tracciava segni sulla cenere.
Era un uomo bellissimo, ma non sapeva di esserlo,
come non sapeva di essere
un martire dell’Idea,
quasi un eroe.
Era nato per le cose più nobili,
ma non lo sapeva. Il Regime
lo aveva mandato al confino
per vari anni, e lì lui aveva imparato
a dormire nella baracca, a mangiare poco,
a dissetarsi con un bicchiere di acqua.,
ad avere un solo vestito
e un solo paio di scarpe. Quando c’erano
le parate del Regime, zio Gudio
veniva prelevato e tenuto in prigione
per due giorni. Lui
non faceva una piega. Erano amiche,
mia madre e la moglie di zio Gudio, per cui,
ogni tanto, li andavamo a trovare. Mia madre,
per scusarsi della mia presenza ingombrante,
non faceva che dire che io,
a scuola, avevo tutti dieci. Loro
non commentavano mai
una tale meraviglia, invece
mi guardavano sempre con occhio compassionevole,
e mi offrivano un biscotto secco. Fuori, nel giardinetto,
c’era la tartaruga Uga,
e mi veniva concesso di andarla a vedere.
Qualche volta ho avuto la fortuna di incontrarla,
ma non ho mai osato toccarla: Uga
era un mostro sacro, un tabù.
Durante un terremoto,
io e mia madre fummo ospitate
a casa di zio Gudio, che era a filo di giardino,
per cui era più facile scappare all’aperto.
Sul pavimento eravamo stesi in tanti,
amici e parenti che non conoscevo,
un tappeto umano che mi fece pensare:
“È questa, la gente”.
Credo che zio Gudio meritasse
un qualche pubblico riconoscimento,
ma ciò non è accaduto. Questo
è un tentativo tardivo
di averla vinta sul silenzio
degli uomini e della storia.

Gli antenati

Gli antenati,
avvocati, medici, notai,
avevano studiato a Napoli,
per poi tornare a casa, il castelletto di famiglia,
lo stemma sul portone, i ferri battuti nel cortile,
scale di pietra, stanze disadorne. Sciamati
i giovani per il vasto mondo, i vecchi,
rimasti soli,
si erano fusi con i muri,
i balconi, le finestre sgangherate, il camino
ultimo approdo di tiepido conforto.
La cucina deserta, le derrate
nascoste in credenze vacillanti, i biscotti secchi
accompagnati da rosoli terribili,
caffè lunghi, vino per la Messa. La Dignità,
signora del castello,accoglieva tutti
nella grigia veste: da cui,
colorate come quelle di Piero,
uscivano le testine di famiglia.

.

Il coniglio bianco

C’è un coniglio bianco
sulla mia scrivania. Mentre, con la destra,
scrivo, con la sinistra
mi accerto
che il coniglio stia sempre al posto suo:
c’è.
Perché è di coccio,
pesante come un sasso, e nulla
lo smuoverebbe dalle cose
che tiene ferme col suo peso. Perché
questo è il suo compito:
tenere ferme le cose. Un giorno
avvenne un incantesimo:
il coniglio aveva cambiato consistenza: il pelo
era vero,
bianco, morbido e setoso, la codina
si muoveva.
Ci guardammo negli occhi,
io e il coniglio:
eravamo entrambi vivi, ma
non avevamo sconfitta la paura.

.
La stele di Rosetta

Ha tre lingue, la stele di Rosetta:
geroglifico, demotico, greco,
scritta in onore del Faraone Tolomeo V Epifane.
Elenco di tutte le cose giuste che fece il Faraone tredicenne:
Cose giuste per i Sacerdoti,
ma anche per la gente comune.
Cose giuste per l’acqua, per la terra,
per il fertile limo del Nilo.
Immaginiamolo per un attimo
sfuggito all’oppressione del suo ruolo:
un bambino magro, scuro,
con gli occhi sghembi
e la boccuccia larga,
uno che corre in mezzo all’erba
e si nasconde tra le canne.
Regaliamogli un aquilone.

.
I pezzi cadevano per terra

Forse dovrei smettere di tornare, sempre,
al balcone dove le bambole prendevano il sole,
alla sedia minuscola stretta
tra la stufa verde
e i mattoncini delle fornacelle:
bianchi e blu, con puntini rossi in mezzo.
Quell’anno che mia madre e Detta
tagliavano la legna in cucina,
sopra a un cavalletto. I pezzi
cadevano per terra, io li raccoglievo,
li mettevo in una nicchia: ero
troppo debole per cambiare le cose. Fuori
c’era la guerra.
Gli ori, stretti in una sacchetto di tela,
stavano in petto a mamma.
Ora ho il mare e i fiori sul terrazzo,
mi debbono bastare.

.
Le teste piccole

Ora, nei paesi poveri,
nascono i bambini
con le teste piccole: le mamme
se li coccolano, li avvolgono
in scialli colorati.
Non importa,
se sono un po’ mostruosi: le donne
da tempo hanno accettato l’imprevisto,
lo scherzo della sorte
che travalica ogni previsione. Loro
non fanno più previsioni,
vivono la realtà,
la fronteggiano con umiltà e coraggio,
non si chiedono mai
di chi possa essere la colpa.
Né dove sia il rimedio; il rimedio
non c’è, non c’è l’abbaglio del futuro. Loro
stanno qui,
sulla crosta della terra,
finché dura il respiro,
finché dura il dolore,
finché durano gli scialli colorati.

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Donatella Bisutti testi tratti da Rosa alchemica (Crocetti, 2011, 150 € 14) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: “Torniamo a parlare con la luna”

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Donatella Bisutti è nata e vive a Milano. È giornalista professionista. Ha collaborato in particolare alla collana I grandi di tutti i tempi (Mondadori) con volumi su Hoghart Dickens e De Foe e ha tenuto per otto anni una rubrica di poesia sulla rivista Millelibri (Giorgio Mondadori editore). Nel 1984 ha vinto il Premio internazionale Eugenio Montale per l’inedito con il volume Inganno Ottico (Società di poesia Guanda,1985). Nel 1990 è stata presidente della Association Européenne pour la Diffusion de la Poésie a Bruxelles. Di poesia ha poi pubblicato Penetrali (ed.Boetti & C 1989), Violenza (Dialogolibri, 1999), La notte nel suo chiuso sangue (ed. bilingue, Editions Unes, Draguignan, 2000), La vibrazione delle cose (ed. bilingue, SIAL, Madrid, 2002), Piccolo bestiario fantastico,(viennepierre edizioni , Milano 2002), Colui che viene (Interlinea, Novara 2005, con prefazione di Mario Luzi). È in via di pubblicazione a New York l’antologia bilingue The Game tradotta da Emanuel di Pasquale e Adeodato Piazza Nicolai (Gradiva Publications, New York). La sua guida alla poesia per i ragazzi L’Albero delle parole, è stata costantemente ripubblicata e ampliata dal 1979 e attualmente edita nella collana Feltrinelli Kids (2002). Il saggio La Poesia salva la vita pubblicato nei Saggi Mondadori nel 1992 è negli Oscar Mondadori dal 1998. Nel 1997 ha pubblicato presso Bompiani il romanzo Voglio avere gli occhi azzurri. Fra le traduzioni il volume La memoria e la mano di Edmond Jabès (Lo Specchio Mondadori 1992), La caduta dei tempi di Bernard Noel (Guanda 1997) e Estratti del corpo sempre di Bernard Noel (Lo Specchio Mondadori 2001).Il suo testo poetico “L’Amor Rosa” è stato rappresentato come balletto al Festival di Asti con musica del compositore Marlaena Kessick. Ha curato per Scheiwiller l’edizione postuma delle poesie di Fernanda Romagnoli, dal titolo Il Tredicesimo invitato e altre poesie (2003). È nel comitato di redazione della rivista «Poesia» di Crocetti per cui cura la rubrica «Poesia Italiana nel Mondo», nella redazione delle riviste «Smerilliana» e «Electron Libre» (Rabat, Marocco), tiene una rubrica di attualità civile, «Il vaso di Pandora», sulla rivista «Odissea» e una rubrica di interviste «La cultura e il mondo di oggi» sulla rivista di Renato Zero «Icaro». Collabora a diversi giornali e riviste, tra cui l’Avvenire, Letture e Studi Cattolici, Fonopoli, Leggendaria, La Clessidra, Semicerchio. È membro dell’Associazione Culturale Les Fioretti a Saorge in Francia. Tiene corsi di scrittura creativa per adulti, corsi di aggiornamento per insegnanti anche a livello universitario e laboratori di poesia per le scuole. Ha ideato e dirige la collana di poesia autografata “A mano libera” per le edizioni Archivi del ‘900 in cui sono apparsi finora testi di Luzi , Spaziani e Adonis. È tra i soci fondatori di “Milanocosa”.

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: Torniamo a parlare con la luna

 Parafrasando Nietzsche si può dire che «la Poesia è una specie di errore senza il quale una determinata specie di esseri viventi può vivere benissimo».

