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Aldo Onorati, dal nuovo libro “La voce e la memoria. Interviste a personaggi del Novecento” (EdiLet, 2015) – Intervista a Dario Fo (1978), con una nota introduttiva di Marco Onofrio

San Remo 2009 la pornostar Laura Perego ha fatto irruzione sul palco in perizoma e bodypainting

San Remo 2009 la pornostar Laura Perego ha fatto irruzione sul palco in perizoma e bodypainting

nota di Marco Onofrio

 Pubblicando questo volume di interviste e conversazioni, Aldo Onorati approfondisce la sua analisi dello “sfacelo umanistico” in atto nella società contemporanea. Come si è arrivati alla situazione che stiamo vivendo? Attraverso quali passaggi decisivi? Come e perché si è trasformato il mondo? Onorati raccoglie le analisi e le riflessioni elaborate, tra il 1960 e il 1989, a colloquio con una trentina di intellettuali italiani di rilievo. Le cose sono riportate nell’alveo della loro essenza e all’origine della loro aberrazione: gli articoli riconducono agli anni in cui, parallelamente al boom economico, cominciava a diffondersi la percezione reale, attraverso una coscienza critica acquisita, degli scenari già preconizzati dalla Scuola di Francoforte negli anni Trenta, ovvero il prezzo che la gente comune avrebbe pagato, in termini sociali e culturali, per la via intrapresa dalla politica, improvvida sostenitrice di uno “sviluppo” che in realtà mistificava logiche particolaristiche di profitto economico, appannaggio delle solite oligarchie.

   Onorati sollecita gli intervistati a confrontarsi; e lo fa con la visione ampia e olistica di un dibattito “aperto”, chiamando a interloquire persone distanti fra loro sia nelle idee sia nella prassi della vita, per cui la risultanza dei colloqui dipinge un quadro complesso, a 360°, degli scenari evocati. Sono conversazioni di particolare importanza testimoniale, poiché raccolte dall’interno stesso di una prospettiva di cambiamento, nello snodo nevralgico che articola la frattura tra il “non più” e il “non ancora”, tra un mondo che si allontana irrevocabilmente e un altro che comincia a manifestarsi. Dalla cartina di tornasole delle domande porte da Onorati, catalizzatrici di risposte rivelatorie e talvolta profetiche, si coglie il passaggio decisivo che porta alla luce della coscienza critica italiana il primo apparire dell’età “postmoderna”. Il mondo stava cambiando per sempre: dopo secoli di continuità, nulla sarebbe stato più come prima.

aldo onoratiSono interviste preziose per ricostruire lo Zeitgeist di questa grande trasformazione epocale, nella misura in cui riescono a catturare il clima ideologico e morale di alcuni decenni cruciali per la storia del nostro Paese, inquadrata nel più vasto ambito dell’Occidente: soprattutto gli anni ’70. I dibattiti suscitati dal confronto generatore delle idee si muovono dunque come sipari trasparenti e sovrapposti, sul palcoscenico dove la cronaca inscena la commedia della Storia: è un libro che occorre leggere tra le righe, nei suoi intrecci, nei suoi sviluppi, nelle sue pieghe nascoste, tra le spinte delle sue mille istanze propulsive.

Aldo Onorati Interviste copParticolarmente notevoli e ricchi suggestioni sono gli interventi di Dario Fo (qui riportato), Roberto Rossellini, Giorgio Bàrberi Squarotti, Diego Fabbri e Don Franzoni. L’intervista a Diego Fabbri è stata raccolta poco tempo prima della sua scomparsa e può quindi considerarsi una sorta di testamento spirituale. Quella a Dom Franzoni è stata raccolta pochi giorni prima della sua riduzione allo stato laicale, a causa delle divergenze ideologiche con le linee politiche del Vaticano. Di grande rilievo storico e culturale anche gli interventi di Pier Paolo Pasolini, Carlo Levi, Giorgio Petrocchi, Gabriele Baldini, Domenico Rea, Sergio Quinzio, Goffredo Petrassi, Giulio Carlo Argan, Armando Armando, Giacomo Manzù, Leonida Repaci, Giorgio Saviane, Domenico Rea.

Aldo Onorati, La voce e la memoria. Interviste a personaggi del ’900, a cura di Marco Onofrio e Fabio Pierangeli (Roma, EdiLet, 2015, pp. 224, Euro 22)

  

Pulp Fiction Bang Bang Bang

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Intervista a Dario Fo (luglio 1978)

 Le stragi e il Potere – Il padrone e l’operaio – Il PCI e la cultura – I borghesi – Padova e Galilei – La scuola e le radici contadine e operaie – Il rito dionisiaco e il mito della dea madre – Il teatro – La droga

Domanda – La paura ricorrente dopo ogni strage si riallaccia alle sensazioni che ci sconvolsero al tempo dell’eccidio alla Banca dell’Agricoltura. Ormai è scoperto che la provocazione reazionaria orchestra un dramma che ci coinvolge tutti. Che cosa legge in questa trama così fosca?

Risposta – Quella provocazione, che pure fu gestita con abilità dai cosiddetti moderati, non funzionò solo perché le si opposero una classe operaia consapevole della sua forza e un’opinione pubblica attenta e culturalmente molto più matura di quanto non si aspettasse il potere, perché – sia chiaro – la provocazione di allora era la provocazione del potere. Uscì La strage di Stato, un testo che noi del circolo “La Comune” non solo leggemmo, ma divulgammo. Riuscimmo a venderne 25000 copie. C’era il processo “Lotta Continua-Calabresi” e noi, contemporaneamente, recitavamo la sera Morte accidentale di un anarchico. Lo avevo scritto – è ovvio – qualche tempo prima. C’era il problema di informarsi attentamente su quello ch’era successo. Ricordo che ebbi la possibilità di leggere, in via del tutto eccezionale, documenti importantissimi. Era sorto “Soccorso Rosso” e avevamo, quindi, contatti con decine e decine di avvocati, con gli stessi avvocati difensori di Valpreda e dei compagni messi in galera. Non mancarono neppure i giornalisti. Dunque, c’era il processo e noi, montando lo spettacolo, cercavamo di andare pari passo con quello che avveniva nell’altro teatro, quello della giustizia borghese. E venivano i compagni a sentire quei commenti, quelle informazioni di primissima mano. Fu allora che sentii per la prima volta un giudice parlare in pubblico. Era un giudice democratico che svelava come con quella grossa catena di delitti – le bombe sui treni, la strage, il gioco degli anarchici, etc. – si volesse in realtà constatare cosa succedeva e valutare la reazione.

Domanda – E quale fu la reazione del PCI e degli altri partiti di sinistra?

Risposta – Si affrettarono a prendere le distanze, partirono sulla difensiva, non capirono che bisognava invece attaccare subito e non permettere alla DC e alla sua polizia di orchestrare la caccia all’anarchico…

Domanda – Comunque, proprio a sostegno degli anarchici si manifestò un forte movimento di opinione…

Risposta – Il movimento si sviluppò in una forma, diciamo, spontanea. Da parte del PCI e del PSI (più del PCI che del PSI) si dava credito, con un atteggiamento rinunciatario, che potevano essere stati gli anarchici a provocare la strage, nonostante che l’indicazione di una manovra provocatoria del potere apparisse sempre più palese. Noi facemmo, due anni dopo, lo spettacolo Pum! Pum! Chi è? La polizia!, nel quale indicavamo i responsabili di quelle morti, del tentativo di colpo di Stato, del gioco della provocazione; denunciavamo come si cercasse di sbattere all’aria i giudici democratici, come li si incriminasse, etc. Era veramente una grossa manovra che vedeva implicati i ministri della DC, uomini di governo, lo Stato insomma nelle sue strutture fondamentali.

roma La grande bellezza fotogramma

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Domanda – E oggi? È ancora possibile al potere inscenare manovre provocatorie?

