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CHIARA CATAPANO, Dalla DISFANIA ALL’INDICENZA della PAROLA POETICA L’ORIGINALITÀ come NOSTOS (RITORNO) ALL’ORIGINE con POESIE di D. H. LAWRENCE, GIORGIO LINGUAGLOSSA, STEVEN GRIECO-RATHGEB, SAFFO, GUIDO GALDINI, KATARINA FROSTENSON, GIOVANNI BOINE, DONATELLA COSTANTINA GIANCASPERO, CHIARA CATAPANO, IOULITA ILIOPOULOU, LUCIO MAYOOR TOSI

Foto Karel Teige_1

[Karel Taige] le Disfanie hanno creato uno spazio propizio: uno spazio, cioè, dove le categorie di sacro/profano… mescolano…

La lettura di Disfanie di Steven Grieco-Rathgeb ha avuto in me l’effetto di chiarire un fatto centrale, su cui la «nuova ontologia estetica» da tempo si interroga, e in cui – a volte – si dibatte caparbiamente cercando l’approdo di partenza, l’attacco. Perché si dice, sappiamo da dove veniamo, non sappiamo dove andiamo: ma alle volte è l’apparire del presente-futuro che c’illumina la strada alle spalle.
Ciò che mi si è chiarito, riguarda il che cosa si intendesse per poesia ancorata nel Novecento, cosa la rendesse tale – nonostante i tentativi di spiegazione. Capivo, ma non comprendevo. La testa argomentava, la pancia non assimilava. Cosa rende una poetica foriera di venti nuovi?
Lì dove il pensiero mal digerito s’inceppava, le Disfanie hanno creato uno spazio propizio: uno spazio, cioè, dove le categorie di sacro/profano (nell’approfondimento del regista Mani Kaul, di cui s’è già più volte parlato sull’Ombra delle Parole) mescolavano le rispettive acque dolci e salate.
Ma cosa dunque è successo?

Figure haiku 1 Lucio Mayoor Tosi

pseudo Haiku di Lucio Mayoor Tosi

Nel post successivo a quello in cui presentavo le Disfanie, si antologizzavano alcune poesie di Guido Galdini. Ho scritto, in un commento a Galdini, quanto segue:

“Galdini non scrive poesia al presente, ma per parlare del presente. Dunque d’un millimetro soltanto, si lascia scappare l’attimo. E quell’attimo, scivolato nel “è stato”, si declina in morale, suo malgrado.
Due esempi:

sfida la figlia che sta sbocciando:
più attillati i calzoni, più spietate le ciglia,
più indiscreta l’abbronzatura del volto
ma lo sguardo si approssima troppo in fretta,
malgrado l’indulgenza dei cosmetici,
a una foglia che novembre ha deciso
di non dare il permesso agli altri mesi di cogliere.

*

hanno trovato il cane che si era perso
nella campagna dalle parti del cimitero,
lo tengono legato
a un guinzaglio di corde di tapparella;
ora aspettano l’arrivo del padrone,
e intanto provano a farselo un po’ amico
è soltanto da azioni come questa,
contate a minuzie, a miriadi, a infinità,
che alla fine di tutte le rincorse
forse anche il mondo potrà essere salvato.

In entrambi i componimenti, la chiusa cerca una via di fuga nel senso ultimo, nel riappropriarsi dell’eterno fuggente. Questo chiudere il discorso che sbocciava, ripiega di quel tanto che basta le poesie perché il lettore senta che qualcosa gli è stato tolto: e dunque la possibile astrazione nella descrizione del reale, diviene narrazione e la tensione cade”.
Cosa può oggi dire il poeta, senza che il presente vissuto divenga immancabilmente presente narrato?
Non gli resta che l’ “indicenza”, non può che lasciare alla parola l’auto-disvelamento. Altrimenti avremo la morale. Altrimenti saremo scivolati nell’attimo passato, non saremo più a dire l’accadere, ma lo staremo descrivendo.
La poesia che oggi non si ponesse questo problema – se dovessimo fare un paragone con le arti figurative – ci apparirebbe come un dipinto impigliato nella tela.
Il verso avrà dunque tolto la parola al poeta.
Non si tratta perciò di svelare alcun mistero, ma di lasciarlo emergere: soffermarsi nel ventre polifonico della realtà, e ascoltare.
La poesia deve poter raggiungere, attraverso le tempeste dei rapporti umani, delle profonde disarmonie, il nucleo luminoso della parola: attraverso la confusa sovrabbondanza delle parole raggiungerne il nucleo, il seme luminoso. Cantare il silenzio dentro la parola, che significa illuminarla.
In questo il poeta impara che originale è chi affronta il percorso verso il nuovo come nostos, ritorno ab origine (per dirla in forma d’ossimoro): ove la parola nuda si riempie del presente perché il poeta non cerca di piegarla, ma le permette di risuonare.
Non è forse sempre stato così, per ogni tempo? Cosa ci fa dire a distanza di secoli che i versi di Saffo

