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Da uno stralcio di Slavoj Zizek, Commenti e glosse di Jacopo Ricciardi, Poetry kitchen di Lucio Mayoor Tosi, Gino Rago, Francesco Paolo Intini, Oramai qui, sul pianeta Terra, non c’è più niente altro da fare che andare a fare yoga o seguire i seminari di teologia e jogging nei parchi, fare antirime agrituristiche alla Umberto Piersanti o dedicarsi alla flat-tax al 15% o al 23% delle parole superficiarie di Franco Arminio, il novello Tagore della poesia italiana

L’Antologia Poetry kitchen in vetrina in una libreria di Peschici

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Vetrina della Libreria di Peschici con la copia della Antologia Poetry kitchen

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Gino Rago

Madame Colasson

Una torta Sacher + biscotti Wafer Saiwa + una porzione di Camembert, paté de foies gras e una bottiglia di Bourbon annata 1997

Brigitte Bardot

Un violino + la somma dei quadrati sui due cateti di un triangolo isoscele + uno Spritz alla albicocca

Francesco Paolo Intini

NEGATIVO

Che vuol dire? La Sindone fa un balzo alla notizia.
-Pericolo scampato di riportarmi a una vita da Dio.

La vita eccitata da un tocco di virus è un via vai di smentite e conferme
E il risultato finale
Ricade in un pascolo di umanissimo non sense

Il politichese fu inventato prima o dopo il poetichese?

Già vedo l’intervallo: -Tityretupatulaerecubans
Ci vorrà tempo per mungerle e ricavarne un po’ di ricotta
Perché caricarle di colpe e sparare alla gola del vicino?

Non si perde energia tra uno schizzo e l’altro del 2022.
Vuoi sapere che fine ha fatto il Covid?

È queste gazze decisamente Blu,
lontane da ogni peccato commesso nel nome del Rosso.

E più in là dell’hula-hoop un giro di valzer in crociera
O forse d’incrociatore o addirittura di portaerei.

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[Francesco Paolo Intini]

POSITIVO

infin ch’arriva\ colá dove la via\ e dove il tanto affaticar fu vòlto:\abisso orrido,immenso,\ ov’ei precipitando, il tutto obblia.
(G. Leopardi. Canto di un pastore errante dell’Asia. VV 32-36)

Fu così che venne fuori Ottobre Rosso. Bastava fare uguale
che l’avrebbe spuntata sull’argento, senza ferire il Polo

Alle esternazioni si disse non c’è rimedio e tu vedrai le cornacchie battere il ciglio
e farlo a pezzi e dopo essersene nutriti rimetterlo in moto.

Circolarità del cielo, al gusto d’ arancia e ghiaccio secco.

Un osso di Agatocle funzionava da sterno nel petto di Benito
Un frammento di cuore pulsò per ore sul campanile di Milano

Antenne colorate e uno, mille trapezi senza nervi di protezione
La fuga mi ha portato a sfiorare i siluri
Il danno è stato un orco che ha portato gli scatoli di tonno al tiro a segno.

Ebbi in sorte un gruzzolo per Buenos Aires
Dove mi sarei imparentato con le scimmie alberomorfe
E sostenere la lotta per sollevare il morale dell’ Antartide
E stringere la mano al re Pinguino.
La regina Maud non era contenta di tutti quei ghiacciai persi
Dei Sioux e l’immagine di Toro seduto in un’ igloo che si scioglieva

L’argenteria di famiglia dispersa nei Caraibi.
Al merluzzo la parola atlantica
Ai sottomarini che sbuffano e rampognano gli squali
Al vichingo che non sa quel che fa nella mano di bella

Conviene accostare e mostrare il lato peggiore dell’oceano
Riempire di pece lo stomaco, fare di tutto per stuccare il silenzio
E rimpinzarlo di fumo e mostrargli il lato Nord, il Caterpillar nella pancia
Come si avvita una stella a un missile e farlo partire.

La ferita senza rimedio nel fianco.
Oh la coscienza buttata ai porci!

Ancorare nel San Lorenzo con i denti intatti e la spinta del venditore di sandali
Con la disciplina del salmone che indovina la bocca del grizzly
È stato un immane delirio seguire CANOSCENZA e spingere il pulsante del Saturno
Da qui alle colonne d’Ercole non è nemmeno un endecasillabo
Il mare s’è seccato di ragionare e zampillare lampade Davy dal fondo oceanico
Sporchi di lava e fango.

Dov’è finito il neurone ad Est di Capo verde?
Cosa è alla portata di Eric il Rosso?
La voglia di menare le mani e navigare con la cravatta di re e figlio prediletto tra talamo e ipotalamo, mentre il vulcano esplode e una manta colossale sbatte contro le torri gemelle.

Chi osa chiedere un verso santo, immune dal peccato d’invidia
Un trafiletto di messale, un lingotto di settenari e rime baciate
Un trigesimo, un anniversario ripulito da ostriche infette?

Non reggemmo l’assalto del polpo assassino
E tornammo ad ordinare alla carte sull’isola di Sant’Elena
Un refugium peccatorum per aver salvato il mondo dal mal francese
Il sancta santorum dell’olfatto

Un tendone di circo credo con le costellazioni nella gabbia dei leoni
E le scimmie a suonare e Marte ad esporre cartelli di funghi velenosi
e mari tempestosi riservati alle raccolte punti di storione
E gli elefanti a rimescolare le bolle, i santi impietositi,
le guerre e battere il tamburo dei sargassi
i treponemi scandalizzati per i nostri pettegolezzi
Un mostrare traiettorie di postriboli vuoti
Nel bel mezzo dell’ Orsa un raduno di pervertiti e menagramo.