 Del libro di Donatella Bisutti ho scelto le poesie che parlano con la luna. Qualcuno ha sostenuto che «parlare con la luna» è oggi un atto ingenuo e sproblematizzante, io invece ritengo vero il contrario: «tornare a parlare con la luna» è un atto di indipendenza intellettuale e di contro conformismo. Si badi, non dico anti conformismo, dico un’altra cosa. La poesia irta di «oggetti» del quotidiano e del privato mostra tutti i suoi punti deboli, non si sa neanche più che cosa siano il «privato» e il «quotidiano». Dove si trovano gli oggetti? E quali oggetti?. Si danno oggetti se c’è una cornice iconico-simbolica e all’interno di una procedura e di un orizzonte iconico-simbolico. C’è una gerarchia degli oggetti come qualcuno vorrebbe farci credere? O sono tutti eguali? La problematizzazione che una certa cultura ha indotto, che cioè fosse fatuità scrivere poesie sulla luna, non ci convince più, è stata una pessima sproblematizzazione, una prescrizione che ha investito la poesia che è stata colpita dal tabù della nominazione. La «luna» era innominabile, e così via. Una cultura che istituisce tabù è una cultura della morte, che si avvia all’isterilimento. Quando la sproblematizzazione investe non solo il soggetto ma anche e soprattutto l’oggetto, prescrivendo tabù e divieti, ciò determina un duplice impasse narratologico, con la conseguenza della recessione di interi temi nell’indicibile in poesia e di interi generi a kitsch.

Mai forse come nel nostro tempo la «dicibilità» di alcuni temi della poesia come genere è precipitata nell’indicibile: una grande parte dell’esperienza significativa della vita di tutti i giorni è oggi preclusa alla poesia, per aderire al genere romanzesco della narratività: il romanzo, il diario, la biografia, la biografia romanzata, il diario romanzato…

Direi che l’ordinamento della cultura con il suo semplice prescrivere il dicibile, bandisce tutto ciò che non è immediatamente dicibile nei termini della sua sintassi e del suo lessico. L’indicibile diventa ciò che non è più tematizzabile secondo un certo cliché culturale. Ecco spiegata la ragione del trionfo del minimalismo artistico che fa le fiche al minimalismo mediatico come cannibalismo e duplicato della comunicazione.

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Com’è risaputo, oggi i poeti non scrivono quasi più poesie sulla luna, si dà per scontato che si debbano scrivere poesie irte di «quotidiano», di «privato», di «oggetti domestici». Si afferma che essi sono i veicoli delle esperienze significative. Io penso invece che questo approccio si limita a comunicare il comunicabile, e in tal guisa non fa altro che duplicare la tautologia. C’è oggi un’oggettiva difficoltà ad affrontare, in poesia, la problematica di un’«esperienza significativa». Qualcuno si chiederà: «Che cos’è una esperienza significativa?». In realtà, si tratta di un oggetto poco rischiarato dalla riflessione filosofica. «Si possono scrivere poesie sulla luna?»; Si possono scrivere poesie che mandano segnali di fumo su Marte?; dove sono le poesie che parlano con la Luna?, o che mandano segnali  su Marte?

Conseguenza inevitabile dell’impasse in cui è caduta la poesia contemporanea è che si parla innanzitutto molto più del «soggetto», dei suoi ruoli e del suo luogo, che dell’«oggetto», perché il «soggetto» ha cessato di funzionare come principio, o come principio regolatore, ma si è diffuso ovunque, è diventato un «soggetto diffuso», egolalico, ipertrofico. Per contro, si parla molto meno dell’oggetto che del soggetto, così che il discorso poetico si dissolve in una miriade di appercezioni soggettive, in una fenomenologia delle percezioni soggettive.

Grandissima parte della migliore poesia contemporanea assume senza battere ciglio il logos sproblematizzato della «soggettività», e finisce nella reificazione delle forme espressive.

La poesia dell’«esperienza» ha bisogno di un universo simbolico entro il quale prendere dimora e di un rapporto di inferenza tra il piano simbolico e l’iconico; in mancanza di questi presupposti la poesia dell’io cessa di esperire alcunché e diventa qualcosa di autocentrico ed egolalico, la carnevalizzazione di se stesso, esternazione del dicibile sul piano del dicibile: ovvero, tautologia.

Se l’orientamento della poesia verso un orizzonte iconico-simbolico manca, manca la poesia il proprio bersaglio. Non v’è orientazione semantica senza orientazione verso un mondo iconico. Così la poesia si limita ad esprimere il senso che può, al di qua di ciò che intende e al di là di ciò che attinge. Il compito che oggi arride alla poesia è appunto ricostruire una relazione iconico-simbolica, dare il foglio di congedo permanente  alla procedura di relazionare il significato al significante.

In un mondo in cui le relazioni umane sono diventati un problema tra gli esseri ridotti a vasi incomunicanti di un messaggio assente, resta il problema di come tornare a fare poesia sulla luna, e con la luna; di come liberare le emozioni dalla cella dell’io che racchiude l’inautenticità del quotidiano.

Qualcuno potrebbe obiettare che «oggi è possibile soltanto una poesia dell’inautenticità e del falso». Io mi limito a rispondere che la poesia «falsa» la puoi riconoscere dal suo disvalore semantico, dalla fasulla significazione, come una moneta falsa la puoi riconoscere dal suo falso tinnire.

Osip Mandel’stam ha scritto che un poeta fa poesia quando «scambia segnali con Marte», e io aggiungerei, perché no, anche con la luna.

cinese drago Si racconta che nei tempi antichi, in Cina, quando arrivava un'eclissi di sole, si usasse battere i tamburi per cacciar via il dragone che si stava ...

cinese drago Si racconta che nei tempi antichi, in Cina, quando arrivava un’eclissi di sole, si usasse battere i tamburi per cacciar via il dragone che si stava …

Donatella Bisutti

Divagazioni sulla luna

Quel fiore bianco sull’acqua
era già appassito nei sogni

*

Nell’acqua riflessa
una luce al di là.

*

Nel cielo
la luna si fa interrogativo

*

Canzonetta

Per te
voglio essere notturna.
Nell’oscurità offrirti
la mia luna.

*

Si provarono in tanti a disegnarla:
uno solo vi riuscì
che lasciò uno spazio bianco
e, intorno, il cielo.

 

(Donatella Bisutti)

Penetrali

La luna era dietro,
pallida come volto di bambina,
smorta come fiore abbandonato
ad acqua oscura –
Attraverso lo squarcio delle nuvole
in quel punto il cielo può essere colpito.

*

Poiché solo nel buio appare si dimentica
che la luna è in cielo anche di giorno.

*

A che tu m’afferri
fra le nuvole – impaurita –
mi dileguo

*

Dal bianco foro della luna sfugge
la luminosità del cielo.

*

Eclissi

Se ti frapponi opaco
fra me e la luce
io non sono più nulla

*

Scia

Sul mare i passi della luna
____________________

in cima al cielo.

*

un chiarore
al bordo delle nuvole
il sorriso interiore della notte.

*

Gli angeli annuvolano la spiga della luna
e una falce è il contorno del suo viso.

.
Eternità

Tu sarai il coltello che affonda
nei bui interstizi del cielo.
Io sarò la tua notte silenziosa
affinché tu penetri
negli interstizi del silenzio e accenda
un alfabeto di faville

Aperto dal coltello il frutto del cocco
gocciola il suo denso latte.
Una stessa luna racchiude falce e frutto,
ma guarda alla docilità del coltello.

Una stessa docilità accomuna
la lingua della mite candela che divora il buio
e la favilla che si affida.
È il cielo che si spoglia per la luna
o è nuda la luna per il cielo?

Albero della mia nave
la tua punta squassata infilza il vento.
Nell’oscurità del legno il fuoco sale
fino alla fredda luce quieta delle stelle.

Non ricomporrai il filo
delle perle che la notte ha sparso,
a quella sempiterna, a quella chiara
luce ordinando il cosmo.
L’inquieto sciame ogni notte divora
il madido frutto della luna.

Sii legna e taglialegna.
Dalla circoncisione del tronco
alto si leva lo sciame delle lettere.
Più vicino – per questo solo più ardente alfabeto
firmamento più effimero
di quello delle stelle.

Sola
eternità è la docilità che si consuma.


Piccola Apocalisse di neve

Il cavaliere di neve porta alto
il calice del liquido splendente
ventaglio fiammeggiante
il vaso della forma originaria.
L’isola dei beati all’orizzonte del giorno.

.
L’angelo del giorno

L’ala dell’angelo ruota all’orizzonte
precipita il mondo in un’infanzia di luce.
Quando la luna matura lenta dall’opale
una falce è il contorno del suo viso.

.
Due bambini

La spiaggia, ma buttata
da immondizie e ristagni.
In quel padule
giocano due bambini con i ricci sporchi,
due putti barocchi usciti da una loro
nicchia dorata fanno segno
che mi avvicini
e quando li ho raggiunti
con una benda d’alghe puzzolenti

.
Lo sguardo

Il gatto
apparve dal fondo del giardino
leccò un po’ dalla ciotola
poi sedette immobile
lo sguardo dritto fisso
le sue pupille nelle mie pupille
senza ringraziare né chiedere
solo guardare.
ed io fui intera nelle sue pupille
interamente dentro quello sguardo
senza giudizio senza attesa
quietamente fui.
mi ricoprono gli occhi

.
Selbst

La stanza
la voglio monacale:
una precisa
porzione di infinito.
ed io
dentro
a risuonare il vuoto.