“il prato delle cavalle
è in germoglio di fiori primaverili,
dolce soffia la brezza…”

ἐν δέ λείμων ἰππὀβοτος τέθαλε
ἠρίνοισιν ἂνθεσιν, αἰ δ’ἂηται
μέλλιχα πνέοισιν Continua a leggere

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Chiara Catapano: poesie inedite, Autunno d’agosto con un commento di Giorgio Linguaglossa, Una lettura di Letizia Leone su “Erbario minimo triestino”, Un estratto dal poemetto Alìmono in traduzione inglese di Steven Grieco-Rathgeb per l’Antologia bilingue di prossima uscita con Chelsea Editions

 

Gif Van Gog

Sara di Terach e della lettera yod diede tarda discendenza E risalendo inversamente la scala del tempo, dalla famiglia Passò a Sur sulle ventose coste del Libano

Chiara Catapano nasce a Trieste nel 1975. Si laurea nell’ateneo tergestino in filologia bizantina. Vive per alcuni anni tra Vienna, Atene e Creta, approfondendo così i suoi studi sulla cultura e la lingua neogreca. Alcune collaborazioni:

Museo Storico del Trentino (riedizione dei Discorsi militari di Giovanni Boine, http://fondazione.museostorico.it/index.php/Pubblicazioni/Libri-e-produzioni-video/Libri/Discorsi-militari); Casa editrice Pataki (http://www.patakis.gr/), e con la poetessa greca Aghatì Dimitrouka; Mincione Edizioni, per cui traduce e tiene i contatti con la Grecia (https://www.mincionedizioni.it/).

In passato ha collaborato con la rivista Anthropos de l’Istitucio Alfons el Magnanim CECEL, con Thauma edizioni di Pesaro; con Rec Movie nella realizzazione del corto “Alìmono”. Ha pubblicato con Thauma edizioni e con Perrone. Sue poesie e testi sono apparsi in antologie e riviste italiane ed internazionali.

Sono in calendario:

Giovedì 9 novembre 2017, La militarizzazione della vita civile

Conversazione sul libro Discorsi militari di Giovanni Boine; a cura di Andrea Aveto, con scritti di Chiara Catapano e Claudio Di Scalzo (Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, 2017;

14/15 Dicembre 2017, Centenario boiniano, in collaborazione con il Comune e la Biblioteca di Imperia, per l’organizzazione di Franco Contorbia e di Andrea Aveto.

 

onto Chiara

Chiara Catapano, grafica di Lucio Mayoor Tosi

 

Erbario minimo triestino

Val Rosandra e Costiera

Campanula piramidale – Campanula pyramidalis L.

(Durante i mesi freddi queste piante perdono la parte aerea, ricominceranno a germogliare la primavera successiva)

Sara di Terach e della lettera yod diede tarda discendenza.
E risalendo inversamente la scala del tempo, dalla famiglia
Passò a Sur sulle ventose coste del Libano:
Baciò i cedri sacri e fondò la guarigione iniziatica
Attraverso l’abbandono d’ogni negozio.
Messa al rogo come strega
Un lembo bruciato della sua veste ancora
Venerano le vergini e le anziane come reliquia.
Meno conosciuta di Tiresia
Vibrò decisa in terra il nodoso bastone di ciechi e indovini
E sulle sue orbite divorate dal fuoco
Dio calò un drappo perennemente bagnato.

Dolina
Elleborina verde – Hacquetia epipactis

(Il decotto di elleboro veniva usato dagli antichi come potente veleno)

Sostavano sull’uscio, era imperativo il loro sostare:
impietosi, osavano quell’incertezza – sfoggiare era dominare.
Da quella posizione non se ne comprendeva il numero,
fuori la stanza delle attese: personalmente ne contai una decina,
ma certo dal trambusto di ferraglia che cozzava intorno le cinte,
le punte di ferro che sgusciavano tra le cosce, erano molti di più.
Avrei giurato di averne riconosciuti un paio, visti giù al paese,
o dentro i sogni in cui ti inseguono con gambe e braccia di piombo
e se ti giri, loro svaniscono;
a quei sogni di solito presto attenzione, suggeriscono il Vero.
L’ultima volta pigiati all’interno delle ossa non li vedevo
ma li percepivo perché ad ogni movimento
lanciavano un garrulo grido: ridevano di me.
Poi degli ubriachi hanno sostato sotto la mia finestra
fino alle prime luci dell’alba ch’è durate ore, non dormii più.
Questo per dire che non sono sicura delle facce, o dei miei ricordi.
Potrebbero essere inquisitori anche se manca loro l’altezza
(la stazza è importante in certi mestieri).
Poiché si era creato grande imbarazzo per la loro presenza
ci concentrammo tutti sotto i muri della stanza delle attese.
La carta da parati ormai spenta presentava strappi
intorno alle poche aperture da cui filtrava luce,
ogni tanto un guizzo di colore combaciava
con una qualche lontana realizzazione:
per la prima volta riconobbi l’elleborina verde
in formato grande su sfondo azzurro.
Dalla sua bocca squamosa piccoli capezzoli gialli
stillavano il vile veleno, raggiro del corpo;
l’insolita fragranza del desiderio privo d’oggetto.
Ma non era un dio a cercarci?
Non stavamo dunque tutti lì, in attesa
con questi petali d’intorno a contenerci
a proteggerci col loro veleno dagli altri,
dal loro e nostro imbarazzo
per le prossime esecuzioni?
Nessuna pressione, nessun sussulto sotto il silenzio della pelle.
Erano ali, sottili affilate per fendere nell’intima corteccia dell’umano;
era la resina ai nostri piedi fino alla fonte di dolore,
l’epicureismo delle fibre, la vita rivoltata dentro sé.
Così uno dopo l’altro ci sciogliemmo in versi,
palpebre tremule dentro un concerto di sillabe;
miele di suoni invertebrati ancestrali, impronunciabili
se non per una volta. Suoni privi di ritualità.
Era il peso dell’atomo che cantavamo, e fuori
lo stridere di spade e strade senza mistero. Continua a leggere

