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Sul tema: Con chi parla il poeta? – Con chi parla Osip Mandel’štam? a cura di Antonio Sagredo con due poesie, versione di Angelo Maria Ripellino

Gif neve nel bosco

Osip Ėmil’evič Mandel’štam (Varsavia, 15 gennaio 1891 – Vladivostok, 27 dicembre 1938) nasce a Varsavia da una benestante famiglia ebraica. Nel 1900  Mandel’štam si iscrive alla prestigiosa scuola Teniševskij, sul cui annuario, nel 1907, appare la sua prima poesia. Nel 1908  entra alla Sorbona di Parigi per studiare letteratura e filosofia, ma già l’anno seguente si trasferisce all’Università di Heidelberg e, nel 1911, a quella di San Pietroburgo. Nel 1911 aderisce alla «Gilda dei poeti», fondata da Nikolaj Gumilëv e da Sergej Gorodeckij, gruppo intorno al quale si svilupperà il movimento letterario dell’acmeismo di cui Mandel’štam, nel 1913, redige in gran parte il manifesto che verrà pubblicato nel 1919. Nello stesso anno appare la sua prima raccolta di poesie, Kamen’ (Pietra). Nel 1922  si trasferisce a Mosca con la moglie Nadežda, sposata l’anno precedente e pubblica la sua seconda raccolta, Tristia. Da questa data escono vari scritti di saggistica, critica letteraria, memorie: Il rumore del tempo e Fedosia, entrambe del 1925, e brevi testi in prosa, Il francobollo egiziano, del 1928. Nel 1933 pubblica una poesia contro Stalin, una sarcastica critica del regime comunista. Sei mesi più tardi viene arrestato una prima volta dal Nkvd, e inviato con la moglie al confino sugli Urali, a Čerdyn’. In seguito, dopo un suo tentativo di suicidio, la pena verrà attenuata in divieto di ingresso nelle grandi città e, con Nadežda, sceglie di stabilirsi a Voronež. Nel 1938  viene nuovamente arrestato. Condannato ai lavori forzati, è trasferito all’estremo oriente della Siberia dove muore a fine dicembre nel gulag di Vtoraja  rečka, un campo di transito presso Vladivostok.

Antonio Sagredo Alfredo de Palchi

Antonio Sagredo con Alfredo de Palchi

Il punto di vista di Antonio Sagredo

Con chi parla Mandel’štam?
Con il Tutto e con tutti; comincia con la parola, poi con la quotidianità; poi forzato a parlare con la scopolamina, poi Stalin, e infine al telefono, ecc.ecc.

da: Mezzanotte a Mosca

È tempo che sappiate, anch’io sono contemporaneo,
io sono un uomo dell’epoca del Moskovšvéj,
guardate, come è stropicciata la mia giacca,
come so parlare e camminare bene!
Provatevi a strapparmi dal secolo! –
vi avverto, vi romperete il collo!

Io parlo con l’epoca, ma forse
la sua anima è la canapa, e forse
essa si è acclimatata da noi in maniera ignobile,
come una bestiolina grinzosa in un tempio tibetano, –
si gratta anche in una vasca di zinco –
descrivicela, Maria Ivanna!

(maggio – 4 giugno 1932 )

*
E che voglia ho io di scatenarmi,
di mettermi a parlare, di pronunciare la verità,
mandare la malinconia alla nebbia, al diavolo, alla forca,
prendere qualcuno per mano: – Sii gentile… –
digli, – noi andiamo per la stessa strada con te…

luglio-settembre 1931. Mosca.

*

Leningrad   

Sono tornato nella mia città, nota sino alle lacrime,
sino alle nervature, sino alle glandole gonfie dell’infanzia.

Tu sei tornato qui – dunque inghiotti al più presto
l’olio di pesce dei fanali del fiume di Leningrado!

 Riconosci al più presto il giorno di dicembre,
dove il sinistro catrame è mescolato al giallo d’uovo.

Pietroburgo, io non voglio ancora morire:
tu hai i numeri dei miei telefoni.

Pietroburgo! Io posseggo ancora gli indirizzi,
dove  troverò la voce dei morti.

Io vivo su una scala nera, e sulla tempia
mi batte un campanello strappato con la carne.

E tutta la notte io aspetto ospiti cari,
squassando i ceppi delle catenelle della porta.

