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POESIE EDITE E INEDITE di Steven  Grieco Rathgeb SUL TEMA DELL’AUTORITRATTO O DELL’IDENTITA’ O DEL POETA ALLO SPECCHIO con un Appunto dell’Autore e un Commento critico di Giorgio Linguaglossa – “Senza titolo”, “Autoritratto”, “Autoritratti”, “Tre veglie nel sogno”

hopkins Autoritratto

Prima di andarmene, intravidi il tuo viso
indietreggiare dallo specchio.

(È esteso l’invito a tutti i lettori del blog ad inviare proprie poesie alla e-mail di Giorgio Linguaglossa glinguaglossa@gmail.com sul tema dell’Autoritratto o del Poeta e lo specchio, ovvero, sul tema dell’Identità)

È stato detto che l’autoritratto è il genere artistico egemone della nostra epoca, il più diffuso, ma anche il più problematico. Antonio Sagredo preferisce la dizione «Il poeta e lo specchio», ma lui intende lo specchio deformante, la figura che il poeta vede allo specchio è un Altro, ma è mediante l’immagine allo specchio che noi ci riconosciamo. Il problema dunque del «poeta e lo specchio» è quello della identità. Possiamo dire che una larghissima parte della produzione letteraria del Novecento e contemporanea (romanzo e poesia) appartiene al genere dell’autoritratto, diretto o indiretto, consapevole o meno. È un genere per sua essenza altamente problematico perché ci pone in rapporto con l’Altro, perché nell’Autoritratto l’Io diventa l’Altro. Scrive Lévinas: «Il nostro rapporto col mondo, prima ancora di essere un rapporto con le cose, è un rapporto con l’Altro. È un rapporto prioritario che la tradizione metafisica occidentale ha occultato, cercando di assorbire e identificare l’altro a sé, spogliandolo della sua alterità».

Jacques Lacan afferma che lo scatto fotografico costituisce l’equivalente con cui il fotografo realizza e cattura la propria identità. Secondo Lacan, è proprio attraverso la pratica dell’autoscatto che un fotografo può giungere alla consapevolezza della propria identità.

L’autoritratto però non è l’equivalente di un’esperienza allo specchio, è molto di più, è un gesto che ci porta fuori di noi  stessi, che ci costringe a fare i conti con il «mondo» e con l’Altro.

Mediante l’autoritratto ci vediamo dall’esterno, ci poniamo dal punto di vista di uno spettatore che osserva il ritratto, solo che quello spettatore siamo noi stessi. Osserviamo l’autoritratto, ci scrutiamo allo scopo di riconoscerci. Ma si tratta di una pratica innocente e puerile, in realtà è proprio mediante l’autoritratto che non ci riconosciamo del tutto nella figura rappresentata. E ci chiediamo stupiti: «ma quello lì, sono proprio io?». Nella misura in cui non ci riconosciamo del tutto, il ritratto sarà più vero. Oggi, grazie alla  tecnologia digitale siamo in grado di farci uno scatto e di rivederci immediatamente, ma non si tratta di un vero e proprio autoritratto, il selfie è un gioco rassicurante che porta al nostro riconoscimento, alla pacificazione con noi stessi. Attraverso il selfie ci sentiamo pacificati e protetti. Qui parliamo di altro, di autoritratto come costruzione della nostra identità, che è sempre una identità sociale, storica, temporale, stilistica. L’autoritratto è il mezzo artistico che ci rappresenta meglio di altri tra la verità e la menzogna, che ci rivela il codice del destino. I migliori autoritratti, quelli più veri, ci parlano d’altro piuttosto che di noi stessi, parlano esplicitamente di ciò che sta fuori di noi e del nostro rapporto con il mondo. Quanto più ci parlano di altro tanto più l’autoritratto sarà genuino, vero.
 

Steven Grieco

Steven Grieco

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi.

È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Nel 2016 per i tipi di Mimesis Hebenon pubblica Entrò in una perla, e sempre nello stesso anno dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia contemporanea curata da Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma,Progetto Cultura)

Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. indirizzo email:  protokavi@gmail.com

foto di Steven Grieco

foto di Mani Kaul luci e rifrazioni urbane (India, Bombay)

 

Commento di Giorgio Linguaglossa

Vorrei ricordare l’acutissima notazione di Ernest Fenollosa della poesia come «arte del tempo» e delle immagini come «idee in movimento». Questo è stato il contributo fondamentale di Fenollosa alla poesia occidentale di cui il solo Pound comprese appieno la novità. La possibilità di creare una poesia incentrata su una «immagine in movimento» precorreva la dottrina poundiana del vortex e ne permetteva il superamento. La poetica dell’ideogramma di Fenollosa consentiva una spiegazione ottimale della immagine come sintesi di staticità e dinamismo.

Fenollosa aprì a Pound la possibilità di fare un tipo di poesia in cui l’elemento fondamentale è l’«azione», la quale altro non è che la rappresentazione di due immagini in movimento. Per Fenollosa l’ordine della frase è appreso dalla natura: ogni atto non è che un «trasferimento di potere» e il fulmine – che scocca tra le nubi (a quo) e la terra (ad quem) ne è la migliore illustrazione. Il processo della natura è lineare e si svolge attraverso tre elementi essenziali: «termine dal quale», «trasmissione di forza», «termine al quale». La frase linguistica rappresenta la struttura fondamentale della natura. Per Fenollosa l’«azione» ha un termine da cui parte (a quo) e un termine a cui arriva (ad quem), e quindi la «cosa» è sempre una «relazione» di cose, non si dà mai la cosa in sé. Infatti, per l’ideogramma cinese l’entità elementare espressa nel linguaggio è l’azione, la quale è unione di due simboli. (Fenollosa)
Per Fenollosa il linguaggio ideogrammatico è forte perché ricco di verbi transitivi, capaci di esprimere il principio fondamentale della realtà, il moto, l’azione; in una parola, è forte perché è concreto, e un linguaggio forte è anche naturalmente poetico.

Per tornare alla poesia, la poesia è una rappresentazione verbale di un moto, di una azione, di una relazione, e tanto più questo fatto è evidente quanto più essa conserva in sé la struttura fondamentale del linguaggio che è data dall’immagine (statica e/o dinamica). L’immagine è una «funzione del tempo», è un elemento essenziale di ogni linguaggio umano. Forse i super umani di una Civiltà di tipo 3 avranno a disposizione altri strumenti linguistici più precisi, noi questo non lo sappiamo e non lo sapremo mai, ma è una possibilità da non sottovalutare.
Per esempio, Steven Grieco, poeta educato alla severità dell’haiku cinese e giapponese, pensa e fa una poesia di immagini in sviluppo, di immagini che scorrono nel tempo. La pittura sarebbe poesim tacentem. E, in apparente contraddizione, la poesia picturam loquentem. La figuralità della sua poesia nasce dentro la dislocazione linguistica delle «cose», ripete mimeticamente la struttura elementare dell’universo, e della nostra vita quotidiana; vive in uno spazio. Leggiamo l’incipit di una sua poesia:

Giravo le spalle all’orto, immerso
nel grigio smisurato del cielo

 

 una voce chiarissima risuonò:
 “non hai visto?”

con fatica alzai gli occhi, vidi un albero sconosciuto
in una nuvola di fiori
“Ah, sì, il susino…”

Il protagonista della poesia fa l’azione di volgere «le spalle all’orto». È una azione casuale, fortuita. È chiaro che qui siamo davanti ad una macro immagine che contiene al suo interno altre immagini minori in relazione reciproca; anche la «voce» che risuona viene trattata come se fosse una immagine che si collega alla immagine di un «io» visto di spalle il quale alza gli occhi e… scopre «il susino». Il centro di gravità della poesia riposa sulla figura del «susino». La poesia così prende vita dalla relazione tra le cose e tra le immagini riprodotte nel contesto figurale e linguistico, piuttosto che dal discorso lessemico fonetico di matrice lineare che viene utilizzato da poeti di minore consapevolezza critica della cosa chiamata poesia. Tutto il complesso cinetismo di questa strofe si situa entro un tempo brevissimo che passa dal momento del richiamo al momento in cui il protagonista, alzando gli occhi, scopre in modo fortuito il «susino».
Una poesia come questa, che potrebbe sembrare astratta ad un occhio poco educato a questa concezione della lingua e dell’immagine, è invece, qualcosa di quanto di più concreto si possa immaginare.

In un’altra poesia c’è il personaggio centrale che sta in piedi, «assorto», quando accade un evento insignificante, improvviso; il protagonista scorge la figura di un’altra persona nella «squallida camera d’albergo». Nella poesia di Steven Grieco accadono eventi silenziosi, inappariscenti, inspiegabili, fortuiti che rivelano all’improvviso ciò che è rimasto a lungo nascosto dietro il diaframma dell’apparenza, dietro il velo della fenomenologia della vita quotidiana:

Stavo in piedi, assorto, quando
tu apparisti nello specchio
della mia squallida camera d’albergo.

Poesie che sono quasi una traduzione dalla analitica esistenziale dell’esserci, che passano da una galleria di «ritratti» ad una di «autoritratti», e viceversa. La verità diventa un «evento» non è qualcosa che viene enunciato, una definizione, ma è qualcosa che avviene, è un movimento che accade.

Onto Grieco

s.g.r.

 

Appunto critico di Steven Grieco Rathgeb

Sappiamo tutti che in Occidente l’autoritratto ha una lunga storia, soprattutto nella pittura. Talvolta esso è collegato alla condizione detta melancolia, che a sua volta è legata all’incapacità dell’individuo di dare un senso alla propria vita. Basti pensare agli autoritratti di Albrecht Dürer, fra i primi e migliori esempi della rappresentazione di sé come groviglio umano complesso e problematico. Dopo secoli di autoritratti che studiano i mille aspetti della nostra immagine riflessa, da Velazquez a Rembrandt e Goya, arriviamo alla modernità, e ci imbattiamo subito in Van Gogh e nei suoi contemporanei, poi in una Frieda Kahlo, un Egon Schiele. Il processo di problematizzazione dell’autoritratto è andato avanti inesorabile. Ma soprattutto possono interessarci oggi gli autoritratti di artisti come Francis Bacon o Lucien Freud e simili, opere altamente significative della seconda metà del Novecento, che non avrebbero potuto nascere senza le guerre, senza Auschwitz, senza la successiva affermazione della cosiddetta “libertà individuale”, che emancipa il soggetto da ogni morale, regola, o valore sociale o spirituale che sia, ma poi lo costringe ad una incessante auto-affermazione che diventa il suo peggior nemico. Ma anche l’individuo come pedone in una società ridotta a semplice sistema di scambio commerciale e di interscambiabilità di ogni cosa. Mettendo così a nudo l’estrema fragilità e atomizzazione del singolo.