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Giovanni Boine (1887-1917) POESIE SCELTE La punta dell’iceberg a cura di Chiara Catapano

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Mi viene in mente un’eccellente antologia poetica (Poeti italiani del Novecento, Mondadori, 1978) a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, in cui chi volesse farsi un’idea del panorama poetico italiano durante tutto il Secolo breve, troverebbe grande soddisfazione. Qui davvero è distillato il succo del nostro ‘900, qui davvero si attraversano città e paesi d’Italia e la poesia ti si mostra con cristallina chiarezza. Qui anche Giovanni Boine ha un suo posticino: pagine 415-419. E non è poco, se teniamo presente che nella maggior parte delle antologie scolastiche e non di Giovanni Boine non v’è traccia alcuna. Mengaldo nella sua nota all’autore ci ricorda che “si avrebbe torto a concentrare” sulla produzione poetica dei Frantumi “l’interesse critico, come si è pure fatto di recente: altrettanto e più rappresentative del loro autore, e delle sue spesso irrisolte tensioni, sono infatti la prosa morale, ad esempio, di Esperienza religiosa, quella convulsamente psicologica del romanzo Il peccato, o la critica intensa e così spesso acuta di Plausi e botte”. Mengaldo in questa sua introduzione rende un gran servizio e al Boine, e ai lettori: riabilita dopo decenni d’ingiusto oblio gli scritti boiniani nel panorama della più alta tradizione letteraria italiana. Carlo Bo farà passare ancora un ventennio per giungere alle stesse conclusioni. Mengaldo ci avverte che quanto stiamo per leggere è solo la punta dell’iceberg.

Chi partisse a conoscere Boine dalla produzione poetica dei Frantumi, com’è capitato anche a me, si troverebbe in grande imbarazzo, piuttosto sconcertato e certo confuso, perché vedrebbe aperta davanti a sé una strada che – contestualizzata agli anni in cui apparve – risulta chiaramente non ancora battuta. Un sentiero vergine e ricco di nuove specie, che vorremmo sapere dove porta senonché ecco! termina bruscamente e in mezzo ad intricatissima vegetazione, con la morte dell’autore. Mappe per uscirne Boine, per quanto incomplete, ce le ha lasciate: tutta quella produzione sommersa fino a pochi anni fa, fatta di lettere, saggi, articoli e diari.

Giovanni Boine nasce a Finale Marina, in Liguria, nel 1887. Vive l’ambiante della provincia e, spesso in polemica con gli amici della rivista fiorentina la Voce, rivendica la sua appartenenza a un ambiente culturale marginale ma vivo, spesso più lucido nei giudizi e nelle intenzioni, come vuole dimostrare partecipando attivamente alla rivista di Mario Novaro, la Riviera ligure. Rivista questa senza programmi, e stiamo già registrando la prima bizzarria, nell’epoca dell’impegno e degli “–ismi” serpeggianti tra gli intellettuali italiani all’alba della I Guerra Mondiale. Ma proprio questo piace a Boine: libertà di dire, disomogeneità dei testi, ampio respiro di contro al cappio dell’asservimento a qualsivoglia programma. Partecipò anche alla Voce di Prezzolini, ma sempre in polemica e pronto all’affondo dinnanzi alle virate alla dove va il vento, eccessivamente utilitaristiche della compagine fiorentina (“Chi è d’accordo mandi formale adesione per lettera, chi no buona notte”). Ma certo è alla Riviera ligure che Boine affidò i suoi testi senza mai doversi preoccupare di epurazioni e scontri ideologici. Nella rivista di Novaro, Boine prenderà in mano la rubrica Plausi e botte: pagina di recensioni “con gli umori” dei libri contemporanei in uscita. Claudio Magris ha sottolineato a tal proposito lo spessore di questa sua produzione, indicando in essa più un libro di letteratura che sulla letteratura. Le recensioni sono 87, e Boine dà giù più di botte che di plausi, senza peli sulla lingua e senza risparmiare stoccate anche agli amici (e soprattutto a loro, poiché a loro teneva e non sopportava i rammollimenti letterari di chi si sentiva già in cattedra) come Soffici e Papini, quando percepiva in loro una piega al ribasso, un intorpidimento che non ammetteva negli uomini d’ingegno. Apertamente divertenti le critiche a libri che non meritavano molta attenzione; oppure volutamente polemiche per “buttarla un po’ in caciara” altre. Ma non vanno dimenticati gli articoli, ampi, di lucida presenza e coscienza letteraria, dedicati a poeti allora sconosciuti che Boine veicolò (per primo scoprì, mi vien da dire) come Clemente Rebora, Camillo Sbarbaro, Dino Campana, Vincenzo Cardarelli.

giovanni-boineC’è pure nella sua produzione il romanzo. Anzi, si può affermare che Giovanni Boine fu l’antesignano del romanzo novecentesco, anticipando Italo Svevo e il suo Zeno. Giancarlo Vigorelli ci ricorda che James Joyce, mentre a Trieste scriveva l’Ulisse, teneva sul comodino Il peccato. Non è un particolare irrilevante, e va collegato all’aspra polemica con Benedetto Croce, alle cui teorie Boine opponeva la propria “estetica della simultaneità”. Scrive Boine a proposito del suo romanzo Il peccato: “L’intenzione generale era di rappresentare quel lirico intrecciarsi di molto pensiero sulla scarsezza di pochi fatti: quel continuo sconfinare della poca cronistoria esteriore nella contraddittoria, nella dolorosa, angosciata complessità del pensare che è la vita di molti e la mia”. La vita, questa la chiave in fondo di ogni sua pagina: la vita e la regola, la vita e il canone, la vita e la tradizione. La vita e la storia. E l’intreccio tra l’una e le altre, il groviglio doloroso la cui soluzione per alcuni è la fede, per altri la legge. Ma Boine, che non riesce ad esaurirsi in nessuna delle due dimensioni, sentirà per tutta le sua breve esistenza la tensione tra i due poli, separati ma non distinti. E non sappiamo quale soluzione avrebbe potuto tentare, se una ne avesse infine tentata; siamo al punto di partenza, nello sconcerto e persi in un sentiero d’intricatissima vegetazione.

Giovanissimo, intesse un breve ma intenso scambio epistolare con Unamuno  (dicembre 1906 – marzo 1908) del quale tradusse il saggio “Inteligencia y bondad” e recensì “Vida de Don Quijote y Sancho”, “Soledad” e “Plenidud de Plenitudes”. Era quello il periodo modernista di Boine, della rivista “Rinnovamento”, della lettura di Tyrell e von Hügel, dell’enciclica “Pascendi dominici gregis” (8 settembre 1907) e delle scomuniche, della ricerca attiva e partecipata al rinnovamento spirituale inteso nella sua dimensione comunitaria, prima del ripiegamento verso una dimensione intima e soggettiva della fede, come la descriverà nel suo saggio “Esperienza religiosa”.

Giovanni Boine non si lascia afferrare da poche righe, benché, se vogliamo, il suo pensiero di fondo, meglio il suo rovello, è sempre presente e dichiarato. È scrittore che non si esaurisce, l’opaca patina del tempo non ne offusca la lingua e lo stile. C’è da dire che quanto scrisse fu sempre vissuto, e se esercizio letterario vi fu (sappiamo per certo che le sue liriche non furono, come a volte afferma, scritte di getto, ma subirono il cesello di accurate revisioni perché rientrassero in una forma musicale perfetta) fu esercizio di muscoli interiori: esercizio, si può dire, di fede. Boine richiede a tutti uno sforzo superiore, pretende nel lettore la scintilla dell’intelligenza, che significa approfondimento ma pure capacità di illuminare le cose attraverso l’ironia. Richiede tempo, non lo si consuma in pochi attimi. Non è lettura-fast food.

Per questo, a mio avviso, ancora più importante riscoprirlo ora, in un’epoca di estremo spaesamento, crisi dei costumi, imbarbarimento con un portone aperto verso possibili futuri che richiedono capacità di ragionamento, approfondimento, inventiva e profondissima umanità.

Giovanni Boine si ammalò di tisi negli anni del liceo, a Milano, e non vide il chiudersi della guerra; la malattia lo costrinse all’inoperosità, all’indigenza e ad una morte precoce. Morì il 16 maggio 1917 a Porto Maurizio.

A breve uscirà per la Fondazione del Museo della Storia di Trento, a cura del prof. Andrea Aveto, della sottoscritta e dello scrittore Claudio Di Scalzo, la riedizione dei suoi “Discorsi militari”, dalla prima edizione come approvata e voluta dallo scrittore.