Affondò Atlantide e facemmo rapporto alla compagnia delle Indie
per il grano che mancò all’appello e glu..glu…
per il tiranno che ordinò gli omogeneizzati di vitello
e giocò sul cavalluccio del nipotino col winchester di legno
l’orsacchiotto vinto al baraccone
Glu…glu…

Giorgio Linguaglossa

Come appare evidente in queste ultime composizioni kitchen o kitsch ogni elemento di senso sembra essersi dileguato dall’orizzonte dei significati, Intini impersona il ruolo di un anarco sindacalista che prende sul serio quello che nessuno dei suoi contemporanei prende sul serio: che il Reale appare nel suo deserto, ovvero, che appare il deserto del reale come ossessione, fobia, fantasma, spauracchio, terrore… le parole sono come attratte da un Grande Attrattore, un Grande Vuoto. Mi spiego: il Grande Altro si è convertito in un Grande Vuoto. Un buco grande, un Grande Attrattore, deglutisce tutte le cose e tutte le parole, i nostri sentimenti, le nostre identificazioni, le nostre proiezioni. Di conseguenza, gli oggetti (con le loro parole al seguito) non sono più al loro posto ma si presentano fuori-posto, fuori-luogo; ma il posto è vuoto veramente e questa scoperta è talmente insopportabile che il vuoto assorbe e consuma, letteralmente, ogni parola e ogni oggetto. Una sorta di buco nero (black hole) è in azione al Centro del nostro sistema Simbolico che fa collassare tutta la costruzione edilizia e manifatturiera della realtà. Il Buco del Reale liquefa letteralmente ogni oggetto e ogni parola. Il collasso dell’ordine Simbolico è l’ultimo fenomeno di un Reale che ostinatamente si rifiuta a consegnarsi agli uomini.

Lucio Mayoor Tosi

In diretta su Alfa Centauri.
Boschi e casette, confezioni di ribes, molti silenzi;
prati che si allontanano, nonni sulla porta; mamme
danzano a piedi nudi, spose attente al vestito giocano
con bambini imbarazzati. Non manca il cane dei vicini.
Il bosco sottratto, Arcangeli registri bollette scadute.

Riposo. La vita inutile. Bella vedetta, spalline, aquilotti,
zeri con faccina. Povera me. A Capri con la mamma.
Silvia ha il vaiolo. Questo scrive, l’altro si mangia
le parole

Olga rimane, abbiamo fatto tanta strada.
– Lista dei cocktail, lista delle pizze, liste
abat-jour, tutte le notti.

*

Chiamò se stesso per potersi catturare.
Grazie. Ma dimenticò il titolo del libro.

Il grande sonno, R. Chandler. Musica per ottoni.
– Un titolo che valga il prezzo di copertina.

I grandi romanzi. Grandi romanzi. Romanzi.
Alberi senza trasporto.

Giorgio Linguaglossa

«Le cose si irrigidiscono in frammenti di ciò che è stato soggiogato» (Adorno, teoria estetica). Anche le parole si irrigidiscono in frammenti di ciò che è stato soggiogato, le parole irrigidite, raffreddate, iperbarizzate sono quei molluschi dell’aria, quelle meduse dell’atmosfera in rapporto alle quali non possiamo fare altro che disabitarle, abbandonarle, lasciarle cadere; le parole già reificate, una volta costrette e costipate nello spazio neutro della nuova reificazione della scrittura poetica, cessano di parlare, restano mute, non abitano più alcun condominio di parole e se ne vanno ramengo nell’universo silenzioso e rumoroso. Nella poesia di Lucio Mayoor Tosi c’è il Bellosguardo, le pubblicità del Mulino Bianco, c’è la cornice della Buitoni con il quadretto idillico e agreste delle mucche e dei pastorelli felici, cose di un’altra galassia, di un altro pianeta: «Boschi e casette, confezioni di ribes, molti silenzi». Oramai qui, sul pianeta Terra, non c’è più niente altro da fare che andare a fare yoga, andare per prati con l’acchiappafarfalle o seguire i seminari di teologia e jogging nei parchi, fare antirime agrituristiche alla Umberto Piersanti o dedicarsi alla flat-tax al 15% o al 23% delle parole superficiarie e sublimatorie di Franco Arminio, il novello Tagore della poesia italiana. In un mondo talmente irrigidito bene ci stanno i video di Gianni Godi con gli avatar irrigiditi che perorano parole in rigor mortis.

Lucio Mayoor Tosi

Vivere nella realtà è mortificante. Starò più attento al consumo delle risorse pubbliche. Il mondo incantato di cui scrivo è ben piantato nella mia mente. Non so dove altri piantino il loro. Il mio lavoro adesso consiste nell’inscatolare parole. Le parole mi arrivano col contagocce, e per collaborazione. Non do consolazione, se tento un insegnamento, subito ne rido. Piuttosto bravo nel lasciar perdere. Poeta, se poeta, occidentale.

