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Roberto Bertoldo AUTOANTOLOGIA – POESIE – con un Saggio di Giorgio Linguaglossa “la poetica del post-contemporaneo: il tonosimbolismo”

Born in Mexico City in 1963, Moises Levy, Architettura nella luce

Born in Mexico City in 1963, Moises Levy, Architettura nella luce

  Roberto Bertoldo è nato nel 1957 e risiede a Burolo (TO). Nella seconda metà degli anni ’70 ha partecipato a numerose manifestazioni letterarie in veste di poeta e redattore di rivista. Dopo la laurea (tesi: Ermetismo come petrarchismo) ha preferito fare vita ritirata per proseguire la sua personale ricerca di scrittore. Di questi anni sono i libri di narrativa L’abitudine, Il cammello oltre la cruna, Le favole del fiume d’ebano, Satio, I nichilisti e le raccolte poetiche Nuvole in agonia, Il pan-demonio, Il rododendro, tutti libri inediti. Nel 1996 è uscito dall’isolamento fondando la rivista internazionale di letteratura “Hebenon”, di cui è direttore, e cominciando a professare la sua filosofia del “nullismo”. Nel 1998 ha pubblicato i romanzi brevi Il Lucifero di Wittenberg e Anschluss, Asefi Terziaria, Milano, e il saggio Nullismo e letteratura. Per una filosofia fenomenica e una epistemologia della letteratura postcontemporanea, Interlinea, Novara (Nuova edizione riveduta e ampliata: Nullismo e letteratura. Al di là del nichilismo e del postmoderno debole. Saggio sulla scientificità dell’opera letteraria, Mimesis, Milano 2011), libro nel quale, attraverso una reinterpretazione del pensiero leopardiano posto come fondamento dell’esistenzialismo nullistico di Camus e attraverso analisi epistemologiche, delinea le possibili direttrici di una letteratura postnichilistica. A dicembre 2000 è uscito il suo libro di poesie, Il calvario delle gru, presso l’editore La Vita Felice di Milano e successivamente in forma bilingue presso l’editore Bordighera Press di New York. Nel 2002 viene edito il suo libro di narrativa Anche gli ebrei sono cattivi, Marsilio, Venezia e nel 2003 il saggio filosofico Principi di fenomenognomica con applicazione alla letteratura, Guerini & Associati, Milano. Nel frattempo ha scritto ancora i libri di poesie Il codice delle stagioni (inedito) e L’archivio delle bestemmie (Mimesis, Milano 2006) e, negli anni 2003-2004, i romanzi Amori postumi (inedito), L’infame (La vita felice, Milano 2010) e Ladyboy (Mimesis, Milano 2009). Dal 2004 ad oggi si è dedicato prevalentemente a sviluppare la sua filosofia, arricchitasi di una nuova forma di indagine detta “fenomenognomica”, che vede per ora l’uscita di Sui fondamenti dell’amore (Guerini & Associati, Milano 2006), Anarchismo senza anarchia (Mimesis, Milano 2009), l’opuscolo Chimica dell’insurrezione (Mimesi, Milano 2011) e il saggio Istinto e logica della mente (Mimesis, Milano 2013). Svolge l’attività di insegnante e cura collane di saggistica e di poesia straniera.

da Il calvario delle gru, Bordighera Press, New York 2000

hopkins Autoritratto

hopkins Autoritratto

Sera a Sarajevo

E a volte le sere hanno questo spettro di silenzi,
a festone di beccafichi, sulle canape, a nastro.
E qualche farfalla, rara, e le rondini, a macchie,
sui fili. Ad ascoltare tenui affetti,
come un funerale che ascolta i morti,
a grappolo, il loro canto ebbro tra le cicale
e i caprimulgi. A volte le sere stanano
ingiurie, non altro che ingiurie, di morti,
la gruma del vino, l’ultima melodia. Di questo
è il vento che tace.

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da L’archivio delle bestemmie, Mimesis, Milano 2006

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Forse non è il lago (11 settembre 2001)

Forse non è il lago che fuma.
È la sera che, scendendo, spezza i rami
dell’acqua morta. Poi volano anche le anatre,
allungate come serve. Anche i pesci evadono
e hanno un occhio sconfitto, sanno
il nostro odore di uomini, quella puzza
di cadaveri trascendentali.
Oggi non è più il lago che fuma,
è l’eccetera della coscienza.

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L’ultima

Signori, io ho appesantito la pioggia
con le lacrime delle bestie
che avete gettato nella fangaia
insieme a questi versi che ho lucidato
per accogliere il grido che risale
dalle orde, al clivo dei mattatoi.
Ma io sono di questa carne il peccato
che piange, l’onere promiscuo
che raffina la mattanza.

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Amore inibito

Denoti assoluta morte nell’eremo
che in petto ti rovisto per amarmi.
Più che mai indago l’infezione che è in te
e scendo nell’alveo rosso del tuo crepaccio.
Indulgo al gelido che costringi con labbra infami,
rovino tra i tuoi denti,
scivolo sulla tua lingua muta,
mi apro un varco.
Bacio dunque la filigrana della mia colpa
sul tuo viso di banconota che compra
la sua pace, senza sorrisi né delicatezze.
Avrei dovuto concederti l’intera fragilità
della mia rabbia, ma sono tenue
e insacco il male nella tela dei versi.
Non avrei potuto neppure regalartela
la mia testa, a cento ghigliottine offerta,
invano. L’amore resiste alle lame,
alla gotta del tuo cuore irrisorio,
al tuo rancore incivile che lo rassetta
nel contocorrente della mia tenerezza.

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La comunione

Rendimi le tue labbra che il mio bacio
ha voluto districare dalle nubi,
inventa un altro proposito per le tue campagne,
l’amore è quel cirro che la vetta del pino
ingoia come un’ostia.
Sorprendi la tua rendita
con la veste di donna che neghi
e rincuora questo mio cervello affranto
che dileggia l’anima.
Noi viviamo d’ansia e di giustizia affascinata
in queste camicie di forza
che spezzerò come il corpo di cristo,
io ribelle che ho la ventura
con la mia bocca pazza e bastarda
di consegnarti l’eucarestia.

da Pergamena dei ribelli, Joker, Novi Ligure 2011

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Hanno violentato…

Hanno violentato il petto degli uomini
e questa schifosa poesia non ha ritmo
di rabbia e disgusto
ma cianfrusaglie
e ridicolo maquillage
un albore che si barcamena
tra le strane mimose del suo proscenio
e la lezione dei rampichini
sulla lavagna del vento
noi con le stesse braccia sul paretaio
eravamo uccelli che volavano
hanno violentato il nostro sorriso
che la morte trascina lentamente
nel suo sfregio
noi che tenevamo la morte in pugno
e potevamo salvarvi dai ghiacciai
ci avete ammessi alla vostra violenza
e all’infamia delle vostre donne
abbiamo dita caparbie che strapazzano la gloria
ma che non sanno con la penna
richiamare alle lacrime
gli occhi esili dei lettori.
Amici, la fronda dell’amore
ha foglie almeno per voi
che avete cuore sufficiente.

Avete appreso…

Avete appeso i colori dove il cielo era nero,
queste che vedete sono mani imperiture però,
macchiate, sia pure, con vernici d’oltre,
ma pronte alla battaglia contro tutti gli dei
che possa la vostra boria.
Anche le nostre labbra sono imperiture,
mica di pusillanimi poeti col cuore in ciabatte,
pure da seduti siamo sfrontati noi operai della parola,
noi vere bestie in agonia sulle greppie,
nelle mense per sfollati. Il parlamento è per i vostri poeti,
noi vogliamo il foglio dove scavare trincee,
anche chi scrive si prende le pallottole
quando trova la bellezza e la innalza
come una baionetta.

Vogliamo una poesia…

Vogliamo una poesia che sdruccioli sui pavimenti insanguinati
come le note d’un pianoforte bizzarro,
vogliamo che gli uomini amino la bestemmia
perché abbiamo sorvolato le piogge che sgretolano le nubi,
perché abbiamo portato dentro le età delle bestie
e le sconfitte e i rimorsi. Ma c’è sangue
anche nelle bifore, dove il bene e il male
hanno sguardi doppi e vogliamo una donna
che non abbia il volto di questo dio mediocre
che ha costruito poesie infelici.
Non ci sono strade più arcuate di questa
che ci trapassa d’amore e ci ha visti impropri
perché la spada si piega quando ha in punta
il peso della morte.

Affinché l’estuario…

Affinché l’estuario evada il nostro sangue
abbiamo amato l’affanno dei poeti –
ecco le loro lingue stupide e contrite
sui banconi dei macellai,
i numeri hanno sconfitto le parole,
sono carne di bue le poesie
sono occhi imbolsiti e orecchie pendenti.
È importante discutere dell’anima delle puttane,
noi tutti ne abbiamo una quando s’apparecchia la tavola,
è la sembianza del mercato,
il frutto che nel peccato è nudo
come il re che paga i poeti.
Ma i banconi sono spietati,
ogni acquirente ci mette le mani
e prova i versi sul suo corpo,
indossa anche le cimici.
Così è la moltitudine che misura il valore
senza conoscere la teoria dei quanti
ma con il peso della luce e della vanità.

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la poetica del post-contemporaneo: il tonosimbolismo di Roberto Bertoldo*

 «Come tutti i secoli che ereditano una rivoluzione paradigmatica della cultura, il Novecento ha vissuto il fascino di un’indolente, vile e superficiale controcultura. La neocultura del relativismo scettico, dell’informità, dell’indeterminismo, dell’antinomismo, ecc., ha faticato non dico a farsi strada ma anche solo a respirare sotto lo sbordante grasso della pseudocultura decadente. Sì, il decadentismo, che è una mentalità e non l’organigramma di una cultura, ha avuto vita facile con la sua fuga dalla realtà e dalle conoscenze scientifiche contemporanee, con la sua nostalgia dei valori assoluti, con la sua deformità meramente tecnica e sostanzialmente ludica, col suo storicismo finalistico e con l’influsso delle teorie estetiche metafisiche non differenziali, l’ero-teismo (… ho scelto di distinguere il postmoderno forte (o postcontemporaneo) dal postmoderno debole o decadentismo (…)

Il nichilismo non è l’uscita dalla modernità, ma l’approdo della modernità: un approdo epistemologico… La vera uscita dalla modernità consiste nell’uscita dal nichilismo, debole o forte che sia. Un’uscita che si compie solo nella ricostituzione dei valori mondani, ossia nell’emendarli da ogni incrostazione metafisica. Non è affatto vero che “un superamento critico” della modernità “sarebbe un passo ancora tutto interno alla modernità stessa” in quanto “fondato”… Il nichilismo che Vattimo pretende “debole” è semplicemente un nichilismo epistemologico (assenza di fondamenti)… Il nullismo, che abbraccia il post-moderno forte, non sostiene un nichilismo epistemologico, ma lo combatte con la sua epistemologia scettica… È questo scetticismo che riscatta il postmoderno. Il pensiero “debole” di cui parla Vattimo è un indebolimento del pensiero forte, in quanto metafisico, della modernità».[1]
È il pensiero di Roberto Bertoldo, un caso atipico di poeta-filosofo. Basti dire che in tutto il Novecento italiano non è dato riscontrare un altro poeta che abbia speculato da filosofo sulla questione che si chiama «decadentismo» e sulla elaborazione di una solida filosofia dell’arte. «Ogni stile è acquisibile in una cultura fondamentalmente ermeneutica. Il postmoderno è oltre lo stile, è nel metodo… nel suo adattamento al reale, negli stili che esso abbraccia. Esso è interpretazione, dunque libertà stilistica e… induttività ermeneutica». Bertoldo si chiede: che cos’è il  nullismo? Stabilisce una equivalenza tra il suo concetto di postmoderno e il nullismo, e di qui procede alla costruzione di una filosofia dell’arte rigorosamente materiata di «materia»; riparte da Leopardi per attraversare scrittori come Calvino, Borges e Queneau, i quali si sono limitati ad una rivoluzione solo «formale», per giungere a quello che l’autore chiama il nullismo, cioè «il rifiuto del decadentismo e delle sue viltà», a scrittori e poeti come Camus e Leopardi.[2]

L’intento di Bertoldo è fare un vero e proprio processo alla cultura (il «postmoderno debole») del Novecento. Ribaltare dal fondo la vecchia cultura del Novecento, demolirne le fondamenta per tentare di farla rinascere in chiave nullista (il «postmoderno forte o postcontemporaneo»), superando il nichilismo, per approdare ad una filosofia dell’arte e dell’azione che riparta dalla «sensazione» e giunga alla «materia», in opposizione al «nulla» quale è diventata la ricerca ossessiva del «nuovo» delle società tardo moderne. Il «nulla» del nullismo bertoldiano è la struttura stabile della «materia»: «il nullista lotta disperatamente contro il nulla e in questa lotta disperata c’è la difesa disperata di sé».

Bertoldo traccia una via di uscita: andare al di là del nichilismo e del postmoderno debole: il post-contemporaneo è esattamente questo accettare l’idea di un concetto di letteratura come azione, lotta disperata contro il nulla del nichilismo e contro tutte le tendenze dissolvitrici del tardo decadentismo. Per illustrare questo tragitto il poeta piemontese traccia le coordinate di una filosofia dell’arte: il tonosimbolismo.
Riguardo il tono, riporto questa perfetta definizione di Blanchot: “il tono non è la voce dello scrittore, ma l’intimità del silenzio che egli impone alla parola, ciò che fa che questo silenzio sia ancora il suo, ciò che resta di lui nella discrezione del suo porsi in disparte. Il tono fa i grandi scrittori”…

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Con “tono” intendo il valore (altezza, timbro e intensità) di un suono. Il tono è nel rapporto tra fonosimbolismo e simbolismo … tra figure retoriche sintagmatiche e figure retoriche paradigmatiche. Se nel simbolismo tradizionale la relazione è paradigmatica, così come nel fonosimbolismo, dove la relazione sintagmatica è solo sonora (e riguarda figure di ripetizione fonica), nel tonosimbolismo essa, quantitativa o qualitativa, è anche sintagmatica (es. concreto/astratto: “nubi silenti”, contenente/contenuto: “Parole di inverni”, e così via, sino a forme molto più complesse).[3]
Parallelamente alla maturazione della sua poesia, il poeta piemontese è costretto ad avviare una riflessione filosofica sui fondamentali filosofici. Per Bertoldo è una necessità speculare sul nichilismo contemporaneo e sulla «fenomenognomica» (una scienza che cerca di intuire la natura dei singoli fenomeni), per poter fare poi il passo successivo verso la costruzione di una poesia che sia il precipitato, la sintesi e il traslato di quella speculazione. In realtà, in Bertoldo riflessione filosofica e quella poetica procedono parallele. I suoi libri di riflessione filosofica, Nullismo e letteratura  e Principi di fenomenognomica (2003), costituiscono la sostanza e la cornice del suo pensiero poetico, formano una linea di resistenza nei confronti del pensiero debole, sostanzialmente ancorato al concetto gadameriano di interpretazione a fronte del quale Bertoldo elabora la sua teoria estetica fondata sul tonosimbolismo, un superamento del fonosimbolismo (che ha i suoi maestri in D’Annunzio e Pascoli ma anche in Poe). È necessario quindi fare una virata di 180 gradi nei confronti della tradizione del Novecento. Il risultato di questa impostazione è una poesia che dice ciò che è difficile dire: il discorso poetico come spazio della riflessione astratta e che fa del tonosimbolismo il centro di gravità della nuova forma-poesia. In questa accezione, L’archivio delle bestemmie raccoglie i frutti del lavoro iniziato con Nuvole in agonia (1981) e proseguito con Il pan demonio (1994), Il rododendro (1999) e Il calvario delle gru (2000).

Tutta incentrata sulla rigida clausura dell’io lirico, la poesia di Roberto Bertoldo è in realtà una poesia emancipata, che ha preso congedo dal simbolismo ereditandone il legato testamentario; che ha saputo pensare la criticità della propria problematicità per aver fatto i conti con quella cultura critica che praticava il superamento dell’io lirico traendone tutte le conseguenze. La restaurazione della centralità del soggetto è l’aspetto più vistoso del discorso poetico bertoldiano. Bertoldo intuisce e comprende, con indubbia genialità, la necessità di riformulare una nuova poetica di tipo post-simbolistico nel quadro concettuale del postmoderno, comprende che soltanto attraversando criticamente il post-simbolismo si può attingere una poesia emancipata e culturalmente attrezzata sul piano metaforico, comprende che soltanto arretrando sulle posizioni di un consapevole modernismo si può uscire dalla palude dei cliché del minimalismo.

L’archivio delle bestemmie, già con il titolo ci introduce all’interno di quella problematica europea circa la non pronunciabilità della parola poetica che dal simbolismo e fino al post-simbolismo arriva intatta ai giorni nostri; la dichiarazione dell’autore posta ad inizio libro è quanto mai esplicita: «Per me la poesia è una forma di bestemmia, la più candida».  Si può parlare di «letteratura impura», fondata sul minor numero di stimoli diretti dell’«io» e sul più ampio ricorso alle proprietà intrinseche del linguaggio metaforico. La poesia intitolata «Ai sedicenti poeti» rappresenta una pietra miliare della presa di distanza nei confronti delle «parole da rotocalco» dei linguaggi poetici maggioritari:

.
Le vostre divine parole sono da rotocalco,
le mie, così blasfeme e plebee,
le affiggo sulle porte delle cattedrali.
 

bello le maniLa metafora nella poesia di Roberto Bertoldo si configura come parola impronunciabile, «bestemmia», pur se «la più candida», quale forma di eruzione sul piano del linguaggio poetico, effrazione dell’ordine linguistico accreditato, divenire manifesto della stazione temporale-esistenziale dell’«io» nel suo viaggio anacronistico attraverso i linguaggi poetici normativizzati. Il tragitto temporale si manifesta e si traduce in tragitto anacronistico dell’«io». L’«io» pronuncia un discorso poetico desueto e arcano, impenetrabile, itinerario di risoluzioni linguistiche eleganti e proterve, sistema combinatorio che ha il suo codice di espressione nel pentagramma armonico analogo a quello della musica. Una dis-armonia prestabilita, come forma di resistenza alla barbarie, è il compito che spetta al poeta. Secondo Valéry: le opere letterarie esigono molti prolegomeni: «esposizioni, descrizioni, preparazioni, che hanno come funzione: le une, di definire le componenti e le regole del gioco; le altre, di familiarizzare il lettore sconosciuto con la sensibilità dell’autore».[4]

Nella poesia di Bertoldo la temporalità linguistica è un tutt’uno con la temporalità esistenziale, è la manifestazione delle resistenze poste dal poeta alle condizioni di esistenza del discorso poetico; in altri termini, l’insieme delle possibilità di trasformazione del linguaggio poetico espressivo. Ovvero, la metafora bertoldiana si configura come soluzione linguistica di un tragitto anacronistico e irriconoscibile. L’evento linguistico è il capovolgimento del divenire, cioè appunto, l’inversione, l’aprirsi di qualcosa di chiuso mediante un capovolgimento. La metafora bertoldiana si configura così come un cobordismo, una realtà chiuso-aperta che i fisici-matematici individuano quale modalità di esistenza dell’universo. Ma che cosa è «chiuso» nella lingua? La chiusura della lingua è l’essere muti: l’indicibilità della parola ad aprirsi. La metafora bertoldiana è nient’altro che quell’apertura in cui la parola anacronistica si rivela nella estraniazione dell’immagine. Nel lampeggiare la metafora bertoldiana trova il suo dispiegamento come univocità assoluta: il Passato precipita nel Presente e la metafora si configura come cicatrice dell’essenza.

