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Céline Menghi, ‘(H)a letto’, romanzo, Genesi editrice, Torino, 2021 pp. 78, 10,00 Lettura di Giorgio Linguaglossa, il romanzo indaga lo stato di confusione tra desiderio di felicità e uno stato di perenne dispersione esistenziale sotto l’egida di una euforia del possesso che Foucault ha riassunto con una frase emblematica: «oggi la vita è divenuta un esercizio di potere»

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 … anche quest’anno la trasmissione conferma la sua formula, a metà fra il rotocalco e il talk show

(didascalia di presentazione della trasmissione ‘Agorà’ di Rai 3)

La storia di questo anti-romanzo ci vuole dire qualcosa di noi che c’è e che scompare di continuo, che è sempre altrove, magari al tavolo ristretto del “G 7”, che una volta era il “G 8” o il “G 20”, in quel tavolo che forse esiste, o forse no, un luogo dove si «giocano» i destini generazionali, il cui accesso è per qualche mistero a noi sempre interdetto.
Scrive Sandro Gros-Pietro nel risvolto di copertina: «Un personaggio femminile racconta la vicenda, in chiave di falsetto autobiografico, incentrata sull’incontro con un’extracomunitaria dell’estremo oriente, con ogni probabilità cinese, e che porta il nome di una nota eroina dei fumetti, Zhu-Li. Il dialogo serrato… viene inserito nel più ampio dialogo interiore mantenuto sempre vivo dalla protagonista, come pista psicanalitica di analisi e di indagine psicologica dei percorsi della mente».
Ai personaggi restano le apparentemente più prosaiche questioni dell’amore, della sensualità, della condizione psicologica ed esistenziale, un pianeta di micro sensazioni che orbita intorno al cuore delle cose, ammesso che esista un «cuore delle cose».
(H)a letto è scritto in uno stile che oscilla, di digressione in digressione, tra stupore e una nostalgica rassegnazione, che contrassegna, forse, la Stimmung di una generazione, la nostra, che si è trovata tagliata fuori dalla Storia, condannata ad abitare la cornice di un asfittico quotidiano, con la conseguente riconfigurazione in chiave borghese delle categorie del desiderio e della felicità.
È una generazione, quella di Céline Menghi e la nostra, che ha dovuto subire l’ideologia invasiva della vita privata, e l’ha eretta, involontariamente e inconsapevolmente, a proprio monumento identitario. (H)a letto è l’antiromanzo della vita privata dei giorni nostri, una vita biologica e psicologica mancante però di una dimensione «altra», di cui tuttavia continua a percepire una intollerabile e incolpevole nostalgia.
È una generazione, quella che emerge dal romanzo, fondata su dicotomie e antinomie che convivono e confliggono; una generazione che vive l’esistenza come una successione di bivi, una sequenza di indirezioni in una tabella di marcia dove ogni scelta è una non-scelta o una scelta subita o involontaria. Il luogo dove si decide la felicità o l’infelicità non è il «nostro» luogo, ma un luogo che non conosciamo; scegliere a volte è nessitata, perché ogni scelta comporta un’esclusione. In tal senso, (H)a letto rispecchia una condizione diffusa del nostro modo-di-vita nel segno di una ambizione egotica che resta sempre delusa o inconsapevole. Il romanzo (o piuttosto, l’anti-romanzo) indaga lo stato di confusione tra desiderio di felicità e uno stato di perenne dispersione esistenziale sotto l’egida di una euforia del possesso che Foucault ha riassunto con una frase emblematica: «oggi la vita è divenuta un esercizio di potere».
(H)a letto non è un anti-romanzo d’un amore, tantomeno una lifelong story ma è un anti-romanzo sull’esistenza che diventa desistenza, dove due modi di essere si alternano e si contrappongono, mettendo il lettore davanti alla piacevole sensazione di essere lì, tra le righe del romanzo, a spiare.
(H)a letto è un anti-romanzo della nostra condizione di dispersione simbolica, che descrive con cautela, con leggerezza. È questo forse il tema segreto dell’anti-romanzo: gli altri ci influenzano, sempre; e non sapremo mai fino a che punto la nostra esistenza non è stata il risultato dei nostri desideri e delle nostre azioni, quanto dei desideri e delle azioni che abbiamo subìto e/o tollerato.

