
Fayum ANTINOOPOLIS is the site of some of the most spectacular portrait art ever found in Egypt.
Salvatore Martino è nato a Cammarata, nel cuore più segreto della Sicilia, a mezza strada tra Palermo e Agrigento, il 16 gennaio del 1940. Attore e regista, vive in campagna nei pressi di Roma. Ha pubblicato: Attraverso l’Assiria (1969), La fondazione di Ninive (1977), Commemorazione dei vivi (1979), Avanzare di ritorno (1984), La tredicesima fatica (1987), Il guardiano dei cobra (1992), Le città possedute dalla luna (1998), Libro della cancellazione (2004), Nella prigione azzurra del sonetto (2009), La metamorfosi del buio (2012). Nel 2015 esce l’opera completa del poeta in Cinquant’anni di poesia (1962-2013). È direttore editoriale della rivista di Turismo e Cultura “Belmondo”. Dal 2002 al 2010 ha tenuto un laboratorio di scrittura creativa poetica presso l’Università Roma Tre, e nel 2008 un Master presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli

Fayyum ritratto di uomo
Commento di Giorgio Linguaglossa
Non ho letto I Dodici di Blok o le poesie di Herbert per sapere qualcosa di più sui loro autori: semplicemente, volevo sostare in quell’aura, in quella leggerezza, in quell’atmosfera, o insania. È un paesaggio, la scrittura, che non va a finire da nessuna parte, è lì e basta. Respirare in quel paesaggio la sua atmosfera è tutto quello che si può fare. C’è una trama?, c’è uno sviluppo?, c’è un senso?. No, in poesia non c’è nulla di tutto ciò. Possiamo leggere questo libro di Salvatore Martino come possiamo stare seduti su una sedia a dondolo all’ombra di un albero a goderci un paesaggio, nell’aria pulita del mattino. Ora, provate per un attimo a smettere di dondolarvi. Non è la stessa cosa, vero? L’atmosfera di un bel libro è il dondolio della sedia. Nient’altro. E il vento che ricompone l’erba di quel campo, lo scorrere delle nuvole che proietta ombre passeggere sugli alberi. Quel volo d’un uccello e, in alcuni casi, il rumore delle foglie di un albero o quello di un treno che passa lontano sui binari. L’atmosfera di un libro di poesia è tutto ciò : ciò che vive della scrittura dopo che essa è morta, scritta in un linguaggio morto perché fissato nel tempo e dal tempo. È ciò che rende quella scrittura vivente. È l’increspatura sulla superficie dell’acqua.
Il solo motivo per cui si legge un libro di poesia è perché quel libro ci consente di sostare in un luogo in una atmosfera particolare e irriducibile, respirare quell’aria, quel profumo singolarissimo differente da ogni altro profumo e che c’è solo lì e non in nessun altro libro.
Recentemente, una poetessa contemporanea, Laura Canciani ha scritto: «il libro di poesia ha lo svantaggio di dover fare a meno della “trama” rispetto al romanzo e al giallo; ha lo svantaggio di non poter prendere il lettore per il colletto e trascinarlo nel luogo del delitto che ha deciso il narratore di thriller; il libro di poesia è inerme, non ha alcun potere sul lettore, non il potere della seduzione da risultato né quello di seduzione da abilità che ha invece il romanzo (e in specie il thriller). Il libro di poesia non ha alcun potere sul lettore. Questo è il suo più grande limite ma è anche il suo più grande pregio. I modesti poeti allora tentano dei surrogati: la fibrillazione e l’estroversione dei palpiti dell’io con esagerazioni dionisiache verbovolanti. I poeti di livello superiore invece non ricorrono ad alcuna di queste “seduzioni”, si limitano a disegnare un’atmosfera, un profumo, un minimo rumore di parole…».

Fayyum-Portrait- 120-140 d.C.
Nello stile di Salvatore Martino ci sono, soggiacenti, come in vitro, tutte le contraddizioni e le antinomie che stanno al fondo della poesia di questi ultimi decenni: Da La Bufera (1956) di Montale in poi, quella particolare ingessatura dei linguaggi poetici che derivavano la propria prassi artistica dalla filosofia del presente, dalle “occasioni” (che non svelano più alcun simbolo, tantomeno metafisico, anzi, che non svelano nient’altro che un segno), dal lacerto di memoria, dal lapsus, dal commento a una notizia di cronaca o di storia o di geografia o di botanica etc..
