L’umano non è per Giorgio Agamben, come per la tradizione della metafisica occidentale, Zoon logon echon, l’animale che ha il linguaggio, ma piuttosto l’animale che, a differenza degli altri animali che «sono sempre assolutamente nella lingua», ne è privo e deve riceverlo dal di fuori, e quindi dimora nella scissione tra lingua (il sistema dei segni) e parola (l’uso). La teoria agambeniana dell’«in-fanzia», come luogo nel quale si è privi di lingua, si pone dunque esplicitamente come uno svolgimento della distinzione tra semiotico e semantico formulata da Benveniste. Forse proprio in questa sottilissima linea divisoria tra semiotico e semantico è possibile per un poeta di oggi situare il linguaggio poetico come linguaggio già pronto, ready language, una zona neutra di indistinzione tra il sistema semiotico e il sistema semantico.
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Ready language poetry di Giorgio Linguaglossa
Caro Giorgio,
raccolgo con grande piacere il tuo invito a sottoporre ai lettori dell’ “Ombra delle Parole” questo profilo della mia storia poetica.
Ho sempre amato la poesia e la sua capacità di “curvare” le parole, come frutto dell’attrazione per la magia della parola e per la possibilità di plasmarla. Come tanti, ho cominciato a cimentarmi con i primi versi in età tardo-adolescenziale, per avviarmi a dei tentativi più “seri” e “sensati” attorno ai vent’anni, in un contesto culturale caratterizzato da interessi estremamente eclettici, culminati in un percorso di studi storico – antropologici, ambito nel quale successivamente sono stato anche ricercatore e che tuttora continuo a seguire come cultore della materia. Se da un lato tale versatilità mi ha permesso di individuare da subito la capacità della poesia di farsi vettore di questa visione olistica della vita e del mondo (tanto che ho sempre amato definire la mia poesia “antropologica”) dall’altro lato ne ha segnato probabilmente un limite nella ricerca iniziale sul linguaggio, in quanto ingabbiata nella commistione con la passione, altrettanto pregnante, per la musica e dall’idea – che ha accompagnato a lungo la mia versificazione in quel periodo – della ricerca di un registro popolareggiante, ricerca mutuata tanto dall’influenza cantautorale e dal filone musicale folk-rock, quanto dal mio retroterra antropologico. Se per un verso ciò mi ha conferito subito quel gusto per la narrazione e l’astrazione dalla logica dell'”Io” e dalle tendenze della poesia salottiera ed elitaria, dall’altro ha determinato il limite, in quella fase, di un indugio ed un compiacimento per il gusto folkorico – comunque qui inteso nel senso nobile, cioè antropologico del termine- per un lirismo esplicito, ostentato. Il risultato, al contrario delle premesse, finiva per appiattire il possibile spettro espressivo dei miei versi, sacrificandone l’eclettismo e ciò nonostante da sempre abbia attinto a letture e riferimenti poetici i più disparati, di differenti tradizioni geografiche e linguistiche e di diversa impostazione stilistico – espressiva, ma se ciò penetrava nella mia scrittura di allora con vari stimoli e suggestioni, non riusciva ancora ad incunearsi nella mia scrittura dal punto di vista tecnico.
I modelli prevalenti finirono per essere poeti sicuramente immensi (senza alcuna lontana pretesa di volermi a loro assimilare) come Yeats o Garcia Lorca, ma che presto ho cominciato ad avvertire distanti dalle mie istanze poetiche: ferma restando l’importanza e la centralità assunta nella mia formazione dalla cultura popolare, cominciavo a rendermi conto del fatto che essa non fosse un monolite, ma che al contrario, essendo a sua volta coinvolta nei processi di trasformazione del mondo e della società tutta, soggetta a mutamenti di paradigmi e declinazioni ed ad ampliamenti di territori ontologici.
Ecco un esempio di “parti” di quest’epoca: nel primo caso si tratta di un brano composto nel dialetto di Barletta – la mia città – naturalmente seguito dalla traduzione in italiano, ed il secondo in italiano.
Un amore di rosa
Giugne ièrre ‘na nàve de cundrabbandiére
ca da sope ‘e pelùne arruave abbásce ‘o puorte
e assèvene ‘i menénne a aspettà i frastière,
assave a zinghere ca addevenave ‘a sòrte.
Luglie profumave de cièlse e de lemone
e de promèsse ‘nu fagugne d’a condrore;
stèvene ciènde rose sope ‘o balcone
e da nbiètte te zumbave ngánne ‘u core.
A agòste scettièste nu sòlte abbásce ