.da il Foglio mercoledì, 19 settembre 2014
Nello stesso giorno, il 2 gennaio scorso, sono apparsi su “Avvenire” un articolo di Fofi in memoria e lode di Eliot (morto nel 1965) e su “Repubblica” una pagina di Asor Rosa in lode e memoria di Brecht. Due anziani e inconciliabili guru della sinistra culturale ripensano al loro passato di lettori ventenni che scoprono per caso due dei più importanti, influenti e discussi poeti del Novecento. Due maestri anche loro inconciliabili della letteratura del secolo scorso: un metafisico cristiano sulle orme di Dante e un cinico dialettico marxista attratto dalla saggezza taoista. Anche a me, per puro caso, nelle settimane precedenti era accaduto di trafficare con Eliot e Brecht, rinnovando la mia simpatia e curiosità per il primo e la mia indifferenza o antipatia (tardive: arrivate a quasi quarant’anni) per il secondo.
Quando è ormai chiaro che la cultura letteraria di oggi ha ben poco in comune con quella novecentesca, viene in mente il Novecento. Parlo di letteratura e non di poesia perché la poesia è, nel suo insieme (critica compresa), precipitata così in basso nella banalità e nell’inconsapevolezza culturale da impedire qualunque confronto con i due autori ricordati. Il 90 per cento della poesia attuale (non solo quella italiana) è soprattutto stupida: e lo è nel modo più evidente quando si sforza di esibire un pensiero, dato che un pensiero stupido è più ridicolmente tale di qualunque non-pensiero.

Bertolt Breht LA GUERRA CHE VERRA’. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.
Eliot e Brecht sono stati due eccezionali esemplari di poeta intelligente. Pienamente consapevoli, fin troppo, della situazione in cui scrivevano, avevano entrambi una visione del passato storico e del presente sociale così lucida da rischiare l’inaridimento inventivo. Oltre alla spiccata attitudine sia filosofica che realistica, avevano un forte senso dell’umorismo, della parodia e del paradosso, sentivano molto il pubblico e anche per questo hanno scritto opere teatrali. Come poeti intellettualistici e teatrali non sono stati i soli nel Novecento. Filosofici erano anche Antonio Machado e Paul Valéry, teatrali anche Majakovskij e soprattutto García Lorca. La cosiddetta “poesia monologica”, tendente alla pura musicalità e alle fascinazioni associative, usciva così da se stessa acquistando un’energia costruttiva precedentemente quasi impensabile, diventando dialettica e dialogica. Il solo grande erede sia di Eliot che di Brecht sarà Wystan H. Auden, il cui acume analitico è spinto a estremi di sottigliezza e la cui potenza oratoria, allegorica, satirica potrebbe superare perfino quella dei suoi maestri, se non fosse minacciata da una labirintica inafferrabilità di allusioni.
L’eliotiana “The Waste Land” resta l’opera poetica più classica del Novecento. Il chiacchiericcio così domestico e un po’ metafisico di Beckett è già previsto e praticato da Eliot in alcuni inserti dialogati del suo poemetto. Anche in Eliot “En attendant Godot” si gioca a scacchi, si prende il tè, noiosamente ci si lamenta e ci si ubriaca fino a notte fonda. La storia umana non è una marcia trionfale ma, dopo la guerra 1914-’18, è un cumulo di rovine. Il mondo è in frantumi, non si riesce più a connettere niente, l’edificio della civiltà è sconnesso. Nella sua logica di costruzione, The Waste Land è una confutazione in atto della forma-romanzo, della sua tecnica e fiducia nella possibilità di connettere l’eterogeneo (l’“only connect” di E. M. Forster). Se la vita sociale nasce, sopravvive e si perpetua grazie alle sue connessioni istituzionali, comunicative, comunitarie e abitudinarie, quando le connessioni saltano prevale il caos e la conseguente impossibilità di capire.
Il mondo di Eliot è diviso fra mistica e ottusità, comico e sublime, desolazione e redenzione. In questo che è stato il maggiore pedagogo letterario-morale della cultura anglosassone nell’ultimo secolo, la società borghese appare senza speranza: sola salvezza sarebbe il ritorno a una società cristiana, poiché il tempo storico e biografico acquista senso soltanto grazie a ciò che lo trascende. Anche i re Magi, il cui viaggio Eliot racconta in una delle sue poesie più note, vanno incontro a una nascita che per loro, per ciò che erano prima, è una forma di morte: “Fu un freddo inverno per noi, / Proprio il tempo peggiore dell’anno / Per un viaggio, per un lungo viaggio come questo: / Le strade erano fangose e la stagione rigida, / Nel cuore dell’inverno. (…) Questo considerate / Questo: ci trascinammo per tutta quella strada / Per una Nascita o per una Morte?”.