Gli autoritratti di quegli artisti sono carne lacerata, in cui l’artista sembra identificarsi totalmente, soffertamente e forse ciecamente, con il sé ridotto alla pura fisicità. Ma invece in questo senso viene catturata una realtà esistenziale profonda dell’uomo moderno, la sua strana, tormentata condizione che non gli dà modo di elevarsi dalla bruta materialità senza incappare nel suo rovescio speculare, quello della fede religiosa.

Ma vado avanti, perché voglio portare l’accento sul volto umano come realtà inafferrabile e inconoscibile per il suo “possessore”. Nessuno di noi potrà mai vedere il proprio volto se non come immagine riflessa – non potrà mai vederlo “direttamente”, così come vediamo tutte le cose del mondo esterno, compresi i visi dei nostri simili (e come essi vedono noi).

Abbiamo, certamente, un “senso” della nostra presenza psico-fisica nel mondo, del nostro comparire in esso, ma questo non ci dà nessuna garanzia di “oggettività”, se è vero che spesso gli altri scorgono in noi aspetti o realtà a noi ignoti, che talvolta ci possono sembrare perfino folgoranti.

Dice Harold Pinter nel suo discorso Nobel: “When we look into a mirror we think the image that confronts us is accurate. But move a millimetre and the image changes.” Oggi, questa immagine riflessa, caleidoscopica e cangiante, appare anche come immagine fotografica, altra contraffazione del “reale” con cui noi moderni ci dobbiamo volenti o nolenti misurare (perché anch’essa contiene una profonda verità).

E’ inoltre vero che l’oggetto di un “autoritratto” non deve necessariamente essere il nostro volto riflesso, ma può essere cose diverse. Nella tradizione pittorica cinese, il paesaggio era talvolta dal pittore così fortemente prima interiorizzato e poi espresso (“pro-dotto”) da risultare, se non quasi un autoritratto “traslato”, comunque emblema della condizione umana (del pittore e nostra, in quanto spettatori). Con il suo tratto, le sue pennellate, egli interviene direttamente nel divenire del mondo, ne è parte integrante, per cui la contrapposizione soggetto-oggetto si scioglie in una visione allargata non solo della composita ma unica realtà cosmica “natura-uomo”, ma della stessa capacità dell’uomo di, sottilmente, plasmarla.

E dunque, su questa linea di pensiero, che beninteso è soltanto una delle tante (fra cui figura anche la sua negazione), l’autoritratto può pure essere la possibilità di scorgere il sé (o l’altro sé, come dir si voglia) in momenti in cui la mente razionale non è in grado di occupare e ordinare l’intero campo della percezione e intellezione umane. Fatto che suggerisce non soltanto l’estrema mobilità e labilità della condizione umana, ma anche il fatto che la realtà individuale è più grande del singolo individuo (Sigmund Freud insegna), più grande della sua circoscritta e “unica” vita. Un esempio dai miei diari:

 

Casa toscana, 2 maggio 1980. Nella notte mi sono svegliato da un sogno che sembrava andare avanti da molto tempo, immerso com’era nella sua umbratile luce di respiro.

 

Mio fratello e io ci trovavamo in una camera un po’ squallida di una vecchia pensione francese o italiana. Lui stava sdraiato sul letto, rivolto verso di me. Io mi ero appena alzato e guardavo la mia immagine nello specchio sopra il lavandino.

Sentivo una voce (forse di nostra madre) che parlava a lungo del dolore che viviamo; concludendo, ”un giorno il futuro ci ripagherà con la gioia.”

Nel momento non sentivo dolore, piuttosto uno stordimento. Ma dopo quella frase, ho capito che la stanza, la posizione del fratello sdraiato sul letto, lo specchio: tutto era immerso in un dolore invisibile.

Ho riguardato il viso nello specchio. Ero io, certo, ma non quell’io che sono o penso di essere in un momento qualsiasi della vita d’ogni giorno, bensì un’immagine molto più grande, quasi una totalità di me.

Mio fratello, sul letto, disse qualcosa che non ricordo. Non risposi perché stavo ancora pensando alle parole che la voce aveva pronunciato: una voce purissima, direi, senza tempo, nascente come un’eco in un vuoto di cristallo.

Continuando a studiare il mio volto riflesso, mi sono chiesto: di quale futuro parlava la voce? Sappiamo che il “futuro” è un tempo del tutto ignoto, forse inesistente. Allora capii l’allusione nascosta in quelle parole: la voce evocava piuttosto il senso di “una gioia che verrà”: cosa ben diversa dunque, semplice proiezione del desiderio umano sull’oscurità assoluta di ciò che è inconoscibile.

Era l’uso di quella parola che mi aveva sviato: la gioia “futura” la sentivo adesso, adesso che stavo in piedi davanti allo specchio.

Nel frattempo, dallo stato onirico ero passato quasi senza accorgermene al dormiveglia, nel buio della stanza. Riflettevo che se fosse proprio nel sogno che la nostra immagine può rivelare la reale interezza di ciò che siamo, allora avrei modo di scorgervi, anche solo per un attimo, aspetti di me che per vari motivi non sto vivendo al momento, ma che ciò malgrado esistono altrove nello spazio e nel tempo illimitati del mio essere.

Al momento io mi trovo qui, in questo luogo; e sono dominato dal sentimento del dolore, penso al dolore, mi concepisco unicamente nel dolore. Ma la mia totalità, il volto intero che non vedrò mai nello stato di veglia ma che adesso mi appare in sogno, mostra regioni di me in cui perdurano altre condizioni, fra cui anche quella della gioia.

Allora mi è sembrato che la voce materna non fosse altro che la forma sonora di quello stesso Io che vedevo nello specchio. E che in quella sonorità si mescolassero gioia e dolore.

Mentre rimuginavo queste cose, mio figlio nella sua camera in fondo al corridoietto ha preso a parlare ad alta voce. Sono schizzato fuori dal letto, ho acceso la luce. Nel sonno, mia moglie ha mormorato: “stai tranquillo, il bambino sta solo sognando.” Ho ascoltato: in effetti, cantava brani di una canzoncina imparata all’asilo.

bello Ferdinando Scianna 5

Ineluttabile destino, il tuo, che fosti il primo
a volere uno specchio

 

Seguono qui alcuni miei tentativi di tanti anni fa di esprimere questi concetti in poesia:

Senza Titolo

Ineluttabile destino, il tuo, che fosti il primo
a volere uno specchio:
più gli antichi artigiani ti approfondirono
nel riflesso sul vetro, più ti appiattisti
in quell’immagine, facendo della vita
una cosa unica, angosciosa,
in cui apparire è la sola ragione d’essere.
Perché loro, nella loro astuzia
non posarono gli arnesi fin quando,
foggiata una seconda realtà di te,
non ti ebbero disperso.

1990 (dal mio volume di poesie “Maschere d’oro”, edito da Biblioteca cominiana, 1996).

Autoritratto

Prima di andarmene, intravidi il tuo viso
indietreggiare dallo specchio.
La sua espressione alludeva a rischi
per te forse insormontabili.
Ma poi lacerandosi l’auto-inganno,
trasparve un’estrema chiarezza:

intorno alle sopracciglia balenavano
preoccupazioni fin troppo umane,
tirando la pelle fra naso e zigomi
scendevano come un’eco
nei mille labirinti del corpo;
dietro la fronte
pensiero si scioglieva e ricomponeva,
dagli occhi una folla di immagini
entrava nel mondo.

E mentre il tuo sguardo più grande
si allontanava dal semplice riflesso,
pezzi dello specchio annerito
cadevano in terra fracassandosi.

(novembre 1988)

Autoritratti

Stanno qua e là: quasi una foto,
gli occhi chiusi come da occhiali scuri.
L’attenzione è rivolta altrove,
e dorme il loro corpo senza esterno.

Gambe, braccia, toraci, sono ciechi.
In essi è l’ignaro che regge le sorti,
aggroviglia vicende e situazioni
tende tranelli e trabocchetti.

Pesanti e insensibili sussultano,
precipitano e sbattono con profonde
lesioni e squassi che gorgheggiano;
ma niente distoglie gli sguardi qua e là.

Niente sgretola l’ignaro che non vede,
aggiogato, indistruttibile:
che continua la sua fuga, si disfa e
si ricrea, di corpo in altro corpo.

E mentre si sfaldano a grandi pezzi
ruzzolando giù per la china,
prestano ascolto ai segnali sottili,
le immagini che sgorgano interne.

Pian piano disintegrandosi, senza
un grido né un gemito. Niente
li sgretola, i visi gettati qua e là:
gli sguardi che dormono incatenati.

(“Tronchi”, febbraio 1987)

.
Senza Titolo

Nessun branco di cervi nella radura.

La concentrazione invisibile
alla sorgente ferma del pensare:
allora, senza nemmeno uno specchio,
vedesti l’immagine di te stesso.

(1986)

.
Tre veglie nel sogno

1.
Giravo le spalle all’orto, immerso
nel grigio smisurato del cielo

una voce chiarissima risuonò:
                        “non hai visto?”

con fatica alzai gli occhi, vidi un albero sconosciuto
in una nuvola di fiori
                                        “Ah, sì, il susino…”

ma un baleno sulla terra nera mi ricordò
che il susino fiorisce solo di bianco

incredulo
guardai a lungo quell’altro biancore

.
2.
Stavo in piedi, assorto, quando
tu apparisti nello specchio
della mia squallida camera d’albergo.

Per niente meravigliato, ti guardai:
il tuo volto esprimeva qualche presagio,
la pienezza che non sappiamo reggere.

Un voce risuonò: “per il dolore
di oggi il futuro ci ripagherà con la gioia.”

Cosa intendeva? L’avvenire, o solo il tempo
presente che sempre aspira all’immensità?

Nel tuo sguardo non vidi quella promessa.
Ma le parole, brancolando nell’aria,
rischiararono la stanza di una debole gioia.

3.
Sorrideva (come per dire: “non te ne sei accorto”):

gli alberi nel giardino…
quattro, cinque sparpagliati qua e là

“ma sì, li vedo, gli alberi da frutto sono fioriti.”