Dalla fonte dell’Erlebnis, dalle zattere della temporalità, dalla Lingua degli angeli e da quella del Mito siamo arrivati a quella «cosa» che si è fatta in questi ultimi decenni di tutto e per tutti. La poesia si è democratizzata. Si è creduto così di fare una «cosa» democratica, di portare la poesia alla mensa delle masse dei lettori. Ma ci si ingannava. Nel frattempo, con l’invasione della cultura di massa, il mondo si era imbarbarito e la poesia, in risposta aveva tentato di inseguirlo diventando sempre più democratica, demagogica, seduttiva e permissiva.
Salvatore Martino, in una certa misura, avverte tutto ciò e tenta la risalita, tenta di andare contro corrente, di ritornare indietro, di fare una poesia «difficile», elitaria, solistica, forse presuntuosa come può essere presuntuoso parlare di sé, dell’io, del dramma della morte che si è dovuto affrontare, come se ciò potesse veramente interessare a qualcuno; alza il tono, alza l’asticella delle difficoltà, tenta di sfondare il pentagramma lessicale e sonoro, cambia spesso la chiave di violino. Ma tant’è, Martino traccia la sua dritta via nella selva oscura della democrazia dispiegata e va dritto per la strada tracciata:
Ancora una volta
una lunga degenza in ospedale
e stavolta davvero
ho guardato l’abisso
e l’abisso ha guardato dentro di me
Sono disceso come Odisseo nell’Ade
e mani d’amore
mi hanno trascinato fuori
dal gorgo dove ero scivolato
come chi dorme si abbandona ai sogni

Fayyum Portrait (120-140 d.C.)
È una poesia che nasce dal fondo oscuro della coscienza «In my beginning is my darkness (…) In my darkness is my beginning», forse con un eccesso di reminiscenze classiche. Continua l’autore:
Angelo atterrito
che abiti le caverne del mio fiato
tieni lontana
dall’orma del mio piede dall’approdo
la bianca figura dell’Isola dei morti
riportala nel gorgo della sua tela
con l’alito atroce della tua parola
È un libro che nasce dall’esperienza della morte toccata con mano dopo una lunga malattia. Un’esperienza terribile. Ma è grazie ad essa che la poesia è tornata ad abitare nella casa di Salvatore Martino. Di questo libro preferisco le poesie in cui l’autore commenta le proprie esperienze di vita con parole semplici, dirette:
Dopo mesi d’insperato silenzio
è tornata a inquietarmi
la poesia
con le sue beghe e le ambiguità
le sue maledizioni
la consueta tirannia della parola
la sua equivoca trascendenza
Credevo di averla confinata
in una stanza priva di finestre
senza il sospetto
di una impossibile sortita
Invece è ancora qui
a colmare di sangue
la nostra liturgica ferita

Fayyum portrait d’homme (120-140 d.C.)
Scrivevo in una recensione pubblicata sulla rivista “Poiesis” nel 2004 a proposito del libro di Salvatore Martino Libro della Cancellazione Roma, Le Torri, 2004:
“Il poeta siciliano Salvatore Martino, nato ad Agrigento nel 1940, fa parte di quella generazione di poeti che intorno agli anni Ottanta e Novanta ha percorso la strada di una ristrutturazione del discorso poetico. Per Martino, poeta eminentemente e modernamente lirico, la strada da seguire era quasi obbligata: la sliricizzazione della poesia e il tono understatement, il piano basso del linguaggio, con abbandono del terreno eminentemente novecentesco delle pratiche di «ironizzazione» del reale e di «supponenza» dell’io.
Con il senno del poi, possiamo guardare agli anni Novanta come un percorso ad ostacoli nel quale era già stata tracciata la direzione da seguire: una poesia «dopo l’età della lirica»: da alcuni ipotizzata come una sorta di generica poesia narrativa, da altri invece preconizzata come una ripresa dei modelli poetici novecenteschi rivisitati e opportunamente ristrutturati.
Clausura e restrizione, esperienza del limite e della soglia e conseguente angoscia di non poter attraversare la soglia della propria contemporaneità. È la problematica centrale attorno alla quale ruota la poesia di Salvatore Martino. Quello che si intende genericamente per poesia «moderna» è una sorta di «cancellazione», una sorta di tabula rasa che l’ultimissima poesia sembra volerci comunicare, in un contesto di eterna «belligeranza» (vedi la poesia «E lotteranno sempre l’angelo-dèmone e il bambino») e di ripiegamenti al privato, ad un privato depurato di ogni narcisismo cronachistico. Quanto a Salvatore Martino potremmo, fra tutti, citare l’esempio dei tre autoritratti («Autoritratto a punta secca», «Autoritratto su carta pergamena», «Autoritratto in sanguigna sopra carta di riso»), dove la ricerca ruota attorno alla condizione del soggetto che scrive il proprio autoritratto. È ancora possibile il ritratto? E l’autoritratto? È ancora possibile stabilire il binomio: ritratto-verità? È ancora possibile intendere lo spazio poetico come il luogo della verità? E, infine, l’ultima domanda: È ancora possibile lo spazio poetico? Ecco, il libro di Salvatore Martino tenta una risposta a tutte queste istanze. E già averlo tentato è motivo di grande considerazione. Innanzitutto il «viaggio», turisticamente attrezzato, polisticamente computerizzato e stilisticamente standardizzato.

Fayyum ritratto femminile (120-140 d.C.)
Perché sia chiaro che per Salvatore Martino chi parla di «viaggio» o è un laudatore tempore acti o è un furbo o un baro, un prestigiatore, un falsario che tenta di spacciare la moneta falsa del «viaggio» per quella vera con il ritratto, o meglio, l’autoritratto del poeta in effigie. La strada che Martino percorre è l’esoterismo, a metà tra il triviale e il sublime, che è la replica, in negativo, di «Oswald’s Restaurant» di Cattafi («la vermiglia rete che ci tiene») in una suite così ricca di cromatismi quale è «Partenza da Greenwich», per non parlare di certo Cendrars, con le sue trasvolate oceaniche in altri continenti. Leggasi la poesia «Quella ragazza-dèa del Guatemala» ecco un colore che chiude, pur con la sua controllatissima tinteggiatura: «Ricordo una ragazza creola / nel bananeto presso Quiriguà / rideva imprecava si esibiva / contro una ciurma oscena d’individui / Non ho mai visto una bellezza uguale / perduta in un totale smarrimento». Mi sembra degno di nota che la serie intitolata «Dobbiamo imparare ad amare le nostre tenebre / anch’esse hanno bisogno dell’amore», consacrata più delle altre al dilatato sapore dell’avventura nel mondo fuori di casa, venga a culminare nella stanza di «Mi ricordo una notte in Amazzonia», àmbito circoscritto di per sé, cella senza confini, tempio della fantasia, continente della libertà fissato in una «sospensione temporale». Il tema del viaggio, paradigmatico e diaristico insieme, vi potrà far posto alla descrizione d’una temperie spirituale, ma più volentieri il perimetro formale sarà quello d’un luogo all’aperto, distante dalla stanza dove si svolge l’autoritratto del poeta. Fino alla sezione finale del libro, che così suona: «Alla radice al pozzo che risuona / alla dolce risacca torneremo / limpidamente oscuri d’ogni traccia», dove la borgesiana esibizione metaforica risulta ben orchestrata in contrappunto con una metessi metonimica. È la sezione forse più alta e concentrata del libro, il luogo dove si assembrano e si consumano tutte le linee di forza della sua poesia. Esemplare è il componimento «Il messaggio dell’imperatore» dove il re dei re, il morente Dario, sussurra disteso sul campo di battaglia, ad un soldato superstite, le parole che dovrà riferire all’orecchio del vincitore Alessandro il macedone. Forse, il senso ultimo della poesia di Salvatore Martino è questo: comunicare all’orecchio del lettore l’ultimo messaggio di una civiltà morente. L’ingresso nel Tramonto, il Libro della Cancellazione“.

Salvatore Martino
da Salvatore Martino da Cinquant’anni di poesia (1962-2013) Roma, Edizioni Progetto Cultura 2014 pp. 1008 € 25
Da Libro della Cancellazione (2004)
Questa partita che non sai giocare
Chissà? Sono gli dei
a muovere il bianco e il nero
della nostra partita?
O forse sono gli uomini a sognare
i movimenti alla scacchiera
questa battaglia con la sorte
I giocatori inseguono la mossa
inventano quelle successive
non conoscono il volto
il freddo e l’efficienza la paura
dell’avversario cieco
dalla parte opposta del quadrato
Tentano di spostare torri alfieri
di attaccare il re con le pedine
prestano il fianco ai cavalli
tendono l’agguato alla regina
sul piano fatalmente in due colori
Siamo i pezzi d’avorio?
O gli uomini? O gli dei?
Tutti ingabbiati Tutti senza uscita
Chissà se Dio la gioca la partita?
Se distratto ci muove col pensiero?
O anch’Egli è mosso
da una pedina ancora più lontana?
Come diventa strana questa storia
un calcolo e condiziona tutto il gioco
Io lo vorrei incontrare questo fuoco
questa divina conoscenza
in una stazione di periferia
nella hall di un albergo fatiscente
in una folle corsa in autostrada
Ma è veramente nata
questa sciocca contesa che viviamo?