Slavoj Žižek

«Nell’arte di oggi il Reale NON ritorna anzitutto in guisa di scioccanti e brutali intrusioni di oggetti escrementizi, cadaveri mutilati, merda ecc. Questi oggetti, sono, sicuramente, fuori posto – ma perché possano esserlo, il posto (vuoto) deve essere già là, e questo posto è restituito dall’arte ‘minimalista’ a cominciare da Malevič. In questo risiede la complicità tra le due opposte icone del modernismo più estremo, il “Quadrato nero su superficie bianca” di Kazimir Malevič e l’esibizione di Marcel Duchamp di oggetti ready-made come di opere d’arte. La nozione che è implicita nell’elevazione da parte di Malevič di un oggetto comune e quotidiano ad opera d’arte afferma che l’essere opera d’arte non è una proprietà inerente ad un oggetto; è invece l’artista stesso che appropriandosi dello (o piuttosto di OGNI) oggetto e sistemandolo in un posto determinato lo rende opera d’arte, ma del “dove”. E quello che la disposizione minimalista di Malevič fa è semplicemente di restituire – di isolare – questo luogo come tale, lo spazio vuoto (o cornice) che ha la proto-magica proprietà di trasformare qualsiasi oggetto che si trovi nel suo raggio in opera d’arte. In breve non esiste Duchamp senza Malevič: solo dopo che l’esercizio dell’arte isola il posto/cornice in quanto tale, svuotato di tutto il suo contenuto, si può indulgere nella procedura ready-made. Prima di Malevič, un originale sarebbe rimasto solo un originale, anche se esibito nella più rinomata galleria.

L’appropriazione di oggetti escrementizi fuori posto è strettamente correlata all’apparizione del posto privo di oggetto, dello spazio vuoto in quanto tale. Di conseguenza, il Reale nell’arte contemporanea ha tre dimensioni, che in qualche modo ripetono la triade di Immaginario-Simbolico-Reale all’interno del Reale. Il Reale è innanzitutto l’anamorfico scolorimento, l’anamorfica distorsione dell’immagine diretta della realtà – come un’immagine distorta, come una pura apparenza che “soggettivizza” la realtà oggettiva. Quindi, il Reale è come lo spazio vuoto, come una struttura, una costruzione che non è mai qui, direttametne esperita, ma che può essere solo retroattivamente costruita e presupposta come tale – il Reale come costruzione simbolica. Infine, il Reale è l’osceno. Quest’ultimo Reale, se isolato, è un mero feticcio la cui presenza affascinante e accattivamnte maschera il Reale strutturale nella stessa maniera in cui, nell’antisemitismo nazista, l’ebreo come l’Oggetto escrementizio è Il Reale che maschera l’insopportabile Reale “strutturale” dell’antagonismo sociale. – Queste tre dimensioni del reale risultano dai tre modi in cui è possibile acquisire una distanza rispettto alla realtà ordinaria: sottomettendo questa realtà alla distorsione anamorfica; introducendovi un oggetto che in essa non trova collocazione; sottraendo/cancellando tutto il contenuto (gli oggetti) della realtà, in modo che tutto ciò che rimane è lo stesso spazio vuoto in cui questi oggetti sono collocati.»1

1 S. Žižek, The Matrix, Mimesis, Milano-Udine), 2010 pp. 28-29

Jacopo Ricciardi

Mi pare questa descrizione perfettamente calzante per descrivere il quid della Poetry Kitchen. Ma questa descrizione nelle intenzione di Zizek descrive perfettamente il quadrato nero di M. e di seguito Duchamp, opere di 110 anni fa. Allora dove sta il nuovo, ossia dove la Poetry Kitchen fa qualcosa di ulteriore rispetto a quanto detto da Zizek, riferendomi anche alle affermazioni precedenti della Colasson che sostiene che la PK è qualcosa di completamente diverso rispetto alla tradizione (se in arte sono intanto esistiti Paolini, Denominicis e Boetti)? La mia provocazione non sta in questa mia domanda quanto piuttosto nel mio tentare una risposta: la poesia italiana è attualmente indietro di un secolo sull’arte italiana? Possibile? Continua a leggere

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Lettera di Vincenzo Petronelli agli Amici dell’Ombra delle parole sul proprio tragitto, Dalla poesia del novecento verso una Nuova ontologia estetica, Poetry kitchen e Instant poetry, con una scelta delle poesie

L’umano non è per Giorgio Agamben, come per la tradizione della metafisica occidentale, Zoon logon echon, l’animale che ha il linguaggio, ma piuttosto l’animale che, a differenza degli altri animali che «sono sempre assolutamente nella lingua», ne è privo e deve riceverlo dal di fuori, e quindi dimora nella scissione tra lingua (il sistema dei segni) e parola (l’uso). La teoria agambeniana dell’«in-fanzia», come luogo nel quale  si è privi di lingua, si pone dunque esplicitamente come uno svolgimento della distinzione tra semiotico e semantico formulata da Benveniste. Forse proprio in questa sottilissima linea divisoria tra semiotico e semantico è possibile per un poeta di oggi situare il linguaggio poetico come linguaggio già pronto, ready language, una zona neutra di indistinzione tra il sistema semiotico e il sistema semantico.
Ready language poetry di Giorgio Linguaglossa