Guardai ancora
il paesaggio fece balenare mille sguardi

allora entrai profondamente in quelle nuvole
cercando l’archetipo, la forma insita
quando una voce squillò
“Niente!”

e con mano tremante sfiorai l’Io nascosto

febbraio 1989

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Giulia Perroni –  testi tratti dal POEMA La tribù dell’Eclisse (2015) con un Commento di Giorgio Linguaglossa e una Lettera di Luigi Celi

 saturno EclisseGiulia Perroni, nata a Milazzo (Me), vive a Roma stabilmente dal 1972. Unisce alla sua attività poetica un impegno di organizzatrice culturale e di attrice. Sue raccolte: La libertà negata prefata da Attilio Bertolucci, ediz. Il Ventaglio,1986; Il grido e il canto, prefazione di Paolo Lagazzi, 1993; La musica e il nulla, prefazione di Maria Luisa Spaziani, 1996, Neve sui tetti, 1999, La cognizione del sublime, 2001, Stelle in giardino, 2002, Dall’immobile tempo, 2004 (tutti testi pubblicati da Campanotto di Udine); Lo scoiattolo e l’ermellino edizioni del Leone, 2009, con postfazione di Donato Di Stasi e Quarta di copertina di Renato Minore. Nel gennaio 2012, quasi contemporaneamente, vengono pubblicati una “Antologia di percorso”, La scommessa dell’Infinito, introdotta da un commento critico di Plinio Perilli, per le edizioni Passigli, e il poema Tre Vulcani e la Neve, prefato da Marcello Carlino, Manni editori. L’ultimo libro, La tribù dell’eclisse, edizioni Passigli, marzo 2015, ha la prefazione di Marcello Carlino.

Presente in antologie e riviste in Italia, U.S.A, Giappone e Francia, numerose recensioni le sono state dedicate su importanti riviste nazionali – anche on-line, come le Reti di Dedalus – e internazionali: Gradiva, a New York, Il Fuoco della Conchiglia, in Giappone, Les Citadelles, a Parigi. Di lei si è interessato anche il grande poeta giapponese Kikuo Takano, che le ha dedicato il suo ultimo libro, Per Incontrare. Suoi testi sono stati musicati e portati in tournée in diverse università canadesi da Paola Pistono dell’Accademia Santa Cecilia di Roma. Vincitrice di molti premi, tra cui il Montale, il San Domenichino, il Contini Bonaccossi, R. Nobili al Campidoglio, Omaggio a Baudelaire, il premio Cordici  per la poesia mistica e religiosa, il premio Europa Piediluco 2014. È stata invitata nel 2012 per La scommessa dell’Infinito al Festival Internazionale della Letteratura di Mantova. Giorgio Linguaglossa ha scritto, in “ Appunti critici”Roma 2002, per lei un saggio e ancora in “Poiesis (n. 23-24) scrive su “ La cognizione del sublime”. Dante Maffia, le dedica a sua volta un saggio su Poeti italiani verso il nuovo millennio, Roma 2002. Rosalma Salina Borrello, in La maschera e il vuoto, Aracne 2005  e in Tra esotismo ed esoterismo, Armando Curcio editore, 2007. Luca Benassi su La Mosca di Milano nel 2009. Paolo Lagazzi su La Gazzetta di Parma. I suoi libri sono stati presentati in Campidoglio e in altri luoghi prestigiosi di Roma e del territorio nazionale; ultimamente a Villa Piccolo, centro mitico della cultura siciliana. Ha gestito l’attività letteraria al Teatro al Borgo, al Café Notegen, al Teatro Cavalieri. Con il poeta Luigi Celi organizza dal 2000 presentazione di libri, incontri di arte, letteratura e teatro al Circolo culturale Aleph nel cuore di Trastevere.

cinese drago Si racconta che nei tempi antichi, in Cina, quando arrivava un'eclissi di sole, si usasse battere i tamburi per cacciar via il dragone che si stava ...

cinese drago Si racconta che nei tempi antichi, in Cina, quando arrivava un’eclissi di sole, si usasse battere i tamburi per cacciar via il dragone che si stava …

 Commento di Giorgio Linguaglossa

 Siamo ancora dentro una Civiltà di tipo 0, secondo la tipologia indicata dal fisico teorico Michio Kaku, una civiltà che trae energia da elementi che trova già pronti in natura (il carbone, il petrolio, l’uranio etc.). È quello che ci vuole dire Giulia Perroni con questo bizzarro titolo, apparteniamo ancora alla «tribù dell’eclisse», siamo simili a quegli arcaici che assistevano con spavento alla eclisse come ad un evento taumaturgico e divino. Tutta la variegata «sostanza» del discorso poetico di Giulia Perroni ha qualcosa di arcaico e di moderno insieme, è costituita da immagini e substrati di immagini, di metafore e di substrati di metafora, di schegge di immagini, di voli spericolati tra le immagini, di capovolgimenti di tempi e di spazi. Poema che si estende per 170 pagine senza un attimo di tregua, con un ritmo percussivo ed avvolgente che vuole irretire il lettore nelle proprie spire. Come sappiamo dagli studi di un sinologo come Ernest Fenollosa, le parole astratte, incalzate dall’indagine etimologica, ci svelano le loro antiche radici affondate nell’azione; e forse il dinamismo della poesia della Perroni è un lontano parente del dinamismo universale che un tempo animava le lingue primitive; della lingua primordiale l’autrice eredita la capacità di creare universi paralleli e «mondità». Come sappiamo, non è da un arbitrario intento soggettivo che nacquero le  primitive metafore, esse seguono la matrice delle relazioni che accadono in natura, la natura ci fornisce le sue chiavi, e il linguaggio recepisce questa matrice che si trova in natura. Giulia Perroni è convinta che il mondo sia pieno di omologie, simpatie, identità, affinità e che sia compito della poesia catturare i segreti di queste relazioni interne tra le «cose». La metafora è la vera sostanza della poesia, l’universo è un orizzonte di miti sedimentatisi; la bellezza del mondo visibile è impregnata di arte, è quest’ultima che crea la bellezza della vita; la poesia fa coscientemente ciò che i primitivi fecero inconsciamente, e la poesia di Giulia Perroni non fa altro che riesplorare e rielaborare i miti e le imagery della civiltà del Mediterraneo, getta ponti che si estendono tra il visibile e l’invisibile, attraverso il tempo e lo spazio, il lessico prosaico e quello ricercato. È questa la poetica di Giulia Perroni, leggere la sua poesia significa accettare questa impostazione di vita e del modo di concepire l’arte poetica; ma nella sua poesia c’è anche il gusto del gioco, l’allegria degli spazi, la gioia del ritrovarsi nell’universo, l’ironisme, l’istrionisme. C’è altro, c’è la «mondità», un riepilogo e una accelerazione del mondo di fuori e del mondo di dentro.

Giulia Perroni e Yasuko Matsumoto

Giulia Perroni e Yasuko Matsumoto

 Caro Giorgio,

ti faccio i complimenti per la tua interpretazione della poesia di Giulia, una poesia non facile da accogliere, fuori, com’è, dai parametri stantii e prosastici di buona parte dei linguaggi poetici contemporanei. La poesia di Giulia è un’esplosione di metafore. Per il grande poeta giapponese Kikuo Takano – che Giulia ed io abbiamo fatto conoscere in Italia, lavorando sinergicamente con Yasuko Matsumoto -: “Nella nostra anima esiste una innegabile sete che può essere soddisfatta soltanto dalla metafora”, La “metafora – scriveva – è ciò che trasporta”… Essa trasporta il “Risveglio”… “più di una volta e lo fa più volte fino al punto in cui le cose si risvegliano”; e tuttavia: “scrivere poesie vuol dire anzitutto soffermarmi con uno stupore profondamente fresco di fronte a ciò che esiste, accettare insieme la molteplicità e la continuità degli esseri, fissare su di loro lo sguardo fino a quando svaniscono. La poesia era per me l’unica via per incontrare il senso e la bellezza misteriosa dei legami tra gli esseri, legami che più fissavo e più perdevo (ma tutto intanto diventava limpido)”. Certo, la poesia di Giulia si svolge, si avvolge, si dipana obbedendo al ritmo di una musicalità che mira a connettere e ad amplificare consonanze e dissonanze della Natura e della Storia.

Giulia Perroni

Giulia Perroni

Proprio come tu dici, caro Giorgio, sviluppando un pensiero di Ernest Fenollosa: “Le parole astratte, incalzate dall’indagine etimologica, ci svelano le loro antiche radici affondate nell’azione; e il dinamismo della poesia della Perroni è un lontano parente del dinamismo universale”… E la metafora – che Giulia utilizza moltissimo – è colta da te nel rapporto ancestrale, genetico, “con le relazioni che esistono in natura”. È come se Giulia volesse riconquistare “omologie, simpatie, identità, affinità … i segreti delle relazioni interne tra le ‘cose’, riesplorando anche i miti e le imagery della civiltà del Mediterraneo, gettando ponti tra il visibile e l’invisibile”. Non si potevano cogliere più profondamente le caratteristiche di questo misterioso poema, che avvolge e trascina nei suoi incalzanti ritmi e nel camaleontico iconismo del suo narrato. Non trascurerei i continui rimandi storici che costituiscono un filone sotterraneo, per certi versi un filo d’Arianna di questa labirintica scrittura, che procede generalmente in maniera eccentrica rispetto a qualsiasi significato logicamente predeterminato e unificando senso e non senso. L’istinto poetico della Perroni privilegia, certo, le possibilità innovative della sua neo-lingua; un linguaggio a volte destrutturato, intessuto da stilemi desueti, ma altre volte più collegabile alla tradizione per l’uso dell’endecasillabo e delle sottostrutture metriche dello stesso, per le assonanze, le allitterazioni, le rime. L’istinto musicale, a mio avviso, affinato nel tempo e nella lunga pratica della versificazione, è sicuro e consapevole anche delle possibilità inesplorate della sua lingua poetica e, filosoficamente, sembra ricostituirsi in una cifra ontologica e metafisica, nei suoi analogici rimandi alla trascendenza; tutto ciò in contrasto con il tempo della povertà, in cui il linguaggio ha cessato di essere “casa dell’essere”, per l’avvenuto rovesciamento dell’ontologia nel nihilismo. Se si collegasse la poesia di Giulia all’anomalismo dei linguaggi sperimentali sarebbe facile apprezzare la pratica del contrappasso ad ogni significato, e ancora potrebbe essere ritrovato in questa poesia una qualche ascendenza surrealista. In realtà Giulia si esprime – come ha notato Marcello Carlino – per ossimori. Questa poesia, nel suo anomalismo strutturale opera una riconsacrazione ludica e insieme metafilosofica del significato; se si guarda oltre gli aspetti di dettaglio, essa fa ciò mentre coniuga per contrasto – ripeto – senso e non senso. Questa poesia è nel continuum un aneddoto, simile al Kōan zen di cui Moreno Montanari – ne Il Tao di Nietzsche – scriveva che viene proposto all’apprendista o al lettore, perché dopo essersi sbarazzato da ogni volontà di razionalizzazione, giunga attraverso un suo personale interrogare e peregrinare nelle domande ad una nuova non-logica chiarezza, che “trasformerà il suo modo di essere e di concepire la vita”. R. Barthes, vedeva nel Kōan zen “un aneddoto che viene proposto dal maestro: non di risolverlo, come se avesse un senso, e nemmeno di afferrare la sua assurdità (che sarebbe ancora un senso) , ma di rimasticarlo ‘sino a che casca il dente’ “. Questi versi collegano le contraddizioni e li fanno coesistere senza superarli; gli audaci e a volte anche improbabili accostamenti di parole e di iconismi, svelano e nascondono le lacerazioni dolorosissime della storia e della vita, senza però mai cedere al nihilismo e alla disperazione. La caleidoscopica accensione dei versi, nella pratica ossimorica di oscurità formali e di luminose trasparenze, mira alla gioia, al godimento della bellezza. Anche un barocchismo dei versi che fa pensare a Lucio Piccolo si coniuga all’esperienza della ferace natura siciliana, alle primaverili esplosioni sinestesiche di colori, odori, sapori, al sensuale rifiorire del mondo dopo ogni inverno di violenza e sopraffazione. Tutto ha risonanza anche come Memoria ancestrale, primigenia. Qui ci troviamo d’accordo con ciò che tu scrivi sui miti mediterranei sedimentati.

Tribù di eclissi è verso della Dickinson… Qui l’eclisse, però, è forse mancanza di memoria mitica e storica; il mito serve a conoscere l’inconscio, la storia è funzionale alla coscienza. In ogni caso si raggiunge un’inedita consapevolezza attraverso l’arte, la poesia, che non danno risposte razionali. Pochi sanno dire qualcosa negando l’immediatamente traducibile in senso del significante, come fa Giulia… Tuttavia, i rimandi storici fanno di questa poesia un calembour di notizie e di particolarità non da tutti conosciute per quel che attiene la storia d’Italia, del Meridione e della Sicilia. Giulia opera ancora con una scaltrita capacità d’individuare in maniera sguincia questioni sociali anche contemporanee. C’è inoltre una filosofica consapevolezza della natura conflittuale delle relazioni umane, dei tradimenti delle attese e di aspettative antropologiche e sociali rimaste inevase.

 Luigi Celi, Roma 28 aprile 2015

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

giuseppe pedota acrilico su persplex anni Novanta

Giulia Perroni da La tribù dell’Eclisse Passigli, Firenze, 2015 pp. 170 € 20

Timido viene il canto
il cappio ha un contatto preciso
il raggio riporta il sereno
dove è fuggita l’anima

Peraltro si fa titubante
il passo che unisce la trave
a forma di antichi narrati
lì dove gridano i morti

Tuppete qua tuppete là
gira la foglia la verità
tenta la vita un giro a mezzo
il mare sogna la sua cavezza
un alto monte seduce il mare
non ha la spuma per navigare
sotto le chiome sta Carolina
ma fugge il vento dalla collina
e tutto quanto già s’addormenta
il bene e il male nessuno sente
solo la pioggia sta sui limoni
come l’avviso dei lucumoni
tante certezze un solo inciso
rimane l’oro sulle camicie
rimane tutto nel suo silenzio
nel tempo d’ocra di Sua Eccellenza
non tuona il mare né più il sovrano
anche le teste nessun ricorda
rimane il mare rimane il monte
una dolcezza una ansietà.
Tuppete qua tuppete là

E nel giardino scoiattola il bimbo
tessera franca sono i guardiani
di là si stinge persino il mare
di un suo bisogno di verità

Tuppete qua tuppete là

Trallallallero trallallallà

Incustodita la luna fugge
non c’è guardiano sopra il mistero
né sulla guglia di mezzanotte
la luce bianca o il fuoco nero

Giulia Perroni La tribù dell'eclisse cop

Trallallallero trallallallà
fuori chi parla senno se no
bruca l’ampolla
ghirighigò

Non c’è parola per il silenzio

Incrociano i gigli la fresca notte
la rosa è come una margherita
bianca nel volto ma sulle dita
come un rossore di vanità

Bianca e sognante: m’ama non m’ama
urge al tramonto la sua campana
è tutto un gioco come la vita
la folle foglia di margherita

Interessante senno sennò
bruca la foglia
ghirighigò

Questa è la vita che altro vuoi
la guglia ha fretta di rami d’oro
ha fretta il sangue delle mattine
per dove passa la birichina

Senno di luce senno sennò
bruca la terra
ghirighigò.

Giulia Perroni

Giulia Perroni

Bellissimo barone fastoso
anche tu hai parlato di danaro
sotto lo squallido scalone
risuscitato dallo sfarzo

Sono tornate in su le torrette
e i lillà infuocati di giglio
come fu che l’ardente cipiglio
bisticciò con le lodi?

La guerra fece cucù dai rami
e il sogno si ritirò dal cancello
in una tana di pioggia serrata
per lasciare fuggire la stella

Saffo non voglio sapere
né di tuo fratello, né della prigione
mi basta il fascino delle viole
che hai lasciato quaggiù sulla terra

Barone Wolff non so nulla di te
ma il ritratto è di un grande bell’uomo
non distruggere la visione onorata
che lascia trapelare i canti

Saffo e il barone
l’ammucchiata delle folli corse
nelle macchine al gran premio di Rally
che vanno per funghi e per boschi

Fecero man bassa i delitti
sulle stuoie di languidi araldi
un arco lontano e difficile
preparò la festa agli intrugli

Ma se da dietro a un cappello
un giardino fa capolino
io tendo alla rapida gogna
il profumo che mi fa secca

Erano alberi alti
e la villa non aveva finestre
un sogno masticato di giallo
nella vendetta sicura

Ed anche chi rovistava le stelle
aveva fama di gattopardo
macellaio di spade pesanti
in un paradiso che perdeva le braghe

Lungo la Senna con alberi lunghi
e ombrellini di rame a passeggio

Ed anche in Lettonia o in Ispagna

Fecero rami pazzi martiri e santi
che urlavano come contralti
quando la vita aveva ancora altro da aggiungere

E per favore niente bocche storte

Non mi parlate di angeli scarabocchiati
che con tenaci lanterne rasentano
lungo muri scrostati i pisciatoi delle stelle

I padri a volte seviziano le virtù delle fanciulle
e la santità delle terre
che non appartengono a nessuno

Solo il tempo agita con armi di corallo
la primavera che ha baciato in bocca
la chiesa-madre affollata

Giulia Perroni con Luigi Celi

Giulia Perroni con Luigi Celi

Ed era vera la grandiosa licenza del guardare la sponda liberata
il granellino del contrasto dei semi, il terribile amico sonnecchiava
tra i rami della pioggia verso d’oro che si faceva bianco gelsomino
quando spuntava l’alba

Chiedo a Babington una luce come fossi Maria Stuarda
e lo pregai una volta (occhialino aggiustato sul naso)
che inoltrasse le gambe o il fango delle strade
nel rubinetto d’oro della folla e rimanessi intatta
nel mio collo di splendida figura

Fu la terra un segnale di bimbo
fu la terra pestata e illuminata in fondo a un cuore
da vessazioni inutili

Mi accodo a tutto questo

Tutto quel mare sussiegoso e tranquillo
in ogni specchio delle favole antiche

E mia cugina in visconti di numeri
affannati nei quattro salti della torre
affida ad un quaderno tutti i suoi ricordi

Le notizie del padre di suo nonno

Del tempo birichino e incriminato

Lasciato come spegnere

Anche questi morirono in un giorno e tutto fu silenzio

Anche la vita macchiata dal suo sangue

Se potessi fuggire la mannaia!

La sua suocera era addimandata
da tempesta di grilli e si scusava
d’essere così astuta
così grata al dio delle farfalle

Si scusava della follia incipiente
e donava misura e fiori d’oro
al buco stretto di un linguaggio

E chiamava la terra a testimone della vicenda avita

Ora è finita ogni tenue riscossa

Si, la terra

Innocente e sublime in un androne di foglie rosse
quanto più il cammino è vergine veggente
e sdilinquito in rabbie musicali
con l’accento donato ai puri

La terra, connestabile e astrale

Il mio giardino nel fumo di scintille

E Euridice sussulta

Sono morti anche quelli che uccisero

L’ingaggio fece bum bum tra i rami

E si accasciarono venti fanciulli nella neve

La ducea degli inglesi

E mia cugina che sventaglia la luna

E quella villa nel cuore della notte

Quando nessuno può ascoltarne il silenzio

C’è luna piena ancora?

La ricordo

Uno Stuart sposò quella antenata
(signora della villa e del silenzio)
nel nostro sangue si è incarnato lo scettro
siamo pari all’albagia dei numeri
sempre arditi quando soffia una musica
immortali perduti in un viaggio
e stupiti per il male nel mondo

Sempre adusi alle veneri scialbe
nella luce della bellezza urgente

Potessi ancora vivere!

Se nel castello inciampa l’arma bassa delle nevi del giglio

In primavera
quando ancora non ci sono spifferi
cento tazze di succo della mela
nell’inverno appena sbocciato

Fui regina di Francia lo sapete?
liquidata da Caterina come una domestica
per una grave mancanza
e la mancanza era il giovane sposo

Scelsi di traghettare come tutti verso le radici
anche se era il cuore del freddo

Ho un broccato di foglie chiedo unita al dio che mi perseguita
il mio canto di folle dicitura era scritto come un diadema
sulla fronte che su di me nascessero le voglie prone all’armi incredibili
più regina di fastosi miraggi, di convivi
fatti sulla mia pelle

Sono fuori
non mi si lascerà morire tanto spesso lungo viali di magnolie
avranno necessità di nuvole albeggianti sulla stanca corona
del cervello e le sciancate sopravvivono per arrendersi con tutti
i fiumi del passato lungo i porti dell’Everest o le fronde
del deserto dei Tartari in quella nube della trascendenza
che tanto mi fastidia

Fate come non fossi né riguardo per il collare né per l’ignominia
la disapprovazione dei regnanti lo sconcerto dei popoli
il bruciore sotto le ascelle

L’Inghilterra avrà altri maneggi altre pecore al pascolo
Dio non voglia
caricarsi dell’unico arboscello che tanti giochi ha fatto

Altri miracoli sono pronti sugli alberi

Altre sere dove bevuta luna orchestra un ballo
nella villa che si trasforma

Altre serate bevono

Altri tomi brilleranno ruggendo dentro sale
che non hanno ricordi

La prigione scuoterà i suoi diari
e altre mani faranno doni ai bimbi

Altri dolori cresceranno immancabili

Siate seri io non voglio rimorsi

Uscite piano senza fare rumore

Benedico tanti spiragli …

Giulia Perroni la scommessa dell'infinito cop

Omero avrà una tomba sotto la melodia degli uccelli
anche quando Venezia turberà la sua musica
e quando la formella non dipingerà più il suo impeto
l’istinto sa che ci si incontrerà nella vibrazione della frivolezza
nell’occhio dato di sbieco al foglio che rovina il mandato
per una buccia esausta di desiderio

Io ricordo un viale
e un fiacre fermo nel viale
e mia zia morta giovane in quella carrozza
eternamente immobile nel silenzio dell’ora
e quasi pioggia nel cielo

Nell’acronia si incontrano le forme i personaggi il sole
la nebbia iridescente in cui si ignora anche quelli che vissero

Come sei alto e candido e in quanto inconoscibile
come amico del vento e del mio cuore!