.
Lezione di bicicletta

La mia prima bicicletta a due ruote
tu mi tenevi il sellino
davanti al paesaggio d’estate
vuoto
finché perduta la pazienza
ricordo i tuoi
schiaffi sonori sulle guance.

Così mi spingesti
verso l’infinito
ho imparato a pedalare per sfuggirti
muovendo i piedi ho incontrato i pedali
non avevo altro modo per sottrarmi
trovando in qualche modo un equilibrio
ho affrontato la vita per paura.

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Ubaldo de Robertis SETTE POESIE INEDITE SUL TEMA DELL’AUTENTICITÀ – Lo spartiacque, Qualunque sia…, Frammenti di… Eden, Nella dimensione di Jung,  XXI Agosto, L’Anfora, Quanto tempo è trascorso? con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa, Video a cura di Paolo Cenni con il Requiem di Ligeti

Ubaldo de Robertis ha origini marchigiane e vive a Pisa. Ricercatore chimico nucleare, membro dell’Accademia Nazionale dell’Ussero di Arti, Lettere e Scienze. Nel 2008 pubblica la sua prima raccolta poetica, Diomedee (Joker Editore), e nel 2009 la Silloge vincitrice del Premio Orfici, Sovra (il) senso del vuoto (Nuovastampa). Nel 2012 edita l’opera Se Luna fosse… un Aquilone, (Limina Mentis Editore); nel 2013 I quaderni dell’Ussero (Puntoacapo Editore). Nel 2014 pubblica:Parte del discorso (poetico), del Bucchia Editore. Ha conseguito riconoscimenti e premi. Sue composizioni sono state pubblicate su: Soglie, Poiesis, La Bottega Letteraria, Libere Luci, Homo Eligens. E’ presente in diversi blogs di poesia e critica letteraria tra i quali: Imperfetta Ellisse, Alla volta di Leucade, L’Ombra delle parole. Ha partecipato a varie edizioni della rassegna nazionale di poesia Altramarea. Di lui hanno scritto: G. Linguaglossa, F. Romboli, G.Cerrai, N. Pardini, E. Sidoti, P.A. Pardi, M. dei Ferrari, V. Serofilli, F. Ceragioli, M.G. Missaggia, M. Fantacci, F. Donatini, E.P. Conte, M. Ferrari, L. Fusi. È autore di romanzi Il tempo dorme con noi, Primo Premio Saggistica G. Gronchi, (Voltaire Edizioni), L’Epigono di Magellano, (Edizioni Akkuaria), Premio Narrativa Fucecchio, 2014, e di numerosi racconti inseriti in Antologie, tra cui l’Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, 2016 a cura di Giorgio Linguaglossa. In questi giorni è uscita una Antologia delle sue poesie, edizione bilingue, New York, con la Chelsea Editions dal titolo The ring of the universe.

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Scrive Ubaldo De Robertis che l’«Anfora»

“È rotta, – ripete Lei- ahimé! È rotta! L’anfora più bella!
Ne sono sparsi i frammenti qua intorno!”

Ubaldo De Robertis, il poeta che abbiamo ospitato tante volte in questa rivista, è malato… tanto tempo fa qualche particola minutissima di amianto si è posizionata nei suoi polmoni…

ubaldo-de-robertis-the-ring-of-the-universeScrive George Steiner in Linguaggio e silenzio1 :

«Pur trascendendo il linguaggio e lasciandosi alle spalle la comunicazione verbale, tanto la traduzione in luce quanto la metamorfosi in musica sono atti spirituali positivi. Laddove essa finisce o subisce un mutamento radicale, la parola reca testimonianza di una realtà inesprimibile o di una sintassi più flessibile, più penetrante della propria. Ma vi è un terzo modo di trascendenza: in esso il linguaggio ha semplicemente fine e il moto dello spirito non offre nessun’altra manifestazione esterna della propria esistenza. Il poeta entra nel silenzio. Qui la parola non confina più con il fulgore o con la musica, bensì con la morte. Tale scelta del silenzio da parte della creatura più articolata è, ritengo, storicamente recente. Il mito strategico del filosofo che sceglie il silenzio per via della purezza ineffabile della propria visione o perché il suo pubblico non è ancora pronto, ha precedenti antichi. Esso contribuisce al motivo di Empedocle sull’Etna e al distacco gnomico di Eraclito. Ma la scelta del silenzio da parte del poeta, lo scrittore che abbandona a metà strada il suo decreto articolato di identità, è qualcosa di nuovo. Esso si verifica, come esperienza ovviamente singolare ma formidabile nelle sue implicazioni generali, in due dei principali maestri, modellatori, precursori se si vuole, dello spirito moderno: Hölderlin e Rimbaud».

Mi sembra evidente che questa problematica del silenzio evidenziata da Steiner sia anche quella nella quale si imbatte la poesia di Ubaldo de Robertis, non il silenzio degli pseudo mistici ma quello vero, reale, che è collegato con un «vuoto» della lingua che deve essere colmato, e a un «bianco», il colore del non colore, dell’indeterminatezza dell’essere immediato. E, paradossalmente, l’unico modo per colmare questo «vuoto» è il silenzio, o almeno, le parole che richiamano anamnesticamente il silenzio e il suo equivalente nel colore: il «bianco»:

Un dilagare di farfalle bianche
in supremo grado a rifrangere
il silenzio e l’aria si raffina
nitida innocente splende la luna
Ti accorgi che sei parte dell’evento
ti chini a baciare il manto
ci vivi dentro beato

foto-video-vuoto

Il Vuoto

Sicuramente, in questo libro siamo davanti ad un de Robertis che abita il registro lirico, anche se si tratta di una lirica sliricizzata c’è ancora la centratura sull’io e una metratura sinusoidale. Il metro usato varia da quello breve di cinque sillabe al metro libero; si verifica così una oscillazione tra uno stile che privilegia l’allusione e la nominazione della natura in interiore homine e la natura in esteriore homine, diciamo così. Calibratura che il de Robertis degli ultimi lavori si mette dietro le spalle e, direi, con risultati sicuramente più alti e maturi. 1

In queste poesie inedite è avvenuto qualcosa: l’«anfora» «s’è rotta», il mondo è caduto in frantumi, le «cose» sono divenute enigmatiche («si riflettono forse in un gioco di specchi»), il soggetto stesso è in frantumi, anche «lo spartiacque [tra autentico e inautentico]» è andato in frantumi, e al poeta di oggi non resta che raccogliere i frantumi, i relitti e lavorare con questi, fare l’oro con il piombo, rassegnarsi a questo compito ingrato. Ma ecco che de Robertis improvvisamente scopre le incredibili virtù di ciò che è andato in frantumi, scopre che i frammenti sono significativi, parlano molto meglio e più chiaramente degli specchi dorati che pendono dalle pareti edulcorate della poesia di un tempo quando ancora si credeva ad un universo coerente e unitario, alla poesia inscritta in un pentagramma sonoro e sicuro. Oggi il poeta scopre che l’universo non è affatto quel crogiuolo di bellezza e di perfezione dell’universo copernicano, che è intervenuta l’equazione di Dirac, le complicate equazioni della fisica quantistica, scopre l’imponderabile, il probabile, scopre che l’universo è affetto da una «metastasi» invisibile che si chiama raffreddamento universale, entropia, distopie, «seduzioni di fughe», «penombra di labirinti», «imprevedibili trame rimandi», «frammenti di visione» etc. che il tutto si presenta sotto forma, appunto, di «frammenti» enigmatici, che l’essere è lontano ed enigmatico, ermeticamente chiuso nella sua apodittica «incontraddittorietà» (Severino). Sono questi frammenti che ci parlano nella loro lingua, una lingua contraddittoria, a prima vista «cornice di non realtà», de «il mondo [de] le cose che accadono», e ti chiedi: «Cos’è il linguaggio? Cos’è il mondo?»; e ti accorgi che i frammenti «Erano lì fin dall’inizio / bastava cercarli…». Un accavallarsi di interrogativi fitti, dialogici, dialoganti, enigmatici, problematici.
Emergono immagini enigmatiche, primordiali: la «torre», la «fanciulla», la «notte», la «luce», il «caos», il «cerchio», « Le lancette [che] girano in circolo». «Così abissale era? E così rattristante?
La poesia?».