Caro Giorgio,

raccolgo con grande piacere il tuo invito a sottoporre ai lettori dell’ “Ombra delle Parole” questo profilo della mia storia poetica.
Ho sempre amato la poesia e la sua capacità di “curvare” le parole, come frutto dell’attrazione per la magia della parola e per la possibilità di plasmarla. Come tanti, ho cominciato a cimentarmi con i primi versi in età tardo-adolescenziale, per avviarmi a dei tentativi più “seri” e “sensati” attorno ai vent’anni, in un contesto culturale caratterizzato da interessi estremamente eclettici, culminati in un percorso di studi storico – antropologici, ambito nel quale successivamente sono stato anche ricercatore e che tuttora continuo a seguire come cultore della materia. Se da un lato tale versatilità mi ha permesso di individuare da subito la capacità della poesia di farsi vettore di questa visione olistica della vita e del mondo (tanto che ho sempre amato definire la mia poesia “antropologica”) dall’altro lato ne ha segnato probabilmente un limite nella ricerca iniziale sul linguaggio, in quanto ingabbiata nella commistione con la passione, altrettanto pregnante, per la musica e dall’idea – che ha accompagnato a lungo la mia versificazione in quel periodo – della ricerca di un registro popolareggiante, ricerca mutuata tanto dall’influenza cantautorale e dal filone musicale folk-rock, quanto dal mio retroterra antropologico. Se per un verso ciò mi ha conferito subito quel gusto per la narrazione e l’astrazione dalla logica dell'”Io” e dalle tendenze della poesia salottiera ed elitaria, dall’altro ha determinato il limite, in quella fase, di un indugio ed un compiacimento per il gusto folkorico – comunque qui inteso nel senso nobile, cioè antropologico del termine- per un lirismo esplicito, ostentato. Il risultato, al contrario delle premesse, finiva per appiattire il possibile spettro espressivo dei miei versi, sacrificandone l’eclettismo e ciò nonostante da sempre abbia attinto a letture e riferimenti poetici i più disparati, di differenti tradizioni geografiche e linguistiche e di diversa impostazione stilistico – espressiva, ma se ciò penetrava nella mia scrittura di allora con vari stimoli e suggestioni, non riusciva ancora ad incunearsi nella mia scrittura dal punto di vista tecnico.
I modelli prevalenti finirono per essere poeti sicuramente immensi (senza alcuna lontana pretesa di volermi a loro assimilare) come Yeats o Garcia Lorca, ma che presto ho cominciato ad avvertire distanti dalle mie istanze poetiche: ferma restando l’importanza e la centralità assunta nella mia formazione dalla cultura popolare, cominciavo a rendermi conto del fatto che essa non fosse un monolite, ma che al contrario, essendo a sua volta coinvolta nei processi di trasformazione del mondo e della società tutta, soggetta a mutamenti di paradigmi e declinazioni ed ad ampliamenti di territori ontologici.

Ecco un esempio di “parti” di quest’epoca: nel primo caso si tratta di un brano composto nel dialetto di Barletta – la mia città – naturalmente seguito dalla traduzione in italiano, ed il secondo in italiano.

Un amore di rosa

Giugne ièrre ‘na nàve de cundrabbandiére
ca da sope ‘e pelùne arruave abbásce ‘o puorte
e assèvene ‘i menénne a aspettà i frastière,
assave a zinghere ca addevenave ‘a sòrte.

Luglie profumave de cièlse e de lemone
e de promèsse ‘nu fagugne d’a condrore;
stèvene ciènde rose sope ‘o balcone
e da nbiètte te zumbave ngánne ‘u core.

A agòste scettièste nu sòlte abbásce ‘o puozze
che ‘na lèttre lôrde, ráchele de sánghe
e rendrunave rête ‘e iárevere ‘a carròzze,
ma ‘u bbêne nôn vêne crè e pscrè nemmánghe.

Traduzione

Giugno era una nave di contrabbandieri
che dalle pozzanghere arrivava dritta al porto
uscivano le ragazze ad aspettare i forestieri
e usciva la zingara che leggeva la sorte.

Luglio profumava di gelsi e di limone
e di promesse nel favonio della controra;
c’erano cento rose sul balcone
e il cuore dal petto ti saltava in gola.

Ad Agosto gettasti un soldo nel pozzo
con una lettera, rantolo di sangue
e riecheggiava dietro l’albero la carrozza,
ma l’amore tuo non arriverà domani e neanche dopodomani.

Il volo

Gli occhi tornano sempre
dove si sono posati.

Così ogni notte
liberato il mio inquieto colombo,
raccolgo
come contrabbandiere di confine
il povero bagaglio dei miei ricordi
ed attraverso i sentieri tracciati.

Sono ampi spazi
disseminati nel bianco fragore di case
col volto dei millenni,
e suoni
riecheggianti nelle stanze
dalle strade mute,
voci di bambini
sospinti dal vento
per le valli.

Sono mani dure
ed occhi rugosi di contadini
asserragliati nelle loro memorie
squarciate dagli inverni,
e donne che cuciono
la trama sottile di un tempo impari,
inebriate di sole
che esonda dai muri d’ombra
le loro ali di cera.

Sono stazioni scomparse
tra anfratti di treni a vapore,
che rifrangono accenti di giorni passati
mescolati
agli odori del mezzogiorno
ed alle grida dei venditori.

Sono sfumature di bianco e nero
e contorni di terra e sangue
che la storia
non cancellerà.

Gli occhi tornano sempre
dove si sono posati.

Penso che appaiano fin troppo evidenti i richiami ad immagini evocative della cultura contadina ed i riferimenti ad una poesia popolareggiante liricamente ridondante.

