Bacchini, Pier Luigi. – (Parma 1927 – Medesano 2014). Dopo aver interrotto gli studi di medicina che aveva intrapreso e aver lavorato per un’azienda farmaceutica, ha esordito nel 1954 con la raccolta di poesie Dal silenzio d’un nulla. Nelle sue opere B. indaga spesso il mondo naturale: Canti familiari (1968), Distanze fioriture (1981), Visi e foglie (1993, Premio Viareggio) e Scritture vegetali (1999). Nel 2003 ha pubblicato Cerchi d’acqua, in cui si misura con la brevità della poesia giapponese, a cui hanno fatto seguito le raccolte: Contemplazioni meccaniche e pneumatiche (2005) e Canti territoriali (2009).
Commento di Claudio Borghi
Bastino queste citazioni per rendere l’idea della poesia di Bacchini, nato a Parma il 29 maggio 1927 e scomparso il 5 gennaio 2014 a Medesano. Negli anni in cui ho scoperto i suoi versi, a partire da Scritture vegetali (Mondadori, 1999), proseguendo con Contemplazioni meccaniche e pneumatiche (Mondadori, 2005) fino a Canti territoriali (Mondadori, 2009), ho sentito netta indelebile una voce nuova che mi entrava dentro, che il mio modo di percepire e pensare il mondo sarebbe inevitabilmente cambiato. La poesia di questo uomo millenario mi è sembrata affondare le radici in una dimensione senza tempo, pur trattenendo del tempo gli umori e le passioni, come volesse, con umiltà e forza, tracciarne il disegno sereno e sapiente, elevandosi dall’angoscia della vita che si consuma a contemplare le forme passeggere che lasciano segni nelle rocce, nella memoria e nella mente, che trattiene la vibrazione di un eterno presente. Quando mi sono reso definitivamente conto di non essere in grado di scrivere una nota critica, mi è sgorgato il poemetto Intonata distanza, di getto, con forza quasi incontenibile. Non sapevo né come né perché né cosa stessi scrivendo, poi, quando è nato, credo di aver capito: era un’anima che premeva sulle pareti della mente, che voleva venire alla luce, nascere, forse rinascere, trovare lo spazio per una nuova emanazione.
Appunto di Claudio Borghi
26 settembre 2016 alle 16:13
L’idea di osmosi o simbiosi è già più interessante del metaforizzare poeticamente le teorie scientifiche o filosofiche. Il riferimento obbligato non può che essere Lucrezio. In Italia, negli scorsi decenni, Pier Luigi Bacchini è stato per me un esempio importante di poeta che ha trovato ispirazione nella scienza, nel senso della scoperta e reinvenzione poetica di idee scientifiche, fisiche, cosmologiche, naturalistiche, biologiche.
Scrivevo in Dentro la sfera:
«Bacchini fa interagire il pensiero scientifico e la forma poetica senza mai cadere nel didascalico o nel celebrativo, intonando una sinfonia del creato che asciuga nella limpidezza del cristallo speculativo la complessità inafferrabile del mondo dei fenomeni. Credo che i tentativi di nuove sintesi vadano accolti come anticipazioni coraggiose di un possibile futuro della poesia, il cui materiale grezzo, la sostanza essenziale dell’ispirazione, può essere lo sdegno morale per l’imbarbarimento dei costumi, la rivolta contro l’indifferenza divina, la testimonianza del dolore gratuito a cui le creature sono destinate, ma anche la vicissitudine speculativa che esplora nuove strade espressive nel travaglio dello scavo e della lettura e decifrazione delle forme che il mondo ci propone in sterminata varietà. La poesia per sua natura naviga solitaria, tentando di catturare scintille di bellezza ed esattezza, nel mare indifferente del tempo».
(dalla sezione finale “Lettere”)
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
La poesia il tempo cronometrico, il tempo interno, il tempo di lavoro Una poesia di Steven Grieco-Rathgeb da https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/09/22/claudio-borghi-poesie-scelte-da-la-trama-vivente-effigie-2016-poesia-metafisica-tra-fisica-e-poesia-non-ce-discontinuita-con-un-commento-impolitico-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-15551
L. Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus scrive che il mondo è tutto ciò che accade, ma omette di dire che se accade, accade nel tempo. Quindi, il tempo è sovrano, la forma sovrana che contiene tutte le cose, penetrandole, dando loro essenza temporale. Analogamente, anche l’arte e la poesia è un accadimento fatto di tempo; possiamo affermare che la Parola è una entità temporale, non solo perché si muove nel tempo ma perché è portatrice di tempo. Il tempo abita l’interno della parola e la circoscrive all’esterno.