1 George Steiner in Linguaggio e silenzio Rizzoli1, 972 p. 64
1 Ubaldo de Robertis Parti del discorso (poetico), Marco del Bucchia editore, 2014
Ubaldo de Robertis

Ubaldo de Robertis

Poesie inedite di Ubaldo de Robertis

Lo spartiacque [tra autentico e inautentico]

Un’intera notte
[o un suo minuto frammento]
a fare i conti con l’inconscio
a frugare nella penombra di labirinti
a rincorrere seduzioni di fughe
i più rinnegati desideri
imprevedibili trame rimandi
la forma di un rondò di Mozart
il quartetto K.173
o all’angolo estremo
il Violin and String di Morton Feldman
note rare lunghe ripetute
intercalate da silenzi
ti catapultano
al di fuori dei molti tempi
staccati da ogni contiguità
in questa cornice di non realtà
tenti di riappropriarti del tuo mondo
come quel frammento di visione
che stai cercando disperatamente
silenziosamente
di ricordare

Qualunque sia …

Qualunque sia lo spazio
che la fiaccola rischiara
il pallore schiude la strada alle ombre
ed ecco che e gli alberi in fiore
gli astri dal corpo sottile
restano inosservati come donne che s’aggirano
sulla scia di un suono segreto
dentro il guscio rotante dell’oscurità
In realtà ti camminano accanto
ma tu non te ne avvedi
non possiedi la luce
[ interiore ]
che intende e traduce il mondo
a nemmeno riesci a rendere vividi
i ricordi
il nesso che unisce un nome ad una cosa
la traccia di un suono un’immagine un fatto
e nemmeno riesci a muovere le labbra
recitare un brano
di Poesia
La filosofia di Wittgenstein
dovrebbe mostrarti che il pensiero
è il ritratto logico dei fatti
e la totalità dei pensieri veri
è una raffigurazione del mondo
non le parole ma la vita esprime il significato
o il valore degli atti atomici
lo stato di cose gli atti che foggiano
il mondo le cose che accadono e si manifestano
qui sulla terra verde e nell’azzurro dei cieli
e tu ancora ti chiedi vivendo
Cos’è il linguaggio? Cos’è il mondo?

Frammenti di… Eden

[…]
Erano lì fin dall’inizio
bastava cercarli…
fra il brulicare di essenze che la spiaggia solitaria emana
in ogni istante
profumi primitivi inesauribili
se il ricordo tocca limiti estremi
troppo belli si snodano colori stupori
essenze vere
attimi vissuti
dove nessun altro poteva respirare
soltanto i mendicanti o i folli
esultanti nel sentirsi obbligati alle imprese rischiose
morire o rinascere
niente di più eccitante
che trascinare al di qua della distanza [tempo e spazio]
il tuo corpo odoroso
per gettarsi di nuovo a capofitto
il corpo intero
la stessa bramosia
nell’autorizzare gli istinti a consumarsi
il bisogno improvviso di gridare…al mondo..
la stessa vulnerabilità di allora
la fanatica radiosa stupidità
degli innamorati…

Ubaldo De Robertis CECI N'EST PAS UNE PIPE.-1_resized

Ubaldo De Robertis CECI N’EST PAS UNE PIPE.-

Nella dimensione di Jung

Il rampollo del caos scorre in cerchio.
Una fanciulla si sporge in piedi sulla fontana.
Le lancette girano in circolo.
Nessuno si occupa più dell’orologio da almeno sette decenni.
Sulla torre si specchiano immagini suoni remoti
echi che tornano del lungo roteare
[si riflettono forse in un gioco di specchi].
Nessuno conosce la vera posizione.
Altalenante.
In funzione dell’apparente rotazione degli astri
intorno alla sfera rosso fuoco
talvolta troppo vicina
talvolta troppo distante.

Al morire della luce
la fanciulla sconosciuta spiega lo scialle di seta
nel luogo di cui nessuno ha voce per chiedersi:
dov’è?
[come risulterà chiaramente in seguito]

Da strani fiori a sette petali salgono essenze.
Presentimenti.
Congetture si fanno sul sognatore
nel dire che si è trattato di allucinazioni:
La torre
[dislocazione verticale- verso l’alto la seduzione degli astri].
L’orologio.
Gli specchi
[sul lato contrapposto al riflettente giace il sottile strato d’argento].
Il bel giardino dai fiori a sette petali.
Il corpo condiscendente di quella fanciulla.
Lo châle volteggiante al minimo estro di vento.

XXI Agosto

Figure minacciose tutt’intorno
le scruta con gli occhi di un altro
il solo rimedio che può evitargli l’angustia
Hieronymus Bosch in persona gli sta inviando
le creature blu che formano il seguito di Satana
colore della finzione dell’inganno
non Il Giardino delle delizie
l’opera più ambiziosa
olio che ancora padroneggia la tavola
ed egli non è un santo che i demoni non distolgono
dalla propria meditazione
e nemmeno può passare all’adorazione del metafisico
all’occhio che ripercorre di sbieco
come in una storta alchemica
i paesaggi cosmici del passato
certo rimpiange il rosso luminoso vivo
il colore dell’amore giovane
aveva allora diciassette – diciotto anni
seguiva un corso di chimico- fisica
[o forse era poesia irrazionale? ]
il caso ha voluto che ne ritrovasse gli schemi
proprio il giorno del suo settantaquattresimo compleanno
ecco perché bevendo un calice dopo l’altro
ha cominciato ad aprirsi felicemente
con un sorriso del tutto particolare
sprofondava demente nel letargo del sonno
credendo di essere fortunatamente un vero scienziato
[o un vero poeta…]

L’Anfora

Neve in alto
pura
la terra natia
la gola scura
del fiume in basso
la foschia
continua a salire
il sentiero non è più tanto ripido
come prima
l’eco di cose lontane si separa sparge
dissolvenze incrociate
immagini destinate a scomparire
Lui… non le stacca gli occhi di dosso
– Com’è cupo il tuo silenzio – le dice chiamandola con molti nomi
“È rotta, – ripete Lei- ahimé! È rotta! L’anfora più bella!
Ne sono sparsi i frammenti qua intorno!”
Giorno
inoltrato
il limite dell’orrido
di lato
più in su … l’altura da oltrepassare
più agevole scavare un pertugio
nel ghiaccio
scortati dal richiamo di una cosa calda
desiderio che pervade l’ambito dei sensi
e quello della ragione
senza aderire
a nessuno dei due
calore che non si può attingere neppure in prestito
dall’ambiente
dal niente che li circonda
Lui vuole scavare
andare all’indietro
Lei… andare oltre…
Impossibile sanare la frattura
a partire da quel fondo diviso
dal corso d’acqua
e da quella cima dove più cruda è la realtà
nemmeno scalfita dalle parole dell’uomo
di per sé vaghe e vuote
alla donna continuano a cadere di mano
i frammenti raggelati
“È rotta, ahimé! È rotta!
L’anfora più bella!

Quanto tempo è trascorso?

Quanto tempo è trascorso?

Indurisce il verso
sul foglio.
I basalti si consolidano
in superficie.
Non so dove stiamo andando –
si domandano in uscita dalle viscere
del vulcano. –
I bordi dei fuochi carbonizzano parole,
interrogazioni.
Riluce la notte, breve
più di chiunque altra
fuoriuscita volgare:
ceneri
lapilli
vapori
eruzioni dell’anima inondata
contrasti
collisioni
colori

Vivido lo strigile a raschiare
la pelle ferita, sul profondo.
Il corpo esanime
corrotto
avvizzito.

Così abissale era? E così rattristante?
La poesia?

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Pier Luigi Bacchini POESIE SCELTE con una poesia dedicata di Claudio Borghi, un suo Appunto critico e un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Bacchini, Pier Luigi. – (Parma 1927 – Medesano 2014). Dopo aver interrotto gli studi di medicina che aveva intrapreso e aver lavorato per un’azienda farmaceutica, ha esordito nel 1954 con la raccolta di poesie Dal silenzio d’un nulla. Nelle sue opere B. indaga spesso il mondo naturale: Canti familiari (1968), Distanze fioriture (1981), Visi e foglie (1993, Premio Viareggio) e Scritture vegetali (1999). Nel 2003 ha pubblicato Cerchi d’acqua, in cui si misura con la brevità della poesia giapponese, a cui hanno fatto seguito le raccolte: Contemplazioni meccaniche e pneumatiche (2005) e Canti territoriali (2009).

Commento di Claudio Borghi

Bastino queste citazioni per rendere l’idea della poesia di Bacchini, nato a Parma il 29 maggio 1927 e scomparso il 5 gennaio 2014 a Medesano. Negli anni in cui ho scoperto i suoi versi, a partire da Scritture vegetali (Mondadori, 1999), proseguendo con Contemplazioni meccaniche e pneumatiche (Mondadori, 2005) fino a Canti territoriali (Mondadori, 2009), ho sentito netta indelebile una voce nuova che mi entrava dentro, che il mio modo di percepire e pensare il mondo sarebbe inevitabilmente cambiato. La poesia di questo uomo millenario mi è sembrata affondare le radici in una dimensione senza tempo, pur trattenendo del tempo gli umori e le passioni, come volesse, con umiltà e forza, tracciarne il disegno sereno e sapiente, elevandosi dall’angoscia della vita che si consuma a contemplare le forme passeggere che lasciano segni nelle rocce, nella memoria e nella mente, che trattiene la vibrazione di un eterno presente. Quando mi sono reso definitivamente conto di non essere in grado di scrivere una nota critica, mi è sgorgato il poemetto Intonata distanza, di getto, con forza quasi incontenibile. Non sapevo né come né perché né cosa stessi scrivendo, poi, quando è nato, credo di aver capito: era un’anima che premeva sulle pareti della mente, che voleva venire alla luce, nascere, forse rinascere, trovare lo spazio per una nuova emanazione.