È un intreccio di enunciati segmentato, dissestato, sismicizzato ma al contempo elastico. La nuova fenomenologia della narratività adotta in senso postmodernistico lo storytelling quale cornice multidimensionale e prospettica in quanto a-centrica, o meglio, pluri-centrica.
Le singole unità narrative, le scene, appaiono e scompaiono da una «zona franca». Per questa ragione la formalizzazione strutturale, la composizione a polittico e a distico viene in primo piano a scapito della modellizzazione stilistica unidimensionale della poesia e della narrativa della tradizione.
Le opere della «narratività diffusa» della nuova fenomenologia della narratività si vestono di una nuova e inusitata a-centralità.

(Giorgio Linguaglossa)

Céline Menghi 1

(Céline Menghi)

Stralci dal romanzo (H)a letto

Mi sembra di colpo di non sapere più niente: dove sono, perché. Non sopporto di non sapere più niente. Lei mi sollecita il corpo, il cervello, l’anima. L’anima? Che cos’è l’anima? Ora mi vesto.

Devo vestirmi.
Devo andare.
Devo tornare.
Mi farà impazzire— Forse l’amo un po’, o lo penso, o mi piace pensarlo. Forse mi avventura pensarlo. Ma no, non è vero. Però lo penso, e, se lo penso, è perché forse sto incominciando a… No, non è vero. Mi vesto.
Devo vestirmi.
Non so domani.
La maiolica è verde acido. Ecco. Mi mancherà, domani… Guardo la mia mano appoggiata alla maiolica. In piedi, fisso la maiolica e penso. Penso molto, penso, penso, mi areno nel pensare, lo so.
Ogni volta torno.
Torno.
Accidenti, torno da lei!
E poi torno a casa.
Non faccio che tornare. Da lei, poi a casa, poi da lei, ma sempre torno a casa.
Torno, perché appena incrocio i suo sguardo, appena la sfioro…

Le pieghe del lenzuolo sono valli, canali, canyon, fanno una montagna altissima le cui pendici scivolano dal ginocchio sulla nuda pelle. Tutto così ridicolo se una ci pensa un po’ di più. Un brivido le percorre il corpo e corre a non pensarci più. Guarda qui, si dice: il letto sfatto come capelli sciolti e arruffati, la finestra spalancata tanto nessuno ci vede. Il suo corpo, qui, abbandonato come crema appena fatta e ancora tiepida, da gustare ancora, mentre uno stormo di pappagalli verdi e viola si sta posando sull’albero di arance e piano piano le svuoterà tutte. Incomincia a fare caldo.

*

La strada è deserta.
La città silente.
Un drone passa sulla mia testa.
Silenzio.
da un marciapiedi all’altro risuonano i passi.
Non sento più il rumore del traffico.
Ambulanze, ambulanze… Non è una rarità, è un suono che solca la rarefazione dell’aria e la scrive giorno dopo giorno, ora dopo ora. Scrive questa storia mai pensata

… attacca la proteina… si sposta, sabato un filamento filamento… si aggancia a un nastro…
fila fila
a noi il lamento
invisibile, piccolissimo… venerdì, sabato, picco, respiro e lamento, filamento invisibile filamento

distanziamento spostamento
si attacca la proteina si aggancia invisibile

Il tempo di svuotare la spazzatura
In sogno mi strappo i guanti come una pelle ustionata e mi guardano come se non fossi io, non mi riconosco

La strada sembra un nastro trasportatore fermo.
Lo spazio non ha solchi.
La strada è un nastro trasportatore fermo.
Lo spazio senza solchi.

*

Bai Yun duo mi porta a casa
—- Huizi
Buongiorno! persone
Le nuvole nere sono bianche come il cotone
Improvvisamente nostalgia di casa

Trascorri la luna piena qui in primavera
Lamentarsi del calendario in crescita
Forse ci sarà sempre una fragranza floreale
Ma il tempo è passato

Indipendentemente dalla primavera, fragranza floreale
Pianifica un viaggio di ritorno
La bella stagione dei fiori e degli uccelli
Sono molto grato per la bellezza della vita
Credi che avere amore interiore significhi avere

*

Lo scirocco ottunde i sensi
I fichi si spaccano sul granito
Succosa carne sulla pietra secca

Brillavano minuscoli cristalli

Mi chiedi cosa sto pensando, Enel
Premurosa, telefoni di sabato, di sera, e parlando di solitudine!
Non sto pensando

Ascolto
Guardo
Sono inciampata in un rospo nella sterrata bianca, se è vivo, sarà fortuna

Enel, concedimi una tregua

Senza connessione.
Fammi sparire con una strisciata di dito
Non passerò a Illumia d’immenso!