La poesia che finora si è fatta in Italia, intendo quella di Pier Luigi Bacchini, considera il tempo soltanto come involucro esterno della parola, e considera il linguaggio poetico ancora in senso novecentesco come interrelazione diacronica e sintagmatica di registri linguistici eteronomi. Ma qui siamo ancora nel pieno delle poetiche tardo novecentesche. Bacchini non immagina nemmeno che possa esservi anche un’altro concetto di Parola come entità, concrezione del tempo. Quello su cui vorrei attirare l’attenzione dei lettori di questa rivista è che dobbiamo liberarci dalla pedissequa concezione del tempo esterno e della eteronomia dei linguaggi, per considerare l’aspetto della temporalità di ogni singola parola. La parola temporalizzata richiede un nuovo concetto di verso che la comprende. Da questo nuovo punto di vista, anche il verso è una entità temporale temporalizzata…
Nella visione mitologica del mondo della Grecia antica, in principio vi è Chronos (il Tempo), in seguito sorgono Chaos, Nyx (Notte), Erebo e Tartaro; nel buio Erebo, Nyx genera un Uovo “pieno di vento”; da questo Uovo emerge Eros dalle ali d’oro; unitosi durante la notte al Chaos, Eros genera la stirpe degli “uccelli”; quindi genera Urano (Cielo) e Oceano, Gea (Terra) e gli dèi tra cui Eros, principio di armonia perché è la forza che spinge gli opposti e i diversi all’unione e all’armonia. Eros quindi, nella visione greca, è più antico di Thanatos, più antico e potente delle Moire, perché in grado di sconfiggerle.
Tale genealogia è ritenuta la più attendibile attestazione della antichità degli dèi attribuibile all’Orfismo,
*
«Quella che un tempo chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato […] Lo sguardo aperto sulla vita è trapassato nell’ideologia, che nasconde il fatto che non c’è più vita alcuna…»
(Adorno, Dialettica dell’Illuminismo).
Così avviene che il «privato» sia un luogo inautentico e come tale è ricettacolo di temporalità inautentica. Il «privato» è per eccellenza il luogo della menzogna deputata alla ipocrisia del sociale, e non potrebbe essere diversamente. L’opera d’arte compie un prodigio: converte l’inautenticità del «privato» nella rappresentazione dell’autentico, dell’autenticamente alienato, e ciò facendo diventa essa stessa «autentica».
Poesie di Pier Luigi Baccchini
Affreschi
Simili ai nostri
sono i modi della sua mente,
le sue meditazioni sulle conchiglie e quelle
musicali sulle sonorità degli imenotteri
fra i brusii e le tenerezze dei venti,
e i tremori e gli urti
della loro violenza.
E con lentezza
Abbiamo calcolato i passaggi
delle scricchiolanti comete.
Verità provvisorie, e altre vere. E Pisanello
è come lui, a guardarlo
tremiamo dentro di noi,
come dinanzi alle rupi e ai boschi.
(da Scritture vegetali, 1999)
Urna di vetro
Ho provato a seppellirmi, per un poco,
dietro la porta, seduto tra le ante
della piccola bussola. –
tutta la botanica del creato
– di là dai vetri, è ridotta a un vialetto
con una quercia, i cedri,
e due emerocallidi.
I godimenti di una volta,
quando l’organismo era me stesso
secondo il desiderio – tutta la materia, credo,
vibri così, trascorsa dalla vita,
anche gli antri aridi dei vulcani, quando fuoriescono
le lave che si consolidano, e che s’imponga sempre la giovinezza
per i canalicoli seminali.
Come può darsi
che uno come me, senza castità,
possa un giorno salire sino a un eremo,
distaccarsi in preghiera, esalarsi di sera
se non nel maggio, trascinando con sé un’intera foresta
e la volatile polvere dei suoi profumi,
che apre le bocche dappertutto
per nutrimento, per amore?
Questa è un’urna di vetro – ma all’esterno
le generazioni metodiche delle ombre
si spostano, e un tepore penetra il legno,
dà sussulti, scotimenti, moti
d’atomi:
e anche le parole sono fiato, soglia dell’audiogramma,
energia-materia
che rientra nell’eterno.
(da Contemplazioni meccaniche e pneumatiche, 2005)
Caducifoglie
Non doratevi, già segretamente aurate,
non arrugginite, non raggrinzite
quanto un piccolo pugno,
disseccato; restate sempreverdi
finte immortali, simili all’altamente profumata
– e nemmeno sfrangiata
di fronte al vento, coriacea e lucente –
alla regale magnolia, con i semi amaranto;
o alle conifere montane
le antiche cenozoiche.