Venivi ed eri tutto eri le specie che sussurravi
quando nel mio letto sentivo nel silenzio la campagna
eri tutto per me e sempre sei l’azzurro nell’ordito
del pensiero al di là di ogni cosa e di parole.

Sei alto e inconoscibile e per questo alto mio Dio sei Tutto
il greto il fiume la rugiada d’oro che nel sole si spegne

Io sono una bambina in ordine sparso
Dio come è profondo l’abisso!

Lotto tra le pupille per dire che ci sei
raso di mille lune abbarbicato alle gomène

Un’altra civiltà appoggerà la schiena
nel piccolo sonno delle finzioni
la nostalgia ripara l’eccesso
la buia cornice le ruote

E per tutto l’ingresso dell’inverno
e tutte le visioni addormentate
fuoco rovina l’alba
e il suo dolore
fuoco per rami inventa

Talismani di tenebra

Consiglio
Vergine muta

Attanagliata al verde

Contessina degli esuli affannata
nei quattro solchi d’ebano

Tendo le mani al tuo cavallo d’aria
criniera inaccessibile e superba
Le navi inglesi erano di fronte al golfo…
Oh città nello spettrale della luce!

Il parlamento inorridì per le notizie
ma quanta strada aveva fatto insieme!

E fu il Britannia a venire dentro al porto
come a Palermo nella notte buia
il vascello ha un destino silenzioso
nel correre a un agguato
Ora la finestra lascia sbalordire gli uragani
chi non vorrebbe partire ha sempre un albero che si contorce
ci prepariamo alla guerra con una mano sulle valige
nella murata memoria di ogni apprendista stregone

Alto è il cammeo nel brivido

Raccolgo le mie cose è tempo di partire

La pace ha ordito i suoi merletti
nel punto più alto della cattedrale
nel quasi irraggiungibile
della notte che si dissolve

L’importante è che il cerchio si chiuda
nella perfezione assoluta della sua ruota

Anche i calessini si macchiano.

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Archiviato in antologia di poesia contemporanea, Antologia Poesia italiana, critica della poesia

Carlo Sini SULL’IDEOGRAMMA E LA POESIA CINESE ANTICA – POESIE CINESI DI LI BAI (701-762 d.C.) “Bevendo da solo con la luna” Esercizi di traduzione – Epoca Dinastia T’ang – UNA POESIA DI GU CHENG, poeta della nuova generazione cinese tradotta da Stefania Srafutti, con un Commento di Giorgio Linguaglossa

cinese donna con ventaglio

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 Sin dall’età classica vige in Occidente la tradizionale distinzione che oppone le arti dinamiche del tempo alle arti plastiche dello spazio, parola contro figura, poesia contro pittura, si potrebbe dire. La contrapposizione occasionò, come si sa, innumerevoli contese e reiterati interventi volti a stabilire la superiorità estetica ed espressiva delle prime arti sulle seconde o viceversa: una contesa, invero, oggi piuttosto datata. Ma se ci spostiamo in Estremo Oriente, per esempio in Cina, le cose, in particolare la distinzione tra figura e parola, assumono un altro senso. In base a tale senso, non vi sono dubbi nell’assegnare alla pittura la palma della vittoria su tutte le arti. Ma qual è il significato profondo di tale preminenza? Per avvicinarci a una risposta, ci riferiamo anzitutto a ciò che Shitao chiama “tratto”.

cinese L'empereur_Minghuang_regardant_Li_Bai

L’empereur_Minghuang_regardant_Li_Bai

Shitao è il più famoso dei nomi d’arte di Zhu Ruoji, la cui data di nascita si colloca tra il 1641 e il 1642. Di famiglia imperiale, patì lo sterminio totale dei suoi parenti nel corso della guerra civile e del crollo della dinastia Ming, alla quale si sostituì la dinastia Quing tra il 1644 e il 1645. Nascosto da un servo fedele presso i monaci del monte Xiang, il bambino crebbe e si istruì in questo monastero buddista dedicandosi alla pittura. Con gli pseudonimi di Onda di pietra (Shitao) e di Cucurbita amara viaggiò poi per la Cina divenendo famoso, Negli ultimi anni (la sua morte si colloca tra il 1703 e il 1710) si avvicinò alla pratica e al pensiero del taoismo. Oltre alla sua opera pittorica, che è tra le più alte della intera tradizione cinese, egli scrisse anche un trattato “Sulla pittura”, ed è qui che troviamo le sue riflessioni sul “tratto”. “Il tratto [del pennello] è l’origine di tutti gli esseri, è la radice delle diecimila forme. La pittura non sarebbe dunque arte suprema soltanto, ma addirittura l’origine di tutte le cose? Senza pittura non vi sarebbe dunque “realtà”? Un’ipotesi che suona di certo singolare, per non dire: stravagante. Shitao dice anche: «La pittura esprime la grande regola delle metamorfosi del mondo». E ancora: «lo parlo con la mia mano, tu ascolti con i tuoi occhi». Come intendere queste asserzioni? Dobbiamo leggere qui delle semplici metafore? Ma metafore, “trasferimenti”, in che senso? In ogni caso il senso resta ambiguo e per aprirci la via alla sua comprensione adeguata ci riferiremo ora a un testo classico: “L’ideogramma cinese come mezzo di poesia. Una ars poetica”.

cinese drago colorato Ne è autore Ernest Fenollosa (Salem, Massachusetts, 1853-Londra 1908), poeta, orientalista e primo teorico dell’arte asiatica. Fondatore della Tokio Art Academy e autore della prima importante storia dell’arte Orientale, composta nel 1906 e apparsa postuma nel 1912 con il titolo “Epoche dell’arte cinese e giapponese”, Fenollosa donò al museo dì Boston una straordinaria raccolta di pitture cinesi e giapponesi. Nel poemetto “East and West” (1893) egli auspicò l’unione delle arti e delle culture d’Oriente e d’Occidente come preludio a una futura civiltà globale. La sua opera ebbe notevole influenza su W.B. Yeats e sull’”imagismo” e “vorticismo” di Pound, il quale si diede alla ricerca di una lingua poetica condensata, essenziale e visionaria, a imitazione dell’ideogramma inteso come stenografia pittorica, ovvero come concentrazione metaforica di richiami visivi.

cinese paesaggio

 Leggiamo l’esordio del saggio di Fenollosa: «Il secolo ventesimo non solo apre una pagina nuova sulla storia del mondo, ma schiude anche un sorprendente capitolo. Orizzonti di strani futuri si aprono all’uomo; culture che abbracciano il mondo intero, svezzate quasi dall’Europa; per nazioni e razze responsabilità mai sognate. Il problema cinese da solo è così vasto che nessuna nazione può permettersi ormai di ignorarlo». Dopo queste rapide notazioni, che sembrano dei nostri giorni, Fenollosa elenca molti pregiudizi occidentali nei confronti della cultura orientale. L’idea per esempio che i cinesi siano un popolo di materialisti, i giapponesi di “plagiari”; il vezzo di fare dei costumi di quei popoli materiale esotico da operetta e così via. Anziché demolire i loro porti e le loro fortezze con le nostre navi da guerra (come allora accadeva), anziché limitarsi a sfruttare i loro mercati, le nazioni occidentali, dice Fenollosa, dovrebbero impegnarsi a comprendere una civiltà la cui antichità è doppia rispetto alla nostra e il cui livello è pari a quello degli antichi popoli mediterranei, «Abbiamo bisogno dei loro migliori ideali per alimentare i nostri ideali incastonati nella loro arte, nella loro letteratura, nella tragedia della loro vita».

cinese DipintoDiCapodanno1 L’arte poetica è dunque il punto di riferimento del saggio, per la quale arte è però subito necessaria una precisazione. Poesia e musica sono arti del tempo, ma la poesia cinese, osserva Fenollosa, ingloba in sé un elemento visivo, un tratto spaziale, che le è assolutamente costitutivo: non qualcosa di accidentale, né di astrattamente metaforico. Fenollosa esemplifica la sua tesi con un riferimento concreto a un verso poetico che, tradotto in italiano, suonerebbe “Il sole sorge all’orizzonte”. Noi ascoltiamo i significati verbali o li leggiamo attraverso la scrittura alfabetica ma non osserviamo la scrittura alfabetica. Non avrebbe alcun senso per noi descriverla e analizzarla cosi: lineetta verticale con puntino, lineetta verticale più lunga, segno a serpentina e così via. Nel caso invece del verso cinese proprio questo si deve fare: si deve osservare attentamente la figura degli ideogrammi per comprenderne il senso.

donna cinese antica Cosa vedremmo allora leggendo? Vedremmo l’ideogramma del sole che occupa la parte sinistra del foglio (una specie di piccolo quadrato), A destra l’ideogramma dell’est, cioè ancora il sole che traspare però tra i rami di un albero stilizzato. Nell’ideogramma centrale che traduciamo col verbo “sorgere”, osserviamo sempre l’ideogramma del sole, posto un po’ più in alto rispetto al precedente, e sotto di esso una linea verticale che figura il venir fuori dalla terra di quello stesso tronco d’albero che vediamo raffigurato nel terzo ideogramma, Di fatto vediamo il sole sorgere sull’orizzonte. «Con l’occhio si vedono e si leggono in silenzio i caratteri, uno dopo l’altro», dice Fenollosa. Ed è così che la scrittura cinese ingloba un antico tratto pittografico. La pittura cinese, dice ancora Fenollosa, è qualcosa di più che simboli arbitrari; essa ha il vantaggio di combinare il tempo della parola parlata con lo spazio della figura. Essa «parla simultaneamente con la vivacità della pittura e con la mobilità dei suoni. In un certo senso è più oggettiva, più drammatica di ciascuna delle due separatamente. Leggendo il cinese non stiamo ad agitare bussolotti mentali, ma osserviamo cose evolvere il loro fato».

cinese vasi cinesi Un altro esempio è riferito a un verso che potremmo tradurre così: “L’uomo vede il cavallo”. Anche qui non simboli arbitrari, ma «la vivida pittura stenografica delle azioni naturali». Dapprima osserviamo la figura stilizzata dell’uomo sulle sue due gambe. Poi il suo occhio che percorre lo spazio: una figura audace di gambe che corrono sotto un occhio che si protende innanzi. Un disegno bizzarro e insieme straordinario: indimenticabile una volta visto. Infine il cavallo, saldo sulle sue quattro zampe stilizzate e la sua coda fluente. Ecco come la poesia cinese descrive le cose.
Più che cose in realtà vediamo azioni, «pitture stenografiche di azioni o progressioni». Ecco altri esempi.