Il sole sferza ogni cosa dove passa, si sosta

Il cielo è opaco
Un’ala d’uccello frulla la sua ombra
Non sosta, va via e via…

Forse ti spegnerò, gas

Mi avvolgerò nella lana
Darò della lana*

  • da Céline Menghi, Foulard amaranto, Genesi editrice, 2023

foto, porta vincent-branciforti

foto di Vincent Branciforti, Porta –

.

Céline Menghi è nata a Milano e vive e lavora a Roma. È psicoanalista, membro dell’Associazione Mondiale di psicoanalisi e della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi. È docente dell’Istituto freudiano per la clinica, la terapia e la scienza. È membro del Comitato scientifico del Consultorio “Il Cortile” presso La Casa Internazionale delle donne a Roma. Ha tradotto testi di psicoanalisi dal francese e dallo spagnolo di vari autori, tra cui Jacques Lacan e Jacques-Alain Miller. Ha pubblicato in diverse riviste italiane e straniere e due saggi con altri autori: “Invenzioni nelle psicosi” (Quodlibet, 2008), “Cinque pezzi difficili” (Alpes, 2016). È stata capo redattore della rivista “attualità Lacaniana” dal 2019 al 2022. Ha pubblicato quattro romanzi con la casa editrice Genesi: Dire mu (2019), Blu cobalto (2020, di prossima pubblicazione in lingua spagnola), (H)a letto (2021), Foulard amaranto (2023, terza al Premio Emily Dickinson).

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Raffaele Urraro, Poesie scelte, da Bereshìt (In principio… ), 2017 – con una dichiarazione dell’autore e un Commento in forma di poesia di Giorgio Linguaglossa

 

pittura Jason Langer, 2001

Jason Langer, 2001

Raffaele Urraro è nato il 1940 a San Giuseppe Vesuviano dove tuttora vive e opera. Dopo aver insegnato italiano e latino nei Licei, ora si dedica esclusivamente al lavoro letterario. Collabora come redattore alla rivista di letteratura e arte «Secondo Tempo» diretta da Alessandro Carandente. Suoi interventi critici, con saggi e recensioni, sono presenti anche su altre riviste, come «La Clessidra», «L’Immaginazione», «Capoverso», «Sìlarus», ecc.
Ha pubblicato molte raccolte di versi e opere di saggistica tra cui Giacomo Leopardi: le donne, gli amori, Olschki, Firenze 2008; La fabbrica della parola – Studi di poetologia, Manni Editore, San Cesario di Lecce 2011; “Questa maledetta vita” – Il “romanzo autobiografico” di Giacomo Leopardi (Olschki editore, Firenze 2015), e Le forme della poesia – Saggi critici (La Vita Felice, Milano 2015).

Commento di Giorgio Linguaglossa in forma di poesia alla maniera della «nuova ontologia estetica»

«ho sognato che Dio mi chiedeva di scrivergli
una recensione per la sua creazione…»

disse proprio così. inutilmente io mi schermii dicendo
che non mi sentivo all’altezza…

allora Dio si è rivolto a Gino Rago
[del resto anche lui è un membro della nuova ontologia estetica]

ma, sfortunatamente per il Signor Dio, anche Gino ha declinato l’invito
con l’argomento che il Buio rotola alla velocità della luce

e altre smargiassate che non vi sto qui a ridire,
e allora quel manigoldo si è rivolto a Mario Gabriele

dicendogli che lo avrebbe accolto nel regno dei cieli se…
ma il risultato è stato che il poeta di Campobasso se l’è data a gambe;

insomma, a farla breve, Dio ha dovuto rinunciare…
e sì, e la «creazione» è rimasta senza alcuna recensione

*

pittura Old Chicago Avenue Station Entrance by Jim Watkins

Old Chicago, Jim Watkins 

Citazioni in exergo di Raffaele Urraro

Ho sognato che Dio mi chiedeva
di scrivergli una recensione
per la sua creazione.
(Charles Simic)

Uomini, perdonatelo,
perché non sa quello che ha fatto!
(José Saramago, Il Vangelo secondo
Gesù Cristo)

ab/io/genesi è questo mondo che ruota
niente sarebbe questo girotondo
senza l’io cosciente che intravede
e parla e fissa le parole
(r.u.)