Non diventate trasparenti, sempre più,
telari lisi
già scarse nel mese d’ottobre,
con nostalgie infinitesimali, un po’ indeterminate
come i fischi d’un treno distante
e collegi là in fondo, dentro la foschia
– spazzini sotto muretti erbati,
irrealtà, quasi un disturbo visivo
che nell’intimo spaventa
con l’immagine talvolta
che la materia
d’improvviso scompaia.
*
Ma tutte le sfumate gradazioni
i delicati intrecci,
gl’inudibili crepitii particellari
sarebbero stati inutili: lo sperpero
d’un Dio, la sua noia.
E ogni minimo sgretolamento, tipo il trascurabile uragano,
il ferro sciolto nel magma,
dicono la fatica
dall’origine
e la tremenda concretezza del mondo,
– senza via di scampo per noi.
(da Canti territoriali, 2009)
II. Elica
Quanta folla nel vento
se l’ascolti dal camino notturno
si pensa a quelli di sopra
nelle stanze da letto.
………………La vita
non si sa come sia sorta. Fancis Crick
ci dice che sia caduta dagli spazi
già avvolta ad elica.
……………..Se avvicini uno specchio
alla bocca del dormiente
il vetro si appanna. Allora con molta facilità
ci si ricorda di una propria colpa.
Per il bosco, adesso, o lungo il Rio
il più innocuo cespuglio assume forme strane,
come se invisibili divinità
dessero manate selvagge all’erbaspagna, al frumento:
anche gli animali stanno acquattati, e si stringono
alle covate.
Milano Periferia, scorcio
Milano Quartiere Quarto Oggiaro, periferia nord, un condominio
Lavoro lavoro
Le persone inchiodate nei loro cappotti –
in stanghe di luce, cristalli
lungo le stazioni.
……..Teste scosse
sul treno. E l’aurora
con emissioni cromatiche, frange, finte
esplosioni d’arancia,
nubi sbranate.
Tra pali neri. Alcune teste
sugli schienali.
Ma vi sono indimenticabili giorni nella vita
quando si vive
a livello biologico. Come la donna,
che teneramente fa tremare anche i vecchi,
che raccattano spremute ghiandole germinali.
Anche una donna matura, un poco patita
in viso, pallida
così abbandonata ancora. E come illogica allora la morte
nell’inforcatura. I rami bianche ora si velano.
……………………..Mi piace
se piove lungo una strada, con un po’ di sole
………………l’asfalto diventa azzurro, specchia.
Ma vi sono desideri impossibili.
(da Contemplazioni meccaniche e pneumatiche, 2005)
Il mio strumentario
Questo arto, la mano,
è la mia psiche dalle cinque dita,
non è come una conchiglia gettata e ripresa
…………………………….e rigettata da un’onda
………………di un mare primordiale
per una bacheca.
…………………E anche la mia lingua,
che supera la chiostra dei tuoi denti
come un animale erettile e marino,
………………………e a lungo
ci si unisce nel seme –
Io ridico parole con il grido
di cetacei tornati dall’oceano
o col loro silenzio di mandrie
……………………arenate sulla spiaggia –
le ascolto inconsapevole,
risalite dagli umidi secreti, filtrazioni
………………….lungo lo speco
tiepido del midollo.
………………..E molte molecole mi nutrono
ogni giorno, dalle mille evoluzioni
radiazioni sperdute, piante morte
e comete polverizzate –
……………….e molte molecole mi curano
con tenerezze materne
………………sebbene con effetti collaterali,
replicando l’arcaico formulario
del mondo
– di natura sintetica ed erboristica
per correggere le nostre anomalie – padre, madre, –
incolpevoli, i deficit
percettivi,
vestibolari…….e tiroxina
………………….ed acetilcolina…
……………E se mi avessero inoculato
un qualche ml in più o in meno
dopandomi
non andrei lungo i viali con lampioni d’autunno
per la città
nella loro simmetrica malinconia, e non sarei
un poeta da pubblicare.
In villa
Il processo notturno
sulle creste occidentali
conserva un trasparente chiaro,
e ancora mostra i poderosi dorsi
del pianeta.
Come peli ruvidi nelle forre d’un volto maschile
spuntano nelle vallette le querce
gli olmi e le varie acacie dei boschi:
lente d’ingrandimento su vegetazioni di barbe –
si acquietano, microrganismi dermici, le gazze
e i picchi che battono i duri becchi sui tronchi.
…………………….E mentre la luna
fa passare veloci spettri lungo il Rio Campanara,
gli spezzettati lombrichi muovono e impastano
sostanze organiche,
e a orari stabiliti per la grande valle di destra
romba distante il treno del mare.
La rifrazione atmosferica ritarda l’avvento.