(dicembre 1930. Leningrado)

 (trad. A. M. Ripellino)

antonio sagredo-1971

antonio sagredo-1971

(mia nota 179 dal Corso su Mandel’štam 1974-75 di Angelo Maria Ripellino)

Osip Mandel’štam, Lettera da Voronež. E a proposito di spedire prodotti e alimenti. All’epoca del Secondo quaderno di Voronež (6 dicembre 1936-fine febbraio 1937), quando Nadežda era insieme ad Osip, sappiamo che “il fratello di Nadežda Jakovlevna spediva loro ogni mese i duecento rubli che V. Višnevskij e V. Šklovskij gli consegnavano”. Cambia drasticamente lo stato del poeta, in peggio, all’epoca del Terzo quaderno di Voronež (marzo-maggio 1937). Il poeta scriverà a Kornej Čukovskij agli inizi del ’37 “Mio fratello Evgenyj Emilevič non mi dà un centesimo!” e in una lettera precedente allo stesso: “Sono malato. Non posso restare solo neanche per un momento. Adesso si prende cura di me la madre di mia moglie, una vecchietta. Se restassi solo mi sbatterebbero in un manicomio” (vedi Nadežda Mandel’štam, Le mie memorie, op. cit. 396; e cap. Lettere di Mandel’štam, pagg. 389-400). Di certo, Nadežda è sostituita da sua madre, poi che è partita per Mosca, dove cercherà aiuto non solo materiale, p.e. dai poeti Pasternàk e Achmatova; cerca anche un lavoro per non chiedere soldi agli amici; tenterà poi di parlare con qualche autorità per rendere più vivibili le condizioni del poeta. In questo stato terribile il poeta non si perde d’animo: ha fede nella sua poesia tanto che a Jurij Tynjanov [il celeberrimo critico formalista] scrive: “È atroce. È già un quarto di secolo che, mischiando le cose serie alle sciocchezze, sputo sulla poesia russa; ma presto i miei versi entreranno in lei mutando qualcosa nella sua struttura e nel suo corpo”.(lettera da Voronež del 21 gennaio 1937). A questa fede si alterna il momento della disperazione: ”Ormai non posso fare niente altro che chiedere aiuto a chi non vuole che io soccomba fisicamente”.(dalla lettera K. Čukovskij dell’inizio 1937); da Nadežda Mandel’štam, Le mie memorie, op.cit. pgg.396-397.

(dal Corso su Mandel’štam 1974-75 di Angelo Maria Ripellino – pag. 50) Continua a leggere

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 Boris Sluckij (1919-1986) letto da Evgenij Evtušenko – Poesie inedite Scelte – Ha aiutato la contemporaneità a diventare storia – a cura di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova

Foto strada con neve

foto di Steven Grieco Rathgeb

“Adesso si può dire quello che, chissà perché, non si usa dire in vita. Sì, ne sono convinto: Sluckij era uno dei più grandi poeti del nostro tempo”.

                                     (Evgenij Evtušenko)

La gloria gli giunse ancor prima che uscisse il suo primo libro, subito dopo l’articolo di Il’ja Erenburg sui versi inediti di Sluckij. L’articolo fu pubblicato nell’estate del 1956 nella “Literaturnaja Gazeta” e suscitò uno scandalo letterario. Per quale ragione – per il verso non convenzionale, crudele, quasi antipoetico dello stesso Sluckij o la reputazione del suo estimatore? Bisogna dire che in quell’epoca di qualsiasi cosa Erenburg parlasse, si scatenava una protesta – persino quando l’argomento era Francois Villon o Stendhal.

Un anno dopo uscì il primo libro di Sluckij “La memoria” – l’autore aveva intorno ai 40 anni, aveva cominciato  a pubblicare nei periodici ancor prima della guerra, poi seguì un silenzio severo durato un decennio e mezzo. Non conosco una sola raccolta di versi, che avesse avuto un tale significato nel destino della poesia sovietica come questo – nemmeno “La pera triangolare” di Andrej Voznesenskij né il “Tamburino allegro” di Bulat  Okudžava né “La corda” di Bella Achmadulina. Si parlava in questo libro della guerra con una tale semplicità e forza come nessuno mai aveva fatto prima di Sluckij…

Lo stesso Sluckij – molti anni dopo, guardandosi dal di fuori – compose una poesiola epigrammatica “Sul libro ‘Il ricordo’”:

Come un cercatore di funghi, conoscevo i miei posti,
ho lavato la mia stessa vena.
Avevo uno stampo personale. Un mio marchio.
Un modo di scrivere con propria grafia.

Regalandomi il libretto con questi versi, cancellò l’ultima strofa e ne scrisse sopra una nuova, più precisa, sostituì la vecchia: ”Se è merda – è merda mia”. Effettivamente, anche se le scorie in questo processo creativo di Sluckij erano inevitabilmente molte, riconosciamo facilmente che non cambieresti i cattivi versi di Sluckij con i cattivi versi degli altri poeti.