Mestamente abbandono
i quadrati perfetti
dove le schiere si fronteggiano
in cromatica fuga
sul letto fatalmente in due colori
la verità e l’inganno
nell’alba e nel sogno ricomposti.
.
La moneta di ferro
Angelo dell’inizio e della fine
segreto mormorio del mio destino
sorvegli il respiro della casa
ogni mio movimento familiare
Come un serpente
scivolato all’alba
o nell’ora più atroce
prima dell’ultimo duello
tra la notte e il mattino
prepari l’imboscata
Indovino i tuoi trucchi
i sortilegi
l’ombra evocata dallo specchio
Del mio corpo e dell’anima
conosci ogni dettaglio
della mente
Ma io non ignoro
il tuo tremore
io come te la vedo l’avventura
che percorriamo insieme
in questo letamaio
Dèmone bianco
che baci il mio cuscino
quasi assetati di vergogna
senza una lira in tasca
in questo viaggio
dimenticammo l’armatura
in un campo di ortiche
e stranamente i cavalli
erano uno
Portami sulle spalle all’altra riva
un rosso fazzoletto di saluto
l’occhio giallo perduto nell’addio

Salvatore Martino
Non puoi non farlo
Neri cespugli coprono
il teatro in rovina
la maschera lasciata in camerino
il pane raffermo sulla tavola
la minestra gelata nell’acquaio
Perfetta si chiude la moneta
in entrambe le facce
Anch’io ti porterò
ai campi di narcisi in fiore
che l’isola nostra ha custodito
laggiù saremo
una bianca risacca
una canzone
un’alga perduta nella spuma
.
Le candele della notte si sono consumate
Sopra le balze di tufo
Machu Picchu domestico
che forse mi appartiene
il verde dilaga a primavera
il raffinato canto degli uccelli
Qui persino il vento
assume un andamento circolare
In questo paradiso ricercato
come un lontano appuntamento
dovrebbe sorridermi la vita
l’ansia distendersi sul volto
Incubi invece i miei pensieri
s’insinuano tra i muri
come morti giganti
Si fermano talvolta sulle soglie
sugli stipiti sbattono la fronte
agitando le chiavi
Dormono al mio fianco
affondano la testa sui cuscini
respirando a bocca spalancata
Usano il bagno schiuma
le mie saponette profumate
si radono la barba nello specchio
sussurrano parole
alitano vendette sulle spalle
s’infilano persino le mie scarpe
Attraccati alla sedia
guardano con sospetto
la macchina da scrivere
e questa d’improvviso
incomincia a battere da sola
Frugano la dispensa
negli armadi
senza testa né piedi
i vestiti passeggiano da soli
come svuotati di pensieri
Invece sono là questi nemici
spiaccicati negli angoli
aspettano pazienti
un passo falso
un alibi una resa
come tentacoli di seta
protendono le braccia
e la domanda accesa
dentro l’occhio cavo
mi arriva dentro l’occhio
sempre la stessa
e non avrà risposta
Sono divenuti familiari
complici di scalate nell’abisso
L’orologio commenta questo imbuto
dove qualche volta c’infiliamo
per addestrarci a non sentire
il rumore ostinato del silenzio
Li vedo sparire nella doccia
ma l’acqua non bagna i loro corpi
non raggiunge la bocca
non diviene fontana
sembra che trascini i loro piedi
come un fiume infernale senza uscita
simile a quelli nella piana di Olimpia
un’estate lontana
nel clamore di un’assurda vittoria
purificammo il corpo nell’Alfeo
prima di naufragare nel profondo
.