Ma nella pianura, a oriente,
fa quasi notte, con smagliature di fumo
e fasce di sonno. Ecchimosi.
Apparenze di stelle inesistenti. Altre esistenti
non si vedranno. Tane, dova lavorano morbide pellicce,
grotte, nidi, tumuli di formiche
popolano il globo e le lampade laggiù di paesi e città
accecano le stelle.
*
Il visitatore
Questo giardino
difeso inutilmente
dagli spini di maclura. Anche i cani
li temono, le volpi. E il più furioso cinghiale
ha sanguinato.
Ho salvie rosse, un ricadente cedro.
E la fatica delle cicale
che si tramuta in canto. Sento passare il meridiano
accanto a me, tiepido anch’esso, portando aromi d’erbe
per molte terre, e resine
del nord su colori diversi;
……………….e il filo del parallelo
che tenero lo incide. Nomi di fumi e venti,
e le altitudini, che declinano verso il mare.
Ho tenerezze animali
tra i cespugli – ma uno verrà
come il sorriso più benevolo
e una mano sudata.
Schricchiolii di passi sulla ghiaia.

Claudio Borghi
Intonata distanza
(dedicata a Pier Luigi Bacchini)
Creature. Come nate
dalla distesa in potenza del bìos
non è dato immaginare.
Lo strato superficiale tra terra e cielo
e inconoscibile spazio
per tempo immemorabile rimase orizzontale.
D’un tratto,
milioni di anni dopo la monodia
degli organismi unicellulari,
da qualche idea ispirati hanno iniziato
a darsi forma gli arti, gli organi,
le reti dei nervi e del sangue,
i centri motori
del pensiero e del sentimento,
e menti e cuori hanno imparato
la musica interiore del tempo.
Come la trama si sia innescata
di idee e azioni,
come possano alzarsi ancora
dai luoghi in cui riposano distesi
il corpo e l’anima, quale sia
il principio del moto e dell’attività
che ci sposta e ci mette in contatto
è muto enigma,
lo stesso del primo sguardo
che dall’anima piatta si è sollevato
dei punti brulicanti vivi e ha generato
la dimensione verticale. Affacciandosi
l’essere sullo sterminato inespresso
ha avvertito che poteva diventar parola.
Nel soffio della sensibilità
che al primo raggiare del giorno si illumina
chiara è nata la coscienza di poter agire
e diffondersi. Quale il senso dell’avere
un’identità con un centro o più centri
di percezione, del vedere sentire toccare
alberi e prati, distese di terre e rocce
scure e chiare – e la pelle sfiorare
che fresca e liscia pare uscita
da una mente che rifiorisce inconcepita?
E corpi ovunque, o lasciti di corpi,
fossili o carcasse che sono state vita.
Ognuna con dentro lo stesso sforzo
di spostarsi ed elevarsi,
verso l’armonia inattingibile irrisolta
della sfera ultima che non si illumina.
Senza chiederlo ho voluto essere sparso,
disperdermi perdendo sostanza,
porgere mani, occhi, parole, idee.
Gli animali incontrati capivano, animati
dalla stessa volontà, pur senza dire
avevano lo stesso destino:
andare senza sapere dove,
e lungo la strada cercare cibo, conforto, amore,
il fresco delle sensazioni che i sensi filtrano
e allargano spazi in luoghi disabitati,
dove l’anima concepisce la sua dimensione.
Era maggio o giugno, non ricordo,
non importa il luogo o il tempo
quando si è accesa l’immaginazione,
per la prima volta fantastica
molteplice si è rivelata l’invenzione
del numero interminato delle creature,
che trattengono inesausta l’informazione
dell’essere sparso in semi e corpi,
disseminato senza nesso apparente
nella bellezza terribile delle specie,
in gatti e cani, lontre e caimani,
serpenti che si inalberano neri
e ingoiano organismi interi,
tigri e leoni che elastici divorano praterie
e sbranano sguardi impauriti di gazzelle
e caprioli – e verso l’alto si stacca, nel naufragio
della distanza, nel pieno azzurro, su sé solo
concentrato, fugace, uno stormo in volo.
Non altra possibilità che vagare nello spazio,
percorrere le distanze che separano i corpi
in cui l’essere ha concentrato la sua essenza.
Creature. La sterminata varietà contiene
il senso di ogni domanda, la potenza
di ogni risposta. Anche dove non c’è
né mai potrà esserci parola sta chiuso
possibile un farsi chiaro,
un diffondersi e spargersi di luce
che in un momento della sinuosa
storia del tempo si è accesa,
e un corpo nell’istante si è deciso,
si è messo in piedi, è diventato presente.