A chi desiderasse conoscere l’autore e le sue opere mi sento di consigliare un inizio dal ricchissimo epistolario (G. Boine, Carteggio, 5 volumi, a cura di Margherita Marchione e S. Eugene Scalia, Roma, Edizioni di Storia della Letteratura) arricchito di recente dal prof. Andrea Aveto (Giovanni Boine – Adelaide Coari, Carteggio 1915 – 1917, Città del Silenzio, 2014), attraverso il quale è possibile ricostruire l’uomo e il suo tempo, quasi respirarlo e viverlo. Ed anzi di cuore io mi auguro che presto il piccolo cimitero di Porto Maurizio possa conoscere nuovi amici che, senza enfasi retoriche, desiderino posare un fiore sulla sua lapide.

Quanto segue è solo un breve assaggio della ricca produzione di prosa poetica boininana, raccolta sotto il titolo di Frantumi, qui assieme a due estratti (uno commosso, l’altro polemico-umoristico) da Plausi e botte. Ancora per certi tratti controversa è, in alcuni punti, la scelta editoriale della produzione poetica: Boine morì lasciando incomplete le sue carte e il suo primo curatore, l’amico Mario Novaro, scelse spesso con molta libertà tra i quaderni e diari dello scrittore cosa dare alla stampa. Sappiamo che lo stesso titolo Frantumi è una scelta postuma, e che Boine mai progettò un libro in tal senso.

Ciò nulla toglie all’estrema novità e forza di questa voce che continua a levarsi netta e distinta, benché spesso ignorata, di un autore che usa la carta come pentagramma e affila le parole sulla propria esperienza interiore, perché, per dirla alla Boine, di cos’altro si può parlare se non di se stessi.

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BISBIGLIO E VESPERO

– E che vuoi dire? È tutto detto ormai. – Andiamo accanto per la sera queti, zitti, come in una culla di bontà.

– Però questo non dire mai, fa groppo, amico! C’è non so che intoppo, dentro, che non lascia dire.

– Perché, se dici, è un po’ un ubriacamento. Uno si spende con facilità; ma poi nel vuoto ripunge il tormento.

– Oh se lo so! Si soffre allora di profanazione… Le cose fonde non si posson dire. Non c’è che dire le inutilità.

– E già: non si può dire la disperazione! Si dice, si ride infine si fa ciò che agli altri più cale: gai si gira attorno all’essenziale buio.

– Oh amico! e questo è il male atroce della solitudine in mezzo agli uomini. – Che insopportabile soffrire essere sempre come agli altri cale, ma non poter scordare, non poter mai dire!

– E dunque ormai che vuoi tu dire? È detto tutto. – Andiamo queti per la sera accanto, in questa zitta culla di bontà.

***

I CESPUGLI È BIZZARRO

– I cespugli è bizzarro come crescono di nero a l’ora bigia degli ottobri! Il mare tetro fiotta nel crepuscolo come una fantasima… Allora nel cavo degli scogli gorgoglia a riva un pauroso ventriloquio di silenzio.

– Va con piedi di feltro e voci di secreto la frotta dei tornanti: tutta d’ombra. Escono dai cavi, quatte l’ombre: i sogni delle cose, piano, fumano e pigliano statura. Allora finalmente stano l’anima di dentro, e “guardare” è tollerabile.

– Apro gli occhi di macerazione a questo mattino-di-sera, a questo mattino notturno, che finalmente il mondo disgela e tutto si popola d’anima: è muto e cieco, ma d’indecifrabili mitologie.

– Strisciano dal gorgo del lucido buiore ecco i pesantidraghi, goccianti come coccodrilli, dove il ponte è capovolto.

– Torme pronte di mistero subito al limite dei boschi fanno ressa, fan marezzo come i mostri dietro i vetri dei marini acquari.

– Dico fiat: l’aria viscida si manipola di febbre, ma con che? è con fughe, con spaurite d’ali. Verso dove? È con echi di spettrali lontananze.

– Si sformano le forme dell’opacità, i lieviti s’esaltano degl’impossibili; e per esempio! quel dorso idillico della consuetudine oh oh come getta i getti enormi dell’apocalittica verzura! salgono a prova per zampilli sovrapposti, salgono, s’incurvano con zitti scrosci. Eruttamenti sono di vulcanico fogliame nero, eufrati di radure come lave verdi che dilagano.

– Ed ora, dentro dentro, ora dentro, il denso è impenetrabile! Nessuno mai saprà (nessuno!) che mostro vi si celi né in che antro. Il fiato di caverna, respiro muto, esala; farà d’intorno un abbandono secolare. Il volo cauto degli uccelli passerà lontano ratto, come dall’albero tropicale dei veleni: – lo starnazzo triangolare degli spettrali gru, le frecce nere-stridule delle fughe dei rondoni, come il sonnifero ronzio delle mille api quando a cerca fanno l’estate elementare. Che deserto, e che deserto! Non si vedrà un vivente, né un insetto per trecento miglia di disperazione! la terra intorno vi sarà gelida e sassosa. Ma ritta la babele verzicante con le danze delle liane medusine, le cascate delle cupe edere e i pitoni attorcigliati degli immani tronchi per le altezze, lo sperduto leone con fulva posa di pavido stupore, con occhi di sgomento, un attimo voltandosi fino ai cieli la vedrà, fino ai cieli dell’immobile diamante, mareggiare buia, senza scroscio senza vento, senza fruscio nell’estatica aspettanza, sotterraneo celando il freddo di un incomprensibile segreto.