L’ideogramma dì “parlare” è una bocca da cui escono parole e una fiamma […], l’ideogramma di “commensale” è un uomo e un fuoco. Non esiste in natura un vero nome, una cosa isolata. Le cose non sono che punti terminali, o meglio, i punti d’incontro delle azioni, sezioni intersecanti le azioni, istantanee. Né è possibile in natura un verbo puro, un moto astratto. L’occhio del lettore vede nome e verbo come un tutt’uno: cose in moto, moto nelle cose, è così che la concezione cinese tende a presentarli. Il sole sotto le piante in germoglio è “primavera” […], il campo di riso più la fatica uguale “maschio”, barca più acqua uguale “scia”, “increspatura”, ecc.
 Uno dei fatti più interessanti della lingua cinese è che vi vediamo non solo le forme delle frasi, ma come le parti del discorso crescono, sviluppandosi l’una dall’altra. Le parole cinesi sono vive e plastiche come la natura, poiché cosa e azione non sono formalmente separate. La lingua cinese naturalmente non conosce la grammatica.
(Carlo Sini)

Poesie cinesi di Li Bai (701-762 d.C.) “Bevendo da solo con la luna” Esercizi di traduzione – Epoca Dinastia T’ang

Bevendo da solo con la Luna (prima traduzione)

Da una brocca di vino, in mezzo ai fiori,
solo, mi verso da bere, senza un amico accanto.
Levando la coppa, invito la pallida luna.
Ora siamo in due e, con la mia ombra, addirittura in tre.
La luna – è vero – non osa bere
L’ombra, poi, si limita a seguirmi macchinalmente.
Ma, almeno per un poco ho trovato dei compagni: la luna, l’ombra,
disposti a fare allegria, per arrivare alla primavera.
Mi metto a cantare, e la luna tenta in modo maldestro qualche passo di danza.
Mi metto a ballare, e l’ombra si agita scompostamente.
Finché sono stato lucido, direi che ci siam fatti buona compagnia.
Ma poi ho preso una bella sbronza, e ciascuno se n´è andato per conto suo.
Ormai legati per sempre, senza passioni,
ci diamo appuntamento, lontano, sul fiume delle nuvole.

月下獨酌
花間一壺酒 獨酌無相親

舉杯邀明月 對影成三人

月既不解飲 影徒隨我身

暫伴月將影 行樂須及春

我歌月徘徊 我舞影零亂

醒時同交歡 醉後各分散

永結無情遊 相期邈雲漢

(seconda traduzione)

Bevendo da solo con la Luna

Dal boccale di vino tra i fiori,
Sol bevevo senza compagnia.
Alzando il bicchiere domandai la luminosa Luna,
Portami l’ombra mia e diventiamo un trio.
La Luna non comprende la mia bevuta,
L’ombra segue silenziosa la mia figura.
La Luna accompagna temporaneamente l’ombra,
Prendo l’occasione per gioire un po’.
Il chiaro di Luna fa una passeggiata quando canto,
L’ombra galleggia insieme quando danzo.
Apprezzando d’essere amici mentre son sveglio,
La compagnia termina quando divento ubriaco.
Facciamo durare quest’amicizia per sempre,
Ci rincontreremo nel vasto cielo.

(terza traduzione)

Seduto lì tra i fiori, con la brocca di vino –,
festino solitario, privo di amici intimi –,
sollevo il mio boccale e invito il chiaro di luna.
Insieme all’ombra, poi, saremo in tre,
giacché la luna non si negherà al bere.
E mentre l’ombra seguirà il mio corpo,
intanto, al fianco suo, io scorterò la luna.
La via della gaiezza termina a primavera;
mentre la luna ondeggia, al mio canto, qua e là.
Ed ha un sussulto l’ombra, fremendo, alla mia danza.
Da sobri, noi viviamo di una gioia comune;
quando poi, nell’ebbrezza, ciascuno si disperde.
Noi tre, per sempre uniti, vagando senza affetti,
infine, in lontananza, saremo alla Via Lattea.

[Poesia cinese dell’epoca T’ang, traduzione di Leonardo Arena]

CINESE ANTICO

Gu Cheng, poeta delle nuove generazioni cinesi dalla biografia piuttosto tragica. La poesia si trova in questa raccolta: Occhi Neri – poesie giovanili ed è stata tradotta da Stefania Srafutti.

不要睡去,
不要亲爱的,
路还很长不要靠近森林的诱惑
不要失掉希望

请用凉凉的雪水
把地址写在手上
或是靠在我的肩膀
度过朦胧的晨光

撩开透明的暴风雨
我们就会到达家乡
一片圆形的绿地
铺在古塔近旁

我将在那儿
守护你疲倦的梦想:
赶开在一群群黑夜
只留下铜鼓和太阳

在古塔的另一边
有许多细小的海浪
悄悄爬上沙岸
收集着颤动的音响

Ritorno

Non andare a dormire, no
Amore mio, la strada è ancora lunga
non accostarti alle seduzioni della foresta
non perdere la speranza

Per favore con gelida acqua di neve
scrivi l’indirizzo sulla mano
oppure appoggiati alla mia spalla
per attraversare la semioscurità dell’alba

Aperta la tempesta trasparente
possiamo ritornare a casa
un cerchio di terra verde
si stende vicino a un’antica pagoda

Io sarò là
difenderò i tuoi sogni sfiniti:
respingerò folle di notti nere
lascerò solo i tamburi di bronzo e il sole

Dall’altro lato dell’antica pagoda
molte minuscole onde del mare
si arrampicano sulla sabbia silenziose
raccogliendo suoni tremolanti…

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Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Shitao dice anche: «La pittura esprime la grande regola delle metamorfosi del mondo». E ancora: «lo parlo con la mia mano, tu ascolti con i tuoi occhi». Come intendere queste asserzioni?”.

Vorrei partire da questa semplice osservazione di Shitao. Anche quando scriviamo una poesia adottiamo un “tratto” condiviso e accettato da una lunga tradizione e solidificatosi nella sintassi e nelle proposizioni. Ma, al di là di questa ovvia considerazione, se ritorniamo con la mente al problema del “tratto”, e lo colleghiamo ad una sua configurazione non più (o almeno, non soltanto) lineare-temporale ma anche (e soprattutto) ad una configurazione spaziale tridimensionale o quadri dimensionale, ecco che il problema del “tratto” ci può illuminare su ciò che stiamo facendo oggi in Italia nella poesia. Voglio dire che se noi accettiamo l’assioma, senza discuterlo, secondo cui la poesia è costituita come un discorso che si confeziona con l’abito lineare temporale del discorso, allora mettiamo un punto alla questione sollevata e non andiamo più avanti di un centimetro. Il discorso della poesia sarà quello che si svolge come un discorso lineare-temporale. Ma se noi mettiamo in discussione questo assioma e diciamo che la poesia è un discorso che si può sviluppare nelle tre direzioni dello spazio (oltre le due direzioni del tempo) tramite l’utilizzazione del “tratto” visto come una “immagine” in movimento, ecco che avremo fatto un decisivo passo in avanti.

Quindi, è il problema del “tratto” verbale (cioè della parola), che deve essere riconsiderato secondo questa nuova impostazione concettuale.

Tynjanov ne “Il problema del linguaggio poetico” (trad. it. Saggiatore, 1968, pag. 67) scrive:
“La parola non ha un preciso significato. È un camaleonte in cui si manifestano non solo sfumature diverse, ma talvolta anche diverse colorazioni.
L’astrazione della «parola» è insomma un cerchio il cui contenuto sarà ogni volta diverso in dipendenza della struttura lessicale in cui si colloca e delle funzioni di ogni singolo elemento del discorso. Essa è come una sezione trasversale di queste diverse strutture lessicali e funzionali”.

Questo lo dico per ricollegarmi alle brillanti considerazioni espresse in altri commenti da Steven Grieco Rathgeb, la cui sensibilità di poeta è più vicina a quanto andiamo dicendo per via della sua formazione culturale non italiana essendo vissuto per quasi tutta la sua vita in Asia e per aver studiato la poesia indi, giapponese e cinese antica.

Lo riflessione sull’ideogramma cinese ci può aiutare a capire la interdipendenza, la strettissima e antichissima correlazione della «parola» intesa quale «tratto» pittografico, figurativo, proprio della scrittura delle lingue orientali (cinese) e le linguae occidentali che ormai si sono emancipate da quella antica dipendenza, e l’hanno quasi rimossa del tutto, con inevitabile svantaggio per la scrittura poetica che così è venuta a perdere la ricchezza e le sfumature insite nel concetto di «parola» quale “tratto” pittografico trimensionale.

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DIALOGO SULLA LENTEZZA DELLA POESIA, VERSO UNA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA – Steven Grieco Rathgeb e Giorgio Linguaglossa

cinese L'empereur_Minghuang_regardant_Li_Baicinese dona con ventaglioGiorgio Linguaglossa 

Quello che salta agli occhi ad una prima lettura della poesia  di un poeta bilingue (inglese e italiano) come Steven Grieco, è la sua lontananza dai modelli stilistici invalsi nella poesia italiana di questi ultimi decenni. È questo elemento che fa della poesia di Grieco una poesia non agevolmente ricevibile, non facilmente assimilabile, eppure è questa la ricchezza che la poesia di Grieco Rathgeb porta in dono alla tradizione italiana, in un certo senso costituisce l’estraneo, l’antipodo, ciò che è da riconoscere in quanto diverso. L’importanza di questa poesia risiede, dunque, a mio avviso proprio in quell’elemento che ce la rende estranea, che ci obbliga a rimettere in discussione i parametri stilistici cui siamo abituati, che ci obbliga a riparametrare di nuovo i nostri organi percettivi: la sua lentezza. Insomma, è un modo di fare poesia che ci spinge ad una formulazione più aggiornata delle nostre capacità percettive e ricettive organizzate secondo l’importazione acritica di «automodelli» sostanzialmente invalidanti e resistenti alla loro messa in discussione.

Ora che sei sorta, luna cinerea, quasi
invisibile nella notte appena fatta,
nel tuo silenzio, simile alla quiete del pensiero,
mi chiedo come questo orlo di luce
esprima l’oscura pienezza: l’oscurità vicina
del tuo sferico splendore.