La lingua poetica è un reale dispiegato, prodotto d’astrazione dell’intenzione significante. La metafora bertoldiana è una cicatrice linguistica che prende le distanze dal reale reificato e feticizzato dei linguaggi non dispiegati alla cui latenza contemplativa corrisponde l’essere legati da un rapporto parassitario con la lingua relazionale. Là dove la lingua è ridotta a strumento di un rapporto contemplativo, c’è soltanto emulazione e apologia, tautologia e servitù. Attraverso la metafora il linguaggio poetico bertoldiano diventa comunicazione simbolica, ci rivela la sua essenza, diviene vivo e reale, libero da ogni rapporto pragmatico-didattico e utilitaristico dei discorsi del suasorio come avviene nell’epigonismo corrente degli orientamenti poetici che non hanno meditato su queste problematiche. Soltanto là dove non è dato rinvenire astuzia o scaltrezza la lingua ci manifesta tutta la sua bellezza e si dispiega. La poesia che segue, intitolata «Il cavallo di legno», è un esempio impareggiabile della procedura cinetica e metaforica, a scatole cinesi, dove una metafora è contenuta dentro l’altra, dove l’interno è contenuto nell’esterno, e viceversa, come negli esiti dei cobordismi della fisica contemporanea:

Striglio invano il cavallo a dondolo,
la schiena di legno s’impone,
così getto le redini e il ballo
che era la tua infamia.
Che dici quando ostenti la carola
dove si compie la polvere?
questa brace di tarli sotto la sella
nell’arcione della memoria
che vacilla e respira e sfoca?
Forse avrai il perdono della corte
perché sei l’esatta putredine
pulcritudine delle mie ossa.

Dove il brillante chiasmo finale intende sottolineare e sottintendere quell’interscambiabilità interno-esterno, quel particolare reale dispiegato che contraddistingue la metafora bertoldiana.

Jason Langer, 2001

Jason Langer, 2001

Ma a questo punto dobbiamo chiederci: la metafora è una cicatrice linguistica? E che cos’è la cicatrice linguistica? È ciò che resta dopo la combustione? È ciò che resta dopo l’infezione del tessuto linguistico? Sono le scorie e i reperti dell’eruzione linguistica, il magma eruttato e solidificatosi durante il processo del raffreddamento? Tutta la fenomenologia dei tonosimbolismi bertoldiani è legata alla problematica del simbolico nel tardo moderno, all’impossibilità della pronuncia della parola poetica, al carattere profondamente luttuoso che la pronuncia della parola poetica ritiene quale contrassegno del paradiso perduto della Parola (“Così, attraverso le cicatrici delle mie labbra/ sputi i tuoi baci dentro il foglio immune/ del mio palato. Non parlo.”). Quel paradiso perduto dell’essenza linguistica dove la lingua degli uomini è simile a quella lingua dei nati di domenica che intendono la lingua degli uccelli. Poesia dell’impossibilità del dispiegamento del Passato attraverso la cruna del Presente. Qui, l’istante della metafora è il lampeggiamento in cui passato e presente miracolosamente coincidono. E sprofondano. Ma dove? Qual è il luogo di quello sprofondare? – Ma è appunto in quel «miracolo» che si consuma l’impossibilità del discorso poetico di trovare dimora nel Presente del continuum storico. Quel continuum che si dà soltanto nella discontinuità, nella frattura. E il continuum della storia è, per la cronaca, la catastrofe annunciata, il lutto che attecchisce la parola poetica.  Il «lutto» della poesia bertoldiana  deriva dall’assunto per una poesia espressionista in derisoria frequentazione delle «parole da rotocalco». Stigma della poesia di Bertoldo, e suo inestimabile merito, è la consapevolezza del lutto che colpisce il discorso poetico dopo la fine del Novecento, consapevolezza che innalza la poesia di Roberto Bertoldo ai piani più alti della civiltà della fine del secolo. Più che consapevolezza della crisi, è presentimento dell’estinzione di una civiltà.

E la poesia si dà soltanto quale annuncio del Tramonto incipiente. Se non v’è più una vie antérieure o un Hinterwelt, non c’è più una lontananza celata nell’oblio, e la metafora non può    più essere una metafora del rammemorare, un’elegia del tempo perduto come accade in poeti di minore consapevolezza poetica. Più che poesia dell’oblio, quella di Roberto Bertoldo è dunque una poesia del presentimento e dell’espressione. Come un sensibilissimo sismografo essa annuncia e anticipa i sussulti e le eruzioni di futuri terremoti, intrisa com’è di attese tenute sui fili dell’alta tensione della purissima intenzionalità poetica. Ma essa è anche ancipite e claudicante, forclusa e dissonante, peristaltica e perimetrata come all’interno di un campo minato, ove le parole trascorrono come sentinelle armate di tutto punto sugli spalti degli endecasillabi:

Ti pongo sull’anulare la serpe d’oro

e sui capelli quella corona d’alghe
che improvvisò la regalità azzurra
e sulle labbra ti bacio con dieci schiocchi
mentre scendi le scale della sinfonia
che ti ha accolta.
E prendo la tua mano fredda, la respiro
e sento pure che ci sono giornate come questa
in cui la pelle non è pacifica.

roberto bertoldo

roberto bertoldo

La poiesis richiede un approccio ontologico-ermeneutico, una strategia di trasformazione degli elementi sensibili, affettivi, emotivi, di attanti astratti e concreti che suggeriscono  una molteplicità del detto e non-detto, un infittirsi dei richiami all’interno dei testi. Alle infinite interpretazioni possibili viene a sostituirsi un continuum infinito che tende alla finitudine dell’opera «contropelo al mondo» che continuerà, se il futuro verrà, in un tempo oltre il tempo.

I testi bertoldiani si pongono come un fraseggio, un rumore di foglie significanti di un bosco deciduo che continuamente trapassa nell’abisso sonoro della lingua, e qui sprofonda nel pozzo senza fondo della mediazione metaforica; dove la comunicazione è, al suo grado massimo, il trapasso, costantemente fluido, del comprendere e del comunicare. La poesia bertoldiana, con la sua fame d’essere, vuole comunicare qualcosa di non-comunicabile, di non irreggimentato nel circuito significazionista del salario corrente; non intende comunicare con le «parole da rotocalco», non ne sarebbe capace, arretrerebbe inorridita. Ciò che la poesia bertoldiana vorrebbe comunicare è il medium, è altro, l’immediatezza della Lingua, l’immediatezza di ciò che è immediatamente mediato.

Io sono stato un uccello nero
con le ali inchiodate e il becco
che tracciava mappe sulle cortecce.
La vita è un foglio a quadretti,
noi sappiamo che i corvi affamati,
dalle stoppie, ci recitano poesie.

*

Non ditemi che l’amore soffia sulle carte,
non c’è altro che possa imputarmi la vita.
Anche il popolo dorme, sulle sue ossa di frumento.
Il mio solo castello è questo,
ha pareti di sogno,
ma la sua mobilia si distingue
con la potenza del rovere.
Come dentro di me, dove ha posto
l’utensile della giustizia
che si nutre dell’amore assassino,
dei suoi soldati bastardi che lanciano sorrisi
con la loro luce indisposta.
Non ditemi questo! Io voglio risvegliare
l’orrore, voglio la carezza che mi dilegui
dalle labbra la morte, voglio sulle carte
il segno del rossetto e le spade.
Voglio le finestre nel mio castello
e il ponte levatoio e i cavalieri
con le lance in resta. Se l’amore soffia
c’è una bestemmia che lo denuncia
e spendo una notte per questa deriva.
  

                                            da L’archivio delle bestemmie

 

Scalzati dalla brina come poesie che si fanno
di gladioli e carta pesta, i bianchi peli sulla testa di ratto vecchio
a luccicare con la maiuscola dei germi di morte,
noi che combattiamo lucidati come stivali, testa di moro dico
e bavagli che ci fregano – perché abbiamo ormai le pupille
con coda di paglia, le orecchie ad acciuffare il filaccio
delle parole, e le labbra, le labbra hanno giuda come rossetto,
e i baci si posano sulla ceramica della condizione.
Vi abituereste al perdono di chi non ha regno, né altre budella
per vomitare la storia, né fili per collane e bracciali
da fare incetta di vermi – vi prostrereste alla vendetta?
 