Gli dèi devono ringraziare la poesia
se si trovano in cielo.
(Charles Simic)

Nota dell’autore

Questo libro di versi non vuole essere il controcanto della Genesi, né la satira della Scrittura, né si configura come il canto di un predicatore che vuole convincere gli altri sulla sua verità. Non ho la presunzione di dire cose rivoluzionarie, né ho l’umiltà per nascondere le cose che penso e tenermele per me. Ho voluto solo raccontare in versi la mia visione delle cose e del mondo prendendo spunto dalla Genesi, fonte che mi ha ispirato e mi ha spinto all’espressione poetica per dare corpo a quella visione cosmologica che è venuta formandosi nella mia mente con gli studi e la riflessione.
In questo libro sono solo un poeta, uno che cerca di dire, lavorando colle/sulle parole, le sue idee, i suoi sentimenti e, rispettoso dei sentimenti e delle idee di ciascun individuo, cerca di esporre le sue convinzioni sulla genesi e sul destino finale del cosmo, della terra, della vita, della storia, dell’uomo.

Avvertenze particolari

1. Il Pensiero, con la iniziale maiuscola, è il Pensiero ritenuto il logos creatore dell’universo, mentre il pensiero con la iniziale minuscola è il pensiero umano che, nella mia visione, ha dato vita al Pensiero: è questo il sillogismo teoretico che ha illuso e deluso, che illude e delude, che illuderà e deluderà gli uomini di ogni tempo.

2. Questo libro si sostanzia di testi poetici esplicativi dei versetti della Genesi e di altri testi che sono nati dalle mie personali riflessioni sui contenuti biblici.

3. Debbo al mio carissimo amico Raffaele Perrotta, che la adotta di norma, la segnalazione dell’inizio dell’interrogativa per mezzo del segno ¿, come d’uso nella lingua spagnola.

4. Il testo biblico da me seguito è quello della versione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana del 2007.
5. Bereshìt, il titolo, è parola ebraica, significa «In principio» e indica
propriamente la “Genesi” («Origine»).
R.U.

raffaele urraro immagine

Bereshìt (In principio… ), Marcus edizioni, 2017

prologo

sto accovacciato all’ombra
di un platano
– che non è un platano
e non è neppure una pianta –
qui nell’eden circondato
dall’opalescenza infastidita della noia
a bere un bicchiere di vino
annacquato con un po’ di fantasia
e a giocare con nuvole di passaggio
disegnando nell’aria
ghirigori evanescenti
vedo veli bianchi che stendono nell’aria
una sottile malinconia
(veli bianchi bianchi veli
che a vederli ti s’offusca il cuore)
mentre il ricordo della terra
e della vita
è segno di pura nostalgia
non si direbbe
eppure
nell’eden non si sa cosa fare
: una volta morti
si è morti dappertutto
sulla terra se bevi un bicchiere
almeno senti il corpo rotolarsi
nelle brezze della sera
e quando fai l’amore
davvero ti senti bussare
alle porte dell’abisso
per entrare nello spazio del nulla
che sembra spazio del tutto
qui nell’eden
se ne stanno con le mani in mano
a sdrucire le trame del tempo
pigro e insolente
e a contare le ore
che non passano mai
ma io voglio stare
dentro il tempo
e dal tempo calarmi
fino alla fonte primigenia delle cose
anche se le cose
sembrano soltanto
mere proiezioni del pensiero Continua a leggere

