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Solomon Volkov “Dialoghi con Josif Brodskij” (Lietocolle, 2016 pp. 422 € 20) estratto delle affermazioni di Brodskij con una sua poesia “Odisseo a Telemaco”, traduzione di Galina Dobrynina e postilla di Giorgio Linguaglossa

iosif Brodskij DiscoveryÈ vero: come scrive Serena Vitale, il genere dell’intervista costituisce, dopo la poesia e la saggistica, «la terza forma letteraria in cui Brodskij si espresse». Di qui l’idea di raccogliere tutte le interviste che il poeta russo (premio Nobel 1987) concesse a Solomon Volkov, il suo vero maieuta. Dialoghi maieutici dunque, conversazioni a metà tra il pubblico e il privato, tra il serio e il semiserio e il faceto, con quel pizzico di civettuosità e di umano che fanno di questi dialoghi una forma di letteratura viva e vitale. Ritengo che si impara più dalla lettura di questi dialoghi che non da una intera sessione universitaria sulla poesia moderna. «In questi Dialoghi, raccolti da Solomon Volkov nell’arco di quindici anni, Iosif Brodskij racconta la sua infanzia in una Leningrado devastata dalla guerra, l’avventurosa vita di poeta clandestino. Capitoli speciali di ricordi, sono dedicati ai poeti mentori di Brodskij: Auden, Achmatova, Frost e Cvetaeva e alle loro influenza sulla formazione del giovane poeta, che nel 1987 è insignito del Premio Nobel. Pubblicato in America nel 1998, tradotto successivamente in molte lingue, dopo un “pellegrinaggio” di 17 anni il libro per la prima volta appare in Italia a cura di LietoColle» (dalla nota di diffusione di LietoColle). 

(Giorgio Linguaglossa)

