Una poesia di Anna Ventura. Mi sono preso la libertà di fare un esperimento: l’ho riscritta in distici; da Antologia Tu quoque (Poesie 1978-2013) EdiLazio, 2014
Anna Ventura
Petronio Arbiter
L’Arbiter sapeva
di essere in pericolo,
e non se ne curava; sapeva
che, comunque, la morte arriva,
né temeva un’anticipazione;
ma lo disgustava l’idea
di una violenza brutale,
di una mano sporca
che lo avrebbe trafitto
con un pugnale
forse già insanguinato. Perciò,
meglio morire per propria scelta,
a banchetto, tra parole leggere.
Forse aveva ragione Trimalcione,
che nel suo epitaffio,
dove si definisce
“pio, forte e fedele”, avverte:
“Non ascoltò mai un filosofo”
L’Arbiter amava quella creatura
nata dalla sua fantasia inquieta:
così lontana da lui,
così vicina alla terra.
Giorgio Linguaglossa
Un interlocutore, che vuole rimanere anonimo, scrive alla mia email:
«caro Giorgio,
questo è l’inizio della tua poesia:
A tentoni. Corridoio. Andito. Corridoio.
Ambiente climatizzato. Pareti bianche, soffitto bianco,
corridoio bianco.
Un pianoforte bianco e dei bambini anch’essi bianchi.
A destra e a sinistra ci sono porte sprangate.
Saracinesche. Inferriate. Oblò.
Lascia che te lo dica con franchezza, la poesia che hai postato è veramente brutta, è anti acustica, spezza il ritmo, è affettata (nel senso che fai a fette la sintassi), è artificiale (cerchi di spezzare la coda delle lucertole) perché spezzi in continuazione il flusso delle parole, è gratuita perché contrariamente a quello che dici qui si trova un Grande Io che interviene dappertutto nella sintassi e nella stesura prosodica con le forbici in maniera selvatica e con la lametta, tagli e spezzi tutto quello che c’è da tagliare e da spezzare. Alla fine rimane un singhiozzato spezzato intervallato da spazi. Il primo verso contiene 4 parole ed ha 4 punti. Non ti sembra un po’ eccessivo? E questa sarebbe la nuova poesia?».
Mauro Pierno
26 luglio 2018 alle 10:57
Nella vacanza. Questo ritmo.
Le onde arretrano.
Disseminano bacini.
Non affiorano ed i pesci
serpeggiano.
Le dune sovrappongono questo rumore d’aria e scuote il finito. Inganna un momento il tempo
così simile ad una costa sdraiata.
Tra le cosce una perfezione inutile.
Gino Rago
26 luglio 2018 alle 11:32
Porte non aperte, saracinesche abbassate, inferriate, bianco che domina su tutto, bambini e pianoforte compresi… L’oblò non accompagnato da nessun aggettivo… Sul piano linguistico questi versi di Giorgio Linguaglossa sono la gloria definitiva dei sostantivi i quali gettano alle ortiche tutto il truismo e i significanti di tanta poesia [senza destino] di casa nostra, sul piano tematico si avverte invece tutta la condizione dell’uomo del post-postmoderno o del transumanesimo, un uomo senza tempo e senza spazio certi, riconoscibili,
assenza di memoria e assenza di una idea-progetto di futuro, un labirinto senza filo di Arianna di incomunicabilità totale… E’ la metafora dell’esilio più terribile, l’esilio dell’uomo a tentoni nel proprio corridoio.
Ogni lettore forse davvero vede e sente nell’altrui poesia ciò che è in grado di vedere e sentire, scaricando sui poeti-autori i propri limiti, le proprie inadeguatezze.
Anche in questi versi la proposta di essi in distici sono di alto rendimento estetico.
Lucio Mayoor Tosi
26 luglio 2018 alle 13:09
Nella poesia “Omega” l’interlocutore è posto altrove, in un non-luogo. Si presume che stia ascoltando e registrando quanto gli viene riportato dalla visione dell’autore – operatore scientifico –; il quale autore scrive da speleologo, inabissato com’è nell’inconscio. Quando riemerge “c’è un terrazzo. / Una ringhiera si affaccia su un mare nero”.
Io che sono un lettore “della domenica” capisco che si tratta di un sogno; e che l’autore mi rassicura (perché va detto che le poesie di Giorgio Linguaglossa spesso sono incubi della significazione, ma sempre incubi sono).
«Questo è il posto del Re», dice il Re di denari.
È un verso che non sdrammatizza, dice soltanto che se un qualche significato c’è, sta nell’evento. È già trascorso. Qui nulla è rimasto di significato, significante, ritmo o quant’altro possa far pensare a qualcosa di esterno all’evento poesia.