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EDITH DZIEDUSZYCKA 8 Dicembre, ore 18, PALAZZO DEI CONGRESSI di ROMA (Piazzale Kennedy)  SALA AMETISTA, PRESENTAZIONE di “TRIVELLA” Interventi di Sandro Gros-Pietro, Giorgio Linguaglossa, Pino Censi – DUE POESIE da “Trivella” (Genesi, 2105 pp. 130 € 12) “Per una poetica del Vuoto” Questa “Cosa nuova” che galleggia nel vuoto – con una nota di lettura di Giorgio Linguaglossa

 foto donna con pavimento a scacchiD’origine francese, Edith de Hody Dzieduszycka nasce a Strasburgo dove compie studi classici. Lavora per 12 anni al Consiglio d’Europa. Nel 1966 ottiene il Secondo Premio per una raccolta di poesie intitolata Ombres (Prix des Poètes de l’Est, organizzato dalla Società dei Poeti e Artisti di Francia con pubblicazione su una antologia ad esso dedicata). In quegli anni alcune sue poesie vengono pubblicate sulla rivista Art et Poésie diretta da Henry Meillant, mentre contemporaneamente disegna, dipinge e realizza collage. La prima mostra e lettura dei suoi testi vengono effettuate al Consiglio d’Europa durante una manifestazione del “Club des Arts” organizzato da lei e alcuni colleghi di quell’organizzazione.

  Nel 1968 si trasferisce in Italia, Firenze, Milano, dove si diploma all’Accademia Arti Applicate, poi Roma dove vive attualmente. Oltre alla scrittura, negli anni ’80 riprende la sua ricerca artistica, disegno, collage e fotografia (incoraggiata in quell’ultima attività da Mario Giacomelli e André Verdet), con mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Comincia a scrivere direttamente in italiano e partecipa a premi di poesia con inserimenti in numerose antologie.

              Ha pubblicato: La Sicilia negli occhi, fotografia, Editori Riuniti, 2004, prefazione di Giampiero Mughini e Antonio Ducci.  Diario di un addio, poesia, Passigli Ed., 2007, prefazione di Vittorio Sermonti.  Tu capiresti, fotografia e poesia, Ed. Il Bisonte, 2007, prefazione di Vittorio Sermonti, postfazione di Giovanni Paszkowski.  L’oltre andare, poesia, Manni Ed., 2008, prefazione di Ugo Ronfani.  Nella notte un treno, poesia bilingue, Ed. Il Salice, 2009, prefazione di Salvatore Malizia.  Nodi sul filo, racconti, Manni Ed. 2011.  Lo specchio, romanzo, Felici Ed., 2012.  Desprofondis, poesia, La città e le stelle, 2013, presentazione di Massimo Giannotta.  Lingue e linguacce, poesia, Ginevra Bentivoglio Ed., 2013, prefazione di Alessandra Mattei, illustrazioni e nota di Paola Mazzetti,  A pennello, poesia, Ed. La Vita Felice, 2013, prefazione di Elisa Govi, postfazione di Mario Lunetta.  Cellule, poesia bilingue, Passigli Ed., 2014, prefazioni di Sandro Gallo e François Sauteron.  Cinque + cinq, poesia bilingue, Genesi Ed., 2014, prefazione di Sandro Gros-Pietro.  Incontri e scontri, poesia, Fermenti Ed., 2015, postfazione di Anton Pasterius.

              Ha curato: Pagine sparse di Michele Dzieduszycki, Ibiskos Ed. Risolo, 2007, prefazioni di Pasquale Chessa, Umberto Giovine e Mario Pirani.  La maison des souffrances, Diario di prigionia di Geneviève de Hody, Ed. du Roure, 2011, prefazione di François-Georges Dreyfus.

foto donna seduta

Giorgio Linguaglossa: Per una poetica del Vuoto. Quella “Cosa nuova”

I

«Interno senza mobili.
Luce grigiastra.
Alle pareti di destra e di sinistra, verso il fondo, due finestrelle molto alte da terra, con le tende tirate.
In primo piano, a destra, una porta. vicino alla porta, un quadro appeso con la faccia contro il muro.
In primo piano a sinistra, ricoperti da un vecchio lenzuolo, due bidoni per la spazzatura, uno accanto all’altro.
Al centro, coperto da un vecchio lenzuolo, seduto su una sedia a rotelle, Hamm».