Appunto di Claudio Borghi
26 settembre 2016 alle 16:13

L’idea di osmosi o simbiosi è già più interessante del metaforizzare poeticamente le teorie scientifiche o filosofiche. Il riferimento obbligato non può che essere Lucrezio. In Italia, negli scorsi decenni, Pier Luigi Bacchini è stato per me un esempio importante di poeta che ha trovato ispirazione nella scienza, nel senso della scoperta e reinvenzione poetica di idee scientifiche, fisiche, cosmologiche, naturalistiche, biologiche.
Scrivevo in Dentro la sfera:
«Bacchini fa interagire il pensiero scientifico e la forma poetica senza mai cadere nel didascalico o nel celebrativo, intonando una sinfonia del creato che asciuga nella limpidezza del cristallo speculativo la complessità inafferrabile del mondo dei fenomeni. Credo che i tentativi di nuove sintesi vadano accolti come anticipazioni coraggiose di un possibile futuro della poesia, il cui materiale grezzo, la sostanza essenziale dell’ispirazione, può essere lo sdegno morale per l’imbarbarimento dei costumi, la rivolta contro l’indifferenza divina, la testimonianza del dolore gratuito a cui le creature sono destinate, ma anche la vicissitudine speculativa che esplora nuove strade espressive nel travaglio dello scavo e della lettura e decifrazione delle forme che il mondo ci propone in sterminata varietà. La poesia per sua natura naviga solitaria, tentando di catturare scintille di bellezza ed esattezza, nel mare indifferente del tempo».
(dalla sezione finale “Lettere”)

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

La poesia il tempo cronometrico, il tempo interno, il tempo di lavoro Una poesia di Steven Grieco-Rathgeb da https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/09/22/claudio-borghi-poesie-scelte-da-la-trama-vivente-effigie-2016-poesia-metafisica-tra-fisica-e-poesia-non-ce-discontinuita-con-un-commento-impolitico-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-15551

L. Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus scrive che il mondo è tutto ciò che accade, ma omette di dire che se accade, accade nel tempo. Quindi, il tempo è sovrano, la forma sovrana che contiene tutte le cose, penetrandole, dando loro essenza temporale. Analogamente, anche l’arte e la poesia è un accadimento fatto di tempo; possiamo affermare che la Parola è una entità temporale, non solo perché si muove nel tempo ma perché è portatrice di tempo. Il tempo abita l’interno della parola e la circoscrive all’esterno.

La poesia che finora si è fatta in Italia, intendo quella di Pier Luigi Bacchini, considera il tempo soltanto come involucro esterno della parola, e considera il linguaggio poetico ancora in senso novecentesco come interrelazione diacronica e sintagmatica di registri linguistici eteronomi. Ma qui siamo ancora nel pieno delle poetiche tardo novecentesche. Bacchini non immagina nemmeno che possa esservi anche un’altro concetto di Parola come entità, concrezione del tempo. Quello su cui vorrei attirare l’attenzione dei lettori di questa rivista è che dobbiamo liberarci dalla pedissequa concezione del tempo esterno e della eteronomia dei linguaggi, per considerare l’aspetto della temporalità di ogni singola parola. La parola temporalizzata richiede un nuovo concetto di verso che la comprende. Da questo nuovo punto di vista, anche il verso è una entità temporale temporalizzata…

Nella visione mitologica del mondo della Grecia antica, in principio vi è Chronos (il Tempo), in seguito sorgono Chaos, Nyx (Notte), Erebo e Tartaro; nel buio Erebo, Nyx genera un Uovo “pieno di vento”; da questo Uovo emerge Eros dalle ali d’oro; unitosi durante la notte al Chaos, Eros genera la stirpe degli “uccelli”; quindi genera Urano (Cielo) e Oceano, Gea (Terra) e gli dèi tra cui Eros, principio di armonia perché è la forza che spinge gli opposti e i diversi all’unione e all’armonia. Eros quindi, nella visione greca, è più antico di Thanatos, più antico e potente delle Moire, perché in grado di sconfiggerle.
Tale genealogia è ritenuta la più attendibile attestazione della antichità degli dèi attribuibile all’Orfismo,
*
«Quella che un tempo chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato […] Lo sguardo aperto sulla vita è trapassato nell’ideologia, che nasconde il fatto che non c’è più vita alcuna…»
(Adorno, Dialettica dell’Illuminismo).
Così avviene che il «privato» sia un luogo inautentico e come tale è ricettacolo di temporalità inautentica. Il «privato» è per eccellenza il luogo della menzogna deputata alla ipocrisia del sociale, e non potrebbe essere diversamente. L’opera d’arte compie un prodigio: converte l’inautenticità del «privato» nella rappresentazione dell’autentico, dell’autenticamente alienato, e ciò facendo diventa essa stessa «autentica».

pier-luigi-bacchiniPoesie di Pier Luigi Baccchini

Affreschi

Simili ai nostri
sono i modi della sua mente,
le sue meditazioni sulle conchiglie e quelle

musicali sulle sonorità degli imenotteri
fra i brusii e le tenerezze dei venti,
e i tremori e gli urti
della loro violenza.
E con lentezza
Abbiamo calcolato i passaggi
delle scricchiolanti comete.

Verità provvisorie, e altre vere. E Pisanello
è come lui, a guardarlo
tremiamo dentro di noi,
come dinanzi alle rupi e ai boschi.

(da Scritture vegetali, 1999)

Urna di vetro

Ho provato a seppellirmi, per un poco,
dietro la porta, seduto tra le ante
della piccola bussola. –
tutta la botanica del creato
– di là dai vetri, è ridotta a un vialetto
con una quercia, i cedri,
e due emerocallidi.

I godimenti di una volta,
quando l’organismo era me stesso
secondo il desiderio – tutta la materia, credo,
vibri così, trascorsa dalla vita,
anche gli antri aridi dei vulcani, quando fuoriescono
le lave che si consolidano, e che s’imponga sempre la giovinezza
per i canalicoli seminali.
Come può darsi
che uno come me, senza castità,
possa un giorno salire sino a un eremo,
distaccarsi in preghiera, esalarsi di sera
se non nel maggio, trascinando con sé un’intera foresta
e la volatile polvere dei suoi profumi,
che apre le bocche dappertutto
per nutrimento, per amore?

Questa è un’urna di vetro – ma all’esterno
le generazioni metodiche delle ombre
si spostano, e un tepore penetra il legno,
dà sussulti, scotimenti, moti
d’atomi:
e anche le parole sono fiato, soglia dell’audiogramma,
energia-materia
che rientra nell’eterno.

(da Contemplazioni meccaniche e pneumatiche, 2005)

Caducifoglie

Non doratevi, già segretamente aurate,
non arrugginite, non raggrinzite
quanto un piccolo pugno,
disseccato; restate sempreverdi
finte immortali, simili all’altamente profumata
– e nemmeno sfrangiata
di fronte al vento, coriacea e lucente –
alla regale magnolia, con i semi amaranto;
o alle conifere montane
le antiche cenozoiche.
Non diventate trasparenti, sempre più,
telari lisi
già scarse nel mese d’ottobre,
con nostalgie infinitesimali, un po’ indeterminate
come i fischi d’un treno distante
e collegi là in fondo, dentro la foschia
– spazzini sotto muretti erbati,
irrealtà, quasi un disturbo visivo
che nell’intimo spaventa
con l’immagine talvolta
che la materia
d’improvviso scompaia.

*

Ma tutte le sfumate gradazioni
i delicati intrecci,
gl’inudibili crepitii particellari
sarebbero stati inutili: lo sperpero
d’un Dio, la sua noia.
E ogni minimo sgretolamento, tipo il trascurabile uragano,
il ferro sciolto nel magma,
dicono la fatica
dall’origine
e la tremenda concretezza del mondo,
– senza via di scampo per noi.

(da Canti territoriali, 2009)

II. Elica

Quanta folla nel vento
se l’ascolti dal camino notturno
si pensa a quelli di sopra
nelle stanze da letto.
………………La vita
non si sa come sia sorta. Fancis Crick
ci dice che sia caduta dagli spazi
già avvolta ad elica.
……………..Se avvicini uno specchio
alla bocca del dormiente
il vetro si appanna. Allora con molta facilità
ci si ricorda di una propria colpa.
Per il bosco, adesso, o lungo il Rio
il più innocuo cespuglio assume forme strane,
come se invisibili divinità
dessero manate selvagge all’erbaspagna, al frumento:
anche gli animali stanno acquattati, e si stringono
alle covate.

Lavoro lavoro

Le persone inchiodate nei loro cappotti –
in stanghe di luce, cristalli
lungo le stazioni.
……..Teste scosse
sul treno. E l’aurora
con emissioni cromatiche, frange, finte
esplosioni d’arancia,
nubi sbranate.
Tra pali neri. Alcune teste
sugli schienali.
Ma vi sono indimenticabili giorni nella vita
quando si vive
a livello biologico. Come la donna,
che teneramente fa tremare anche i vecchi,
che raccattano spremute ghiandole germinali.
Anche una donna matura, un poco patita
in viso, pallida
così abbandonata ancora. E come illogica allora la morte
nell’inforcatura. I rami bianche ora si velano.
……………………..Mi piace
se piove lungo una strada, con un po’ di sole
………………l’asfalto diventa azzurro, specchia.
Ma vi sono desideri impossibili.