L’anonimo interlocutore parla un linguaggio che non può più essere detto scambievole.
Rossana Levati
26 luglio 2018 alle 14:19
Leggendo “Omega” di G. Linguaglossa mi è venuto da chiedermi subito perché l’insistenza così evidente sul colore bianco che avvolge luoghi e persone, colore dell’invisibilità (come distinguere infatti, tra le pareti bianche, le figure bianche di bambini?) ma anche della mancanza, quasi l’ambiente descritto fosse quello asettico di un ospedale, luogo di sospensione e di attesa temporanea, prima del ritorno alla vita di sempre o del passaggio ad altra vita. Il mare scoperto dietro la porta è nero infatti, con tutto ciò che quel colore rappresenta in se stesso: il buio metaforico di quei “morti che hanno inghiottito il buio”, il rinvio a un mondo sprofondato, con i suoi templi diroccati, che è quindi anche il buio del Tempo (storia che inghiotte se stessa, lasciando i residui delle colonne), buio della memoria e del sotterraneo non così accessibile, ma per tornare al quale è necessario aprire, “con circospezione”, le porte sprangate del tempo.
Ho seguito la traccia di questi colori, passando da un testo all’altro: il buio in cui si aggirano i vecchi di Charles Simic, sprofondati nelle loro camere tetre, nelle stanze nere proprio come quel mare oscuro, delineate dalla sottile striscia di gesso bianco che divide i due mondi, quello visibile ed esterno e quello sconosciuto della morte che prende forse il passo implacabile e invisibile dei topi nascosti nel muro (il bicchiere d’acqua è lo stesso che hanno bevuto i padri morti che ci precedono di poco in cucina, con un’immagine presente anche in Ritsos).
Nera la pelliccia di volpe citata dalla Lipska che si vende per sottrarsi alla memoria smemorata che non pratica più i luoghi visibili e che si libera di noi spargendoci in frammenti sui luoghi della nostra vita, quelli che dovrebbero trattenere il tempo e i ricordi, nero l’Atlantico di Transtromer che si staglia su quella notte che avvolge il mondo, con quella tromba scura dell’ascensore che continua il suo viaggio verticale nelle viscere della terra, sfiorando forse gli strati delle ere geologiche, di un altro tempo in cui sono sepolte le generazioni e i ricordi, e avvolta dall’ombra è la metro sotterranea della Giancaspero, dove invano gli occhi scrutano l’equivoco di chi non ha più strade da tentare per raggiungere certezza di se’: scoprirsi sospesi nel mondo, estranei a se stessi, con una lingua incapace di ancorare al tempo e di dare consistenza al mondo esterno, quello dei corpi e dei giorni, significa anche dover esplorare, come accade in queste poesie pure tutte così diverse nelle immagini e nel ritmo, un mondo oscuro, sotterraneo, inquietante, ai confini della memoria e dell’ignoto, all’inseguimento di ricordi di tutto ciò che è sepolto “giù nel profondo”, al tempo stesso perduti ma anche troppo vicini a noi.
Giorgio Linguaglossa
26 luglio 2018 alle 16:42
Posto la poesia in argomento:
Omega
[…]
A tentoni. Corridoio. Andito. Corridoio.
Ambiente climatizzato. Pareti bianche, soffitto bianco,
corridoio bianco.
Un pianoforte bianco e dei bambini anch’essi bianchi.
A destra e a sinistra ci sono porte sprangate.
Saracinesche. Inferriate. Oblò.
D’istinto, mi dirigo a destra [a destra (!?)],
[perché a destra (!?)]
[…]
La prima porta, la apro.
Il sole tramonta su un mare nero.
Archi di trionfo. Templi diroccati. Colonne.
[…]
La seconda porta.
Ci sono i morti che hanno inghiottito il buio.
Sono invisibili, ma io li vedo.
A tentoni… giro una maniglia.
[…]
Apro la terza porta.
Ci sono gli uomini che hanno mangiato la mela.
Adesso sono visibili.
«Davvero, che gioco è questo (!?)».
Avanzo con circospezione, nel corridoio… c’è un terrazzo.
Una ringhiera si affaccia su un mare nero.
«Questo è il posto del Re», dice il Re di denari.
In verità, nelle prime stesure della prima strofa di questa poesia saltava agli occhi che essa non era stata scritta con tutti quei punti a mo’ di spezzatino, ma era scritta come un’onda unica fonica e sintattica, alla maniera della ontologia estetica novecentesca. E la cosa non mi piaceva affatto, mi lasciava insoddisfatto. In seguito, nel corso degli ultimi 4 anni ho iniziato a segmentare il testo con dei punti, togliendo i verbi e gli aggettivi (che confondevano e ostacolavano a mio vedere il colpo d’occhio della lettura). La stesura in distici è stata l’ultimissima e decisiva modifica che ho apportato al testo.