Brecht lo lessi e lo rilessi (il suo teatro però mi ha sempre annoiato), poesie, aforismi, raccontini e teorie estetico-politiche, perché prima avevo letto Fortini, che di Brecht marxista aveva fatto una guida. Le poesie che preferivo però erano le prime, quelle degli anni Venti, o le ultimissime, del tutto disincantate. Ma qualcuna delle “Storielle del signor Keuner”, suo alter ego, le ricordo e le apprezzo ancora. Soprattutto due, quella sul rapporto tra forma e contenuto in arte e quella sul rapporto tra filosofia e comportamento quotidiano. La prima racconta di un giardiniere incaricato di arrotondare una pianta di alloro. Taglia di qua e taglia di là, la forma sferica non sembra mai perfetta e l’alloro diventa insignificante: “Bene, questa è la sfera, ma dov’è l’alloro?”. E’ una storiella che usai contro gli esteti. La seconda contro i marxisti anni Sessanta-Settanta e anche in polemica con Fortini: “Un professore di Filosofia andò dal signor K. a raccontargli della sua saggezza. Dopo una pausa il signor K. gli disse: – Tu siedi scomodamente, tu parli scomodamente, tu pensi scomodamente – . Il professore di filosofia andando in collera disse: – Non è su di me che volevo sapere qualcosa ma sul contenuto di quanto ho detto. – Non ha contenuto, – disse il signor K. – Ti vedo procedere goffamente e procedendo non raggiungi una meta. Tu parli in modo oscuro e dalle tue parole non proviene alcuna luce. Osservando il tuo comportamento, la tua meta non mi interessa”.
Thomas Stearns Eliot
I
Il seppellimento dei morti
Aprile è il piú crudele dei mesi: genera
Lillà dalla morta terra, mescola
Ricordo e desiderio, stimola
Le sopite radici con la pioggia primaverile.
L’inverno ci tenne caldi, coprendo
La terra di neve obliosa, nutrendo
Grama vita con tuberi secchi.
L’estate ci sorprese, piombando sullo Starnbergersee
Con uno scroscio di pioggia; ci fermammo nel colonnato,
E avanzammo nel sole, nel Hofgarten,
E bevemmo caffè, e parlammo per un’ora.
Bin gar keine Russin, stamm’aus Litauen, echt deutsch.
E da bimbi, quando si stava dall’arciduca
Mio cugino, lui mi condusse in slitta
E io presi uno spavento. Mi disse: Marie,
Marie, tienti forte. E giú scivolammo.
Sulle montagne ci si sente liberi.
Io leggo quasi tutta la notte, e d’inverno me ne vo nel Sud.
(…)
(da La terra desolata, 1926 trad. di Mario Praz)
I
The Burial of the Dead
April is the cruellest month, breeding
Lilacs out of the dead land, mixing
Memory and desire, stirring
Dull roots with spring rain.
Winter kept us warm, covering
Earth in forgetful snow, feeding
A little life with dried tubers.
Summer surprised us, coming over the Starnbergersee
With a shower of rain; we stopped in the colonnade,
And went on in sunlight, into the Hofgarten,
And drank coffee, and talked for an hour.
Bin gar keineRussin, stamm’aus Litauen, echt deutsch.
And when we were children, staying at the arch-duke’s,
My cousin’s, he took me out on a sled,
And I was frightened. He said, Marie,
Marie, hold on tight. And down we went.
In the mountains, there you feel free.
I read, much of the night, and go south in the winter.
(…)
T.S. Eliot
Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock
« S’i’ credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma staria sanza più scosse.
Ma però che già mai di questo fondo
non tornò vivo alcun, s’i’odo il vero,
sanza tema d’infamia ti rispondo»
(Dante Alighieri, Inferno, Canto XXVII, 61-66)
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Andiamo dunque, tu ed io,
Mentre la sera è distesa sul cielo
Come paziente eterizzato sul tavolo;
Andiamo, per certe semideserte strade,
Tra mormoranti recessi
Di notti agitate in modesti piccoli alberghi
E ristoranti cosparsi di segatura e gusci d’ostriche:
Strade che si allungano come tedioso argomento
D’insidiosa intenzione
Per condurti a una domanda che opprime…
Oh no, non chiedere “Cos’è?”
Andiamo a fare la nostra visita.
Nella stanza le donne vanno e vengono
Parlando di Michelangelo.
La gialla nebbia che sfrega la schiena sui vetri della finestra,
Il fumo giallo che sfrega il muso sui vetri della finestra
La sua lingua ha leccato negli angoli della sera,
Ha indugiato sulle pozze formate negli scarichi,
S’è lasciato cadere sul dorso la fuliggine dei camini,
E’ scivolato sul terrazzo, ha fatto un balzo improvviso,
E vedendo che era una dolce sera di ottobre,
S’è arrotolato attorno alla casa e si è assopito.