Intorno a quel che intendo di poesia
Io non credo sia giusto
come tu asserivi
dolcissimo De Libero
nella casa al quartiere Flaminio
in una Roma ormai dimenticata
che la poesia può essere creata
solo coi ritagli
sfuggiti al macellaio
Del mio stile caotico parlavi
oscuro nel mare di parole
Ma io dovevo camminare quella strada
verso una meta di semplicità
ascoltando il magma informato
che dormiva dentro
Ricercare il volto dell’enigma
questo è per me la poesia
la risposta che non puoi trovare
la follia dello specchio
la musica il silenzio l’armonia
quella capacità di penetrare
il palazzo segreto
di colmare il distacco dalle stelle
la beata innocenza della luna
È l’angelo caduto la poesia
ma possiede l’orecchio del Signore
è il fanciullo che incendia
la tenebra infinita
È il custode del viaggio
il faro circolare
quella fatalità mai presagita
il lampo dell’aurora
è quella ingannevole storia
che vanamente e dolce ci possiede
Autoritratto in carta pergamena
Vieni a bruciare questo male oscuro
l’astuto tradimento dell’aurora
dèmone bianco ma dal volto oscuro
con dolcezza confondi la memoria
Fossilizzati nella tua dimora
i tentativi di ferire il muro
non fummo costruiti per la gloria
ch’è solo un’illusione del futuro
C’incontreremo a un varco desolato
voce che mi perseguiti al mattino
sarò di lancia di pistola armato
C’incontreremo forse in un giardino
il caso il sogno l’hanno disegnato
t’annienterò con l’occhio di bambino

Salvatore Martino
Un racconto ascoltato a tarda notte
Il letto ora sembra più vuoto
l’odore del fumo nella stanza
Raccoglie a fatica
il libro aperto sopra il pavimento
Non ricorda se ieri l’ha sfogliato
sempre quel numero
sempre quella pagina
che porta una dedica sbiadita
Prende una sigaretta
non l’accende
quel gesto è l’immagine di lui
il sapore crudele della bocca
– Andrò a vivere altrove
lascio questa città
senza rimpianto
forse ti scriverò
se mai hanno senso le parole
è stato bello a volte –
Da allora non ha avuto sue notizie
si augura che sia un po’ felice
si saranno ingrigiti i suoi capelli
forse più consapevole lo sguardo
Come dimenticare la sua faccia
la forza delle mani
il corpo disegnato all’abbandono?
Il letto ora è più solo
il libro chiuso
sopra il pavimento
una dedica ancora più sbiadita
Tutto era bianco
Le macchie rapprese sui lenzuoli
un corpo levigato tra le braccia
l’inquietante risveglio dopo il sesso
un bacio rubato in un vagone
il respiro a mordere le labbra
a violare di sangue la saliva
Ho lasciato socchiusa la finestra
perché le ombre possano tornare
i gesti le parole
la bianca giovinezza
.
Autoritratto non finito
Questa maturità che oggi mi tiene
non ha trovato quello che cercava
il sogno liberato dall’angoscia
la parola di luce
Chissà se all’ultima fermata
incontrerò i frammenti del mio specchio
come in un gioco assurdo ricomposti
e avranno finalmente la mia faccia
Sulla porta ti aspetta un cavaliere
Questa sera che il tempo
asserragliato carcere discute
se concedermi l’atroce libertà
il respiro mi agghiaccia
dell’orbita spietata
del suo occhio cavo
che massacra
ogni mio tentativo di fuggire
Ordina ai clarinetti di trovarla
la variazione in sol minore
la sarabanda che mi cancellerà
Si affida ai contrabbassi
ai violoncelli soli
per colpirmi alla gola
per aprirmi nel petto una ferita
Ma la musica vince
disegna sul suo volto la sconfitta
forse soltanto una dilazione
La prossima giocata
la inventerai in uno scalo merci
in uno specchio che non ha memorie

Fayyum, ritratto di fratelli
Preghiera al limitar dell’alba
Salito a deturpare
con la luce l’inganno
astro che ragiona della notte
la magia del rimpianto
quella solare della cancellazione
Il dio non parla
nell’ambigua dimora
ogni vendetta sua è una speranza
ogni mia ribellione un obbedire
Treccia di neve liquefatta
mi chiami dall’oracolo perduto
a quale segno mi trascini?
Come vanificare il tradimento?
Vuoto artificio
che soccorri i naufraghi
astro gelato dei mattini
crocifero dell’ansia
col tuo mantello celi la paura
nella voce sicura fioriscono
tutti i tradimenti
Quando potremo sconfinare il mito
e consacrare al vento la saliva
come una cantilena di silenzi?
Vieni a confondere le menti
dèmone bianco
a circondare i passi dell’uscita
.
Ballata del cavaliere
Vieni a inquinare
il giardino ferito dalle rose
cavaliere smarrito senza lancia
Un ronzino scheletrico
la tua cavalcatura
un pronosticato fallimento
Avrai compagno il vento di grecale
il viaggio sarà verso l’oriente
solo un ragguaglio ti hanno suggerito
una crepa scavata nella faccia
la sparizione
senza lasciare traccia
di quello che non siamo
Contro la piccola trincea
la lancia acuminata del nemico
spera di annientare il soffio
l’alito la mente
non sa
è indifferente
lottare cedere o morire
Il giardino dei sentieri che si biforcano
Mi ritirai nel giardino
a scrivere poesia
per consegnare agli altri un labirinto
una mappa divorata dal tempo
che conducesse in un secondo altrove
Un giardino pensato all’italiana
un gioco di armonia
immagine speculare della vita
Mi ritirai a scrivere a poesia
ritornando bambino
in un sogno da un altro già sognato
Perché la fine del viaggio è ritornare
al punto esatto da dove sei partito
e saranno le rughe del tuo volto
la carta del disegno iniziale
a segnalare il punto dell’arrivo
la fanciulla che attende sulla porta
.