È la didascalia d’inizio di Finale di partita (1957) di Beckett. In un certo senso, questo introibo può fornirci un incunabolo di ciò che ospiterà il palcoscenico, non solo per il teatro dell’avvenire ma anche per il romanzo e la poesia dell’avvenire.

Anche questo libro di Edith Dzieduszycka mette in scena una rappresentazione primaria, il fondamentale, ciò che è rimasto dopo il naufragio di quel Titanic che un tempo è stato l’«io» della Ragione Occidentale. E non può essere diversamente: ogni libro di poesia che si fa oggi non può che replicare il calco, lo Urbildung, la forma primaria. Oggi, un libro di poesia degno del nostro tempo non può che rappresentare qualcosa che richiami alla memoria la Struttura Assente, quello che gli esistenzialisti chiamavano negli anni Sessanta il «nulla» e che oggi alcuni filosofi preferiscono chiamare il «Vuoto». La rappresentazione primaria di Edith Dzieduszycka ospita l’azione scenica primaria: la rappresentazione della morte dell’«io», e della sua resurrezione, ma solo come involucro, surrogato, idolo, feticcio di un «io» che è scomparso. Ritorna in mente l’interpretazione adorniana secondo la quale l’opera d’arte del dopo Auschwitz,  non può far altro che dichiarare la negatività del presente, e nel trovare una sua positività proprio in questa dichiarazione sostitutiva di negatività. Qui Adorno coglie un elemento essenziale della poesia del Dopo Auschwitz: la rappresentazione del negativo come essenza della poesia moderna.

Trivella di Edith Dzieduszycka prende atto della fine della poesia positiva, del decesso della poesia-conversazione, trova una sua ragion d’essere nello svuotarla dall’interno, innanzitutto riducendo il colloquio (la conversazione) in un monologo fine a se stesso, privato della sua funzione significante, e quindi sociale; e poi perché nel libro si mette in atto il fatto nudo e crudo della morte dell’«io», rivelandone la natura di rappresentazione teatrale, di fiction e nulla più.

Leggera
eterea
galleggiava
la Cosa nuova
indescrivibile
sgusciata dall’io
ormai disabitato

e volava
quella Cosa strana
volava…

foto donna con maniDunque, ci sono «un frastuono di luci», «luci bianche», «un tappeto», una «Cosa nuova» «sgusciata dall’io», c’è una «paccottiglia derisoria / ciarpame superstizioso». C’è tutto il necessario per indicare un interno borghese con tutto il suo armamentario di delitti e di scheletri stipati negli armadi, con anche lo scheletro della cultura e delle cose «belle».

Ovattato
incredulo
volava
quell’Io nuovo
Forse provano simili sensazioni
incomunicabili
i cosmonauti
nello spazio
le farfalle
liberate dalla crisalide
i pesci
e i pulcini
dall’uovo
[…]
Avevo letto
di lunghi tunnel
in fondo ai quali scintillano
luci bianche
abbaglianti
Avevo sentito
di musiche celestiali
di ombre
pian piano riconoscibili
che avanzavano incontro
a chi si era smarrito
Paccottiglia derisoria
ciarpame superstizioso
che allora
tanto
mi irritavano

Ed ecco
proprio quelle sensazioni
stavo provando
Ero fermo
e volavo
Ero fermo
e scivolavo
lungo pareti ondeggianti
dai colori mai visti…

edith dzieduszycka 1

È l’esistenza di un «io» che è rinato dal decesso del precedente:

Altro ormai era
l’Io
sfilato dal guscio
per approdare
a dimensioni sconosciute
ero diventato quello
che aveva sostituito
l’io precedente
e guardava
più in basso
la buccia vuota…

Una voce monologante, la voce di un «ectoplasma» che racconta una «scoperta incredibile», «Al di fuori di ogni immaginazione». Il Nuovo «Io» che vive in un mondo di altri «io» sopravvissuti ad una catastrofe, senza saperlo, senza neanche sospettarlo, che guardano al nuovo «Io» «come se fossi / un pericoloso extraterrestre». È il mondo del Dopo la terza guerra mondiale, del Dopo il conflitto atomico, del Dopo lo scontro delle civiltà. La voce monologante parla, straparla, è una voce alienata ed espropriata di se stessa, la voce di un morto vivente, di un sopravvissuto di «un pericoloso extra terrestre» che non sa che farsene di questo nuovo «io» che «galleggia» nel vuoto.