E per la verità avrà tempo
Il giallo fumo che scorre lungo la strada
Per sfregare il dorso sui vetri della finestra;
Ci sarà tempo, ci sarà tempo
Per preparare un volto a incontrare i volti che tu incontri;
Ci sarà tempo per uccidere e creare,
E tempo per tutti i lavori e giorni di mani
Che sollevano e versano una domanda sul tuo piatto;
Tempo per te e tempo per me,
E tempo anche per cento indecisioni,
E per cento visioni e revisioni,
Prima di prendere un toast e un tè.
Nella stanza le donne vanno e vengono
Parlando di Michelangelo.
E per la verità ci sarà tempo
Per chiedersi “Oso io?” e, “Oso io?”
Il tempo per voltarsi e scendere le scale,
Con una macchia di calvizie in mezzo ai miei capelli –
(Essi diranno: “I suoi capelli diventano più radi!”)
La mia giacca, il mio rigido colletto sotto il mento,
La mia cravatta ricca e modesta, ma fissata con un semplice spillo –
(Essi diranno: “Ha le braccia e le gambe così sottili!”)
Oso io
Disturbare l’universo?
In un minuto c’è il tempo
Per decisioni e revisioni che un minuto cambierà.
Perché le ho già conosciute tutte, proprio tutte –
Ho conosciuto le sere, le mattine, i pomeriggi,
Ho versato la mia vita con cucchiaini da caffè;
Conosco le voci morenti con un morente tono
A di sotto della musica da una stanza più lontana.
Perciò come dovrei presumere?
E io ho già conosciuto gli occhi, proprio tutti –
Gli occhi che ti guardano in una frase formulata,
E quando io sono formulato, confitto con lo spillo,
Quando sono inchiodato e mi dimeno sul muro,
Allora come dovrei cominciare
A sputar fuori le cicche dei miei giorni e modi?
E io ho già conosciuto le braccia, proprio tutte –
Le braccia ingioiellate e bianche
(Ma alla luce della lampada si vede una peluria bruna!)
E’ il profumo di un vestito
Che mi rende così digressivo?
Le braccia posate sul tavolo, o avvolte in uno scialle.
Dunque dovrei presumere?
E come dovrei cominciare?
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Dirò che ho percorso all’imbrunire strette strade
E ho guardato il fumo che usciva dalle pipe
Di uomini soli in camicia, alle finestre affacciati?…
Dovrei essere un paio di artigli rapaci
Che fuggono sul fondo di mari silenziosi.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
E il pomeriggio, la sera, dorme così sereno!
Lisciato da lunghe dita,
Addormentato…stanco…oppure esso finge,
Steso sul pavimento accanto a te e a me.
Dovrei io, dopo il tè, il dolce e il gelato,
Avere la forza di superare il momento della sua crisi?
Ma benché io abbia pianto e digiunato, pianto e pregato,
Benché io abbia visto la mia testa (un po’ calva) posata su un piatto,
Io non sono un profeta – e non c’è niente di grande;
Io ho visto per un attimo il lampo della mia grandezza,
E ho visto l’eterno Valletto porgermi il soprabito, e lo sbuffo
E a farla breve, ho avuto paura.
E varrebbe la pena, dopo tutto,
Dopo le tazze, la marmellata, il tè,
Tra la porcellana, tra il parlare un po’ di te e di me,
Varrebbe la pena,
Ignorare la questione con un sorriso,
Comprimere l’universo in una palla
E rotolarla verso una domanda opprimente,
Dire: “Io sono Lazzaro, vengo dai morti,
Ritorno per dirvi tutto, io vi dirò tutto” –
Se qualcuno, sistemandole il cuscino sotto la testa,
Dicesse: “Non è affatto ciò che intendevo.
Non è affatto questo.”
E varrebbe la pena, dopo tutto,
Varrebbe la pena,
Dopo i tramonti e i cortili e le strade irrorate,
Dopo i romanzi, la tazze di tè, dopo le gonne strascicate –
E ciò, e assai di più? –
E’ impossibile dire proprio cosa intendo!
Ma se una lanterna magica proiettasse i nervi sullo schermo:
Varrebbe la pena
Se qualcuno, sistemando un cuscino o gettando via uno scialle,
E girandosi verso la finestra dicesse:
“Non è affatto questo,
Non è affatto ciò che intendevo.”