Sebbene in senso anagrafico Sluckij fosse di pura razza ebrea, egli si sentiva nello stesso livello ebreo e russo, non c’era in questo contraddizione o lacerazione, non gli serviva un passaggio verso l’ortodossia per gettare una passerella sul baratro. Perché per lui il baratro non c’era. Gli ripugnavano qualsivoglia forma di nazionalismo, non c’era necessità di ripudiare l’essere ebreo a favore dell’essere russo o il contrario, entrambi i sentimenti erano stati da sempre assimilati con naturalezza. Tuttavia egli faceva una distinzione: l’essere russo era appartenenza alla storia, l’essere ebreo – un segno di origine, tipo un neo. Ed entrambi non appartenevano alla riga del  passaporto ma al destino, per il quale non era stata ancora inventata la riga. Proprio come ebreo, sentiva fortemente il suo legame col popolo russo…

Il legame tra il poeta e il lettore è sempre drammatico – in Sluckij più che negli altri. Non c’è un profeta nella sua patria – una popolarità universale accompagnava il verso più velocemente comprensibile e pseudo-popolare di Evtušenko di quanto non accadesse con la poesia realmente popolare di Sluckij, che durante la sua vita aveva un auditorio qualificato ma tuttavia assai limitato per gli standard sovietici.

È, pertanto, comprensibile la sua dedica: “Resta un po’ con i miei versi, resta almeno un’ora con me. Fammi sentire il tuo respiro, dietro la schiena”. E questa dedica non è ad un amico e nemmeno ad una donna. Qualsiasi dedica di Sluckij è per il popolo. Sluckij si interessò intensamente del lettore, concretamente del lettore popolare, eroe dei suoi versi che – ecco il paradosso! – amava totalmente un’altra poesia: che parlasse preferibilmente non di lui ma, quand’anche fosse, in una maniera trasformata, canzonettistica. Il lettore di massa preferiva allora la sdolcinatezza sentimentale, invece il verso di Sluckij era severo e scontroso come la stessa realtà.

Sluckij entrò per primo in guerra con il neoclassicismo staliniano in poesia e con il lettore ad esso assuefatto. Cioè col lettore che ormai rifiutava Lebedev-Kumach ma ancora amava Marschak. Prendendo le distanze dalla poetica ufficiale, dalla dolcezza piacevole, dall’ottimismo del patriottismo, Sluckij entrava in conflitto con la filosofia che ne stava dietro. Questa filosofia era stata da lui assimilata con serietà, poiché possedeva prove più persuasive dei versi che germogliavano nel suo terreno. Al chiacchiericcio idealistico della realtà Sluckij contrapponeva la realtà stessa: “Se vedrò, descriverò ciò che vedo, così come lo vedo. Quello che non vedrò, lo ometterò. Detesto la dietrologia”.

In poesia Sluckij fu “un realista” di genere e, sebbene non avesse fondato una “scuola realistica”, tuttavia influenzava interamente e concretamente il poetare di diversi poeti come Bulat Okudžava, Evgenij Evtuscenko, Vladimir Vysockij, Evgenij Rein, Stanislav Kuniaiev indiscutibilmente. Infine, Iosif Brodskij.

Su molti poeti ero in disaccordo con Iosif ma Brodskij  riteneva Sluckij, che chiamava Boroj, Boroch, Baruch, il più dotato tra i poeti russi viventi e recitava con foga a memoria molti versi.

In poesia eravamo d’accordo su Baratinskij, Sluckij e… Brodskij. Ed io ancora non so quale dei due ultimi amo di più e quale ritengo maggiore come poeta.

La disputa letteraria uscì dai confini degli anni a lui vicini, giacché – seguendo Nekrasov, Majakovskij, Chlebnikov – egli disputò con l’atteggiamento canonico verso le regole classiche del verso russo, rompendo la gerarchia e abbattendo le autorità. Ovviamente, tutto questo è intimamente connesso – la sensazione della fine della poesia classica, l’usura della sua ricezione, l’attiva diffusione del neoclassicismo epigonico tra i poeti sovietici, sia pure dotati.

La riforma poetica di Sluckij è duplice ma se si limitasse solo alla semantica, cioè soltanto al rinnovamento del contenuto, esisterebbe oltre la poesia, al di là dei suoi confini.

Io sento il suono e so esattamente dove si trova
e mi perdoni pure un romantico:
non di campane né di angeli né di demoni,
una rondine in catene
risuona di ferri…

Gif nevicata

E in un’altra poesia Sluckij da’ una immagine potente, che si rivolge allo stesso tempo verso la sua severa poetica e la sua missione storica: “Io sono un chiodo arrugginito, destinato alle bare…”

Farò adesso un confronto che può apparire forzato ma io sono certo della sua adeguatezza: la poetica di Sluckij è di tipo biblico. Anche Mezirov mi disse una volta che Sluckij  era un uomo del Vecchio Testamento. Esattamente allo stesso modo – in modo semplice ed elevato – sono descritti nella Bibbia i costumi, le abitudini e la storia dei vecchi allevatori di bestiame. Fatti prosaici risuonano là come storici, un conflitto familiare diventa storia universale. Un intenso storicismo è l’immanente caratteristica della poetica e della filosofia di Sluckij.