Disuguali imprendibili le creature
portano il senso della trascendenza
incapace di darsi intera e subito,
di parlare concentrandosi nell’attimo,
nella sfera senza centro esplosa
che si dà allo sguardo della mente.
Ignoranza, buio, presente –
nomi di cui il coro dell’essere si riempie
nel mentre che produce pensiero. E chi sa
come e se le ali potranno sollevarsi,
se ali avremo quando il respiro chiuderà
il suo numero nello spazio
al centro ridonandosi reinnescando
l’originaria potenza? Chi sa
come e se potremo riafferrare
la pluralità delle forme che ci navigano
insieme nello sguardo
mentre le contempliamo da creature vive?
Niente ammette la mente di sapere,
la mente che chiude la mano dell’intelligenza
sui segreti che la materia trattiene. Scienza
non è fermare la corsa del molteplice,
intrappolarla nelle scatole delle macchine
o nei fiumi delle onde. Scienza è lasciare
il corpo andare, la mente fuggire
dalla trappola dei sensi, tornare alla vita
che di nuovo semplice si solleva,
come l’uccello solo che dal ramo
si slancia, senza conoscere futuro.
Il tempo ci frena, nella sosta musicale
della sfera senza principio. Siamo
luoghi senza destino. Concentrazioni
passeggere, spazi momentanei, alvei
di divenire. Nulla nel breve condensarsi
dell’io, nel fatto inesplicabile del nome,
nell’irraggiarsi in direzioni diverse,
nel cercare, parlare, intonare subitanee
armonie, lasciar tracce di un cammino
senza speranza di durare. Nel tempo
la possibilità si forma del nuovo
ma nessuna novità possiede
la chiave dell’ultimo. Intoccato
l’enigma staziona immobile,
oltre la mente inesplorato.
Intonata distanza, cielo disabitato.
Mattina. Parlare mi è donato, riversare
scritture o suoni, catturare qualcosa
che nell’aria dolce si coglie sostare,
passero invisibile,
onda che nessuno strumento riesce a rivelare.
Tra i corpi tranquillo il respiro della luce,
a rischiarare la separazione. Nulla so,
l’abisso tra me e gli occhi del cane
vicino all’albero in riva alla strada,
poi del passante che lo porta con sé, nulla
che possa colmare l’assenza di spiegazione.
O forse l’intero si dà improvviso,
nell’assenza di corpi,
nella repentina mancanza
di ogni contenuto della rappresentazione,
verticale e orizzontale,
spaventoso vuoto e conforto
dell’io che il cuore dipana
e accende, nella disumana
mancanza di creazione – inattesa,
dopo notti e giorni spesi
a concepire l’equazione e la soluzione,
oltre il pensiero si apre la visione,
un nuovo spunto, una ragione,
il primaverile palpito, senza centro,
azzerata la musica, di una nuova emanazione.
(1 ottobre 2016)
Appunto di Claudio Borghi
Ho scritto questo poemetto, di forma inclassificabile, nel tempo di una mattina. Mi è sceso in poche ore e, a parte qualche febbrile ritocco successivo, è rimasto nella forma in cui mi si è dato. Quel che so è che ho preso a immaginare il bìos inizialmente disteso sulla superficie del globo terrestre, che dopo un tempo immemorabile di fremente inerzia e amorfismo ha preso a darsi forma e verticalità, diventando a poco a poco la sinfonia molteplice delle creature che si dona ai sensi e alla mente. Ho sentito il miracolo del sollevarsi e andare verso il mondo, l’accendersi della sensibilità che genera la possibilità del conoscere. Ho sentito, potente, l’insondabile dimensione dello spazio vuoto che separa e contiene i corpi, la distanza incolmabile dai sensi, che in partenza devono deporre le armi e arrendersi alla sproporzione. Ho visto animali consapevoli, belve rincorrere e uccidere le più deboli, lo spavento dilagare nel disegno indifferente della Natura, e la mente e la scienza senza risposte, animate dal solo desiderio di dominio e conquista. Poi è nata, imprevista, da una profondità che acceca e confonde, la possibilità dello spirito, della visione che si accende di nuova emanazione.
La gratuità indifferente del quadro che ci trasmettono i sensi non trova un senso nella percezione. La mente deve aprirsi la strada verso la profondità, alimentare la musica dei versi di altra sostanza, pena l’inaridirsi e appassire della trama del tempo, che non contiene, in nessun istante, verità.
La distanza deve intonarsi, per consentirci di vivere.