Viaggia con i serpenti della notte
Un altro ramo si è spezzato
un altro uccello è volato via
e io non so
dove il ramo sia caduto
verso quali orizzonti
l’uccello s’è involato
La vita è una carezza
la follia di credere al destino
è la gioia di crescere e morire
di ritornare al cerchio
e come una farfalla
scomparire

Fayyum, ritratto
Il messaggio dell’imperatore
L’avanguardia macedone avanzava
a fatica
dimenticato il clamore
dell’ultima battaglia
Cercavano Dario che fuggiva
All’estremo orizzonte
d’improvviso
appena visibile
poi sempre più vicino
quello che restava
dell’esercito persiano
E staccato da esso
ancora più lontano
un solitario carro trascinato
da due vacche ferite
Un anonimo soldato si avvicina
a quello che era stato
il Re dei Re
disteso e morente
il suo cane soltanto
lo guardava
Immagino che l’uomo
in un sacro silenzio
abbia accostato alle sue labbra
un bicchiere di vino
un ultimo segno di follia
e accarezzando il cane
nel gesto antico della fedeltà
abbia ascoltato
le ultime parole del sovrano
– Ti prego
di al tuo Re
che mi incontrasti
nell’ultimo bagliore della vita
ti prego
devi dire ad Alessandro
quando una sera di giugno lo vedrai
poi sempre più vicino
quello che restava
dell’esercito persiano
E staccato da esso
ancora più lontano
un solitario carro trascinato
da due vacche ferite
Un anonimo soldato si avvicina
a quello che era stato
il Re dei Re
disteso e morente
il suo cane soltanto
lo guardava
Immagino che l’uomo
in un sacro silenzio
abbia accostato alle sue labbra
un bicchiere di vino
un ultimo segno di follia
e accarezzando il cane
nel gesto antico della fedeltà
abbia ascoltato
le ultime parole del sovrano
– Ti prego
di al tuo Re
che mi incontrasti
nell’ultimo bagliore della vita
ti prego
devi dire ad Alessandro
quando una sera di giugno lo vedrai
disteso e morente a Babilonia
che il suo impero di sabbia
si scioglierà nell’acqua
Quello che fu il mio impero
ritroverà il passato splendore
Così nella mia morte
il mio sogno ritorna
nella sua discende nell’oblio –
Da “La metamorfosi del buio” (2009-2013)
Nel mio locus amoenus interrogando
I
E una farfalla grande
così rara nei nostri climi
azzurra maculata di rosso
volò ondeggiando
tra le camelie
e il muro giallo della casa
e non cercava fiori
certo appagata della sua libertà
Chissà
forse era la stessa che Elena
vide lungo le rive dell’Eurota
navigare sulla scorza di un albero
che si era scortecciato da solo
Anche lei creatura dell’aria
scivolava libera sull’acqua
Può darsi sia arrivata da me
traversando il mare
malgrado il vento e la bonaccia
risalendo il Tevere
fino al mio giardino
No
Quella farfalla nera
striata d’arancio
siede sulla riva del suo fiume
nell’attesa di ripetere
per l’ultima volta
quel viaggio impossibile e felice
II
Sdraiato sull’amàca
tra le due grandi querce
che a settentrione vegliano la casa
il calore del mio cane sul ventre
e il fischio lontanissimo
del treno della Nord
il telefono a portata di mano
un richiamo una voce che interrompe
questa solitudine voluta
Chissà perché mi viene in mente Aiace
in quell’ultima alba sopra il mare
e spera d’incontrare un uomo
e parlare con lui almeno un po’
prima di gettarsi sulla spada amica
e mi sorprende
il coraggio virile di affrontarla
quest’unica vita che ci è data
III
Immersi nel giallo
sotto un cielo velato col suo sole
un primo pomeriggio
che il terrore ci appare
un’ immagine lontana
quasi appartenesse ad altri
la scalata dell’ansia che c’insegue
perché crollate le difese
i dèmoni sotterrano
la lira del Cantore
che non trafigge quel buio
dall’assurda miniera delle anime
non mi trascina il corpo nella luce
IV
Come è volato in casa questo fiore?