Risposta – È ovvio che la gente è disincantata, ha imparato da dove vengono le provocazioni, sa leggere nella trama delle manovre contro, per esempio, certe frange estremistiche di sinistra: il gioco sulle Brigate Rosse, sulle carceri che si ribellano (certe azioni velleitarie, spropositate e senza senso) la gente sa bene da dove viene e dove va a finire. A mio avviso, bisogna distinguere bene. C’è una frangia che viene dal carcere, i NAP per intenderci, gente che ha maturato un’idea politica e una disperazione, che ha sperato nella sinistra cosiddetta extraparlamentare e poi si è vista abbandonata, che ha seguito come unica indicazione del movimento delle Brigate Rosse il gesto clamoroso, l’azione allo sbaraglio. È tutta gente che spesso viene astutamente adoperata per fini ormai scoperti, come recentemente al processo per la strage di Brescia, dove si è abilmente tentata una specie di contaminazione tra estrema sinistra ed estrema destra. Non è casuale questo. Il gioco richiama quello degli anarchici. Brigate Rosse e Avanguardia Nazionale: gli estremi si toccano, si è detto.

Domanda – È l’eterna politica della DC…

Dario Fo

Dario Fo

Risposta – … cui fa comodo confondere tutto. Esiste una democrazia di centro, che vuole l’ordine, la pace sociale, etc., e ci sono le estreme: tra queste… l’una vale l’altra. A confortare queste interpretazioni c’è, purtroppo, la complicità e il tacito consenso della sinistra, del PCI e del PSI. Ormai la gente è scaltrita, ha capito tutto, sa che i grandi giochi di matrice mafiosa, le rapine in serie, i sequestri hanno un’origine comune che, gira e rigira, è sempre legata al potere. Parlando spesso con la gente semplice, con l’uomo della strada, mi sono reso conto che ha grandi intuiti e non si lascia più sorprendere né stupire. Sì, c’è quello che bofonchia, che dice basta; l’operaio, no, l’operaio ha capito: questo credo sia un fatto importante.

Domanda – Il senso della sua commedia L’operaio conosce 300 parole, il padrone 1000: per questo lui è il padrone, trova puntuale conferma nella scuola, dove il figlio dell’operaio si trova in grave imbarazzo rispetto al figlio del padrone. Vogliamo parlarne?

Risposta – Allora presi spunto dalla Lettera a una professoressa. Il discorso dei ragazzi di don Milani era provocatorio. Quali sono le 300 parole che conosce l’operaio? Sono 300 parole del linguaggio del padrone, ed è perciò svantaggiato rispetto al padrone che ne conosce 1000. Ma l’operaio ha un suo linguaggio, di cui il padrone non conosce nemmeno una parola. Era questo il senso della commedia.

Foto del calciatore Balotelli insieme a due fans del Costa Rica 2013

Foto del calciatore Balotelli insieme a due fans del Costa Rica 2013

Domanda – A proposito esplose una grossa polemica col PCI su cosa significasse “cultura”.

Risposta – Il PCI esalta una cultura unica, interclassista. Noi dicevamo: no, il contadino e l’operaio hanno tutto un loro linguaggio, fatto di immagini, di conoscenze, di onomatopeiche estranee alla cultura del potere. È nella sua cultura che l’operaio deve riconoscersi, e quella deve sapere, e sapere la sua storia. Ripetevamo una frase di Gramsci: «Se noi non conosciamo da dove siamo venuti, non riusciremo mai a capire dove dobbiamo arrivare».

Domanda – Quale obiettivo proponeva, quindi, con quella commedia alle classi subalterne?

Risposta – La cultura del potere è il risultato di una rapina continua alla cultura popolare dei contadini, degli artigiani, dei movimenti operai. Questa è grande, è vasta, è piena di indicazioni. Bisogna riappropriarsi anche di questa cultura per poter diventare una classe. La borghesia, quando è diventata egemone, s’è dovuta fare in fretta la sua cultura, qualcosa strappando all’aristocrazia e molto ai contadini. Chi erano, infatti, i borghesi? Erano una classe completamente nuova. E da dove veniva? Veniva dagli strati intermedi della società, veniva anche da quegli artigiani che si erano emancipati e che, grazie alla circolazione del denaro, allo scambio delle merci, alla nascita delle banche, agli interessi, etc., vedevano moltiplicarsi guadagni e profitti. Il capitalismo non è nato nel ‘700. È nato prima, nel ‘500, ed è legato alle Repubbliche Marinare; è nato nei grandi mercati come Genova, Venezia, Milano, Ancona, Pisa, etc., in Italia. La grande organizzazione dell’imperialismo capitalista di conquista non è sostenuta dai prìncipi, ma dalle banche, che facevano una specie di contratto-premio a chi dava denaro per sovvenzionare le spedizioni di conquista di territori immensi. Nel ‘500 Venezia diventa una città capitalista e distrugge tutto il mercato europeo immettendovi derrate alimentari che provenivano dal Medio Oriente, dall’Africa, etc., senza preoccuparsi di gettare sul lastrico migliaia di contadini, gli zanni della commedia, costretti a sradicarsi dalle loro terre e a cercare lavoro in città.