Claudio Borghi è nato a Mantova nel 1960. Laureato in fisica all’Università di Bologna, insegna matematica e fisica in un liceo di Mantova. Ha pubblicato articoli di fisica teorica ed epistemologia su riviste specializzate nazionali e internazionali, in particolare sul concetto di tempo e la misura delle durate secondo la teoria della relatività di Einstein. Presso l’editore Effigie sono uscite due sue raccolte di versi e prose, Dentro la sfera (2014) e La trama vivente (2016). Una selezione di testi da La trama vivente è stata pubblicata nella rivista Poesia (settembre 2015),
Anna Ventura OTTO POESIE INEDITE SUL TEMA DELL’AUTENTICITÀ Capote, Zio Gudio, La stele di Rosetta, Il coniglio bianco, I pezzi cadevano per terra, Le teste piccole, “Gli antenati – La poesia delle «cose» normali. L’inautenticità è come una ruggine che si deposita sulle parole – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
.
Anna Ventura è nata a Roma, da genitori abruzzesi. Laureata in lettere classiche a Firenze, agli studi di filologia classica, mai abbandonati, ha successivamente affiancato un’attività di critica letteraria e di scrittura creativa. Ha pubblicato raccolte di poesie, volumi di racconti, due romanzi, libri di saggistica. Collabora a riviste specializzate ,a quotidiani, a pubblicazioni on line. Ha curato tre antologie di poeti contemporanei e la sezione “La poesia in Abruzzo” nel volume Vertenza Sud di Daniele Giancane (Besa, Lecce, 2002). È stata insignita del premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tradotto il De Reditu di Claudio Rutilio Namaziano e alcuni inni di Ilario di Poitiers per il volume Poeti latini tradotti da scrittori italiani, a cura di Vincenzo Guarracino (Bompiani,1993). Dirige la collana di poesia “Flores”per la Tabula Fati di Chieti.
Suoi diari, inseriti nella Lista d’Onore del Premio bandito dall’Archivio nel 1996 e in quello del 2009, sono depositati presso l’Archivio Nazionale del Diario di Pieve Santo Stefano di Arezzo.
È presente in siti web italiani e stranieri; sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, portoghese e rumeno pubblicate in Italia e all’estero in antologie e riviste. È presente nei volumi: AA.VV.- Cinquanta poesie tradotte da Paul Courget, Tabula Fati, Chieti, 2003; AA.VV. e El jardin,traduzione di Carlos Vitale, Emboscall, Barcellona, 2004. Nel 2014 per EdiLet di Roma esce la Antologia Tu quoque (poesie 1978-2013). È presente nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo Progetto Cultura, Roma, 2016.
L’autenticità
L’autenticità è un fiore
che sa di essere un fiore,
un gatto che sa
di essere gatto,
una donna che sa
di essere donna: perciò,
se possibile,
conserva il suo mistero.
.
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
C’è la possibilità che il XXI secolo riesca anche peggiore di quello che ci siamo lasciati alle spalle. Le peculiarità della rivoluzione elettronica di questi ultimi due decenni con l’annesso problema della globalizzazione economica e finanziaria, hanno avuto (e avranno) una ripercussione negativa sulle capacità del linguaggio ad esprimere una comunicazione estetica o, addirittura, una comunicazione purchessia tra gli esseri umani. Nella poesia di Anna Ventura, nella sua veste dimessa e colloquiale, è presente la consapevolezza della precarietà e della vulnerabilità insite in ogni atto di comunicazione e della stessa esistenza umana. Nel suo stile disadorno e inappariscente, Anna Ventura spoglia le «cose», le vuole nude quali sono, senza gli orpelli che le ingiungono gli uomini. L’atto dello scrivere è per lei uno scandaglio dell’intelligenza e uno scandalo della saggezza.
La Ventura ha la percezione della estrema precarietà da parte di uno scrittore o di un poeta di trovare un linguaggio non ancora sporcato, o consunto dai luoghi comuni, svuotato dalla inflazione scriteriata indotta in esso dalla moltiplicazione delle emittenti linguistiche della nostra civiltà mediatica. La poetessa abruzzese non ama la poesia-confessione, la poesia del cuore ferito che oggi molte poetesse prediligono in quanto facilmente recettibili. Nella sua poesia non c’è mai alcuna confessione, anzi, questa viene guardata con estremo sospetto. Per la poetessa abruzzese confessione vuol dire confusione e menzogna, innanzitutto verso se stessi e poi verso gli altri; la poesia deve tornare a nominare una parola chiara e trasparente, è una moneta con due facce, ma una moneta trasparente, attraverso la quale puoi vedere entrambe i lati, semmai è il verso libero che viene adoperato in modo singolare, con dei rientri e delle giustapposizioni che mettono in evidenza il significato delle parole, e ciò appare chiaro in certi enjambement molto puliti, direi educati.