C’è come il ricordo della luna lepardiana in questi versi ma come caduto sotto la scure di una «amnesia». C’è una “lentezza” tipica della poesia orientale, in particolare della poesia cinese dell’epoca T’ang, Nei primi due versi quasi “vediamo” la “luna” “quasi invisibile” che si mostra; ma è un qualcosa a mezzo tra il nascondimento e lo svelamento, a metà tra il “silenzio” e “lo stupore del pensiero”, appena un “orlo di luce”. La “lentezza” di questa poesia è una necessità interna al meccanismo di costruzione dell’immagine, non è un qualcosa che viene appiccicato sopra dall’esterno. La strofe si regge sul parallelismo tra la «luna cinerea» e la «quiete del pensiero», tra «l’oscura pienezza» della prima e lo «sferico splendore» della seconda. C’è molto spazio tra le parole e le immagini, come se il tragitto più lungo che unisce due punti non fosse la retta ma un lunghissimo arco, una linea ondivaga e zigzagante che si allontana e che improvvisamente si avvicina. C’è questo metronomo che indica il ritmo del tempo e dello spazio che non è il metronomo della poesia cui siamo abituati, c’è in essa un divario, un divergere appena percettibile, un clinamen. Ci manca, mi rendo conto, un modello di sottosistema della cultura per aderire a questa poesia, per leggerla con il giusto quantitativo di distanza critica dal rumore di fondo delle scritture prosastiche che hanno invaso gli «invasi» stilistici decretandone la loro esondazione e la loro fine.

cinese drago coloratoNon si dimentichi che per Fenollosa la poesia cinese «è arte del tempo», è la diversa velocità o lentezza del tempo che fluisce a dettare il ritmo delle immagini. È quello che accade nella poesia di Steven Grieco: è la lentezza del tempo delle immagini che suggerisce la modulazione delle immagini. C’è come una «lentezza» propria della poesia che è la sua caratteristica precipua, la «lentezza» che è la sua propria velocità, quel suo non corrispondere alla velocità delle letture veloci. È il testo di Grieco che impone al lettore la sua propria «lentezza», che gli chiede di fermarsi, di accostarsi, ma con la gentilezza dello sguardo e la modestia delle cose semplicissime, elementari, appena dette, appena pronunciate:

 

 

La luce della sera riporta gli uomini
ai loro giardini fitti di fiori.

Anche la luce torna a se stessa.

gif-man-mistery

Steven Grieco Rathgeb

 Caro Giorgio, il tuo commento sulla mia poesia, l’ho letto più volte. Perché mi ha sorpreso, e allora cerco di rispondere.
C’era un re che era in realtà un avvoltoio. Fin dalla sua infanzia i suoi consiglieri-rettili (cobra, boa, pitone, etc.) anche loro però presenti nella fiaba in forma umana, gli avevano fatto credere di essere come loro un serpente. Fermo restando che ciascuno di questi due animali è unico e insostituibile, meraviglioso nelle sue qualità specifiche, quanta distanza e opposizione ci sono tra un avvoltoio, che vola più in alto di quasi tutti gli uccelli (con l’eccezione forse del pellicano, che si libra altissimo sopra il Golfo Amvracico, in una mattina accecante di maggio) e un serpente, che striscia sulla superficie della terra e conosce i misteri inferi? Niente di più totale. Ma il re ignora tutto ciò. I suoi consiglieri sanno benissimo che in un futuro remoto del tutto irreale egli scoprirà la sua vera natura, e cercano per vari motivi di ritardare quel momento più possibile. Ecco, questa è una fiaba che ho scritto in inglese, e forse è emblematica di quello che ho vissuto io nella mia vita.

Caballo-China-Sig57716Le lingue che conosco non sono mie, di tutte sono un semplice ospite, e l’ho capito relativamente tardi nella mia vita. Ciò vale perfino per l’inglese, la mia lingua madre a tutti gli effetti, la lingua anche dei miei studi. Shakespeare è sempre stato per me un’influenza profondissima, forse lo scrittore più nascosto e vicino a me negli anni, soprattutto per il suo abbraccio immenso della realtà umana in tutti i suoi risvolti, ma non ho mai potuto dire di “possederlo” – né culturalmente, né linguisticamente. C’è soltanto un sottilissimo filo: quando inseguo questo in fondo, avverto la presenza di un’ombra, e l’ombra deve essere del drammaturgo. Ma quel filo, nella lingua inglese, mi dà tutto quello di cui ho bisogno, e soprattutto mi lascia anche andare lontanissimo dall’inglese, e tornarvi, carico di doni.
La “lentezza”, come tu hai notato, della mia poesia penso sia dovuta in gran parte a uno studio attentissimo, durato una vita, del movimento dell’alap, il primo movimento del raga indostano, che non solo si sviluppa con questa densissima, stupefacente lentezza, ma ha un’intensità, che invece di scoppiare o risolversi in qualche modo, tira l’ascoltatore più giù nella sua totale quiete, ricordandogli che ogni suono nasce dal rumore, e ogni pensiero nasce da quella zona pre-cogitativa della mente che contiene tutte le potenzialità immaginifiche e analitiche del pensiero umano in stato immanifesto (l’attimo prima che iniziano ad “essere”). Il pensiero come “nuotatore oscuro”.

Per quanto poi riguarda “paesaggio”, ho fatto l’agricoltore in Toscana per sette anni, imparando lì il miracolo della nascita e crescita delle piante. Seguire attimo per attimo questo fenomeno ti lascia senza parole, ti cambia profondamente e in modo duraturo.

Caballo-china-Sig11186Il paesaggio italiano in genere, è del tutto aperto allo sguardo, in tutte le sue mille incredibili sfumature, suggestioni e sottigliezze. Quello greco, e in particolare quello epirota (dove è nata mia figlia 29 anni fa), nasconde non so quanti elementi appena sotto la soglia della percezione. Trema, vibra, fa delle distanze una cosa inafferrabile, invisibilità stratificate. Perché il paesaggio greco, certamente, è intriso dei 450 anni di dolore e sofferenza che i greci patirono per essere stati soggiogati da un popolo a loro alieno per etnia, cultura e religione. Allo stesso tempo, luoghi come Dodona, oracolo visitato dagli eroi omerici in epoca precedente a Delfi, luoghi come questo mormorano un’antichità che non ho incontrato da nessun’altra parte in Europa. I monumenti sono quasi tutti scomparsi, ma nello stormire delle foglie di una quercia, per esempio, è tutto presente quel passato eroico, tragico, quella presenza di voci sommerse.

Anni di lettura di poeti cinesi (in tutte le traduzioni possibili), e in seguito, il lavoro con un collega giapponese sulla traduzione di waka, mi hanno portato a capire abbastanza bene quale è la funzione del paesaggio nella sensibilità estetica di quella parte del mondo (seppure molto diversa la visione cinese dalla giapponese): è l’immagine, spesso di incantevole suggestione, che letteralmente inghiotte dentro se stessa l’animo umano con tutti i suoi pensieri crucci e gioie. Un sentire che penso di aver abbracciato, negli anni, senza quasi accorgermene. Quei poeti raramente scissero l’elemento paesaggistico dall’animo umano, reputando che le due cose fossero due aspetti della stessa realtà composita, allargata.

Si dice che il waka giapponese del periodo classico sia soltanto una celebrazione della natura, della bellezza, della brevità della vita umana. Tutto ciò è vero, ma io ho avuto la somma buona fortuna di lavorare e dialogare a lungo con uno studioso giapponese, che invece va più a fondo nel senso di questa poesia (la migliore, s’intende), scoprendovi la reale profondità di pensiero, la dimensione metafisica che generazioni di miopia filologica non hanno saputo cogliere.

Ki no Tsurayuki (IX-X sec)
hito shirezu koyu to omoishi ashihiki no yama shita mizu ni kage wa mietsutsu

senza che nessuno mi vedesse, così pensavo,
attraversai il monte: tutte le acque laggiù mi rispecchiavano

La questione del paesaggio è un po’ come quella del dialogo muto fra il poeta e l’albero fiorito. Il poeta gli chiede il perché delle cose, soprattutto del suo proprio insondabile sentimento per quelle cose. Gli chiede perché, se il mondo è uno e indivisibile, e lui e l’albero una sola cosa, allora perché questo pathos. L’albero non risponde, e nello stormire dei rami fioriti il poeta ravvisa una meravigliosa “bellezza”. Ma l’albero non è bello, l’albero semplicemente sta lì. E quello stare lì è come uno specchio, un invito a te di guardare più profondamente in te stesso, un invito a capire come anche tu rispecchi l’albero.

cinese paesaggio

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In questo senso, provo estraneità per la tradizionale visione in Occidente, che a tutti gli effetti ha scisso le due realtà in soggetto e oggetto. “Soggetto” e “oggetto” esistono anche nell’atteggiamento asiatico verso la realtà (come si capisce dal paragrafo precedente): ma l’uomo sta all’interno di una realtà completa, non al di fuori di essa. “Soggetto” e “oggetto” sono sempre presenti, ma è necessario anche sempre ricordarsi che si tratta di realtà parziali.
Penso che negli ultimi decenni la riflessione sulla complessità di Edgar Morin abbia iniziato a smantellare questo aspetto primitivo e deterministico di un pensiero per altri versi così forte, geniale, creatore, come quello occidentale.
Un raga indostano (ma ugualmente una composizione musicale di Giacinto Scelsi) ci suggerisce che, almeno in arte, l’uomo non tanto fa le opere (seppure non possiamo mai liberarci del tutto da questa illusione, anzi dobbiamo sempre misurarci con essa), quanto osserva il loro farsi. Esiste un compiersi delle cose.

La poesia sulla luna che tu hai citato ho iniziato a scriverla nel 1995. Subito dopo aver scritto i versi iniziali, e aver fatto un certo numero di appunti per capire come dovevo continuarla, capii che non potevo ancora dire quello che avevo in animo, non avevo a quanto pare, allora, gli strumenti per farlo. L’ho ripresa nel 2012, e dopo qualche mese di tornarci e ritornarci sopra, ho finalmente potuto dire: la poesia è scritta. (Poi l’ho tradotta in italiano)
Ho anche scritto poesia in italiano, e una raccolta è stata pubblicata nel 1997 nella collana Biblioteca Cominiana di Enzo Mazza e Bino Rebellato. Precedentemente, avevo più volte provato a interessare riviste letterarie italiane alle mie composizioni, ricevendo sempre pareri negativi – emblematica la frase di un noto poeta milanese, allora anche direttore di una rivista di poesia, che mi scrisse, “la sua poesia non rientra nel solco della tradizione letteraria italiana”. Due esempi di quella mia poesia straniera:

donna cinese antica

VOLTO E RISVOLTO

Nella sala del museo lui guardò
attentamente l’antico quadro,
poi s’incamminò verso il suo infinito.