Se c’è un elemento che ritengo essere stata invece un’intuizione interessante è la modalità con cui ho fin da subito esperito l’uso delle lingue locali: paradossalmente, nonostante la pervasione di questo lirismo popolareggiante, cui apparentemente il dialetto è subordinato, l’idea del ricorso alle lingue locali è invece stato immediatamente associato più alla ricerca di una koinè universale, al punto che scritti che potrebbero sembrare nati da episodi di vissuto locale, affondano la loro genesi in esperienze o vissuti connessi ad una formazione che mi ha sempre fatto vedere nelle radici un trampolino da cui spaziare verso il mondo, per cui quest’attitudine antropologica è corrisposto anche ad un continuo ampliamento del bacino geografico dei miei interessi. In effetti, tale afflato si è accompagnato anche ad una robusta conoscenza linguistica (mi sono dilettato anche nella composizione – estemporanea in verità – in alcune lingue estere di mia conoscenza) e conseguentemente nella possibilità di viaggiare molto, cosa che ha influenzato le mie suggestioni poetiche, ma prediligendo stilisticamente farle convergere in una sorta di declinazione universalistica che mi permettesse l'”accorciamento delle distanze”, attraverso un processo di contaminazione e di traduzione, una una sorta di Bringing it all back home, per la quale necessitavo di una lingua affettivamente vicina al mio vissuto personale, ma al tempo stesso neutra: disegno al quale le lingue locali della mia area si prestano perfettamente per il fatto di non possedere una tradizione poetica radicata e di essere dunque sganciate da dettami “di scuola”. Risulta però evidente a posteriori come anche questa potenzialità del registro linguistico, rimanesse compressa in un quadro eccessivamente lirico – folkorico.

Alla fine degli anni ’90, ho cominciato a percepire una distanza sempre più stridente da questo modo di fare poesia, avviando un percorso palingenetico, abbinato non solo ad una necessità di rinnovamento personale della mia versificazione, ma anche – in un contesto in cui nel frattempo avevo cominciato ad ampliare i miei orizzonti di conoscenza poetica e del panorama della produzione poetica contemporanea – dell’inderogabilità per ogni poeta, anche il più modesto, di cercare di offrire un contributo al progresso delle attività artistiche e del sapere, per testimoniare nella propria opera il proprio tempo.
La “prima pietra” di questo percorso di rinnovamento è stato l’incontro con la poesia di Paul Muldoon, poeta nord-irlandese considerato la voce vivente più alta della poesia in lingua inglese con il suo stile fortemente allusivo e talvolta criptico, l’ironia ed autoironia, con i giochi di parole ed una musicalità “atipica”; un poeta di transizione se vogliamo, tra una poesia ancora “oggettiva”, ma con una complessità architettonica già straniante e ri-strutturante. Un poeta, Muldoon, che adotta in alcuni capitoli della sua produzione, anche la poesia narrativa, ma secondo la consuetudine “alta” tipica in questo senso della poesia anglo-sassone, che quasi contemporaneamente mi ha dischiuso le porte all’approfondimento anche di altri poeti, in particolare quella di altri due poeti irlandesi: Seamus Heaney e Patrik Kavanagh, sebbene tra loro molto diversi.

Tra i miei scritti di quel periodo (siamo ormai all’inizio degli anni 2000) ce n’è forse solo una che può avere un barlume di dignità, anche in questo caso composta in barlettano:

U Spusalizzie

Atténəmə jêrə də Cérəgnolə
manəsciavə i parolə accomə e curtiddə;
mamminəmə jêrə andrəsànə,
propriə u pajeisə d’i zappatourə e di bbàbunə
ndò i dibbətə pəsèvenə
accomə a na zochə ngánnə.

Na sciurnàtə appêsə də Márzə,
nonònnə facèttə mbáccə ‘a figghjə:
“Nan nə tənéimə daggè abbastánzə de uájə,
ng’i vuléimə scì a truà a fòrzə? Cə jə, tə fêtə
l’árjə ca tə nə vu scì da ddò?”, chə l’ucchjərə appəcciàtə.

‘A sêrə, doppə ca fərnavə də cusì,
mamminəmə assavə i fotograféje
da ìində o tərèttə,
adunénnə i pənzìirə nzìimə o ppànə da sope a távələ;
méndrə atténəmə sə sciavə a còlchə e sə sciuscelavə
ch’i rraggiunamìinde sou; u prèstətə da cercà a bánghə, a máchən-a novə,
i bastárdə ch’ i mannèvənə a schəmmunəchə.

Il matrimonio

Mio padre era di Cerignola
maneggiava le parole come coltelli;
mia madre era andriese,
proprio la città dei contadini e dei “signorsì”
dove i debiti pesavano
come una corda intorno al collo.

Un giorno incerto di Marzo
mio nonno disse rivolgendosi a sua figlia:
“Non abbiamo già abbastanza guai,
da andarceli a cercare a tutti i costi? Cosa c’è, ti puzza
l’aria, che vuoi andar via da qua?”, con gli occhi accesi.

Alla sera, dopo che finiva di cucire,
mia madre tirava fuori le fotografie
dal cassetto,
raccogliendo i pensieri insieme al pane sul tavolo;
mentre mio padre andava a dormire e si gingillava
con i suoi ragionamenti; il prestito da richiedere in banca, la macchina [nuova,
i bastardi che gli portavano sfortuna. Continua a leggere

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L’epoca del Covid19 e del Roipnol, Mario M. Gabriele, Giorgio Linguaglossa, Dialogo, La Pop-Poesia,

 

Penso che l’Evento non sia assimilabile ad un regesto di norme o ad un’assiologia, non ha a che fare con alcun valore e con nessuna etica. È prima dell’etica, anzi è ciò che fonda il principio dell’etica, l’ontologia. Inoltre, non approda ad alcun risultato, e non ha alcun effetto come invece si immagina il senso comune, se non come potere nullificante. La nientificazione [la Nichtung di Heidegger] opera all’interno, nel fondamento dell’essere, e agisce indipendentemente dalle possibilità dell’EsserCi di intercettare la sua presenza. Si tratta di una forza soverchiante e, in quanto tale, è invisibile, perché ci contiene al suo interno.
L’Evento è l’esito di un incontro con un segno. (g.l.)