In una poesia paradigmatica, Zio Gudio, avviene un fatto paradossale: durante un terremoto i parenti di un esiliato politico si rifugiano tutti insieme a casa dell’esiliato come in un territorio franco. La poetessa si limita ad elencare i fatti nudi e crudi, i ricordi della figura zio Gudio il quale, ad ogni parata del fascismo, veniva prelevato e messo in prigione. Quasi un resoconto stenografico. Con i ricordi insignificanti della poetessa bambina:
…….. Fuori, nel giardinetto,
c’era la tartaruga Uga,
e mi veniva concesso di andarla a vedere.
Perché nella vita l’insignificante è inestricabilmente intrecciato con il significativo. Nel finale della composizione, c’è solo la registrazione di un pensiero che le attraversa la mente: «È questa, la gente», con quella dizione «gente» che vibra di intenzionato genericismo. È una poesia della descrizione della «normalità» con cui avvengono le «cose». La poesia adotta un punto di vista «normale» per un tipo di esposizione «normale», quella scandita dalla successione temporale e spaziale degli eventi. Uno stile della «normalità» per le cose della cosiddetta normalità, o meglio, che la pubblica opinione considera «normali».
Il «silenzio» è quel quid che si insinua in mezzo ad una quantità di cose «normali», in mezzo ad una quantità di «rumore». Possiamo dire che il «silenzio» di questa poesia abita la «normalità» delle «cose». Possiamo dire che la poesia di Anna Ventura si occupa, wittgensteinianamente, «di ciò di cui si può parlare», lasciando cadere «ciò di cui non si può parlare».
Il problema se il poeta debba parlare o restarsene in silenzio, è divenuto, dopo Auschwitz, un problema sempre più serio impellente, ma è proprio nel mezzo della civiltà mediatica che un poeta degno di questo nome non può non avvertire la pressione del «silenzio» e della «inautenticità» che sovrasta ogni atto comunicativo umano. L’inautenticità è come una ruggine che si deposita sulle parole. È questa la problematica centrale della poesia di Anna Ventura: il racconto di una sobria e dimessa inautenticità, un resoconto icastico e disilluso dei fatti, delle nude «cose», con rarissime inserzioni dei pensieri dell’autrice, che resta sempre al di fuori delle composizioni, come un estraneo o un terzo escluso. È il modo intelligente di Anna Ventura di convocare il lettore: Tu quoque, come scritto nel titolo della omonima Antologia delle sue poesie del 2014.
Scrive George Steiner: «La nostra civiltà, grazie alla disumanità che ha messo in mostra e condonato – siamo complici di ciò che ci lascia indifferenti – ha perso i propri diritti a quel flusso indispensabile che si chiama letteratura. Non per sempre, non ovunque, ma soltanto in questo tempo e in questo luogo, come una città assediata perde i propri diritti alla libertà dei venti e al fresco della sera al di fuori delle proprie mura».1
1 In Linguaggio e silenzio, Rizzoli, 1972 p. 71
Poesie inedite di Anna Ventura
Capote
È tornata all’improvviso,
nel mio immaginario,
la zia di Capote, quella
dell’ “Arpa d’erba”. Il suo mantello leggero,
il cappello di velluto
ornato di fiori finti,
appeso all’attaccapanni di legno
dell’ingresso della casa. Per dire
che lei non c’è più, è andata a finire chi sa dove,
e questo è irrevocabile.
.
Zio Gudio
Zio Gudio stava sempre seduto
davanti al caminetto acceso, e con l’attizzatoio
tracciava segni sulla cenere.
Era un uomo bellissimo, ma non sapeva di esserlo,
come non sapeva di essere
un martire dell’Idea,
quasi un eroe.
Era nato per le cose più nobili,
ma non lo sapeva. Il Regime
lo aveva mandato al confino
per vari anni, e lì lui aveva imparato
a dormire nella baracca, a mangiare poco,
a dissetarsi con un bicchiere di acqua.,
ad avere un solo vestito
e un solo paio di scarpe. Quando c’erano
le parate del Regime, zio Gudio
veniva prelevato e tenuto in prigione
per due giorni. Lui
non faceva una piega. Erano amiche,
mia madre e la moglie di zio Gudio, per cui,
ogni tanto, li andavamo a trovare. Mia madre,
per scusarsi della mia presenza ingombrante,
non faceva che dire che io,
a scuola, avevo tutti dieci. Loro
non commentavano mai
una tale meraviglia, invece
mi guardavano sempre con occhio compassionevole,
e mi offrivano un biscotto secco. Fuori, nel giardinetto,
c’era la tartaruga Uga,
e mi veniva concesso di andarla a vedere.