(da Contemplazioni meccaniche e pneumatiche, 2005)

Il mio strumentario

Questo arto, la mano,
è la mia psiche dalle cinque dita,
non è come una conchiglia gettata e ripresa
…………………………….e rigettata da un’onda
………………di un mare primordiale
per una bacheca.
…………………E anche la mia lingua,
che supera la chiostra dei tuoi denti
come un animale erettile e marino,
………………………e a lungo
ci si unisce nel seme –
Io ridico parole con il grido
di cetacei tornati dall’oceano
o col loro silenzio di mandrie
……………………arenate sulla spiaggia –
le ascolto inconsapevole,
risalite dagli umidi secreti, filtrazioni
………………….lungo lo speco
tiepido del midollo.
………………..E molte molecole mi nutrono
ogni giorno, dalle mille evoluzioni
radiazioni sperdute, piante morte
e comete polverizzate –
……………….e molte molecole mi curano
con tenerezze materne
………………sebbene con effetti collaterali,
replicando l’arcaico formulario
del mondo
– di natura sintetica ed erboristica
per correggere le nostre anomalie – padre, madre, –
incolpevoli, i deficit
percettivi,
vestibolari…….e tiroxina
………………….ed acetilcolina…
……………E se mi avessero inoculato
un qualche ml in più o in meno
dopandomi
non andrei lungo i viali con lampioni d’autunno
per la città
nella loro simmetrica malinconia, e non sarei
un poeta da pubblicare.

In villa

Il processo notturno
sulle creste occidentali
conserva un trasparente chiaro,
e ancora mostra i poderosi dorsi
del pianeta.
Come peli ruvidi nelle forre d’un volto maschile
spuntano nelle vallette le querce
gli olmi e le varie acacie dei boschi:
lente d’ingrandimento su vegetazioni di barbe –
si acquietano, microrganismi dermici, le gazze
e i picchi che battono i duri becchi sui tronchi.
…………………….E mentre la luna
fa passare veloci spettri lungo il Rio Campanara,
gli spezzettati lombrichi muovono e impastano
sostanze organiche,
e a orari stabiliti per la grande valle di destra
romba distante il treno del mare.
La rifrazione atmosferica ritarda l’avvento.
Ma nella pianura, a oriente,
fa quasi notte, con smagliature di fumo
e fasce di sonno. Ecchimosi.
Apparenze di stelle inesistenti. Altre esistenti
non si vedranno. Tane, dova lavorano morbide pellicce,
grotte, nidi, tumuli di formiche
popolano il globo e le lampade laggiù di paesi e città
accecano le stelle.

*
Il visitatore

Questo giardino
difeso inutilmente
dagli spini di maclura. Anche i cani
li temono, le volpi. E il più furioso cinghiale
ha sanguinato.
Ho salvie rosse, un ricadente cedro.
E la fatica delle cicale
che si tramuta in canto. Sento passare il meridiano
accanto a me, tiepido anch’esso, portando aromi d’erbe
per molte terre, e resine
del nord su colori diversi;
……………….e il filo del parallelo
che tenero lo incide. Nomi di fumi e venti,
e le altitudini, che declinano verso il mare.
Ho tenerezze animali
tra i cespugli – ma uno verrà
come il sorriso più benevolo
e una mano sudata.
Schricchiolii di passi sulla ghiaia.

foto-citta-di-notte

Claudio Borghi

Intonata distanza
(dedicata a Pier Luigi Bacchini)

Creature. Come nate
dalla distesa in potenza del bìos
non è dato immaginare.
Lo strato superficiale tra terra e cielo
e inconoscibile spazio
per tempo immemorabile rimase orizzontale.
D’un tratto,
milioni di anni dopo la monodia
degli organismi unicellulari,
da qualche idea ispirati hanno iniziato
a darsi forma gli arti, gli organi,
le reti dei nervi e del sangue,
i centri motori
del pensiero e del sentimento,
e menti e cuori hanno imparato
la musica interiore del tempo.
Come la trama si sia innescata
di idee e azioni,
come possano alzarsi ancora
dai luoghi in cui riposano distesi
il corpo e l’anima, quale sia
il principio del moto e dell’attività
che ci sposta e ci mette in contatto
è muto enigma,
lo stesso del primo sguardo
che dall’anima piatta si è sollevato
dei punti brulicanti vivi e ha generato
la dimensione verticale. Affacciandosi
l’essere sullo sterminato inespresso
ha avvertito che poteva diventar parola.

Nel soffio della sensibilità
che al primo raggiare del giorno si illumina
chiara è nata la coscienza di poter agire
e diffondersi. Quale il senso dell’avere
un’identità con un centro o più centri
di percezione, del vedere sentire toccare
alberi e prati, distese di terre e rocce
scure e chiare – e la pelle sfiorare
che fresca e liscia pare uscita
da una mente che rifiorisce inconcepita?
E corpi ovunque, o lasciti di corpi,
fossili o carcasse che sono state vita.
Ognuna con dentro lo stesso sforzo
di spostarsi ed elevarsi,
verso l’armonia inattingibile irrisolta
della sfera ultima che non si illumina.
Senza chiederlo ho voluto essere sparso,
disperdermi perdendo sostanza,
porgere mani, occhi, parole, idee.
Gli animali incontrati capivano, animati
dalla stessa volontà, pur senza dire
avevano lo stesso destino:
andare senza sapere dove,
e lungo la strada cercare cibo, conforto, amore,
il fresco delle sensazioni che i sensi filtrano
e allargano spazi in luoghi disabitati,
dove l’anima concepisce la sua dimensione.

Era maggio o giugno, non ricordo,
non importa il luogo o il tempo
quando si è accesa l’immaginazione,
per la prima volta fantastica
molteplice si è rivelata l’invenzione
del numero interminato delle creature,
che trattengono inesausta l’informazione
dell’essere sparso in semi e corpi,
disseminato senza nesso apparente
nella bellezza terribile delle specie,
in gatti e cani, lontre e caimani,
serpenti che si inalberano neri
e ingoiano organismi interi,
tigri e leoni che elastici divorano praterie
e sbranano sguardi impauriti di gazzelle
e caprioli – e verso l’alto si stacca, nel naufragio
della distanza, nel pieno azzurro, su sé solo
concentrato, fugace, uno stormo in volo.

Non altra possibilità che vagare nello spazio,
percorrere le distanze che separano i corpi
in cui l’essere ha concentrato la sua essenza.
Creature. La sterminata varietà contiene
il senso di ogni domanda, la potenza
di ogni risposta. Anche dove non c’è
né mai potrà esserci parola sta chiuso
possibile un farsi chiaro,
un diffondersi e spargersi di luce
che in un momento della sinuosa
storia del tempo si è accesa,
e un corpo nell’istante si è deciso,
si è messo in piedi, è diventato presente.
Disuguali imprendibili le creature
portano il senso della trascendenza
incapace di darsi intera e subito,
di parlare concentrandosi nell’attimo,
nella sfera senza centro esplosa
che si dà allo sguardo della mente.
Ignoranza, buio, presente –
nomi di cui il coro dell’essere si riempie
nel mentre che produce pensiero. E chi sa
come e se le ali potranno sollevarsi,
se ali avremo quando il respiro chiuderà
il suo numero nello spazio
al centro ridonandosi reinnescando
l’originaria potenza? Chi sa
come e se potremo riafferrare
la pluralità delle forme che ci navigano
insieme nello sguardo
mentre le contempliamo da creature vive?

Niente ammette la mente di sapere,
la mente che chiude la mano dell’intelligenza
sui segreti che la materia trattiene. Scienza
non è fermare la corsa del molteplice,
intrappolarla nelle scatole delle macchine
o nei fiumi delle onde. Scienza è lasciare
il corpo andare, la mente fuggire
dalla trappola dei sensi, tornare alla vita
che di nuovo semplice si solleva,
come l’uccello solo che dal ramo
si slancia, senza conoscere futuro.
Il tempo ci frena, nella sosta musicale
della sfera senza principio. Siamo
luoghi senza destino. Concentrazioni
passeggere, spazi momentanei, alvei
di divenire. Nulla nel breve condensarsi
dell’io, nel fatto inesplicabile del nome,
nell’irraggiarsi in direzioni diverse,
nel cercare, parlare, intonare subitanee
armonie, lasciar tracce di un cammino
senza speranza di durare. Nel tempo
la possibilità si forma del nuovo
ma nessuna novità possiede
la chiave dell’ultimo. Intoccato
l’enigma staziona immobile,
oltre la mente inesplorato.