Lo guardo che sembra un’orchidea
e allo stessa maniera lo coltivo
quasi lo fosse veramente
nel vaso ho messo una torba leggera
scaglie di corteccia
e nei giorni prefissati
uno specifico concime
L’ho custodito
al centro della mia finestra
perché la bacia soltanto
il sole del mattino
Che importa s’è venuto dal campo
se non ricorda tropici e foreste
portato qui dal vento
o chissà quale uccello
se come credo si svelerà un inganno
Così nel mio delirio
invento
che come la farfalla dell’Eurota
anch’esso sia quel fiore che Elena
mostrandosi quasi nuda sotto i pepli
sugli spalti di Ilio
mentre Achei e Troiani
avevano sospeso
la loro interminabile battaglia
per ammirarla nella sua bellezza
lascia cadere dalla bocca
con gesto di sublime degnazione
come il suo terzo fiore
il primo l’aveva lanciato dal seno
l’altro dai capelli
questo proprio dalla bocca
per rivelare
a quei guerrieri insensati
l’eterno sorriso della libertà

Fayyum ritratti di donne romane 120 – 140 d.C.
Il giovane bello si guarda nel suo stagno
In una delle Metamorfosi di Ovidio
la terza se ricordo bene
si narra di una ninfa
si chiamava Eco
che non parlava mai per prima
ripeteva la chiusa di una frase
lunghissima magari
Vide Narciso vagare per i campi
e se ne innamorò perdutamente
Seguiva di nascosto i suoi passi
lo spiava dietro un albero o un cespuglio
ma non poteva rivolgergli
per prima la parola
raccoglieva ogni suono
che usciva dalla sua bocca
lo trasformava in parole nuove
A Narciso capitava spesso
di perdere per strada i suoi compagni
– C’ è forse qualcuno? –
Ed Eco rispondeva- Qualcuno-
Stupito lascia vagare lo sguardo
da ogni parte gridando a gran voce
– Dove siete che ancora non venite?-
e la ninfa richiama al suo chiamare
– Venite –
Si gira di nuovo ma non viene nessuno
–Perché fuggite? e lei ripete
le stesse parole appena dette
Ma Narciso è ingannato dallo scambio
che riverberano gli alberi e le pietre
– Riuniamoci dice –
E lei –Uniamoci – risponde
Esaltata da quello appena detto
esce dal bosco
e quasi l’abbraccia
in un volo di felicità
Narciso fugge come inorridito
e fuggendo le grida
–Via quelle mani non toccarmi
meglio morire che concedermi a te –
Lei risponde soltanto
– Cedermi a te –
Forse anche noi siamo soltanto
un’eco del nostro pensiero
una frase incompiuta della nostra storia
un racconto narratoci una sera
mentre la luce cadeva in altra luce
e io morivo dal sonno
e diventavo un’eco di quelle parole
che giungevano vuote al mio sentire
Un’ eco chissà delle nostre gioie
un’allegoria dei nostri desideri
una spia implacabile
delle nostre speranze calpestate
l’illusione di vincere sul tempo
di sfuggire alla morte
Poesie di Giuseppe Talia, Roberto Bertoldo, Gino Rago, Mauro Pierno – La nuova poesia richiede un nuovo linguaggio critico – Dimorare nella ontologia debole implica la costruzione di una percezione distratta, diffratta, dislalica, disfanica. Il naufragio del linguaggio – Dialoghi e Commenti
porsi in diagonale, in posizione scentrata rispetto all’oggetto, scegliere un punto di vista non esplicito, marginale, laterale, costruirsi una percezione distratta, diffratta, dislalica, disfanica,
Giuseppe Talia
Parto per un viaggio.
Volo con una Musa Low Cost.
Destinazione l’immaginazione.
Un’applicazione ferma. Dove siamo?
Nel trittico del cane. Io, Es e Sé.
Nell’alternativo concept tra pianeti nani;
nella perduta via degli anelli planetari;
nel viaticum della storia allucinata.
Una toccata e fuga fugace.
Un pacchetto, una combinazione
sul planisfero di misura in misura.
Un raid in moto su Marte.
Una foto condivisa su Android.
Villaggi globali di misere capanne.
Un campo di guerra, d’ogive e di speranza.
Un resort di lusso con l’alluce sul capezzolo
di una qualsivoglia Venere o a stritolare ossa
Di bimbi-bambù. In ogni cosa che finisce
e inizia nel Mar Morto come un profugo.
.
Roberto Bertoldo
A tutte le donne che non ho potuto amare
dedico la miseria delle mie poesie
cosicché non abbiamo rimpianti –
le poesie sono la prova della mia mediocrità, lo spasimo ultimo
delle parole che restano nel fodero,
astratte, negli archivi della notte, sfibrati tuoni
della tempesta che mi ha reso l’amore
una querelle infinita. E ora raccontate
la povertà del mio cuore senza sapere lo stupro
che ha screziato di gabbia la pelle di un bimbo,
senza sapere del sole tramortito nelle mie vene.