– Tutto il mondo si disgela in addobbo primigenio: piano, lente si disgroppan le potenze dell’oscurità. Allora l’anima svolazza pel suo caos con volo ambiguo di stregoneria, come il ribrezzo flaccido dei vipistrelli. Libidinosamente, allora l’anima diguazza i nenufari dei pantani favolosi, ittiosauro senza morte di prima d’ogni tempo. – Fuori d’ogni tempo “guardare” è tollerabile un più fedele specchio di questa oltreumana cecità.

– Però, però, lenti, non basta per le sere andare? Subito le chiuse della valle son sprofondi gonfi di tenebrore. Come si sfa nei biechi fiumi l’insostenibile solennità!

– A l’ora fonda delle confessioni questi passanti radi sono larve. Dove dove sono le baldanze delle luci? La valle di delizie, come furtiva geme nell’opacità! Come come sottovoce geme a l’ora fonda della verità!

– Quanto alla via e dov’è la via? è un biancore appena, oramai non porta a nulla. Di qua o di là? Ormai la meta è il nulla.

– Sono i paesi di fosforescenza, non hanno solidità. Ma dentro all’acqua quel fanale verde che si spande, giù dilaga fino a me, fa una scia di sogno per le fluidità.- E questa mi sia la via nell’ora fonda della verità.

***gif-vulcano-e-citta

A TAGLIARE GLI ORMEGGI

A tagliare gli ormeggi il vento via ti soffia. Però non si sa dove.
E sia per dove sia! il vento mi strappi via, della disperazione.
Però a scrutarmi nell’oscurità, che gemere, che smarrimento!
Però a cercarmi nella mia pietà stringo le mani in contorcimento non so che Iddio scongiuri per esaudimento nella improvvisa ingenuità.
Non v’è luce nell’opacità! Limai le sbarre di questa prigione: verso la liberazione l’anima ruppe con voracità. Ma porto fu il nulla.
Ormai non ho più nulla da via buttare son nudo fino all’anima non sono che un’anima tutto son fatto di tristezze amare e di sgomento. Senza meta e per disperazione reggo contro me in ribellione ma il nulla fa spavento.
Signore questo rotto corpo, non mi porta ormai non mi conforta pei chiari occhi la sanità del mondo. Qui giaccio qui lento mi disfaccio gemebondo. Oltre al corpo cercai Signore, ansioso le tue porte; sprofondo ora spento nel disfacimento della morte.
Non c’era vero nella verità!
Squamai le fedi ad una ad una con tenacità in cerca della mia, scavai la via pesta della consuetudine. Giunsi all’amaritudine bieca di questa solitudine. E sosta mi fu il nulla oh amici! A tagliare gli ormeggi il vento via ci soffia. Però non si sa dove.

Con nocche di sangue in cima alla scalea scuoto in angoscia la porta di bronzo: sono un perduto nell’eternità.
M’abbranco naufrago alla disperazione; tutto son teso nell’invocazione; – di qui qui qui all’eternità! –

***

PROSETTE QUASI SERENE

Pignolo al mio lucarino

– Il lucarino che ora gli parlo nella sua gabbiuzza appesa, e spia coll’occhio di spillo così malizioso se ho fra dita il pignolo, quando dentro lo chiusi che fu un ottobre al tempo del passo e lo comprai da quell’uomo che lo fa di mestiere: li porta giù la mattina a dozzine in uno scatolone di tela;

– tu dicevi che ci sta bene colla sua scagliola da un canto, e dall’altro, proprio adatto a per lui, il coppettino bianco dell’acqua. Ma gonfiò a pallottola le piume arruffate sullo stecchino ritto della sua zampina, e stette per molto così… come assonnato sulla cannuzza a mezz’aria. Pareva ci facesse il broncio o si dovesse morire. Così tu non ci badavi più e te lo eri scordato.

– … Ma la mattina che poi si destò: su giù, su giù, il becco tra ferro e ferro a tutti i ferri lo ficcava un attimo! Innanzi indietro, a passi a voli, in ansia di febbre… parevano sbarre di galera.

– L’occhio fisso era grande come l’occhio umano; tutto cupo il corpo: su giù (cinque passi ha una cella, non di più!) non diceva nulla, cercava un varco.

– Era così chiuso, così nero il suo sonno la sera, monco-ravvolto! Pigliava forza, duro, per il suo cammino. Il domani non diceva nulla: su giù su giù, su giù… Quando immobile come in corruccio si rincantucciava, quel vagabondo così disperato, d’improvviso bocconi lungo la via, mi tornava la sua macchia sparsa, un braccio innanzi teso, e lo sgomento…

– Tu ogni giorno, perché non cantava mai, dicevi: “apriamogli!” Però io, non potevo più: – zitto gli davo lattughe, senza spiegarti. – Piano piano, allora cercò la verdura tenera che geme, e poi la lucertola del suo capino la tuffava ciuff! nell’acqua lustra: tutt’intorno se ne fa rugiada. Cominciò, anche, fra sé quei gorgheggi sotto voce e lunghi che parevano discorsi a qualcuno … e s’acquietò.