Intonata distanza, cielo disabitato.
Mattina. Parlare mi è donato, riversare
scritture o suoni, catturare qualcosa
che nell’aria dolce si coglie sostare,
passero invisibile,
onda che nessuno strumento riesce a rivelare.
Tra i corpi tranquillo il respiro della luce,
a rischiarare la separazione. Nulla so,
l’abisso tra me e gli occhi del cane
vicino all’albero in riva alla strada,
poi del passante che lo porta con sé, nulla
che possa colmare l’assenza di spiegazione.
O forse l’intero si dà improvviso,
nell’assenza di corpi,
nella repentina mancanza
di ogni contenuto della rappresentazione,
verticale e orizzontale,
spaventoso vuoto e conforto
dell’io che il cuore dipana
e accende, nella disumana
mancanza di creazione – inattesa,
dopo notti e giorni spesi
a concepire l’equazione e la soluzione,
oltre il pensiero si apre la visione,
un nuovo spunto, una ragione,
il primaverile palpito, senza centro,
azzerata la musica, di una nuova emanazione.

(1 ottobre 2016)

Appunto di Claudio Borghi

Ho scritto questo poemetto, di forma inclassificabile, nel tempo di una mattina. Mi è sceso in poche ore e, a parte qualche febbrile ritocco successivo, è rimasto nella forma in cui mi si è dato. Quel che so è che ho preso a immaginare il bìos inizialmente disteso sulla superficie del globo terrestre, che dopo un tempo immemorabile di fremente inerzia e amorfismo ha preso a darsi forma e verticalità, diventando a poco a poco la sinfonia molteplice delle creature che si dona ai sensi e alla mente. Ho sentito il miracolo del sollevarsi e andare verso il mondo, l’accendersi della sensibilità che genera la possibilità del conoscere. Ho sentito, potente, l’insondabile dimensione dello spazio vuoto che separa e contiene i corpi, la distanza incolmabile dai sensi, che in partenza devono deporre le armi e arrendersi alla sproporzione. Ho visto animali consapevoli, belve rincorrere e uccidere le più deboli, lo spavento dilagare nel disegno indifferente della Natura, e la mente e la scienza senza risposte, animate dal solo desiderio di dominio e conquista. Poi è nata, imprevista, da una profondità che acceca e confonde, la possibilità dello spirito, della visione che si accende di nuova emanazione.
La gratuità indifferente del quadro che ci trasmettono i sensi non trova un senso nella percezione. La mente deve aprirsi la strada verso la profondità, alimentare la musica dei versi di altra sostanza, pena l’inaridirsi e appassire della trama del tempo, che non contiene, in nessun istante, verità.

La distanza deve intonarsi, per consentirci di vivere.

Claudio Borghi è nato a Mantova nel 1960. Laureato in fisica all’Università di Bologna, insegna matematica e fisica in un liceo di Mantova. Ha pubblicato articoli di fisica teorica ed epistemologia su riviste specializzate nazionali e internazionali, in particolare sul concetto di tempo e la misura delle durate secondo la teoria della relatività di Einstein. Presso l’editore Effigie sono uscite due sue raccolte di versi e prose, Dentro la sfera (2014) e La trama vivente (2016). Una selezione di testi da La trama vivente è stata pubblicata nella rivista Poesia (settembre 2015),

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Giorgio Linguaglossa. Per una Ontologia dell’Essere sociale di Nicolai Hartmann – Per una critica dell’Esserci  e dell’essere-per-la-morte in Heidegger con una poesia di Czesław Miłosz “Orfeo e Euridice” nella traduzione di Paolo Statuti – Orfeo, l’antesignano dell’Esserci moderno

Heidegger nella casa di campagna

Heidegger nella casa di campagna

Giorgio Linguaglossa. Per una Ontologia dell’Essere sociale di Nicolai Hartmann – Per una critica dell’Esserci  e dell’essere-per-la-morte in Heidegger

 «L’espressione esser-gettato sta a significare l’effettività dell’esser consegnato… L’effettività non è la fatticità, il factum brutum della semplice-presenza, ma un carattere dell’essere dell’esserci, inerente all’esistenza, anche se, innanzi tutto, nel modo dell’evasione».1 Con questa impostazione categoriale di Heidegger  l’esserci è imprigionato nel mondo del «si», l’esserci non ha un orientamento, resta preda nell’inautenticità e non può uscirne, è privo di volontà, di pensiero e di azione. L’esserci è bloccato nell’esser-gettato nell’esistenza immobile, surrogato teologico della condanna divina alla espiazione di una colpa che trascende l’esserci. Ma c’è una via per Heidegger che definisce una via di uscita da questa condizione di immobilità dell’esserci, ed è la via per la morte, l’essere-per-la-morte. L’inautenticità per Heidegger ha sempre il sopravvento sull’autenticità. C’è una sola via di uscita da questo impasse: l’essere-per-la-morte. Questa è  l’agghiacciante conclusione di Heidegger.

filosofia geworfenheitScrive Heidegger: «Con questa tranquillizzazione che sottrae all’esserci la sua morte, il Si assume il diritto e la pretesa di regolare tacitamente il modo in cui ci si deve, in generale, comportare davanti alla morte. Già il “pensare alla morte” è considerato pubblicamente un timore pusillanime, una debolezza dell’Esserci e una lugubre fuga davanti al mondo. Il Si non ha il coraggio dell’angoscia davanti alla morte».2 «L’anticipazione svela all’esserci la dispersione nel si-stesso e, sottraendolo fino in fondo al prendente cura avente cura, lo pone innanzi alla possibilità di essere se stesso, in una libertà appassionata, affrancata dalle illusioni del Si, effettiva, certa di se stessa e piena di angoscia: La libertà per la morte».3

heidegger nello studio

heidegger nello studio

L’esasperazione semantica di una «libertà per la morte» indica chiaramente un lapsus filosofico. Non v’è «libertà» ma costrizione per la morte. È esattamente all’opposto che si dà la «libertà» nell’equivalenza della «illibertà». Insomma, come diceva Adorno: «non si dà libertà nell’illibertà generale». Qui il problema dell’inautenticità è connesso inestricabilmente a quelli della «libertà» e della «illibertà»; entrambe queste categorie vivono e prosperano soltanto nell’ambito della alienazione. Una esistenza alienata pone il dilemma insolubile tra libertà e l’illibertà, ma è nell’ambito della alienazione e soltanto in essa che può prosperare questa antinomia, al di fuori dell’alienazione questa dicotomia perde il suo valore ontologico e diventa un epifenomeno della storialità. Una esistenza ricca di senso può affrontare una morte ricca di senso. Socrate, con la sua morte, ne è un esempio. Gesù, con la sua morte, ne è un esempio. Nel senso che sia Socrate che Gesù mediante la decisione anticipatrice, hanno potuto intravvedere liberamente la possibilità della morte e accettarne le conseguenze, con tutto il dramma dell’angoscia connessa alla loro ingiusta morte (angoscia come impossibilità di accedere alla azione liberatrice).

martin heidegger nel bosco alla fontana

martin heidegger nel bosco alla fontana

Per questo Spinoza ha scritto che una filosofia genuina deve occuparsi della vita e non della morte, così come anche Epicuro rilevò che chi vive, fintanto che vive, non ha nulla a che fare con la morte, che resta al di fuori del demanio della vita e delle cose attinenti alla vita. Per questo l’ontologia ha a che fare con la vita, e nulla ha a che fare con la morte. La dove c’è la morte, non c’è più ontologia. Soltanto in una esistenza piena di senso si può operare autenticamente verso la vita. Al di fuori del senso della vita è vano parlare finanche della morte, che non occupa alcun demanio della vita. La decisione anticipatrice la si ha soltanto nell’ambito della vita e per la vita delle generazioni future, in questo senso e soltanto in questo senso essa ha a che fare con l’ontologia dell’essere sociale. Per Heidegger invece l’uomo cade vittima del «si», e questa caduta lo pone nell’impossibilità di adire alla autenticità, e non può che soccombere tra le cose della menzogna e dell’ipocrisia. Per Heidegger l’uomo gettato nell’inautenticità è vittima della «angoscia», per la quale non c’è riscatto.

Scrive Heidegger: «Se l’Esserci esiste, è anche già gettato in questa possibilità. Innanzi tutto e per lo più l’esserci non ha alcuna “conoscenza” esplicita o teorica di essere consegnato alla morte e che questa fa parte del suo essere-nel-mondo. L’esser-gettato nella morte gli si rivela nel modo più originario e penetrante nella situazione emotiva dell’angoscia. L’angoscia davanti alla morte è angoscia “davanti” al poter-essere più proprio, incondizionato e insuperabile. Il “davanti-a-che” dell’angoscia è l’essere-nel-mondo stesso… L’angoscia non dev’essere confusa con la paura davanti al decesso. Essa non è affatto una tonalità emotiva di “depressione” contingente, casuale, alla mercé dell’individuo; in quanto situazione emotiva fondamentale dell’esserci, essa costituisce l’apertura dell’esserci al suo esistere come esser-gettato per la propria fine».4

Heidegger in his hut

Qui Heidegger ci presenta un concetto astratto e vuoto della «angoscia», una entità immodificabile, eterna, eternamente addossata all’Esserci, un concetto della teologia formalmente de-teologizzato, che presuppone una posizione del tutto passiva dell’Esserci il quale non può sottrarsi ad un destino già scritto e dinanzi al quale non v’è possibilità di azione, o di liberazione. Il gioco delle categorie heideggeriane si rivela essere un gioco di bussolotti vuoti. Categorie svuotate di esistenza. Etichette. Segnali semaforici di un essere immodificabile. In questo contesto categoriale l’azione di uscita dalla inautenticità e dall’angoscia viene prescritta, anzi, viene del tutto cancellata. Alla inautenticità heideggeriana non c’è altra via di scampo che soccombere anticipando a se stessi la visione della propria morte.