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L’ultimo stadio della nuova fenomenologia estetica: La pop-poesia
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I due testi proposti sono esemplificativi di un modo di essere della nuova fenomenologia estetica come pop-poesia, poesia del pop. Si badi: non riattualizzazione del pop ma sua ritualizzazione, messa in scena di un rituale, di un rito senza mito e senza, ovviamente, alcun dio. Con il che finisce per essere non una modalità fra le tante del fare poesia, ma l’unica pratica che nel mondo amministrato non ricerca un senso là dove senso non v’è e che si colloca in una dimensione post-metafisica.
In tale ordine di discorso, la pop-poesia si riconnette anche a quello che è stato da sempre lo spirito più profondo della pratica poetica: la libertà assoluta e sbrigliata soprattutto dal referente, da qualsiasi referente, parente stretto della ratio complessiva del sistema amministrato.
La pop-poesia vuole essere la rivitalizzazione dello spirito decostruttivo che, nella poesia italiana del novecento si è annebbiato. La poesia si è costituita in questi ultimi decenni come una attività istituzionale e decorativa, si è posta come costruzione di un edificio veritativo.
La poesia che vuole mettere in evidenza le contraddizioni o le condizioni di un essere nel mondo, finisce inesorabilmente nel Kitsch.
La pop-poesia non redige alcun senso del mondo e nessun orientamento in esso, non è compito dei poeti dare orientamenti ma semmai di svelare il non orientamento complessivo del mondo.
Non è compito della pop-poesia commerciare o negoziare o rappresentare alcunché, né entrare in relazione con alcunché, la pop-poesia non si pone neanche come una risorsa o come un contenuto veritativo o non veritativo. La pop-poesia può essere considerata una pratica, né più né meno, un facere.
Così è se vi piace.

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Mario M. Gabriele

Inedito di  da altervista il blog di Mario Gabriele

Andando per vicoli e miracoli
ritrovammo l’albergo e il trolley.

Non si dà nulla per certo, neanche prendere contatti
con il gobbo di Notre Dame per suonare le campane.

Bisognava partire.
Tu non vuoi più le carezze?

Il fatto è che se ci mettiamo a seguire Ketty
non leggeremo Autoritratto in uno specchio convesso.

I Simpson si riconoscono per il colore giallo.
Giulia ne ha fatto una raccolta di figurine acriliche.

Tutto rotola e va in basso. Sale e scende.
Linee nere e linee rosse.Si cerca il punto originario.

Cerca di distrarti! Prova a chiamare
le cugine di Sioux City.

Ti suoneranno l’Hukulele
ricordandoti C’era una volta l’America.

Oh bab, baobab, invocò il nigeriano
alla fermata del Pickup.

Controlla tutto e bene nel trolley.
Vedi se c’è anche questa sera il Roipnol.

Giorgio Linguaglossa 

Proprio nel momento in cui l’erede di Giovanni Agnelli, il topastro John Elkann, ha liquidato il direttore di “Repubblica”, Carlo Verdelli, sostituendolo con un fedelissimo moderato pony express del moderatismo, Maurizio Molinari, e comprato l’asset per un pugno di dollari, possiamo comprendere come il capitale internazionale disdegni le testate giornalistiche «diverse» e comunque «critiche» del sistema-Capitale. Il problema è che si preannuncia in Italia, in Europa e nel mondo occidentale un acutizzarsi della crisi e dello scontro in atto tra i ricchissimi e il nuovo proletariato internazionale che ama visceralmente i Bolsonaro, i Trump, i Salvini, le Meloni, gli Orban, i Putin, i Di Battista… Le democrazie liberali sono a rischio di sopravvivenza, questo è chiarissimo anche in Italia dove l’accoppiata fascista-leghista Salvini-Meloni lancia accuse incandescenti e bugiarde contro un governo parlamentare che sta affrontando la crisi più grave del novecento e del post-novecento.

In questa situazione, alla poesia viene sottratto il terreno da sotto i piedi, le parole diventano sempre più difficili, scottano, non possono più essere maneggiate, i poetini e le poetine alla Mariangela Gualtieri e alla Franco Arminio vengono citati sulle pagine della stampa e dei media per le loro poesiouole sul Covid19 e sull’ambaradam dello sciocchezzaio, mentre un poeta laureato di Milano discetta sulla fine della «società letteraria» d’un tempo, e altri autopoeti parlano di «Bellezza» e altre amenità consustanziali allo stupidario di massa di oggi.

In questa situazione, che cosa può scrivere un poeta che vive nel paese più a rischio democratico d’Europa come l’Italia? Può solo scrivere con sconcertante umiltà:

«Tutto rotola e va in basso»

per concludere:

Controlla tutto e bene nel trolley.
Vedi se c’è anche questa sera il Roipnol.

Mario M. Gabriele

Quanto scrivi, caro Giorgio, non può che accomunarsi a quanto da me riportato nel commento del 24 aprile, a proposito della “divisività”, che ha dominato e domina la poesia italiana di oggi, dove un poeta, con idee nuove, debba rimanere sempre al buio in quanto nemico dell’establishment culturale che si consolida con la politica statica e conservatrice.