Domanda – In questo quadro di crescita di una nuova classe, come si inserisce il discorso della nascita di una nuova cultura?

Risposta – Questa nuova classe, con enormi risorse finanziarie a disposizione, vuole imporre la propria egemonia attraverso dei gesti. Ecco la nascita delle grandi cattedrali del periodo comunale italiano, ecco i palazzi fastosi, ecco i Palazzi della Ragione. Quello di Padova, per esempio, il più grande spazio coperto che esista al mondo, non fu voluto da un principe. Lo volle, invece, proprio quella comunità nuova che aveva bisogno di imporre il proprio prestigio per affermare il proprio potere contro Venezia, ancora guidata dai nobili. Il conflitto tra Venezia – una falsa repubblica, in fondo oligarchica – e una repubblica democratica come Padova è, in realtà, di vasta portata. Investe persino le università: la grande scienza padovana contro quella di Venezia. Il Ruzzante opera a Padova e ha la possibilità di vivere grazie a un cardinale esiliato da Venezia per le sue idee politiche, che a Padova raccoglie e sostiene i fermenti democratici vivi e nuovi. È colpa di Venezia se il conflitto diventa massacro, il massacro di un’opposizione. Inoltre, proprio a Padova maturano i grandi movimenti rivoluzionari del tempo. Galilei non a caso si trova a Padova. Se fosse rimasto lì, nessuno lo avrebbe toccato. Quando va a Fiorenza, cade nella trappola: è lì che lo arrestano; è da lì che va a finire a Roma, dove l’incastrano. L’obiettivo allora è chiaro: a proposito della cultura, dobbiamo capire quanto la borghesia progressista ha preso a piene mani dal patrimonio fertile del semiproletariato e del proletariato. E una volta capite le cose, riproporle al proletariato stesso. È quanto ho tentato di fare col Mistero buffo e altre opere.

Riparte il Chiambretti Night con Eto'o... e una sexy Ainett Torna il programma di Piero Chiambretti che ospita il calciatore Samuel Eto'o

Riparte il Chiambretti Night con Eto’o… e una sexy Ainett Torna il programma di Piero Chiambretti che ospita il calciatore Samuel Eto’o

Domanda – Come può, la scuola, recuperare certe radici contadine e operaie?

Risposta – Credo che lo sforzo più grosso la scuola debba farlo per una verifica soprattutto del linguaggio. L’indagine sulle origine delle lingue è affascinante. La lingua che parliamo e che si impone a scuola è la lingua del potere. Manifestiamo i nostri pensieri attraverso una lingua che è falsa. Subiamo continuamente censure di mille modi espressivi, di forme dialettali, di termini onomatopeici legati al gesto. C’è tutta una lingua legata all’origine del gesto. Il dialetto ha tutta una serie di modi figurativi che possono bene essere introdotti nella lingua. Lo ha dimostrato Rabelais, in Francia. Rabelais ha un linguaggio vivo, straordinario, pieno di invenzioni e di centinaia di modi di dire popolari, del popolo minuto addirittura, ch’egli aveva inserito nella sua prosa scandalizzando la gente di allora. Lo stesso Dante, nel De Vulgari eloquentia, con una paziente ricerca di moduli diversi, vari e infiniti, costruisce uno strumento espressivo che servisse alla borghesia nascente. C’è, al proposito, una frase di un poeta provenzale: «Noi dobbiamo annodare i versi, el vers, adoperando i modi e i termini del volgo, ma annodarli in modo che il popolo stesso non li riconosca. Così, dopo averlo defraudato, glieli imponiamo per farlo sentire ignorante». Ecco un’indicazione di come si muove il potere. Il potere non ha bisogno solo del mercato o del denaro. Ha bisogno di appropriarsi di tutto, del modo di scrivere e di parlare, del modo di costruire e di fare teatro, del modo di addobbare, di camminare, di vestire, etc. Tutto gli è necessario, per imporlo e imporre il proprio prestigio.

Domanda – Quindi la scuola…

Risposta – La scuola deve scoprire queste cose e smascherare l’accorta violenza del potere ma, soprattutto, deve ridare al popolo quello che il popolo ha costruito, fabbricato e inventato.

Domanda – L’animazione e la drammatizzazione, che ruolo pensa possano avere nella scuola?

Risposta – Alla base del problema c’è un equivoco. Il teatro è nato come momento di aggregazione della gente. In alcune grotte pirenaiche, sul versante francese, è dipinto un uomo vestito da capro che danza in mezzo a dei capri. L’esigenza di prendere atteggiamento risale molto indietro nei secoli. Riuscire a entrare nel branco, imparare movenze e atteggiamenti degli animali e imitarli voleva dire per il cacciatore non solo procurarsi più facilmente cibo per sopravvivere, ma anche, allo stesso tempo, ingraziarsi la divinità che sovrastava quei capri e ottenerne il viatico per uccidere. Rito, dunque, e imitazione, ma anche patto collettivo. Il rito dionisiaco, nella sua matrice, è presente dappertutto. Oltre che in Grecia lo troviamo in Scandinavia, in Africa e persino in Cina: al fondo c’è sempre un rapporto uomo-divinità fondato sulla richiesta-concessione del permesso di sopravvivenza. Chi ci dà la vita? È la terra coi suoi prodotti e i suoi animali che, se c’è siccità e manca l’erba, muoiono subito. La terra è la madre di tutti. Nasce, così, il mito della Dea Madre, il cui figlio addirittura si sacrifica per l’uomo: muore, rivive e si offre come carne da mangiare, come sostegno vitale. Del resto, la stessa parola “tragedia” vuol dire “canto del capro, sacrificio del capro”, il capro espiatorio. La prima forma di teatro è questo rito dell’uomo di mangiarsi Dio che è entrato in un capro.

bello donna truccataDomanda – Anche la religione cristiana, nel rito della comunione, mi sembra conservi questo motivo.

Risposta – Certo, il “prendete e mangiate: questo è il mio corpo” è il momento cruciale del rito, nel quale tutti mangiano Dio e si sentono figli di Dio e, come tali, impegnati a legarsi l’uno all’altro e a fare comunità. Ma quel rito, nella sua forma originaria, non era liberatorio; era anche altamente scurrile. Per fare certe azioni, bisognava liberarsi da inutili pudori, eccitarsi, fare l’orgia. Allora si beveva e ci si sbronzava fino a gettarsi alle spalle risentimenti, livori, pregiudizi e complessi. Nel rito dionisiaco le baccanti diventavano terribili: erano quelle che sbranavano il capro, lo facevano a pezzi, lo mangiavano crudo; erano quelle che uccidevano l’uomo. La stessa danza era un complesso di gesti liberatori per ritrovare una comunanza. In essa certe donne non abbastanza affascinanti abbandonavano complessi ed esasperazione, venivano applaudite e abbracciate, si compiacevano di se stesse e si esaltavano. Poi c’era l’orgia, sentita come il momento nel quale tutti gli elementi di una società potessero procreare, e non soltanto i migliori o i più ricchi che avevano una, due, tre capre da vendere o da offrire per potersi sposare: così, tutti indistintamente, uomini o donne che fossero, bevevano a sazietà, menavano le danze e si lasciavano andare lanciandosi parolacce, frizzi salaci e battute spiritose. Questa è la nascita del teatro.

Domanda – Dov’è, e in che cosa consiste, l’equivoco di cui parlava prima?

Risposta – Il teatro, rispetto alla letteratura, ha sempre determinato nel racconto e nell’azione un pensiero chiave. Non a caso Omero era un teatrante; era uno che raccontava nei ritmi, nei canti; raccontava accompagnandosi con lo strumento. Era un fabulatore: che fosse uno solo, o due, o dodici, o un popolo intero, è un altro discorso. E fabulatore è sicuramente quello che ha raccontato Orlando, come tutta la tradizione del popolo non è letteraria. Pensiamo, invece, a Shakespeare. Brecht ha detto una cosa stupenda: “Peccato che Shakespeare sia bello anche da leggere!”. La rappresentazione, insomma, fa parte di una determinata chiave culturale, mentre la lettura è un’esigenza che nasce da un determinato modo politico di imporre al popolo una chiave culturale. Due cose molto diverse, dunque. Rappresentazione significa gesto, tempo, pausa, respiro, risata; significa improvvisazione; significa azione. Invece, se leggi Shakespeare, ti trovi spostato in una chiave che non è quella per cui è nato. Allora, che vuol dire drammatizzare? Purtroppo, nella scuola attuale è falso il discorso della drammatizzazione, perché nasce sempre da una chiave letteraria. Da anni vorrei riuscire a impiantare una scuola per far capire cosa significa, per esempio, il rapporto tra una frase e la pausa. Ma non ho tempo; il lavoro che faccio non mi dà tregua. Una frase io posso dirla in cento modi diversi e la pausa che vi faccio è determinata dal ritmo: se io sono rapido, sviluppo nell’intenzione della pausa. Se poi io, nella pausa, faccio un gesto, determino un’altra chiave che arricchisce il discorso. Le parole sono, quindi, determinate dal gesto, dal ritmo, dal tempo. Inoltre, la frase posso dirla camminando, o scherzando, o gridando: allora, vuol dire che ho venti, cinquanta modi di esprimere lo stesso fatto. Ecco perché il teatro è qualcosa di ben più importante della forma letteraria. Il teatro mi permette di cantare; il teatro smuove attraverso la luce, il buio, uno strumento, il suono; il teatro offre mille suggestioni attraverso la dimensione: posso recitare in piedi, seduto o sdraiato; posso recitare in un capannone, alla Scala, al Palazzo dello sport, in piazza. Tutta questa infinita gamma di possibilità espressive sono negate alla forma scritta. Non esiste ancora una disciplina culturale che abbia approfondito per intero tutto il complesso discorso sul teatro. Il teatro è un’arte con un fondamento scientifico che è zero rispetto a quello di cui avremmo bisogno per conoscerne tutti gli aspetti, tutte le potenzialità, tutta la prodigiosa ricchezza.

bello trucco-nero-delle-labbra-rosseDomanda – Dopo le note polemiche con i dirigenti televisivi, le è stata finalmente data la possibilità di presentare alla massa dei telespettatori alcune delle sue migliori commedie. Che cosa pensa della TV? Quali possibilità offre il mezzo televisivo a chi voglia fare del lavoro politico?

Risposta – La TV è un mezzo di comunicazione straordinario, come il teatro del resto, e, come il teatro o la canzone o l’opera, può essere reazionario o rivoluzionario. Dipende dall’uso che se ne fa. Non è mai la chiave di un’espressione, che poi è tecnica soprattutto, a determinare la funzione del mezzo, ma è l’ideologia che sta dietro al mezzo stesso. No, non c’è dubbio: la TV è uno dei mezzi di comunicazione più belli che esistono. È un mezzo, però; e non si può parlare di mezzi più o meno rivoluzionari e catalogarli. È il loro impiego che conta, e li qualifica o squalifica. È un mezzo, stupendo, che può essere adoperato in chiave reazionaria o in chiave rivoluzionaria. Perché fare le classifiche? È sempre il potere che inventa i livelli, le graduatorie. Che senso ha distinguere qualitativamente fra rivista e opera? Che senso ha dire che la tragedia è migliore della commedia? I Greci hanno sempre guardato con molto disprezzo la commedia, ma, a un certo punto, hanno dovuto accettarla e l’hanno messa in secondo ordine rispetto alla tragedia. Ma è il potere che ha bisogno di questo! Il guaio è che, purtroppo, la TV non l’abbiamo noi in mano. L’avessimo, potremmo cercare di imporre il discorso politico, di inserirci nelle contraddizioni di questo nostro sistema, di stimolare l’anima popolare a una riappropriazione dei valori suoi più tipici.