.
Gino Rago
21ma Lettera a E. L.
[Dismatriati]
cara Madame Hanska,
ieri ho parlato a lungo con la donna di Somalia
giunta da noi chissà per quali vie.
Se potesse prenderebbe un panno,
pulirebbe tutta la sua vita, cancellerebbe il viaggio,
getterebbe a mare la valigia che l’ha portata fin qui,
dice che ha perso in un sol colpo tutto il suo capitale.
Dio invece non è più tornato dal mio amico di Roma,**
dice di non sentirsi in forma, o forse si vergogna
perché se la spassa tutte le notti con Madame Jovanka,
e le sue damigelle presso l’albergo della felicità.
Si lamenta perché il mio amico**
si è rifiutato di scrivere la recensione sulla creazione…
ma, in fin dei conti, neanche lui si sente troppo bene,
e così prende la tintarella sulla spiaggia sul Tevere
dove l’amministrazione capitolina ha edificato uno stabilimento balneare,
dice che vuole ascoltare le parole del fiume,
quelle sì molto più interessanti della mega creazione.
(** È Giorgio Linguaglossa)
da sx Giorgio Linguaglossa, Antonella Zagaroli, Roma, pub di San Lorenzo, 1998 – Questo significa dimorare nella ontologia debole del nostro orizzonte degli eventi
Commento di Giorgio Linguaglossa
Dimorare nella ontologia debole non significa fare una poesia debole, significa porsi in diagonale, in posizione scentrata rispetto all’oggetto, scegliere un punto di vista non esplicito, marginale, laterale, costruirsi una percezione distratta, diffratta, dislalica, disfanica, osservare le cose come di sfuggita. Ecco, per esempio introdurre «Dio» nella poesia come fa Gino Rago e farlo andare in giro a chiedere una «recensione» al suo «amico di Roma», presentare «Dio» in vesti dimesse non significa dimidiarlo o mancargli di rispetto, anzi, il contrario, implica una restituzione di senso, un accettare la realtà delle cose, il reale pensiero degli uomini del nostro tempo i quali hanno retrocesso «Dio» sullo sfondo, in serie B. «Dio» non è più importante di qualsiasi altro disgraziato che calpesta il suolo della terra, ormai «Dio» può essere anche un nostro vicino di casa, ci possiamo anche andare al bar a prendere un caffè.
Questo significa dimorare nella ontologia debole del nostro orizzonte degli eventi.
Accedere alle cose stesse non significa aver da fare con esse come con oggetti, ma incontrarle in un gioco del naufragio del linguaggio nel quale l’esserci esperisce anzitutto la propria mortalità. Si accede alle cose per via della accettazione della propria finitudine, quando scopriamo il nostro essere relittuali, il nostro naufragio di relitti quali siamo. E questo lo testimonia lo Zerbrechen (l’infrangersi della parola) mediante il quale noi esperiamo la caducità e la finitezza del nostro essere mortali e l’essere la poesia un effetto di silenzio, tanto più quanto più il tono è sardonico e metaironico, come in questa poesia di Gino Rago, dove c’è un personaggio, nientemeno che «Dio» il quale interviene negli affari correnti dei mortali, e se la prende con «l’amico di Roma» che «si è rifiutato di scrivere una recensione sulla creazione», sommo oltraggio per il «Dio» il quale non è affatto «morto» come idiosincraticamente edittato da Nietzsche due secoli or sono ma è resuscitato ed ha preso luogo come mortale tra i mortali e costretto a mendicare una «recensione» al pari di un qualsiasi postulante di questo mondo.
«Le tecniche delle arti, ad esempio e prima di tutte, forse, la versificazione nella poesia, possono esser viste come accorgimenti – non a caso tanto minuziosamente istituzionalizzati, monumentalizzati anch’essi – che trasformano l’opera in residuo, in monumento capace di durare perché già fin dall’inizio prodotto nella forma di ciò che è morto; non per la sua forza, cioè, ma per la sua debolezza».1] Non accade a caso che una poesia riesca ad essere «monumento» (in senso heideggeriano) quando viene edificata con le parole anti monumentali, residuali, con situazioni e stati di cose corrivi, quando la paradossalità viene consegnata al lettore nella veste dimessa del relittuale, del residuo, del rimosso. La poesia riesce tanto più significativa quanto più appare dimessa, apatica, anti enfatica, come un accadimento casuale, un infortunio del pensiero distratto, una distrazione del pensiero.
*
Gino Rago
11 agosto 2018 Continua a leggere →
21 commenti
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