Mi duole se nel trolley dobbiamo portarci il Roipnol per dimenticare tutto ciò che la classe dirigente e i comandamenti che ogni anno provengono da Davos, unificano la classe sociale e culturale, dove basta un semplice agente patogeno, il Covid19 a fare piazza pulita di tutto il sistema collettivo dove si frantuma un corpo sociale in mille pezzi costruito da una cultura di comunicazione virtuale dove prevalgono le Fake News e i continui attacchi dell’opposizione alla classe dirigente di oggi che si trova a dover allontanare il Default come la nube di Chernobyl.

Se c’è qualcosa che ci accomuna è la nostra fragilità, l’essere una massa enorme e impotente all’interno di un mondo diviso. Ma ciò che più determina il nostro disagio è la degenerazione culturale di tipo fascista, che tipografa sui muri le svastiche o incendia le lapide dei partigiani.

Alla luce di quanto finora detto non possiamo permettere come normalizzazione e appiattimento l’idea di una Nazione, la nostra, che diventi ancella della Merkel, e della Troika che hanno fucilato la Grecia.

La poesia è anche un Kit di pensieri e azioni, rispetto al nostro mondo desacralizzato dalla pandemia, che ha rimesso tutto in campo, facendo rinascere una società in cui ciò che conta è la capacità di reinventarsi nuove occupazioni lavorative, anche se il Capitale sta a guardare e ad operare come un bodyguard.
Ti ringrazio, caro Giorgio, per aver ospitato un mio testo, da te rivelato nelle sue parti più essenziali.

Giorgio Linguaglossa

Il Signor F. frugò nel taschino del gilet e saltò fuori il nano Proculo,
con la giacca a quadretti azzimata, un pantalone liso e sdrucito
e un cappello a cilindro.

Il quale scrisse una lettera al Presidente del Consiglio Conte,
per riavere indietro i trenta denari dati in prestito e ancora insoluti
per via del precoce decesso del legittimo proprietario.

Si accomodò in poltrona dal barbiere François, accavallò le gambe
e si fece radere il mento.
Poi sputò nella sputacchiera e si diresse all’angolo della tosse

dove i liberi erano in quarantena.
Spalancò la finestra.
«Aria! Aria! Cambiate l’aria!», gridò.

[…]
Chiese uno stuzzicadenti.
Il Coronavirus saltellò qua e là e decise di uscire
a prendere un po’ di aria fresca.

Il poeta di Milano fece un gran fracasso.
Gridava che la «società letteraria» era scomparsa e altre quisquilie.

Inutilmente il direttore d’orchestra intimò il silenzio.
La grancassa riprese a fare fracasso.

[…]

Come prima. Più di prima.
Il direttore disse: «Ti amo» alla prima violinista.

Un gran numero di topi di fogna presero il largo
dicendo che in democrazia anche i topi erano liberi.
Accadde tutto così di fretta che il commissario non intervenne.
Un altro poeta gridò:

«La bellezza salverà il mondo!», e scomparve.
Dei turisti giapponesi si accalcarono per vedere il Prof. Tarro con il virus nell’ampolla.

Scattavano fotografie dappertutto, entravano anche nel bagno.
Dicevano ai bambini: «State zitti, contegno, state in casa del prof. Tarro!».
Poi le cose periclitarono, l’Italia fu dichiarata «zona rossa»

e venne bannata dalle guide turistiche.
Nadeche Hackenbusch, la bella presentatrice di un reality show
scorrazza per il lager con la sua jeep zebrata,

la accompagna la sua devota biografa, la redattrice della rivista “Evangeline”,
Astrid von Roëll, entrambe in minigonna e tacchi a spillo,

intervistano gli africani del lager.
Lui, anzi Lei, la loro amante, ribattezzata Lionel perché il nome tedesco
è troppo difficile, le asseconda.

Ursula Andress prende il revolver di Marie Laure Colasson,
dice che ha licenza di uccidere, e spara un colpo in aria
e un altro nella testa di Azazello

il quale crolla all’istante, e così Bulgakov non trova più il suo personaggio
che nel frattempo si è insinuato nel romanzo di Gadda
dove c’è il commissario Ingravallo che svolge le indagini.

Interviene il cardinale Tarcisio Bortone portando i buoni uffizi del Vaticano
ma non ci fu niente da fare, le cose tornarono a posto da sole.

[…]

Il nano Proculo si diresse verso la botola e riprese il suo posto.
Il Signor F. disse che aveva scherzato.
E si ritirò nella fogna.

Ursula Andress ritornò all’isola dei Caraibi,
sulla spiaggia, in bikini, nella famosa scena del film di Jan Fleming.

Un cormorano passò di lì.
E salutò.

 

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Due poesie di Mario Gabriele da Registro di bordo, Gino Rago da I platani sul Tevere diventano betulle (di prossima pubblicazione) e Una poesia di Anna Ventura, Paola Renzetti, Giuseppe Gallo con Il Punto di vista di Giorgio Linguaglossa, Penso dove non sono, dunque sono dove non penso – Il Punto di vista di Umberto Galimberti

Gif Superman and other

Due poesie di Mario Gabriele, da Registro di bordo (di prossima pubblicazione)

5

Un fiorire di nuvole dopo un cocktail flambè
con sette aromi di frutti di bosco.

Nel resort turisti in quarantena
attendevano il volo della Ryanair.

L’uomo su risciò preparava tragedie ed esche.
– Che muoia come gli altri -, disse il Gran Giurì.

Mosur lasciò 7 peccati capitali
in onore del Signore.

Michael Rottmayr è con Abele a Vienna
nella Osterreichische Galerie.

A Coney Island rimanemmo
a raccogliere le polveri di Ground Zero.

Un benefit donammo ai ragazzi del Bengala.