Giunto in fondo – in un baleno, avresti detto –
con un dito ne sfiorò la superficie
(un’altra fuga di stanze), e disse: «di là
non c’è niente.
Tutto quello che possiamo vedere,
afferrare, sta qui.»

Tu lo guardi e lo compatisci. Sai bene
quanto più complessa è questa realtà,
le asimmetrie nascoste nel suo cielo splendido,
nelle montagne e foreste, e grandi
città affacciate sugli oceani.

E mentre lui è fermo, rigido dentro il quadro,
tu spazi e ti libri, ma da ogni lato
la realtà avanza impetuosa, raggiungendo
anche in te il suo punto infinito.

1993

cinese donna con gonna

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SENZA TITOLO V

Ineluttabile destino, il tuo, che fosti il primo
a volere uno specchio:
più gli antichi artigiani ti approfondirono
nel riflesso del vetro, più ti appiattisti
in quell’immagine, facendo della vita
una cosa unica, angosciosa,
in cui apparire è la sola ragione d’essere.
Perché loro, nella loro astuzia
non posarono gli arnesi fin quando,
foggiata una seconda realtà di te,
non ti ebbero disperso.

                                                 1992

Penso che quel poeta milanese avesse ragione, senz’altro. Ma forse è anche possibile essere ospiti della poesia italiana, senza appartenervi del tutto? Giorgio Linguaglossa, mi è sembrato, dà a questa domanda una risposta affermativa, e di questo lo ringrazio.

 

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Carlo Sini SULL’IDEOGRAMMA E LA POESIA CINESE ANTICA – Poesia e musica sono arti del tempo, ma la poesia cinese, osserva Fenollosa, ingloba in sé un elemento visivo, un tratto spaziale, che le è assolutamente costitutivo

cinese DipintoDiCapodanno1

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 Sin dall’età classica vige in Occidente la tradizionale distinzione che oppone le arti dinamiche del tempo alle arti plastiche dello spazio, parola contro figura, poesia contro pittura, si potrebbe dire. La contrapposizione occasionò, come si sa, innumerevoli contese e reiterati interventi volti a stabilire la superiorità estetica ed espressiva delle prime arti sulle seconde o viceversa: una contesa, invero, oggi piuttosto datata. Ma se ci spostiamo in Estremo Oriente, per esempio in Cina, le cose, in particolare la distinzione tra figura e parola, assumono un altro senso. In base a tale senso, non vi sono dubbi nell’assegnare alla pittura la palma della vittoria su tutte le arti. Ma qual è il significato profondo di tale preminenza? Per avvicinarci a una risposta, ci riferiamo anzitutto a ciò che Shitao chiama “tratto”.
cinese drago colorato

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Shitao è il più famoso dei nomi d’arte di Zhu Ruoji, la cui data di nascita si colloca tra il 1641 e il 1642. Di famiglia imperiale, patì lo sterminio totale dei suoi parenti nel corso della guerra civile e del crollo della dinastia Ming, alla quale si sostituì la dinastia Quing tra il 1644 e il 1645. Nascosto da un servo fedele presso i monaci del monte Xiang, il bambino crebbe e si istruì in questo monastero buddista dedicandosi alla pittura. Con gli pseudonimi di Onda di pietra (Shitao) e di Cucurbita amara viaggiò poi per la Cina divenendo famoso, Negli ultimi anni (la sua morte si colloca tra il 1703 e il 1710) si avvicinò alla pratica e al pensiero del taoismo. Oltre alla sua opera pittorica, che è tra le più alte della intera tradizione cinese, egli scrisse anche un trattato “Sulla pittura”, ed è qui che troviamo le sue riflessioni sul “tratto”:

cinese donna con ventaglio

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 “Il tratto [del pennello] è l’origine di tutti gli esseri, è la radice delle diecimila forme. La pittura non sarebbe dunque arte suprema soltanto, ma addirittura l’origine di tutte le cose? Senza pittura non vi sarebbe dunque “realtà”? Un’ipotesi che suona di certo singolare, per non dire: stravagante. Shitao dice anche: «La pittura esprime la grande regola delle metamorfosi del mondo». E ancora: «lo parlo con la mia mano, tu ascolti con i tuoi occhi». Come intendere queste asserzioni? Dobbiamo leggere qui delle semplici metafore? Ma metafore, “trasferimenti”, in che senso? In ogni caso il senso resta ambiguo e per aprirci la via alla sua comprensione adeguata ci riferiremo ora a un testo classico: “L’ideogramma cinese come mezzo di poesia. Una ars poetica”.

Ne è autore Ernest Fenollosa (Salem, Massachusetts, 1853-Londra 1908), poeta, orientalista e primo teorico dell’arte asiatica. Fondatore della Tokio Art Academy e autore della prima importante storia dell’arte Orientale, composta nel 1906 e apparsa postuma nel 1912 con il titolo “Epoche dell’arte cinese e giapponese”, Fenollosa donò al museo dì Boston una straordinaria raccolta di pitture cinesi e giapponesi. Nel poemetto “East and West” (1893) egli auspicò l’unione delle arti e delle culture d’Oriente e d’Occidente come preludio a una futura civiltà globale. La sua opera ebbe notevole influenza su W.B. Yeats e sull’”imagismo” e “vorticismo” di Pound, il quale si diede alla ricerca di una lingua poetica condensata, essenziale e visionaria, a imitazione dell’ideogramma inteso come stenografia pittorica, ovvero come concentrazione metaforica di richiami visivi.

caballo cinese tangLeggiamo l’esordio del saggio di Fenollosa: «Il secolo ventesimo non solo apre una pagina nuova sulla storia del mondo, ma schiude anche un sorprendente capitolo. Orizzonti di strani futuri si aprono all’uomo; culture che abbracciano il mondo intero, svezzate quasi dall’Europa; per nazioni e razze responsabilità mai sognate. Il problema cinese da solo è così vasto che nessuna nazione può permettersi ormai di ignorarlo». Dopo queste rapide notazioni, che sembrano dei nostri giorni,Fenollosa elenca molti pregiudizi occidentali nei confronti della cultura orientale. L’idea per esempio che i cinesi siano un popolo di materialisti, i giapponesi di “plagiari”; il vezzo di fare dei costumi di quei popoli materiale esotico da operetta e così via. Anziché demolire i loro porti e le loro fortezze con le nostre navi da guerra (come allora accadeva, anziché limitarsi a sfruttare i loro mercati, le nazioni occidentali, dice Fenollosa, dovrebbero impegnarsi a comprendere una civiltà la cui antichità è doppia rispetto alla nostra e il cui livello è pari a quello degli antichi popoli mediterranei, «Abbiamo bisogno dei loro migliori ideali per alimentare i nostri ideali incastonati nella loro arte, nella loro letteratura, nella tragedia della loro vita».

donna cinese antica L’arte poetica è dunque il punto di riferimento del saggio, per la quale arte è però subito necessaria una precisazione. Poesia e musica sono arti del tempo, ma la poesia cinese, osserva Fenollosa, ingloba in sé un elemento visivo, un tratto spaziale, che le è assolutamente costitutivo: non qualcosa di accidentale, né di astrattamente metaforico. Fenollosa esemplifica la sua tesi con un riferimento concreto a un verso poetico che, tradotto in italiano, suonerebbe “Il sole sorge all’orizzonte”. Noi ascoltiamo i significati verbali o li leggiamo attraverso la scrittura alfabetica ma non osserviamo la scrittura alfabetica. Non avrebbe alcun senso per noi descriverla e analizzarla cosi: lineetta verticale con puntino, lineetta verticale più lunga, segno a serpentina e così via. Nel caso invece del verso cinese proprio questo si deve fare: si deve osservare attentamente la figura degli ideogrammi per comprenderne il senso.

dignitario cineseCosa vedremmo allora leggendo? Vedremmo l’ideogramma del sole che occupa la parte sinistra del foglio (una specie di piccolo quadrato), A destra l’ideogramma dell’est, cioè ancora il sole che traspare però tra i rami di un albero stilizzato. Nell’ideogramma centrale che traduciamo col verbo “sorgere”, osserviamo sempre l’ideogramma del sole, posto un po’ più in alto rispetto al precedente, e sotto di esso una linea verticale che figura il venir fuori dalla terra di quello stesso tronco d’albero che vediamo raffigurato nel terzo ideogramma, Di fatto vediamo il sole sorgere sull’orizzonte. «Con l’occhio si vedono e si leggono in silenzio i caratteri, uno dopo l’altro», dice Fenollosa. Ed è così che la scrittura cinese ingloba un antico tratto pittografico. La pittura cinese, dice ancora Fenollosa, è qualcosa di più che simboli arbitrari; essa ha il vantaggio di combinare il tempo della parola parlata con lo spazio della figura. Essa «parla simultaneamente con la vivacità della pittura e con la mobilità dei suoni. In un certo senso è più oggettiva, più drammatica di ciascuna delle due separatamente. Leggendo il cinese non stiamo ad agitare bussolotti mentali, ma osserviamo cose evolvere il loro fato».

Un altro esempio è riferito a un verso che potremmo tradurre così: “L’uomo vede il cavallo”. Anche qui non simboli arbitrari, ma «la vivida pittura stenografica delle azioni naturali». Dapprima osserviamo la figura stilizzata dell’uomo sulle sue due gambe. Poi il suo occhio che percorre lo spazio: una figura audace di gambe che corrono sotto un occhio che si protende innanzi. Un disegno bizzarro e insieme straordinario: indimenticabile una volta visto. Infine il cavallo, saldo sulle sue quattro zampe stilizzate e la sua coda fluente. Ecco come la poesia cinese descrive le cose.

Caballo-China-Sig57716Più che cose in realtà vediamo azioni, «pitture stenografiche di azioni o progressioni». Ecco altri esempi.
L‘ideogramma dì “parlare” è una bocca da cui escono parole e una fiamma […], l’ideogramma di “commensale” è un uomo e un fuoco. Non esiste in natura un vero nome, una cosa isolata. Le cose non sono che punti terminali, o meglio, i punti d’incontro delle azioni, sezioni intersecanti le azioni, istantanee. Né è possibile in natura un verbo puro, un moto astratto. L’occhio del lettore vede nome e verbo come un tutt’uno: cose in moto, moto nelle cose, è così che la concezione cinese tende a presentarli. Il sole sotto le piante in germoglio è “primavera” […], il campo di riso più la fatica uguale “maschio”, barca più acqua uguale “scia”, “increspatura”, ecc.
Uno dei fatti più interessanti della lingua cinese è che vi vediamo non solo le forme delle frasi, ma come le parti del discorso crescono, sviluppandosi l’una dall’altra. Le parole cinesi sono vive e plastiche come la natura, poiché cosa e azione non sono formalmente separate. La lingua cinese naturalmente non conosce la grammatica.

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