Iosif brodskij 5

Josif Brodskij a Venezia

INTERVISTA

Brodskij: …Quante sciocchezze ho scritto! Se in Russia avessi avuto la possibilità di pubblicare tutto quello che mi passava per la testa sarebbe stato un completo disastro. Quindi, in qualche modo, devo essere grato per tutti gli ostacoli frapposti dalla censura in patria. Meno male che esisteva la censura!
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Brodskij: Ho iniziato a scrivere poesie per una semplice ragione: ti dà un’accelerazione straordinaria. Quando si scrive una poesia, vengono in mente cose che in fondo non sarebbero dovute emergere. Ecco perché ci si deve impegnare nella letteratura. L’ideale sarebbe che lo facessero tutti. È una necessità della specie, biologica, il dovere di un individuo verso se stesso, verso il suo DNA… in ogni caso, bisognerebbe parlare non tanto del dovere del poeta verso la società, quanto del dovere della società verso il poeta o lo scrittore. Ovvero, la società dovrebbe semplicemente ascoltare il poeta e cercare di imitarlo; non proprio seguirlo, ma imitarlo. Ad esempio, non ripetere ciò che è stato già detto una volta… Nei bei tempi andati era proprio così: la letteratura forniva alla società delle norme, dei modelli linguistici, e la società di adottava. Ma oggi, non si sa come, scopriamo che la letteratura si deve sottomettere alle norme imposte dalla società
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Brodskij: Posso paragonare l’influenza di Auden a quella di Achmatova; lei, infatti, e soprattutto i suoi principi etici mi avevano influenzato più o meno allo stesso modo; e non poteva essere altrimenti, dato che a quei tempi ero un ragazzetto completamente ignorante. Con Achmatova, anche se non avevi mai sentito parlare di cristianesimo potevi fartene un’idea. Era questa la sua influenza, prima di tutto umana. Capivi che non avevi a che fare con un homo sapiens, o perlomeno non solo con un sapiens, ma con un homo dei, no? le dovrei fare tre nomi: Anna Andreevna, Auden e Robert Lowell.
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Di Auden nel 1937 ho letto tutto quello che si poteva trovare in giro. Ci si poteva procurare, ad esempio, l’antologia della nuova poesia inglese, pubblicata nel 1937… Per quello che ne so, tutti i traduttori di questa antologia sono stati fucilati o imprigionati. Ne sono sopravvissuti pochissimi… È stata appunto questa antologia la fonte principale dei miei giudizi su Auden. la qualità delle traduzioni era orrenda, naturalmente, ma allora l’inglese io non lo sapevo, e così mi limitavo appena a ricostruire e analizzare qualche frase. Pertanto, le mie impressioni su Auden non potevano che essere approssimative, come le traduzioni del resto; un po’ mi ci raccapezzavo, ma non del tutto. ma più andavo avanti e più imparavo. A partire dal 1964 circa, mi sono messo a leggere Auden con regolarità, quando riuscivo a trovarlo, decifrandolo riga per riga, e verso la fine degli anni Sessanta ho cominciato a capirci qualcosa. e finalmente ho capito – e come potevo non capire- non tanto la sua poetica quanto la sua metrica. Cioè, la sua poetica è nella metrica, è in quello che in russo si chiama dol’nik, nel verso tonico, un verso disciplinato, molto ben organizzato, con all’interno la sua magnifica cesura da esametro. E quel tocco ironico. Non so neanche da dove venisse. Questo elemento ironico non è nemmeno un merito particolare di Auden, ma piuttosto della lingua inglese. E poi quella tecnica della reticenza tipicamente inglese. Insomma, Auden mi piaceva sempre di più. Alcune delle mie poesie le ho scritte sotto la sua influenza (nessuno potrà mai capirlo, grazie a Dio); Fine della Belle Époque, Canzone dell’innocenza e anche dell’esperienza, poi Lettera al generale (perlomeno fino a un certo punto), ed altre poesie. Tutte con lo stesso ritmo un po’ rilassato. A quei tempi mi piacevano soprattutto due poeti: Auden e Louis MacNeice, e anche adesso mi sono estremamente cari; semplicemente, leggerli è una cosa interessantissima… Soprattutto amavo una poesia di Auden, la sua Lettera a Lord Byron, avevo lavorato duro per tradurla, ed era diventata il mio antidoto contro qualsiasi forma di demagogia. Quando ero al limite e stavo per crollare, leggevo questa poesia. Il lettore russo potrebbe apprezzare Auden perché, in apparenza, è tradizionale. Cioè, Auden utilizza la struttura formale della stanza con tutti i suoi annessi e connessi, ma è come se della strofa non se ne accorgesse nemmeno. Dopo di lui, credo che nessuno abbia scritto delle sestine così belle. Cyril Connoly, suo contemporaneo, critico e scrittore meraviglioso, una volta ha detto che Auden è stato l’ultimo poeta della generazione degli anni trenta le cui poesie si potevano ricordare a memoria. Auden è unico, e per me rappresenta uno dei fenomeni più significativi della poesia mondiale. Mi concedo una dichiarazione sconvolgente: ad eccezione di Cvetaeva, Auden mi è più caro di tutti gli altri poeti.
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iosif brodskij sulla scrivaniaBrodskij: [parlando di vari poeti russi del primo Novecento]…un colosso come Chodasevic se li mette tutti sotto i piedi… Ma se parliamo del fatto che, alla fine del secolo, tutto nella scena culturale andrà al suo posto, beh, allora dico che nessuno dovrebbe preoccuparsi, perché è il tempo stesso che sistemerà le cose, con o senza la cortina di ferro. È la legge di conservazione dell’energia: l’energia rilasciata nel mondo non scompare senza lasciare traccia, indipendentemente dall’isolamento politico o culturale. E se per caso questa energia ha anche una certa qualità, allora non c’è assolutamente nulla di cui preoccuparsi. Sbagliano i poeti che si abbandonano al Weltschmertz [dolore cosmico] perché non vengono pubblicati, dovrebbero solo preoccuparsi della qualità di quello che stanno facendo. Perché se c’è qualità, prima o poi le cose si sistemeranno da sole… Quindi nessuno verrà dimenticato, ognuno avrà il suo posto. I geni sconosciuti non esistono, è solo una mitologia ereditata dal XIX secolo…
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Brodskij: Devo dire che, nonostante tutto, trovo Evtušenko più simpatico di Voznešenskij. Dal mio punto di vista, che non è certo inattaccabile, il russo di Evtuch è senz’altro migliore. Beh, in fondo che cos’è Evtuch? È una fabbrica che produce solo se stesso, e non ne fa un segreto. In questo è assolutamente onesto, a differenza di Voznešenskij, che si presenta come poète maudit
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Brodskij: Nella mente di Pietro il Grande c’erano due direzioni: il Nord e l’Ovest. Nient’altro. L’Oriente non lo interessava. Non gli interessava neppure il Sud (forse solo come categoria geografica). Era un uomo che ha trascorso una buona metà della sua vita a dialogare con l’Occidente e con il Settentrione, viaggiando, combattendo. Ecco in quali direzioni andava, e probabilmente, nella sua testa, esse erano la strada per l’assoluto, proprio perché era prima di tutto un sovrano, un essere politico, e non una sorta di demiurgo o un erede della romanità…
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Josif Brodskij e VeneziaBrodskij: Alcuni pensano che se una città ha avuto un inizio deve pure avere una fine, e che, a differenza di Roma o Parigi, San Pietroburgo, è, come dicono alle corse, una città “decisa a tavolino”. Cioè, le altre capitali si sono sviluppate in modo naturale e spontaneo, mentre la costruzione di San Pietroburgo è stata predefinita in anticipo. Questa definizione di San Pietroburgo come città “decisa a tavolino” mi sembra una parafrasi moderna delle parole di Dostoevskij: Pietroburgo è il luogo “più astratto e premeditato” del mondo… Naturalmente è innegabile che a un certo punto essa sia scivolata nel provincialismo…
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Brodskij: La Russia di oggi è un paese diverso, è totalmente un altro mondo. E trovarsi lì da turista è assolutamente pazzesco. Poi, di solito, ovunque tu vada, sei sempre mosso da una necessità interiore od esteriore. E io, francamente, nei confronti della Russia non ho più né l’una né l’altra. In realtà viaggiare, non è andare in un posto, è andarsene da qualcosa… Per me la vita è un continuo allontanarmi da qualcosa… A questo proposito l’Achmatova diceva una frase, che io amo molto. era pressappoco così: “L’assenza è il rimedio migliore contro l’oblio, mentre il modo migliore per dimenticare per sempre è vedere ogni giorno”.
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Brodskij: I miei primi libri li ha curati Lev Losev e non avrebbero dovuto essere due, ma uno solo. L’editore però ha deciso di pubblicarne due, per guadagnare più soldi: Fine della Belle Époque (le poesie dal 1964 al 1971) e Parte del discorso (1972-1976). Bene, su questo potevo anche essere d’accordo, perché il 1972 era diventato una sorta di confine, o almeno, il simbolo di una frontiera, quella dell’unione Sovietica, no? In ogni caso non era un confine psicologico. È vero, in quell’anno mi sono trasferito da un impero all’altro; tuttavia, non vedo confini psicologici nelle mie poesie di quel periodo, anche se penso che con la poesia Il Tamigi a Chelsea, scritta nel ’74, inizi una poetica diversa, una serie di versi differenti dai precedenti… Ma anche qui, ci si accorge di una poetica diversa solo quando i versi si trovano vicino a quelli che li hanno preceduti, a quelli che, in un certo senso, hanno preparato questo cambiamento, che ne hanno segnato il declino o, come si dice, l’esalazione dell’ultimo respiro. Solo così ci si accorge che è un’altra cosa. Quindi, non capisco con che criterio si debba dividere il tutto in capitoli e libri differenti e perché sia necessario operare questa divisione. Lasciamo pure che tutto segua il suo corso, come la vita, più o meno.
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Brodskij: Io non mi pongo al di sopra del lettore, così come, ovviamente, non mi pongo al di sotto… non mi sono mai considerato un autore, parola d’onore! Anche se forse queste parole, ora che le ho pronunciate, potrebbero essere prese per civetteria. In realtà per tutta la vita – questa è la cosa importante – mi sono sempre considerato prima di tutto come una sorta di unità metafisica, no? Mi sono sempre interessato soprattutto a ciò che avviene alla persona, all’individuo sul piano metafisico. Le poesie, di fatto, sono un prodotto secondario, nonostante si pensi sempre il contrario […] Quand’è che il poeta redige un libro? Quando può permettersi di farlo? Quando non scrive poesie. Ma quando non riesci a scrivere, vai fuori di testa, diventi una belva, e te la prendi soprattutto con te stesso. Quando non riesci a scrivere pensi che la vita sia finita.
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josif brodskijBrodskij: [Nuove stanze per Augusta], si tratta di una raccolta di poesie scritte nell’arco di vent’anni e rivolte ad un unico destinatario. In una certa misura, è la cosa più importante della mia vita. Mentre ci lavoravo avevo deciso che nessun’altro, nemmeno il più capace, avrebbe dovuto metterci le mani, e che sarebbe stato meglio se me ne fossi occupato io, tanto più che se non l’avessi fatto io, chissà che disastro avrebbero combinato gli altri! Poi, durante una conversazione con Lev Losev, ho avuto come un’illuminazione: ho riguardato tutti quei versi e all’improvviso mi sono reso conto che, magicamente, formavano una storia. E mi sembra che alla fine Nuove stanze per Augusta possa essere letta come un’opera a se stante. Purtroppo non ho scritto la Divina Commedia, e, a quanto pare, non la scriverò mai. Ma il risultato è stato un libro di poesia con l’intreccio tipico delle opere in prosa.
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Brodskij: Viviamo in una società che impazzisce per l’idea della cultura come prodotto, e perciò chiede continuamente libri, libri e ancora libri. Questo giochetto ha condotto la cultura a un punto morto: la verità è che quando scrivi non hai la minima idea di chi leggerà i tuoi scritti, di chi sarà in grado di capirci qualcosa. Capiranno? O non capiranno? Ed è così che dev’essere!
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Brodskij: Per come adesso va la mia vita non credo proprio che scriverò grandi opere, e che il lettore le leggerà […] Non so, magari, se Dio vuole, in futuro scriverò qualcosa di simile a Per il tempo presente di Auden. Come sa, non dipende da me, si scrive seguendo lo sviluppo della propria prosodia, e non perché si ha qualcosa da dire. Lei non ignora che il linguaggio impone una sua dittatura: ed è così che le parole cominciano a intonarsi l’una all’altra, a suonare… Non lo so, forse anche la mia prosodia si trasformerà in qualcosa di epico… D’altra parte, Montale, tanto per fare un esempio, non ha scritto niente di epico, così come Eliot, anche se lui forse non è uno da prendere come modello; anche Yates non ci ha lasciato nessun poeta epico.
josif-brodskij La guerra di Troia è finita Chi ha vinto non ricordo

josif-brodskij La guerra di Troia è finita Chi ha vinto non ricordo

 Iosif Brodskij

Odisseo a Telemaco

Telemaco mio,
la guerra di Troia è finita.
Chi ha vinto non ricordo.
Probabilmente i greci: tanti morti
fuori di casa sanno spargere
i greci solamente. Ma la strada
di casa è risultata troppo lunga.
Dilatava lo spazio Poseidone
mentre laggiù noi perdevamo il tempo.
Non so dove mi trovo, ho innanzi un’isola
brutta, baracche, arbusti, porci e un parco
trasandato e dei sassi e una regina.
Le isole, se viaggi tanto a lungo,
si somigliano tutte, mio Telemaco:
si svia il cervello, contando le onde,
lacrima l’occhio – l’orizzonte è un bruscolo -,
la carne acquatica tura l’udito.
Com’è finita la guerra di Troia
io non so più e non so più la tua età.
Cresci Telemaco. Solo gli Dei
sanno se mai ci rivedremo ancora.
Ma certo non sei più quel pargoletto
davanti al quale io trattenni i buoi.
Vivremmo insieme, senza Palamede.
Ma forse ha fatto bene: senza me
dai tormenti di Edipo tu sei libero,
e sono puri i tuoi sogni, Telemaco.

(1972, traduzione di Giovanni Buttafava)

ОДИССЕЙ ТЕЛЕМАКУ

Мой Tелемак,
Tроянская война
окончена. Кто победил – не помню.
Должно быть, греки: столько мертвецов
вне дома бросить могут только греки…
И все-таки ведущая домой
дорога оказалась слишком длинной,
как будто Посейдон, пока мы там
теряли время, растянул пространство.
Мне неизвестно, где я нахожусь,
что предо мной. Какой-то грязный остров,
кусты, постройки, хрюканье свиней,
заросший сад, какая-то царица,
трава да камни… Милый Телемак,
все острова похожи друг на друга,
когда так долго странствуешь; и мозг
уже сбивается, считая волны,
глаз, засоренный горизонтом, плачет,
и водяное мясо застит слух.
Не помню я, чем кончилась война,
и сколько лет тебе сейчас, не помню.
Расти большой, мой Телемак, расти.
Лишь боги знают, свидимся ли снова.
Ты и сейчас уже не тот младенец,
перед которым я сдержал быков.
Когда б не Паламед, мы жили вместе.
Но может быть и прав он: без меня
ты от страстей Эдиповых избавлен,
и сны твои, мой Телемак, безгрешны.

Postilla di Giorgio Linguaglossa

giorgio linguaglossa

caro Gino Rago,
io colgo in questa straordinaria poesia di Brodskij lo spirito e la consapevolezza di un esule dalla grande patria, un quasi disertore, uno di coloro che si sono ritirati, che non hanno preso parte alla guerra, alla prima grande guerra imperialistica della storia dell’Occidente. E’ una riflessione di altissima profondità e attualità, con quell’accenno al figlio Telemaco liberato dal complesso di Edipo e dalla paura di Edipo. Edipo in quanto responsabile di tutte le guerre. Il padre. Il totem. L’Odisseo di Brodskij ha imparato tanto dalla guerra: che lui è soltanto un figlio di quella cultura che lo ha formato e prodotto. Che siamo tutti figli di quella cultura, nel bene e nel male, che non c’è via di scampo, che non puoi uscire dalla cultura che tu respiri e dalla lingua che parli. L’Odisseo di Brodskij è giunto in prossimità del nichilismo, e del relativismo, anzi, ha attraversato il nichilismo, come soltanto una guerra, un grande bagno di sangue ti può concedere di esperire.
Io leggerei questa poesia-chiave nel segno della nostra cultura di oggi, giunti al Tramonto dell’Occidente, ci volgiamo all’indietro a considerare i nostri progenitori: In primis Odisseo, il nostro progenitore, l’astuto inventore del terribile tranello che porrà fine alla guerra: quel cavallo di Troia, congegno simile alla bomba atomica, per quell’epoca. Brodskij legge, in questa formidabile poesia, la storia a ritroso dal punto di vista di un uomo giunto alla soglia del Tramonto dell’Occidente, un uomo che si rivolge al figlio, che nel frattempo sarà cresciuto e sarà diventato un altro uomo. Questo Odisseo problematico di Brodskij è una poesia-totem, una poesia delle poesie. Una poesia che chiude il ciclo di una civiltà. E chi non lo capisce, mi chiedo che cosa potrà capire mai di questa poesia, così desolatamente profonda e sconfinata. Brodskij non accusa Odisseo, anzi, lo assolve. Come Odisseo libera il giovane Telemaco dalla paura del padre-totem. Così sarà libero, libero di essere uomo di un altro tipo e potrà fondare un nuovo mondo, una nuova umanità.
Una poesia profondissima e amara. Amara per quelle verità che reca con sé.

Io, nel mio tentativo di rifare una poesia di Odisseo a Telemaco, mi sono messo sulla stessa onda d’urto del pensiero brodskijano, dal punto di vista di un uomo (Odisseo) che ha capito che forse ha sbagliato tutto, e che trova il coraggio di scriverlo al figlio, Telemaco, che intanto è cresciuto ed è diventato uomo su una isoletta nello sperduto mare.

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UNA POESIA INEDITA di  Bella Achatovna Achmadulina (1937-2010) Ricordi di Boris Pasternak (1962) Traduzione di Donata De Bartolomeo con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Bella (Isabella) Achatovna Achmadulina

Bella (Isabella) Achatovna Achmadulina

 Bella Achatovna Achmadulina (in russo: Белла Ахатовна Ахмадулина) è nata a Mosca il 10 aprile 1937 ed è scomparsa il 29 novembre 2010. Ha conquistato larga popolarità con le raccolte di versi Struna (“La corda”, 1962), Uroki muzyki (“Lezioni di musica”, 1970, trad. it. Tenerezza e altri addii, 1971), Metel´ (“La tempesta”, 1977) e il poema Mòja rodoslovnaja (“La mia genealogia”, 1964). Negli ultimi anni ha pubblicato inoltre: Larec i ključ (“Lo scrigno e la chiave”, 1994), Sozercanie stekljannogo šarika. Kovye stichotvorenija (“Contemplazione di una pallina di vetro. Nuove poesie”, 1994), Grjada kamnej. Stichotvorenija 1957-1992 (“La scogliera di pietre. Poesie 1957-1992”, 1995). È stata una poetessa russa tra le più lette e conosciute in patria e all’estero. Nata da padre tataro e da madre italo-russa, con la raccolta di liriche La corda (1962), improntate a un arduo tecnicismo verbale, si pose in prima fila, insieme con Evtušenko (che fu suo primo marito) e Andrej Voznesenskij, nella nuova generazione poetica poststaliniana, cui il recente disgelo aveva consentito una certa libertà di ispirazione e il distacco dalla retorica ufficiale. Nell’ambito di un severo, tradizionale impianto metrico, la Achmadulina ha condotto un’originale ricerca sul linguaggio, attenta alle inflessioni gergali, ma sempre guidata da un’ansia di purezza espressiva e dalla fede nella funzionalità simbolica della parola intesa come accordo verbale, risonanza, armonia. Nelle sue raccolte più recenti (Lezioni di musica,1969; Poesie,1975; Il mistero,1083), così come nelle liriche apparse su giornali e riviste (anche nel circuito clandestino del samizdat), esprime la meditazione sul destino dell’intellettuale nel mondo moderno e il virtuosismo stilistico lascia il posto a una più contenuta maturità d’espressione. Altre sue opere furono Tormenta (1977), nell’almanacco Metropol (Mosca, 1979), il racconto Molti cani e un cane. Le poesie di Bella Achmadulina sono state pubblicate in Italia nelle raccolte Poesie scelte (a cura di Donata De Bartolomeo, pubblicato dalla Fondazione Marino Piazzolla, 1993) e in Poesia (Spirali 1998).

 

Bella (Isabella) Achatovna Achmadulina

Bella (Isabella) Achatovna Achmadulina

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Commento di Giorgio Linguaglossa

L’enciclopedia Treccani recita: «metonimia Figura retorica che risulta da un processo psichico e linguistico attraverso cui, dopo avere mentalmente associato due realtà differenti ma discendenti o contigue logicamente o fisicamente, si sostituisce la denominazione dell’una a quella dell’altra. Costituiscono relazioni di contiguità i rapporti causa-effetto (sotto la specie autore-opera, leggere Orazio, cioè le opere scritte da Orazio; ➔ metalepsi), contenente-contenuto (bere un bicchiere), qualità-realtà caratterizzata da tale qualità (punire la colpa e premiare il merito, cioè punire i colpevoli e premiare i meritevoli); simbolo-fenomeno (il discorso della corona, cioè il discorso del re o della regina), materia-realtà composta di tale materia (un concerto di ottoni, strumenti fatti d’ottone). Si distingue tra m. in cui le realtà associate hanno una relazione di tipo qualitativo e sineddoche, in cui la relazione è di tipo quantitativo».

Dunque, la metonìmia (alla greca metonimìa) s. f. [dal lat. tardo metonymĭa, gr. μετωνυμία, propriamente «scambio di nome», composto di μετα- «meta-» e ὄνομα, ὄνυμα «nome»], è un procedimento linguistico espressivo, e figura della retorica tradizionale, che consiste nel trasferimento di significato da una parola a un’altra in base a una relazione di contiguità spaziale, temporale o causale.

Fata questa doverosa premessa, appare chiarissimo alla prima lettura che questa composizione di Bella Achmadùlina fa proprio il procedimento della metonimia. L’inizio è folgorante. C’è una descrizione di una «casa»: «c’era una casa come una casa», ma non è detto di quale casa si tratta, gli enunciati sono pronunciati ma come in sospensione. L’incipit vuole subito dare l’idea di un punto di partenza («Comincerò da lontano») che non riesce a giungere ad un punto di arrivo, l’inizio e la fine si sono confusi: «non da qui ma da là / comincerò dalla fine ma è anche l’inizio». Subito dopo questi versi compare una tautologia: «Il mondo era come il mondo», ma si tratta di una tautologia rafforzativa del senso, infatti, viene subito spiegato che «E questo significava / tutto quello che in questo mondo desiderate». Dunque, già dalla lettura della prima quartina apprendiamo che un punto che viene da lontano corrisponde nientemeno che al «mondo». Il punto corrisponde al mondo, si stabilisce una equivalenza tra il punto di partenza e il mondo, tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande.

La seconda strofa riprende il motivo lasciato in sospensione: il «luogo», con un tentativo di precisazione delle particolarità topografiche di quel «luogo»: «In quel luogo c’era un bosco, come un orto». Dunque, di nuovo troviamo una indistinzione tra il piccolo (l’orto) e il grande (il bosco), e uno scambio, una equivalenza di valore tra il piccolo e il grande («così piccolo e tuttavia ampio»). Tutta la composizione è un continuo gioco di rimandi tra il piccolo e il grande, tra il contenuto e il contenente. Ci troviamo nella dimensione infantile che ancora non conosce il valore delle dimensioni degli adulti.

Ma ancora non si sa nulla del tema della poesia, nulla si sa del protagonista della poesia, si parla nelle successive quattro strofe di tante cose che ruotano attorno a quel «luogo», ma come inessenziali, periferiche, accidentali come se ci fosse una oggettiva difficoltà a mettere a fuoco il protagonista che rimane nascosto, non nominato, non nominabile, come se una censura operasse a livello conscio che impedisse la nominazione del protagonista. È soltanto nella settima strofe che finalmente troviamo nominato il protagonista ma non col suo nome proprio ma attraverso un pronome «lui», ma è un «lui» che verrà subito abbandonato appena nominato nelle seguenti cinque strofe e sarà soltanto nella tredicesima strofe che verrà di nuovo nominato sempre attraverso la mediazione impropria del pronome.

Questo è quanto, la poesia procede a sbalzi metonimici e a cerchi sempre più ampi fino a sfociare in un pezzo in prosa, come se l’eccitazione e l’emozione di nominare l’innominabile fosse troppo alta per consentire la prosecuzione della composizione poetica. Mi fermo qui.

bella achmadulina

bella achmadulina

 

 

 

 

 

 

 

Bella Achatovna Achmadulina

 Ricordi di Boris Pasternak

Comincerò da lontano, non da qui ma da là
comincerò dalla fine ma è anche l’inizio.
Il mondo era come il mondo. E questo significava
tutto quello che in questo mondo desiderate.

In quel luogo c’era un bosco, come un orto,
così piccolo e tuttavia ampio.
Là, per un capriccio di errori infantili,
tutto era così e tutto al contrario.

Su una piccola distesa di silenzio
c’era una casa come una casa. E questo significava
che in essa una donna dondolava il capo
e le lampade venivano accese presto.

Là il lavoro era leggero come un compito di scrittura
e qualcuno – noi stessi ancora non lo sapevamo –
da solo faceva perdonare , a furia di preghiere innanzi ai cieli,
il nostro peccato di un imperfetto intelletto.

Di quell’equilibrio tra il bene e il male
egli era colpevole. E la terra volava
sconsideratamente, come voleva,
mentre la candela ardeva sul tavolo.

Si perdonavano e l’ignorante e il bugiardo
-qual è la differenza?- davanti a tutto il mondo
poiché, avendoci permesso di non occuparci di ciò,
egli espiava la colpa universale.

Quando il vuoto da lui lasciato
apparve davanti al mondo, verso oriente,
con una scossa la natura spossata
spostò la gravità dei nostri corpi.

Riuniti in un povero cerchio,
l’immensità ci colse di sorpresa
e dallo squallore delle nostre indegnità
ormai nessuno si riscattava.

In quella casa andavano in molti. E quei
due ragazzini con le camicie a strisce
senza timidezza comparivano nel giardinetto
tra il lampone, che diventava scuro nell’oscurità.

Io mi trovavo per caso lì vicino
ma sono estranea all’abitudine moderna
di stabilire un rapporto impari,
d’essere in amicizia e chiamare per nome.

Di sera avevo l’onore
di guardare la casa e rivolgere una preghiera
alla casa, al giardinetto, al lampone:
quel nome non osavo pronunciarlo.

Era l’autunno ed era soltanto
una conseguenza e non un pegno dell’estate.
Allora ancora nessuno sapeva che questo
circolo dell’anno non sarebbe stato chiuso.

Sfuggendo rigorosamente agli incontri con lui
io andavo tra gli alberi, verso l’ineluttabilità dell’incontro,
verso la spaziosità del suo viso, verso la cantilena del parlare…
Ma fare rime in tuo nome?
Oh, no.

Bella (Isabella) Achatovna Achmadulina

Bella (Isabella) Achatovna Achmadulina

Egli all’improvviso uscì dalla povera boscaglia di Peredelkino di sera tardi, in ottobre, più di due anni fa. Indossava un abito da cacciatore grezzo e pulito: mantello azzurro, stivali e guanti lavorati ai ferri. Per delicatezza nei suoi confronti e per orgoglio verso me stessa quasi non vedevo il suo volto: soltanto le bianco-luminose vampate delle sue mani nell’oscurità mi abbagliavano gli occhi. Egli disse: “Oh, salve! Mi hanno raccontato di voi e vi ho riconosciuta subito. – Ed all’improvviso, avendo messo in questo una inaspettata carica di sofferenza, implorò: – Per carità! Scusatemi! Proprio adesso devo telefonare!” Fu sul punto di entrare nel piccolo edificio di un ufficio ma di scatto ritornò e dal buio pesto mi colpì in viso, traboccò la chiara luminosità del suo volto, con la fronte e gli zigomi luminescenti sotto la pallida luna. A causa sua mi avvolse un dolce, gelido frescolino shakespeariano. Egli chiese con spavento: “Non avete freddo? Ormai è quasi novembre” e, tutto confuso, goffamente entrò retrocedendo in una porta bassa. Addossata alla parete, lo ascoltavo con il corpo, come un sordo, parlare con qualcuno: come diffondendosi con insistenza dinanzi a lui, lo avvolgeva con l’inquietudine e la passione della voce. Con la schiena e le palme assorbivo i singolari processi del suo modo di parlare: il canto crescente delle frasi, il caro borbottio orientale trasformato in tremito indistinto e rombo di assiti. Io  e la casa e i cespugli intorno, senza volerlo,  finimmo nei copiosi abbracci di questa intonazione tenerissima, mestamente delicata. Poi egli uscì e facemmo alcuni passi lungo il terreno coperto di ceppi, ramoscelli, siepi per nulla adatto ad una camminata. Ma egli chissà come  con facilità ed alla buona se la intendeva con l’abisso diseguale che si era addensato intorno a noi, con le stelle in mostra che brillavano a buon mercato, con la fossa al posto della luna, con gli alberi poco accoglienti disposti rozzamente. Egli disse: ”Perché non venite mai a trovarmi? Da me capitano a volte delle persone molto care ed interessanti: non vi annoierete. Venite! Venite domani!” A causa di un capogiro che mi prese, io risposi quasi con alterigia:”Vi ringrazio. In qualche modo verrò senza fallo”.

Bella (Isabella) Achatovna Achmadulina

Bella (Isabella) Achatovna Achmadulina

Dal bosco, come un attore da dietro le quinte,
egli trasse all’improvviso la magniloquenza della posa,
senza ricavarne per questo alcun profitto
presso lo spettatore: e distese le braccia.

Egli fu subito il teatro e se stesso,
quell’antica scena, dove ci sono mirabili parole.
Ecco l’inizio! Si spegne la luce! Alle sue spalle
già balugina il fosforo azzurro.

“Oh, salve! E’ quasi novembre
non avete freddo?” ed è tutto, nulla di più.
Come recitava quell’unico ruolo
di universale dolcezza verso gli uomini e le bestie.

Ecco recitare così il proprio ruolo: scherzando!
seriamente! fino alle lacrime! per sempre! senza malizia!
Come egli recitava, come, tracannando il latte,
gioca col mondo la bestia ed il bambino.

“Addio!” Cantare così tra la gente
non si usa. Ma così cantano sulla ribalta,
così si conclude il monologo di quel dramma
in cui si parla della morte e dell’amore.

Già il sipario! Già si illumina l’oscurità!
Ancora non è tutto: “Dunque, passate domani!”
Oh, tono di trasporto ospitale,
noto solo ai georgiani, come a lui.

Ma doveva esserci al mondo una casa simile
dove andare: non lo so! non è possibile!
E dunque, per sempre sconsideratamente,
io non andai né l’indomani né dopo.

Io piangevo tra le stelle, gli alberi e le dacie,
dopo uno spettacolo nella platea spenta,
sul primo assaggio della perdita
come piangono i bambini ed è sommo il loro pianto.

Bella (Isabella) Achatovna Achmadulina

Bella (Isabella) Achatovna Achmadulina

 

 

 

 

 

 

Egli asseriva: “Tra le serre ed i ghiacci,
appena più a sud del paradiso,
suonando uno zufolo da bambini,
vive un secondo mondo
e si chiama Tiflis”.*

Ustione per gli occhi, per la mani infreddatura,
mio amore, mio pianto: Tiflis!
La cornice concava della natura,
dove un dio capriccioso, abbandonandosi al capriccio,
sistemò alla meno peggio questo miracolo sulla terra.

La nebbia si levò ai miei occhi ,
il mio errore prese la rincorsa,
quando quella città dondolando-dondolando
si stese in semicerchio, come il sorriso
delle labbra benedette di Tamara.**

Non so per quale divertimento
egli serrò su di me l’ovale,
baciò, fece fatture sulla vita,
sulla morte ed in punto di morte –
essere l’eterno prigioniero di Metechi.***

Se soltanto non dovessi bere
dall’acqua di Kura!****
E dall’acqua di Aragvi****
non bere!

E le dolcezze del veleno
non conoscere!
E con il viso in quelle erbe
non cadere!

E restituirti i doni
che tu, Georgia, mi hai donato!
Ma è tardi! Ormai il sorso è bevuto
ed è eterna l’ebbrezza e dio vede
che il sogno su di te è profondo
coma la valle dell’Alazani.****

(1962)

Bella Akhmadulina, the GREAT Russian POET, passed away at her home in Peredelkino near Moscow on 29 November 2010. Akhmadulina was cited by Joseph Brodsky ...

Bella Akhmadulina, the GREAT Russian POET, passed away at her home in Peredelkino near Moscow on 29 November 2010. Akhmadulina was cited by Joseph Brodsky …

*(NdT) antico nome di Tblisi
**Tamara Bagration (1160-1212) fu regina della Georgia dal 1184 fino alla sua morte per 28 anni, guadagnandosi la reputazione di eccellente sovrana al punto da essere ribattezzata “re dei re e regina delle regine”.
*** antico e storico rione di Tblisi
**** fiumi della Georgia.

Donata De Bartolomeo è nata a Taranto e vive a Roma. Ha tradotto poesie di Andrej Voznesenskij, Bella Achatovna Achmadulina, Osip Mandel’stam, Blok, Majakovskij, Esenin, Arsenij Tarkovskij e si è occupata di poesia russa con articoli di saggistica.

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