La poetessa utilizza il piano basso del linguaggio, un parlato a metà tra la conversazione e la confessione, lessico sobrio, visione minimale o minima delle cose, attenzione che si posa sugli aspetti minimi delle vicende rappresentate, «tra persone ben educate» come l’attesa in un ufficio dell’anagrafe dove con 26 centesimi ci si assicura «d’esistere in vita». Una condizione nella quale «mi manca l’orizzonte», quel malessere quieto dell’esistenza tipico delle società della affluent society, come si diceva una volta, prima dell’epoca della stagnazione e della recessione. Non c’è altro da dire per un poeta della metropoli odierna come Roma dove la Dzieduszycka vive, tutto è a posto, la borghesia colta mediatizzata vive nella «sfilata di salotti con arredi pregiati / Nulla da contestare», alla poesia non è rimasto nulla da dire. Altro che poesia civile, o impegnata, qui è la poesia che è stata fatta sloggiare dal ruolo di critica sociale nel quale un tempo si pacificava la coscienza delle anime nobili, ormai la pacificazione è entrata dentro le cose, dentro un modo di vita che non promette alternative, e alla poesia non resta altro da fare che prenderne atto.

foto New York City

New York City

Come un tempo si diceva, la visione del mondo della Dzieduszycka, la sua Weltanschauung, (se vogliamo apparire colti), è ben indicata dalla citazione di Emil Cioran posta in esergo del libro: «Bisognava rimanere allo stato larvale, fare a meno dell’evoluzione, rimanere incompiuto, gioire della siesta degli elementi, e consumarsi placidamente in una estasi embrionale». Il titolo della prima sezione del libro è: «Andata e ritorno». Il cerchio si è chiuso. Tutto è finito. Non è propriamente, credo, la storia dell’eterno ritorno, ma un ritorno che segna definitivamente la morte di tutto, perché nella storia del nichilismo moderno siamo arrivati a questo punto, alla morte del tutto e al ritorno nel nulla. Il luogo dell’azione è, come quello del Finale di partita, un interno spoglio, illuminato da una luce grigiastra, forse ci sono due piccole finestre poste in alto, forse è il palcoscenico stesso, forse è l’interno dell’occhio che guarda, o forse è il «palcoscenico dell’anima mia» di Palazzeschi? No, è il palcoscenico con un feretro nel mezzo, il feretro dell’«io» morto. Si tratta dunque di una meta-narrazione, poesia meta-teatrale, meta-poesia. Siamo dentro un bunker, un rifugio in mezzo alla neve che imperversa, o un rifugio antiatomico, dopo l’esplosione di una bomba nucleare. Dentro, c’è un sopravvissuto, l’«io» che è morto e che è rinato, non si sa come e non si sa perché: «In frantumi / testa / petto / corpo intero / dolore / frastuono / luci…»; «Contemplavo / qualcosa / che ero stato / che era stato mio / che assomigliava / a quel che ero stato / steso sul tappeto / insieme all’altro corpo / sconosciuto / portato lì / per essere consumato // L’altro corpo / avvinghiato / all’involucro di me / abbandonato / L’altro corpo / fremente / che lottava / si divincolava / per liberarsi dalla morsa inerte…».

5

Mi hanno trasportato
in un luogo bianco
freddo
illuminato da luci
abbaglianti
e crudeli

Maledetti
non ho potuto fermarli

Si sono a tal punto
ingegnati ad ostacolare
il corso naturale delle cose
si sono accaniti
con tanta ostinazione
a risalire la foce
della mia corrente
che ci sono riusciti

E strappavano dalla morbida nicchia
nella quale mi stavo adagiando
i pochi filamenti che
ancora
mi mantenevano
allacciato al voltaggio di giù
per ricollegare gli ultimi elementi
ancora disgiunti

Si sono poi congratulati
rumorosamente
tutti intorno al mio letto
somministrandosi grandi pacche
sulle spalle
mentre stappavano
bottiglie di champagne
con un brindisi

Abbiamo lottato a lungo
vecchio mio
ma ti abbiamo salvato !

gongolavano
gonfiando il petto
E proclamavano
orgogliosamente

Faticoso è stato l’atterraggio
ma ce l’abbiamo fatta|
L’abbiamo ripescato per i capelli
Potrà accendere un cero
alla Madonna
e uno
più grande ancora
a noi!