Te l’avevo detto Ray che tra gli avari del quartiere
c’era anche la famiglia Hobbs.

Padre Orwell parlò con Burton
dicendo: -fai questo in memoria di me-.

-Sorry! ma non so come uscire da questo labirinto.
Capisci, è come stare davanti a una partita a scacchi-.

Da quando daddy è andato via è rimasto solo il serenase.
Le chaussons di Bovaline sono ouverture.

Jodie vive a Norwich.
Non so come dirle ma è tutto un diverbio con la natura.

Matsuo Basho ha ristretto il mondo in 17 sillabe haikai.
Ci stiamo dentro come un soffio di mistral sulla Camargue.

6

Berenice non ha altro da fare
che mettere blazer di vecchia data.

La stagione resiste all’epitaffio.
Ci vorranno mesi per sistemare la biblioteca,

Perilli è tornato a chiedere il XVI volume
della Letteratura Italiana.

Scrivere è un viaggio come il pensiero di Heidegger.
Al vicolo 7 di Piazza Bologna nessuno ha una vita privata.

In un inverno del 93 cademmo nel crinale.
Vennero voci dal buio. Soccorsi stradali.

Il fiume era rientrato nell’alveo.
Carlo già pensava alla brossura della Gita domenicale.

Ada, la magnifica Ada dai sette lumini e corde di chitarra,
si era concentrata sugli steli di gramigna.

Una piccola colazione portò fantasmi e sentimenti abrasi.
Tengono ancora i profumi di Calvin Klein.

Lo stato delle cose è nel tempo.
La Canducci ha azzerato il debito.

Siamo in bilico. Ofelia si trastulla con l’oboe.
La notte ha rubato la luna.

Arrivo sul fronte delle dislocazioni verbali
con Dibattito su amore e Il Dente d’oro di Wels.

Brillano i fuochi d’artificio la notte di San Giuseppe.

El Paradise, ci pensi, è tutto un tremore di sogni!
Un paesino di sintassi crudele ha aperto check-in e ogni limite.

Gif Factory

Una poesia di Anna Ventura (traduzione in francese di Edith Dzieduszycka)

La neve di ovatta

Da bambina accendevo
le candeline vere
sull’alberello vero;
ci mettevo anche la neve di ovatta,
col rischio di bruciare la casa;
la stufa di terracotta emanava
un calore buono, mentre,
fuori,
l’aria tagliava come una lama.
Oltre i vetri incrostati di ghiaccio,
c’era il cielo, carico di stelle; qualcuna,
ogni tanto, si staccava,
precipitava verso la terra buia.
Aspettavo di crescere,
aspettavo di non essere più bambina
per uscire da quella prigione di ghiaccio.
Il viaggio è stato
più lungo del previsto.

La neige de ouate

Petite fille j’allumais
les vraies bougies
sur l’arbre vrai;
j’y mettais aussi la neige de ouate,
en risquant de brûler la maison;
le poêle de terre cuite émanait
une bonne chaleur, tandis que
au dehors,
l’air tranchait comme une lame.
Derrière les vitres incrustées de glace,
il y avait le ciel, chargé d’étoiles; l’une d’elles,
parfois, se détachait,
précipitait vers la sombre terre.
J’attendais de grandir,
j’attendais de n’être plus petite fille,
pour sortir de cette prison de glace.
Le voyage a été
plus long que prévu.

.
Due poesie di Gino Rago da I platani sul Tevere diventano betulle (di prossima pubblicazione)

4

Dio chiede una recensione…

il femminile di Dio il suo lato destro
ha chiesto una recensione ai poeti della «nuova ontologia estetica».

di certo le poetesse dell’ombra lo sanno che Dio è dappertutto,
che rovista con garbo nella pattumiera

Il maschile di Dio il Suo lato sinistro
frequenta le bische clandestine, i ricoveri

aperti tutta la notte, staziona tra le vetrate,
tra i bassifondi dei porti
e gli slums delle periferie di Hopper.

Ci ha provato anche con Lucio Mayoor Tosi, Grieco-Rathgeb e Talia
ma non gli hanno dato retta, andavano di fretta,

per una recensione sulla sua creazione
perché i tre lasciano di sé frammenti dappertutto

e cercano il tutto in ogni frammento,
un seme di cocomero, un chiodo, un filo di spago.

Dio si è rivolto ai cacciatori di immagini
perché i tre in poesia rapinano banche,

la poesia è una rapina in banca: si entra, si spiana la rivoltella,
si cattura l’ attenzione, si prendono i soldi e si scappa,

si scompare, per poi ricomparire in altre banche
ebbene, questi versi annoiano Dio, l’Onnipotente

non sopporta questi ladruncoli che giocano a fare
scaccomatto.

Cicche e carte stracce sui marciapiedi,
dalla tavola calda aperta tutta la notte odore di cipolle,

un fiore nel vaso parla con lo specchio:
«è perfettamente inutile che Lei caro signore si ecciti,

faccia quello che sa fare. Faccia lo specchio»

15

Risponde il filosofo Erésia

Alla domanda di Herbert: «Dove passerai l’eternità?»,
risponde il filosofo Erésia: «cara Signora Circe, caro Signor Nessuno,

il poeta da finisterre parla con l’oceano e scrive le sue parole sull’acqua:
non mi aspetto l’eternità e so che nessun verso oltrepasserà la morte.

I poeti lo sanno da sempre: le poesie sono mortali».

Gif Humphrey Bogart

Una poesia inedita di Paola Renzetti Continua a leggere

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