La poesia è stata costruita in feroce inimicizia con il «suono», con la poesia fonologica e sonora della tradizione italiana che va da Pascoli e D’Annunzio a Franco Fortini di Composita solvantur (1995). Quello che è avvenuto dopo l’ultimo libro di Fortini nella poesia italiana non lo ritengo, da questo punto di vista, interessante… con l’eccezione di Stige di Maria Rosaria Madonna [1992 e adesso in Stige. Tutte le poesie (1990-2002) Progetto Cultura, 2018, pp. 148 € 12], la quale opera uno strappo vistosissimo con la poesia della tradizione novecentesca in senso lato.
La poesia in argomento è stata costruita nell’ambito della nuova concezione estetica della «nuova ontologia estetica». Mi rendo benissimo conto che ad un orecchio abituato ed educato alla «vecchia ontologia estetica» la poesia possa sembrare brutta e cacofonica. Anzi, il fatto che venga recepita così mi convince sempre di più che mi trovo (ci troviamo) sulla strada giusta, la strada del rinnovamento di una stagnazione del pensiero poetico che si è protratta per più di 50 anni. Innanzitutto, nel mio testo, la fonologia, il suono ha perso la sua centralità, anzi, sono stati relegati in ultima posizione. Il suono complessivo delle parole, la Stimmung non è data dal suono del significante ma dal cozzo acustico della fonemica e dal cozzo dei significati.
Riflettiamoci un attimo: Il «suono» è stato spodestato dalla sua centralità e sostituito con il «niente»… e questo è evidentissimo se rileggiamo per esempio le poesie di Mauro Pierno, di Alfonso Cataldi e di Donatella Costantina Giancaspero postate nell’articolo.
È avvenuta una rivoluzione, e non ce ne siamo accorti. Rectius, chi non la vede è perché non ha occhi e orecchi per avvedersene.
Quando de Sassure scrive che «l’immagine verbale non si confonde col suono stesso» afferma un concetto importantissimo per la poesia della nuova ontologia estetica. Quando io ad esempio scrivo:
«Questo è il posto del Re», dice il Re di denari
utilizzo una immagine che, ai fini della significazione, non corrisponde ad alcuna successione fonica, ad alcun «suono»; l’immagine deve essere recepita e decodificata non mediante la intercessione del «suono» ma ricorrendo ad una immagine eidetica che viene attivata da una immagine iconica. E questa utilizzazione della Lingua (Langue) è una tipica procedura della poesia della «nuova ontologia estetica».
Leggiamo cosa dice un maestro della teoria del linguaggio, Ferdinand de Sassure:
«Le sillabe che si articolano sono impressioni acustiche percepite dall’orecchio, ma i suoni non esisterebbero senza gli organi vocali; così una “n” esiste solo per la corrispondenza dei due aspetti. Non è dunque possibile ridurre la lingua al suono, né distaccare il suono dall’articolazione boccale; reciprocamente, i movimenti degli organi vocali non sono definibili se si fa astrazione dall’impressione acustica.
Ma ammettiamo anche che il suono sia una cosa semplice: è forse il suono che fa il linguaggio? No, il suono è soltanto uno strumento del pensiero e non esiste per se stesso. Sorge qui una nuova corrispondenza piena di pericoli: il suono, unità complessa acustico-vocale, forma a sua volta con l’idea una unità complessa, fisiologica e mentale. E non è ancora tutto.
Il linguaggio ha un lato individuale e un lato sociale, e non si può concepire l’uno senza l’altro.
Inoltre, in ogni istante il linguaggio implica sia un sistema stabile sia una evoluzione; in ogni momento è una istituzione attuale ed un prodotto del passato.
[…]
Preso nella sua totalità, il linguaggio è multiforme ed eteroclito; a cavallo di parecchi campi, nello stesso tempo fisico, fisiologico, psichico, esso appartiene anche al dominio individuale e al dominio sociale… La lingua, al contrario, è in sé una totalità e un principio di classificazione».1]
1] F. de Sassure, Corso di linguistica generale, Paris, 1922, trad it. 1967. edizione del 2001, pp. 1-19
Giorgio Linguaglossa
caro Guido Galdini,
permettimi di disporre la tua poesia in distici. penso che la poesia ne guadagni:
l’esilio è essere lontani
la vicinanza è invece essere vicini
ma quando si è esiliati da vicinissimi
in una terra che ha slacciato i suoi legami
e dimenticato quello che era da ricordare
non è data più terribile lontananza, Continua a leggere