Ma non m’importava nulla
dei racconti di quelle
– ai loro occhi –
prodezze
Anzi
mi facevano rabbia
Non mi avete chiesto
né il mio parere
né il mio consenso
Che d’altra parte
in quel momento
non sarei stato in grado di dare
Ed è
quell’incapacità
l’unica scusante
che riesco a concedere loro
la sola discolpa
che a malincuore
posso loro riconoscere
però non volevano ammettere
di aver agito
con una prepotenza inaudita
di essersi appropriati
di una vita
non loro
di aver oltrepassato
i limiti

erano invece sicuri
di stare dalla parte giusta
Sgomenti
e rabbiosi
mi hanno preso per pazzo
rimanendo di stucco quando
invece di ringraziamenti
si sono visti bersagliare d’improperi
Ma dov’era
il grande merito
che si attribuivano?

Pensavano forse
di essersi trasformati
negli artefici
di una resurrezione
di una ri-creazione?
Riacchiappando il bandolo
d’un misero gomitolo
che si stava esaurendo
e il cui filo era sul punto
di sfuggir loro dalle mani
per smarrirsi e sparire
nella grande matassa del mistero

Aver riportato indietro
uno
uno qualunque
contro la sua volontà
a loro sembrava
un’impresa prodigiosa
degna dei più grandi elogi
di un’eterna gratitudine

Invece no

Per me si era trattato
soltanto
di un andare
contro la corrente
dell’ineluttabile
Di una mossa prepotente
per la quale li odiavo
adesso
con tutte le mie forze

Perché avrei voluto
rimanere
lassù
sospeso
senza identità
senza peso
senza consistenza
senza pensieri.

Ci stavo bene volevo rimanerci

Là sotto
invece
ombre in camici verdi
si agitavano
indaffarate e moleste
Mi pervenivano
le loro voci
lontane
immerse in un tiepido brodo
voci sempre più deboli
quasi inintelligibili
Dolori sconosciuti
m’avevano squarciato il petto
con lance
spade

coltelli
Poi
all’improvviso

si erano allentati
per sparire del tutto
Fuoriusciti
insieme all’io
testimone
osservatore
leggero come soffio
di brezza primaverile
Dapprima impaurito
poi incuriosito
appassionato
nel seguire le fasi
della metamorfosi
che si stava compiendo

Altro ormai era
l’Io
sfilato dal guscio
per approdare
a dimensioni sconosciute
ero diventato quello
che aveva sostituito
l’io precedente
e guardava
più in basso
la buccia vuota

Spettatore
del mio rifiuto
scarto del mio rifiuto
diniego
a reintegrarlo
Oggetto impotente
senza più voce né volontà
in balia del balletto verde
indaffarato
che gli volteggiava intorno
mosche ronzanti
avide
all’assalto d’un pezzo
di carne marcia

Ho capito poi
qual era lo scopo
di quelle mosche prepotenti
Cercavano di rianimare
le sembianze del me
di ridare movimento
alle membra inerte
battito
al cuore impazzito
poi ineluttabilmente
fermo

Hanno palpeggiato
massaggiato
perforato di aghi
fatto saltare
cavalletta impazzita
la bestia renitente

e sopra quella bestia
lottavo
con tutte le mie forze
gemevo
non mi sentivano
gridavo
non m’ascoltavano
urlavo
e a loro
non arrivava nulla
della mia disperazione
mi opponevo
con tutte le forze
alle loro manovre

Ma possiede forze
un ectoplasma?
Così ho capito
in modo sempre più chiaro
che la lotta era vana
Inutili
i miei patetici tentativi
di oppormi
Cominciavo a sentire
che i fili si stavano
riannodando
che il guscio vuoto
era pronto
a spalancarsi
del tutto
per riassorbirmi
per imprigionarmi
nuovamente

Perché loro
erano i più forti

Non dovevo illudermi

Ormai
avrebbero vinto.

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