Sluckij scrive allo stesso modo sia sull’oggi che sul passato, assimilando la contemporaneità con la distanza storica: sul semplice soldato come sul monumento, su un bagno alle terme come su un avvenimento storico.  Il tran-tran dell’uomo sovietico effettivamente “è caduto pesantemente sulla bilancia della storia” e per questo il tempo per Sluckij, come si diceva anticamente è “immagine lontana“. Anche se quello che da lui viene descritto è avvenuto ieri, Sluckij lo sbircia ugualmente in un binocolo capovolto. Tuttavia, non ha bisogno di alcun binocolo, questa capacità di vista è la presbiopia: essa lo aiuta e lo confonde, a volte si a volte no. Sluckij analizza qualsiasi porzione di storia non di per sé stessa ma nei riflessi del passato e del futuro. Poggiandosi impaziente ora su una gamba ora sull’altra, egli aspetta quando la contemporaneità si trasformerà in storia giacché avverte non il movimento ma i grumi, non il processo ma il risultato.

Senza questa visione storica Sluckij non esisterebbe come poeta. Egli percepiva  anche la contemporaneità come crocevia della storia – diversamente non l’avrebbe semplicemente compresa, essendo presbite.

È facile essere trasparenti nell’epoca della trasparenza, la poesia di Sluckij è stata trasparente nell’epoca della totale oscurità, quando taceva non solo il popolo ma anche la musa terrorizzata.

La sua presbiopia funziona non solo sul giorno passato ma anche su quello successivo, che aveva azzeccato e profetizzato nella poesia dedicata alla mia generazione – quelli nati negli anni ’40 – agli amici Brodskij, Dovlatov, Schemyakin , a me e a Lena Klepikova.

Loro non hanno alcun ricordo della guerra, la guerra ce l’hanno solo
                                               nel sangue,
nelle profondità dell’emoglobina, nella miscela di ossa
                                               malferme.
Li hanno spinti nella luce divina, hanno ordinato:
                                               “Vivi!”
Nel 42, nel 43 e addirittura nel 44.
Si accingono ora a ricevere per intero
tutto quello che la guerra non ha dato loro al momento della nascita.
Non ricordano nulla ma avvertono quello che manca.
Non sanno nulla ma avvertono l’ammanco.
Per questo hanno bisogno di tutto: conoscenza, verità, successo.
Per questo crudele e breve è il discontinuo chiacchiericcio.

Ora, quando l’epoca sovietica si è immersa nel Lete, è comprensibile perché l’anticlassico Sluckij ne sia l’indiscutibile classico. E’ rimasto quello che era: un chiodo arrugginito destinato alla sua bara.

  1. Solov’ëv – Novaja Gazeta (24/02/16, in occasione del 30° anniversario della morte di Sluckij)

Poesie inedite di Boris Sluckij

La storia si è riversata su di noi.
Io mi bagnai sotto il suo rombante acquazzone
Ne subii l’ampiezza e la crescita repentina.
Ne avvertii il potere solenne.

L’epoca si scatenava sopra di me
come un acquazzone su una valle rasserenata
ora sotto forma di una duratura guerra giusta,
ora di una ingiustizia non duratura.

Volesse o non volesse la nostra età,
il nostro secolo fece un inventario, insegnava e sfrecciava e tormentava
la mole delle nostre anime e dei nostri corpi,
sì le nostre anime, non semplicemente inerti manichini.

In quale stoffa si stava intrecciando il nostro filo,
in quali tuoni risuonava la nostra nota,
ora è semplice spiegare tutto questo:
il destino – le sue folate e le sue lungaggini.

Con il marchio del destino sono annotate le colonne
dei questionari che in fretta riempivamo.
Il destino si afferrò, come una quercia, con le radici,
all’inizio, in mezzo e alla fine.

+++

Ognuno aveva le sue ragioni.
Alcuni – per amore della famiglia.
Altri – per motivi di interesse:
titolo, carica, rango.

Ma l’amore equivocato
per la Patria, per la fronte battuta*
nel Suo nome
ha spinto la maggioranza.

E quello che scriveva: “Noi non siamo schiavi!”
a scuola, sulla lavagna
non si mise ad andare contro il destino
che si scorgeva a poca distanza.

E dio, un decrepito vecchio stanco,
nascosto tra le nuvole,
era sostituito da uno dei suoi
che portava stivali di pelle cromata. ** Continua a leggere

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