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
No! Io non sono il Principe Amleto, né voglio esserlo;
Io sono uno del seguito, uno che
Ingrosserà il corteo, farà una scena o due,
Consiglierà il principe; senza dubbio, un facile strumento,
Rispettoso, felice di essere d’aiuto,
Politico, cauto e meticoloso;
Pieno di massime elevate, ma un po’ ottuso;
A volte, per la verità, quasi ridicolo –
A volte, quasi Giullare.
Sto invecchiando…Sto invecchiando…
Rimboccherò i risvolti dei pantaloni.
Dividerò in due i capelli? Oserò mangiare una pesca?
Indosserò pantaloni di flanella bianca, e me ne andrò sulla spiaggia.
Ho sentito le sirene cantare, una ad una.
Non credo che canteranno per me.
Le ho viste cavalcare le onde marine
Pettinando i bianchi capelli delle onde risoffiate
Quando il vento soffia l’acqua bianca e nera.
Abbiamo girellato nella sale del mare
Inghirlandati dalle sirene con alghe rosse e brune
Finché voci umane ci sveglieranno, e noi annegheremo.
(Versione di Paolo Statuti)

Bertolt Brecht Prima di tutto vennero a prendere gli zingari. e fui contento perchè rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei. e stetti zitto perchè mi stavano …
Bertolt Brecht
«chi parla è il rifugiato, lo scrittore politico in fuga; il giovane ladro si disegna allora sullo sfondo di una catastrofe universale con la eleganza e l’allegria di un angelo, con una morale non dissimile da quella di Laotse, fondata sulla invincibilità del povero, sulla sua irresistibile libertà segreta. Così il messaggio di morte che il ladro apporta è anche il segno di speranza positiva; perché «vince l’acqua docile / a lungo andare, la pietra tenace». (F.F.)
(Franco Fortini da Introduzione a Poesie di Svendborg Einaudi, 1976)
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Il ladro di ciliege
Una mattina presto, molto prima del canto del gallo,
mi svegliò un fischiettio e andai alla finestra.
Sul mio ciliegio – il crepuscolo empiva il giardino –
c’era seduto un giovane, con un paio di calzoni sdruciti,
e allegro coglieva le mie ciliegie. Vedendomi
mi fece cenno col capo, a due mani
passando le ciliegie dai rami alle sue tasche.
Per lungo tempo ancora, che già ero tornato a giacere nel mio letto,
lo sentii che fischiava la sua allegra canzonetta.
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Mio fratello aviatore
Avevo un fratello aviatore.
Un giorno, la cartolina.
Fece i bagagli, e via,
lungo la rotta del sud.
Mio fratello è un conquistatore.
Il popolo nostro ha bisogno
di spazio. E prendersi terre su terre,
da noi, è un vecchio sogno.
E lo spazio che si è conquistato
sta sulla Sierra di Guadarrama.
È di lunghezza un metro e ottanta,
uno e cinquanta di profondità.
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Generale, il tuo carro armato è una macchina potente
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Spiana un bosco e sfracella cento uomini.
Ma ha un difetto:
ha bisogno di un carrista.
Generale, il tuo bombardiere è potente.
Vola più rapido di una tempesta e porta più di un elefante.
Ma ha un difetto:
ha bisogno di un meccanico.
Generale, l’uomo fa di tutto.
Può volare e può uccidere.
Ma ha un difetto:
può pensare.
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Leggo della battaglia di carri armati
Tu figlio del tintore di Lech che al gioco delle biglie
con me ti misurasti in anni ormai passati
dove sei nella polvere dei cingoli
che per le belle Fiandre ora discendono?
La grassa bomba su Calais caduta,
figlio del tessitore della filanda, eri tu?
O figlio del fornaio del mio mondo d’infanzia
è per te che urla in sangue la Champagne?
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Quelli che stanno in alto
Si sono riuniti in una stanza.
Uomo della strada
lascia ogni speranza.
I governi
firmano patti di non aggressione.
Uomo qualsiasi,
firma il tuo testamento.
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Non ti ho mai amata tanto
Non ti ho mai amata tanto, ma soeur,
come quando ti ho lasciata in quel tramonto.
Il bosco m’inghiottì, il bosco azzurro, ma soeur,
sopra stavano sempre le pallide costellazioni dell’Occidente.
Non risi neppure un poco, per niente, ma soeur,
io che per gioco andavo incontro a oscuro destino –
mentre i volti dietro di me lentamente
sbiadivano nella sera del bosco azzurro.
Tutto era bello in questa sera unica, ma soeur,
non fu mai così dopo nè prima –
certo: ora mi restavano solo i grandi uccelli
che a sera, nel cielo oscuro, hanno fame.
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Il fumo
La piccola casa sotto gli alberi sul lago.
Dal tetto sale il fumo.
Se mancasse
Quanto sarebbero desolati
La casa, gli alberi, il lago!
Anno per anno