– Tutto il giorno lo passa ora sulla scagliola d’oro, e, la pula, stringe l’occhietto e la scartoccia svelto. La cannuzza liscia a mezzaria è come una frasca alta di olmo; lo spazio quadro, un cielo. Sta lì… salta là, frulla qui; che deve fare? i suoi ciccì ci gargarizza, tristi o lieti e guarda il vuoto.

– Quando improvviso batte l’ali in vertigine e si giù, su giù ricomincia, e su giù su giù ci s’affanna come se ricordasse, tu allora dici: “ma che ha? par pazzo!” Io gli sto attento, con non so che ansia… – Ma il suo piacere anche lì ce l’ha: cerca il pignolo che a volte gli mostro; mi chiama mi fa festa, corre incontro ansioso. E quando gli incastri tra i ferruzzi dritti la ciliegia gonfia, allora ci si affonda pronto con occhi di ghiotte risa.

***

VEGGO AL DI LA’

– Quando la febbre degli orizzonti m’ossessiona giù alle pronte partenze dei porti, dove sbandierano addii le laceranti sirene e grugniscono al levarsi, le ancore, di felicità.

– Gonfia rigonfia il desiderio come la incandescente calura nei delirii d’estate.

– Allora improvviso lo sgomento delle squallide consuetudini, dietro a me con ansimo scava il pantanoso vallo della repugnanza;

– in scatenato fremito, balzo nell’ondulante scafo, sciolgo la gòmena, armo i due remi e ritto vogo l’impeto della vastità.

– Oh va! Oh va! rompe la prora il blu, scavalco sull’immensità, ciò che già fu, si fu, il mare non è più, s’avanza una città.

– Sciacquo alle falde degli altissimi cumoli; a picco si spaccano i bianchissimi monti e veggo per lustro smeraldo, allora, al di là.

– Veggo al di là, veggo al di là la strana città, ch’è tutta d’oriente e di selve, tutta di ricco abbandono, calda e beata di nudità.

– Oh va, oh va! molle-distesa serenità, occhi languenti di voluttà, fiumi fluenti di felicità, brezze tepenti di tranquillità…

– Rompe la prora pel blu, ciò che già fu si fu e niente non è più. Oh va oh va oh va!

***

FRAMMENTI

1
Talvolta quando al tramonto passeggio stanco pel Corso (ch’è vuoto), uno che incontro dice, forte, il mio nome e fa: “Buonasera!”
Allora d’un tratto, lì sul Corso ch’è vuoto, m’imbatto stupito alle cose d’ieri e sono pur io una cosa col nome.

2
Quando ti stringo la mano e tu ripigli sicuro il discorso d’ieri, non so qual riverbero giallo di ambigua impostura colori di dentro l’atto di me che t’ascolto. Fingo d’esser con te e non ho cuore a dirti d’un tratto: “Non so chi tu sia!” Amico, in verità, non so chi tu sia…

3
Mi fermi per via chiamandomi per nome, col mio nome d’ieri.
Ora cos’è questo spettro che torna (l’ieri nell’oggi) e questa immobile tomba del nome?

4
Tepido letto del nome, sicura casa d’ieri! Soffice lana dei sofferti dolori, sosta ombrosa delle lontane gioie: nave sul mare, zattera di naufraghi.
Ma l’oggi è, via, com’una cateratta aperta. Nubi cangianti nell’abissale cavo del cielo.

5
Tu resti saldo-piantato nell’ieri, specula alta dell’oggi, ed attento vi spii tutte le cose, ciascuna secondo il suo nome.
Che nessuna ti sfugga ecco il tuo ufficio, e che tutte si seguano secondo l’ordine giusto. Che tutte s’incastrino e facciano insieme un regolato disegno. Che nessuna ti sfugga, né vi sia salto.

(…)

9
Il mio nome è Giovanni e se mi chiami, pronto rispondo. Adesso e nell’ora della mia morte. Appena il mattino su, faticoso, mi issa dalla nube varia del sogno, mia madre dice piano: “Giovanni!” alla porta socchiusa; e, quasi, io sono di nuovo.

10
Non mi torrete il mio nome; lo imbraccio come uno scudo. – Tra lo sbigottimento dell’oggi e l’ieri vissuto ho messo a ponte il mio nome.

(…)

25
Il mio nome è Oggi e la mia via si chiama Smarrita. Non ci sono insegne ai bivi dell’andare mio, e non so s’io abbia imboccato a man dritta.

(…)

30
S’io godo della mia gioia e dico “così ogni mia ora!” ecco d’un tratto mi si leva dentro l’amarezza del pianto come una nebbia da una nera palude.

