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Giuliana Lucchini Della perdita dell’ala (2016) In cammino verso l’autenticità – con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa – Scrivere significa ritirarsi. Ma non nella tenda per scrivere, ma dalla scrittura stessa. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio – Lasciare la parola. Essere poeta significa saper lasciare la parola

Giuliana Lucchini

Il 10 marzo 2017, Giuliana ci ha lasciati, era nata 27 maggio del 1929 a Fivizzano (MC) e viveva a Roma. Ha insegnato Lingua e Letteratura Inglese, cattedra in Liceo Scientifico. Traduzioni di poesia, articoli, recensioni, saggi. I 154 Sonetti di Shakespeare (metro fisso, rima a schema hakespeariano), Edition SignathUr, Dozwil, 2012. Ha curato antologie. Ha curato la pubblicazione in Italia dei poeti James Cascaito (New York), Respite, 2009; e Ana Guillot (Buenos Aires), La Orilla Familiar/La Soglia Familiare, 2009. Fra i suoi ultimi libri, L’Ombra gestuale, 2011 (haiku);  Non morire mai, 2011 (raccontare emozioni); Donde hay música, 2012 (omaggio agli strumenti musicali); Amare,  2013 (approccio filosofico); Della perdita dell’ala, 2016 (semiserio);  Solas Luce, 2016. Alcuni suoi libri di poesia si trovano acquisiti alla National Library of Congress di Washington e alla Public Library di New York..

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Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Per Derrida, «Scrivere significa ritirarsi. Ma non nella tenda per scrivere, ma dalla scrittura stessa. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparlo o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola. Essere poeta significa saper lasciare la parola. Lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto». «Una poesia corre sempre il rischio di non avere senso e non avrebbe alcun valore senza questo rischio».

Scrive Giuliana Lucchini nella poesia posta in exergo al libro:

La Poesia ha perso l’ala
che la portava in alto a vivere di sola luce.
Ė rimasta fra noi mortali.

La poesia italiana dal dopoguerra ad oggi, per ragioni storico-culturali, ha sottovalutato e abbandonato la metafora quale via privilegiata al discorso poetico, l’ha trattata come una sorella bruttina e stupida da non mostrare in pubblico nelle occasioni pubbliche. Il risultato è stato che, senza rendercene conto, abbiamo sposato l’idea assurda che facendo guerra alla metafora si potesse scrivere poesia moderna. Così, privando il discorso poetico della metafora, scrivere poesia è diventata una cosa di estrema facilità, era (ed è) sufficiente mettere in linea (come nella prosa) delle parole, magari lambiccate o prosasticamente attrezzate, per fare poesia. A mio avviso, era (ed è) una via errata che ha finito per portare la poesia italiana in un vicolo cieco.
Basti pensare ad una cosa estremamente evidente: quando sorge il bisogno di una metafora? (lo chiedo ai poeti e ai critici), ma è semplice: la metafora sorge quando ci si trova dinanzi ad una «assenza», quando non abbiamo parole per indicare una «cosa» che altrimenti non potremmo nominare: una «cosa» non esiste se non abbiamo la corrispettiva parola che la indica; e questo che cos’è se non una metafora? La parola (al suo sorgere) è naturalmente una metafora, che poi l’uso di milioni di persone durante decine o centinaia di anni svigorisce e appanna fino a farla diventare parola normale, cioè consunta, consumata, e quindi insignificante. Senza la metafora non potremmo nominare ciò che linguisticamente non appare, ovvero, ciò che è «assente». Se ne deduce che Parola e Metafora vanno di pari passo. In Giuliana Lucchini la metafora per antonomasia è la figura dell’«angelo».

Dirò di più, la poesia di Giuliana Lucchini ha perduto l’Orizzonte, si muove in uno spazio tempo vuoto, a-prospettico. Scrive Nietzsche: «Noi lo abbiamo ucciso – voi e io!.. Chi ci ha dato la spugna per cancellare l’intero orizzonte?… Dove ci muoviamo? Non cadiamo forse continuamente?… Indietro, e di lato, e in avanti – da tutte le parti?».
Il movimento di queste poesie è, appunto, la «caduta» degli «angeli», esseri asessuati e privi di sangue, che non hanno alcuno dei connotati umani, non sanno nulla delle loro angosce e delle loro scarse gioie.

Per Derrida la figura del poeta è l’«uomo della parola e della scrittura» per eccellenza.
Egli è al tempo stesso il soggetto del libro, la sua sostanza, il suo padrone, e il suo oggetto, suo servitore e tema. Mentre il libro è articolato dalla voce del poeta, il poeta si trova ad essere modificato e letteralmente generato dallo stesso poema di egli cui è il padre, ma che producendosi si spezza e si piega su se stesso, diventando soggetto in sé e per sé: «la scrittura si scrive, ma insieme si immerge nella propria rappresentazione». In questa situazione, l’unica esperienza di libertà a cui il poeta può accedere, la sua «saggezza» consiste tutta nell’attraversare la sua passione, ovvero nel «tradurre in autonomia l’obbedienza alla legge della parola», nel non lasciarsi sopraffare, abbassare a semplice servitore del libro. Continua a leggere

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