Qualche volta ho avuto la fortuna di incontrarla,
ma non ho mai osato toccarla: Uga
era un mostro sacro, un tabù.
Durante un terremoto,
io e mia madre fummo ospitate
a casa di zio Gudio, che era a filo di giardino,
per cui era più facile scappare all’aperto.
Sul pavimento eravamo stesi in tanti,
amici e parenti che non conoscevo,
un tappeto umano che mi fece pensare:
“È questa, la gente”.
Credo che zio Gudio meritasse
un qualche pubblico riconoscimento,
ma ciò non è accaduto. Questo
è un tentativo tardivo
di averla vinta sul silenzio
degli uomini e della storia.
Gli antenati
Gli antenati,
avvocati, medici, notai,
avevano studiato a Napoli,
per poi tornare a casa, il castelletto di famiglia,
lo stemma sul portone, i ferri battuti nel cortile,
scale di pietra, stanze disadorne. Sciamati
i giovani per il vasto mondo, i vecchi,
rimasti soli,
si erano fusi con i muri,
i balconi, le finestre sgangherate, il camino
ultimo approdo di tiepido conforto.
La cucina deserta, le derrate
nascoste in credenze vacillanti, i biscotti secchi
accompagnati da rosoli terribili,
caffè lunghi, vino per la Messa. La Dignità,
signora del castello,accoglieva tutti
nella grigia veste: da cui,
colorate come quelle di Piero,
uscivano le testine di famiglia.
.
Il coniglio bianco
C’è un coniglio bianco
sulla mia scrivania. Mentre, con la destra,
scrivo, con la sinistra
mi accerto
che il coniglio stia sempre al posto suo:
c’è.
Perché è di coccio,
pesante come un sasso, e nulla
lo smuoverebbe dalle cose
che tiene ferme col suo peso. Perché
questo è il suo compito:
tenere ferme le cose. Un giorno
avvenne un incantesimo:
il coniglio aveva cambiato consistenza: il pelo
era vero,
bianco, morbido e setoso, la codina
si muoveva.
Ci guardammo negli occhi,
io e il coniglio:
eravamo entrambi vivi, ma
non avevamo sconfitta la paura.
.
La stele di Rosetta
Ha tre lingue, la stele di Rosetta:
geroglifico, demotico, greco,
scritta in onore del Faraone Tolomeo V Epifane.
Elenco di tutte le cose giuste che fece il Faraone tredicenne:
Cose giuste per i Sacerdoti,
ma anche per la gente comune.
Cose giuste per l’acqua, per la terra,
per il fertile limo del Nilo.
Immaginiamolo per un attimo
sfuggito all’oppressione del suo ruolo:
un bambino magro, scuro,
con gli occhi sghembi
e la boccuccia larga,
uno che corre in mezzo all’erba
e si nasconde tra le canne.
Regaliamogli un aquilone.
.
I pezzi cadevano per terra
Forse dovrei smettere di tornare, sempre,
al balcone dove le bambole prendevano il sole,
alla sedia minuscola stretta
tra la stufa verde
e i mattoncini delle fornacelle:
bianchi e blu, con puntini rossi in mezzo.
Quell’anno che mia madre e Detta
tagliavano la legna in cucina,
sopra a un cavalletto. I pezzi
cadevano per terra, io li raccoglievo,
li mettevo in una nicchia: ero
troppo debole per cambiare le cose. Fuori
c’era la guerra.
Gli ori, stretti in una sacchetto di tela,
stavano in petto a mamma.
Ora ho il mare e i fiori sul terrazzo,
mi debbono bastare.
.
Le teste piccole
Ora, nei paesi poveri,
nascono i bambini
con le teste piccole: le mamme
se li coccolano, li avvolgono
in scialli colorati.
Non importa,
se sono un po’ mostruosi: le donne
da tempo hanno accettato l’imprevisto,
lo scherzo della sorte
che travalica ogni previsione. Loro
non fanno più previsioni,
vivono la realtà,
la fronteggiano con umiltà e coraggio,
non si chiedono mai
di chi possa essere la colpa.
Né dove sia il rimedio; il rimedio
non c’è, non c’è l’abbaglio del futuro. Loro
stanno qui,
sulla crosta della terra,
finché dura il respiro,
finché dura il dolore,
finché durano gli scialli colorati.
19 commenti
Archiviato in critica della poesia, poesia italiana contemporanea
Con tag anna ventura, antologia Tu quoque, autenticità, Capote, Commento impolitico, George Steiner, giorgio linguaglossa, I pezzi cadevano per terra, Il coniglio bianco, inautenticità, La stele di Rosetta, Le teste piccole, Tu quoque, zio Gudio