Una categoria completamente assente nella ontologia di Heidegger è quella della «azione» (con la connessa categoria della «volontà»). Quando, come e dove nasce e si sviluppa l’«azione», qual è la sua direzionalità e il perché della «azione». Ecco, tutta questa problematica è misteriosamente assente nella ontologia di Heidegger. Ma ciò è comprensibile, perché attraverso la categoria dell’«azione» tutto il castello di categorie heideggeriane verrebbe a periclitare fragorosamente se soltanto la si  prendesse in considerazione.

martin heidegger a passeggio

martin heidegger a passeggio

L’ontologia di Heidegger ha al suo centro l’essere dell’esserci, l’uomo isolato e alienato tra le due guerre mondiali. La sua analitica dell’esserci mostra a nudo le categorie ontologiche di questo ente, l’esserci,  scisso e alienato, isolato anche nella sua vita quotidiana. L’ontologia di Hartmann invece parte dalla critica del modo in cui sorgono le categorie dalla vita quotidiana, le connessioni categoriali, gnoseologiche e psicologiche che garantiscono la sopravvivenza dell’ente umano nell’ambito della vita naturale e sociale. L’ontologia di Nicolai Hartmann5 riabilita il primato del pensiero nell’ambito della vita quotidiana, e di qui riparte per la delucidazione delle immagini del mondo religiose, filosofiche e scientifiche. Il realismo ingenuo della vita quotidiana e sociale dell’uomo è il miglior antidoto contro le distorsioni di una visione che adotta un punto di vista antropocentrico dell’uomo alienato e isolato nella sua fissità storica e biologico-sociale. Per Hartmann, in polemica con il concetto di angoscia in Heidegger: «l’angoscia è proprio la peggior guida che si possa immaginare verso ciò che è autentico e caratteristico»..6

Czeslaw Miłosz

Czeslaw Miłosz

Nella poesia di Miłosz che segue abbiamo la esemplificazione della ricerca del “reale”. Orfeo si muove nell’ambito del «realismo ingenuo», si reca nell’Ade per recuperare la sua amata Euridice. Orfeo  è l’antesignano dell’Esserci moderno. Come l’Esserci di Heidegger è imprigionato nell’inautenticità e non può sortirne che attraverso la decisione anticipatrice della morte, così Orfeo è un eroe dotato di autenticità,  scende nella terra, fino alle foci dell’Ade per strappare agli Inferi la sua amata, simbolo della bellezza, e riportarla in vita sulla terra, alla piena luce del sole. Orfeo lotta per la vita, vuole la vita. Ma, appunto, la Euridice che lui vede è soltanto un simbolo, un eidolon del “reale”, non il “reale”, perché Euridice è morta, ed il linguaggio poetico è impotente, non può riportarla in vita, può solo raffigurare la sua immagine fatta di nebbia e di non-vita. Il “reale” è irraggiungibile anche per la poesia, e non può nulla Orfeo con la sua lira a nove corde dinanzi al «Limite» costituito dalla «Morte». Per il pensiero mitico greco, l’esserci di Orfeo è avventura, azione, rivoluzione dell’Empireo e degli Inferi. Orfeo è l’eroe autentico che si batte contro la morte, per la vita, per riportare in vita l’amata Euridice.

de chirico il ritorno di Orfeo

de chirico il ritorno di Orfeo

Czesław Miłosz
Orfeo e Euridice

Sulle lastre del marciapiede all’ingresso dell’Ade
Orfeo era piegato dal vento impetuoso,
che gli tirava il soprabito, faceva roteare matasse di nebbia,
si agitava nelle foglie degli alberi. I fari delle auto
ad ogni afflusso di nebbia si smorzavano.

Si fermò davanti alla porta a vetri incerto
se le forze lo avrebbero sorretto in quell’ultima prova.

Ricordava le parole di lei: “Sei un uomo buono”.
Non lo credeva molto. I poeti lirici
hanno di solito, pensava, un cuore freddo.
E’ quasi un limite. La perfezione dell’arte
si ottiene in cambio di tale imperfezione.

Soltanto il suo amore lo riscaldava,
lo rendeva umano.
Quando era con lei, diversamente pensava di sé.
Non poteva deluderla, adesso che era morta.

Spinse la porta. Percorreva un labirinto di corridoi,
di ascensori.
La luce livida non era luce, ma oscurità terrestre.
I cani elettronici gli passavano accanto senza frusciare.
Scendeva un piano dopo l’altro, cento, trecento,
sempre più giù.
Sentiva freddo. Era consapevole di trovarsi
nel Nessunluogo.
Sotto migliaia di secoli rappresi,
nel cenerume di putrefatte generazioni,
quel regno sembrava senza fondo e
senza fine.

Lo circondavano i volti di una calca di ombre.
Alcuni li riconosceva. Sentiva il ritmo del proprio sangue.
Sentiva con forza la sua vita insieme con la sua colpa
e temeva d’incontrare quelli cui aveva fatto del male.
Ma essi avevano perso la capacità di ricordare.

Guardavano altrove, indifferenti a lui.
Come sua difesa aveva la lira a nove corde.
Portava in essa la musica della terra contro l’abisso,
che addormenta tutti i suoni col silenzio.
La musica lo dominava. Allora era remissivo.
Si arrendeva al canto imposto,
in estasi.
Come la sua lira, era soltanto uno strumento.

Finché giunse al palazzo dei governanti di quel regno.
Persefone, nel suo giardino di peri e meli seccati,
nero di nudi rami e di grumosi rametti,
e il suo trono, funereo ametista – ascoltava.
Egli cantava il chiarore dei mattini, i fiumi nel verde.
L’acqua fumante di un riflesso rosato.
I colori: cinabro, carminio,
siena bruciata, azzurro,
i piaceri di nuotare presso
gli scogli di marmo.
Il convito sulla terrazza nel chiasso
del porto dei pescatori.
Il sapore del vino, del sale, delle olive, della senape,
delle mandorle.
Il volo della rondine e del falco, il solenne
volo di uno stormo
di pellicani sul golfo.
Il profumo di fasci di lillà nella pioggia d’estate.
Cantava che componeva le sue parole contro la morte
e che nessuna sua rima lodava il nulla.

Non so, disse la dea, se tu l’ami,
ma sei giunto fin qui per riprenderla.
Ti sarà restituita. A una sola condizione.
Non ti è permesso parlarle. E sulla via del ritorno
di voltarti, per vedere se ti segue.

Ermes portò Euridice.
Il suo volto era diverso, affatto grigio,
le palpebre abbassate, sotto di esse l’ombra delle ciglia.
Avanzava come irrigidita, condotta dalla mano
della sua guida. Ah, come voleva pronunciare
il suo nome, svegliarla da quel sonno.
Ma si trattenne, sapendo che aveva accettato
la condizione.

Si avviarono. Prima lui, e dietro, ma non subito,
il battito sonoro dei sandali e quello tenue
dei piedi di lei impediti dalla veste come sudario.
Il sentiero in salita era fosforescente
nell’oscurità, simile alle pareti di un tunnel.
Si fermava e restava in ascolto. Ma allora
anche essi si fermavano, una fievole eco.
Quando riprendeva a camminare, risonava il duplice battito,
una volta gli sembrava più vicino, poi di nuovo lontano.
Sotto la sua fede cresceva il dubbio
e lo avvolgeva come freddo convolvolo.
Non sapendo piangere, piangeva per la perdita
delle speranze umane nella rinascita dei morti,
perché adesso era come ogni mortale,
la sua lira taceva e sognava senza difesa.
Sapeva di dover credere e non sapeva credere.
E a lungo doveva durare l’incerta veglia
dei propri passi contati nel torpore.

Albeggiava. Apparvero i gomiti delle rocce
sotto l’occhio luminoso dell’uscita dal sottosuolo.
E accadde ciò che aveva presentito. Quando girò la testa,
dietro a lui sul sentiero non c’era nessuno.

Il sole. E il cielo e le nuvole su di esso.
Soltanto ora sentì gridarsi dentro: Euridice!
Come vivrò senza di te, o consolatrice!
Ma profumavano le erbe, durava basso il ronzio delle api.
E si addormentò, con la guancia sulla calda terra.

(traduzione di Paolo Statuti)
1M. Heidegger Essere e Tempo trad. it. Longanesi 1980 p. 213
2 Ibidem p. 254
3 Ibid. p. 266
4 Ibid p. 379
5 N. Hartmann La fondazione dell’ontologia Milano, Fabbri, 1963, p. 130 sgg. trad it. di F. Barone
6 Ibid. p. 197

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