                                            da Pergamena dei ribelli

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Chiaro esempio di poesia autorevole, che adotta uno stile accusatorio ben distante dalle le istanze di poesia che proclamano col megafono una presunta unità di soggetto e oggetto. Il discorso poetico bertoldiano tenta con tutte le forze, mediante l’impiego di tutti gli artifici tonosimbolici, di aderire alla significazione. L’inteso e il referente colti in un viluppo storico-concreto dato dalla metafora tonosimbolica. Al tempo stesso, quanto più la parola poetica si approssima all’inteso, tanto più essa si allontana dall’«io», vorrebbe dire altro da ciò che dice; in essa l’intenzione significante non si sposa con l’inteso. È una scrittura del sortilegio, dell’énchantement  che si nutre di una alchemica e personalissima simpatia tra i vocaboli, desueti ed ultronei, massimalisti e infingardi, anche sordidi, d’un lerciume morale, d’un lazzaretto della coscienza, una sorta di patto di mutua belligeranza tra la «cloaca» e l’empireo dei linguaggi normativizzati («Vogliamo una poesia che sdruccioli sui pavimenti insanguinati / come le note d’un pianoforte bizzarro / vogliamo che gli uomini amino la bestemmia…»). Ciò che resta in tutta la poesia bertoldiana è appunto il non-detto, l’indicibile, la «bestemmia» dei «ribelli», perché ciò che essa intende e sottintende e vuole dire è la lingua spuria dei «rotocalchi», la parola espressiva che designa la codardia e l’«infame» delle parole coreutiche («Voi la sentite respirare, sentite l’aria / di questa poesia di cloaca. Lo sappiamo. / Siete infami. Sappiamo la rendita delle vostre scarpe»). Colpita dal lutto della perdita del linguaggio edenico della parola diretta, la poesia di Bertoldo sa che non è più possibile scrivere una parola innocente. Ciò che indirizza il discorso poetico bertoldiano al tramandamento estetico è il suo espressionismo fonosimbolico.

Come il cane  nell’esempio citato da Gadamer che addenta la mano che indica in avanti lo scorrere del tempo, la poesia di Roberto Bertoldo ostinatamente addenta la mano dell’attimo storico, perché cessi di indicare al di là di se stesso in un rimando infinito. La metafora bertoldiana addenta il senso come il cane di Gadamer, ma quanto più lo lacera e lo afferra, tanto più esso le sfugge lasciandola famelica e sanguinante. La metafora bertoldiana tende alla metafora allusiva, alla metafora incompiuta, al superamento della metafora verso un’altra Lingua, una lingua  protoedenica  priva di metafore, fatta di soli nomi, di nomi numinosi. Ritengo siano sufficienti queste brevi considerazioni per comprendere l’importanza e la centralità della poesia di Roberto Bertoldo nel panorama contemporaneo, l’originalità di percorso che la contraddistingue, il suo essere profondamente militante, avversaria implacabile di ogni forma di adeguamento dell’arte alla società della circolazione delle merci linguistiche dell’evo mediatico.

Roberto Bertoldo Nullismo e letteratura 1998 2° ed. Mimesis, Milano, 2011
Roberto Bertoldo Anarchismo senza anarchia Mimesis, Milano, 2009
Roberto Bertoldo Principi di fenomenognomica  Guerini e associati, Milano, 2003
Roberto Bertoldo Sui fondamenti dell’amore Guerini, Milano, 2006.
Roberto Bertoldo Il calvario delle gru Bordighera press, New York, 2000
Roberto Bertoldo L’archivio delle bestemmie Mimesis, Milano, 2006
Roberto Bertoldo Pergamena dei ribelli Joker, Novi Ligure, 2011

[1] R. Bertoldo Nullismo e letteratura Interlinea, Novara, 1998 2° ed. Mimesis, Milano, 2011 p. 147
[2] Ibidem, p.183
[3] R. Bertoldo op. cit. p. 85
[4] La cit. è da La creazione artistica (La création artistique), conferenza tenuta il 28 febbraio alla Société française de philosophie in Bulletin de la Société française de philosophie, gennaio 1928, raccolta in Vues, Paris, 1948. Si tratta di un testo non incluso nelle Ouvres. È stato tradotto in italiano e raccolto nel vol. antologico Paul Valéry, La caccia magica, a cura di M.T. Giaveri, Napoli, 1985 – cit. p. 35

 *Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia contemporanea (2000-2013)Società Editrice Fiorentina, Firenze, pp. 148 € 14

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