Domanda – Un’ultima domanda sulla droga. Quale messaggio intende proporre con la sua commedia “La marijuana della mamma è la più bella”?

Risposta – Ho cercato di partire dalla chiave storica, perché la droga è, prima di tutto, un fatto culturale. Dicevo di Dioniso e dei riti orgiastici e liberatori. Il vino è una delle più grandi droghe: dà euforia, appaga e distende. Il pensionato, che non ha più lavoro né interesse alla vita, si aliena, cerca di stordirsi per non pensare. La casalinga frustrata oggi beve Fernet Branca: ne hanno fatto uno apposta per le donne, aromatico e meno amaro, più delicato e più alcolico. In Inghilterra la media delle alcolizzate fra le casalinghe ha superato quella dei camionisti. In Svezia e Norvegia hanno imposto leggi speciali per frenare il bere. In Italia ci sono ventimila morti di cirrosi epatica all’anno per alcolismo. Nei manicomi il 30% sono alcolisti. Ma il potere non si preoccupa di queste cose, gli va bene, ha il mercato buono: sono miliardi che entrano ed escono. Il potere inventa e prende le chiavi che gli servono. Nello stesso tempo la droga è un fatto di classe. Così, mentre è il ricco che consuma la droga, è la droga che consuma il povero. Il ricco beve whisky e si droga, ma riesce sempre a gestirsi; ha incentivi, ha interessi, per cui non fatica a staccarsene. Il povero che si avvicina alla droga lo fa per alienarsi, per dimenticare, per superare la propria disperazione, i disagi, la solitudine, la mancanza di rapporti, l’assenza di prospettive. Ma il discorso ha un altro aspetto. Infatti, per avviare a soluzione il problema – cosa che sembrano volere tutti –, non servono ospedali, né cliniche, né leggi. Gli esclusi vanno recuperati ribaltando il rapporto politico ed economico che condiziona e degrada il tessuto sociale. In Cina si è debellata la droga in pochi anni – ed era ai limiti massimi nel mondo –, perché è cambiato il rapporto fra la gente, il rapporto di interesse e il rapporto di produzione…

bello volto truccatoDomanda – D’accordo, ma non si può aspettare la rivoluzione per frenare il fenomeno…

Risposta – Secondo me, la lotta si può e si deve fare subito, ma in un’altra direzione. Bisogna strappare soprattutto i giovani alla solitudine, interessarli e coinvolgerli aprendo per loro quelle prospettive di lavoro e di vita che oggi mancano, annullare il rischio dello sradicamento sempre sospeso sulla loro testa. Non a caso, da noi, l’alcolismo si sviluppò attorno al 1850, quando furono aperte le prime tessiture, le prime grandi officine, etc. E si sviluppò al Nord, non al Sud: fu proprio lo sradicamento della gente dalla propria terra, dagli affetti e dagli interessi, a costringere il bracciante o il contadino immigrato a darsi all’alcool per dimenticare momentaneamente la precaria condizione della propria esistenza. Allora come oggi passano gli anni e il vecchio operaio torna al Sud e, come d’incanto, guarisce: non beve più; non ha più interesse a bere; tra i suoi trova altri incentivi, altri interessi, altri fatti. È il potere che inventa il discorso della droga, tanto è vero che già nel 1600 arrivavano nelle Asturie navi piene di coca da distribuire gratis ai minatori. La marijuana veniva data a pacchetti ai raccoglitori di cotone per aiutarli a resistere alla fatica, e in quantità tale che oggi si andrebbe in galera. Nell’America del Sud e in Somalia poveri disgraziati si sobbarcano, ancora oggi, turni di sedici ore di lavoro e, per farcela, prendono una droga ricavata da un’erba locale. Dunque, la droga c’è e il potere se ne serve: ne favorisce l’uso, poi pensa di scaricarsi delle gravi responsabilità, andando alla caccia del drogato e punendolo.

(intervista raccolta in collaborazione con Raffaele Di Paolo)

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