31
E vuoi ch’io prometta se non so del domani? Non intendo che cosa sia “promessa”.

32
Tra dieci anni ci rivedremo? Ma chi tu vedrai fra un’ora? Ahi, che bastò il giro d’un giorno!

da PLAUSI E BOTTE

  1. [Clemente Rebora, Frammenti lirici, ed. Libreria della Voce, 1913]

(…)

E poiché ho accennato di canzoni dantesche, dirò ch’io respiro in questa nuova poesia non so che di vigorosamente antico nel sentire e nel ritmo, nello strappo, nel piglio meravigliosamente robusto della frase, nell’interiore leoninità della mossa; (in questo suo vittorioso tormento fra la tremenda vastità del cosmo ed il dolore dell’effimera umanità,) dirò ch’io vi respiro qualcosa di nostro, di tradizionalmente, di virilmente e complessamente italiano, com’è italiana la lirica di Dante, di Michelangelo, di Campanella e di Bruno, (com’è italiano Leopardi.) E ch’io, anche qui, non oserò mai come i dominiddio della critica si permetton di fare, o chiudere o aprire l’avvenire a nessuno, perché l’intimo degli uomini si strafotte delle previsioni dei critici e vivaddio di ogni previsione. (Perché io dico con certezza: qui ciclopicamente vive, qui si dibatte, come un maglio, come un rosso ferro che strida e che suoni – che si lamenti tinnulo – in una fucina, un cuore, e non so affatto, non voglio sapere qual forma qual iridata incandescenza nuova sarà per pigliare all’ansito nuovo del nascosto mantice, quale ispirazione ispirerà il suo futuro canto); ma segno qui, mi vien voglia di segnar qui per parecchia di codesta poesia un anno durante inosservata, (per ciò che è e dentro quasi per echi vi posso auscultare, traudire, intuire,) mi vien voglia di segnar commosso qui la parola GRANDE.

  1. (…)

“Egregio Signore,

Le invio con questa un plico di stampe (raccomandato); il mio nome è già comparso sulla “Riviera” una volta quale dedica a una delle liriche di Giannotto Bastianelli ecc. vedi R. L. 1 Novembre 1915. Con la speranza d’averla accontentata aspetto una risposta relativa all’eventuale pubblicazione della lirica speditale. Con ossequio Piazza Pitti 10 ecc. P. S. Del mio libro àn già benevolmente parlato in giornali e riviste, Paolo Buzzi, Titta Rosa, Emilio Settimelli, Remo Chiti, F. Meriano, Enrico Pessina, L’Iniziativa, ecc.”

Ah Signor Franchi (Raffaello Piazza Pitti 10) davvero lei ci ha messi in un bell’impiccio! E come diamine si fa ora, con tutti codesti nomi? Perché a noi viceversa queste sue faccende qua e là seminate per sti fogli così autorevoli d’ogni parte d’Italia, ci ricordan niente più di quelle caccarelle tonde e secche, di capra e pecora, su pei sentieri qui dietro in campagna, che stan lì tra’ sassi una qui due là quasi nere come una sementa spersa. I bimbi cittadini talvolta quando salgono si riempiono le tasche od anche le provano un po’ in bocca, come se fossero gustose bacche; e, giusto, lì accanto ci trovi spesso quei buffi maggiolini stercorari che contro puntateci le uncinose gambettine dal di dietro, su su faticano, spingono a ritroso, gamberi di terra ferma, così curiosamente! Ma bacche puah! non sono e subito si sputano; e sementa manco. Germogliare non germogliano, o se germoglian che mai si posson germogliare? sempre e sempre, nient’altro mai che aride caccarelluzze di capra.

Concludendo: onorati siamo che si riterrebbe, di alla Riviera collaborare onorato, e ci piace che la segua e proprio, infine le piaccia. Certo Pickwick, Forca, Fuoco, Iniziativa ecc. fan tutti insieme davvero una lodevole e nobile Eco della più propriamente italiana coltura e consideriamo dunque lei che dentro così rispettosamente v’è accolta quasi diremmo uno specimen ovverosia campione di essa medesima. Ci duole il cuore sa, Signor Franchi Raffaello! (…)

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Chiara Catapano nasce a Trieste nel 1975. Studia filologia bizantina con il prof. Paolo Odorico e si trasferisce per alcuni anni ad Atene e Creta, dove approfondisce i suoi studi su cultura e lingua neogreca. Collabora con il Museo storico del Trentino per il quale sta curando la riedizione dei Discorsi militari di Giovanni Boine. Suoi articoli e testi creativi sono apparsi su riviste cartacee e online italiane ed estere. Dirige assieme a Claudio Di Scalzo la rivista transmoderna Olandese Volante (www.olandesevolante.com). Traduce dal greco moderno (Ioulìta Iliopoulou, Agathì Dimitrouka). A luglio 2014 ha presentato al festival Stazione di Topolò la raccolta di poesie La graziosa vita, edita da Thauma edizioni sotto l’eteronimo di Rina Retis.

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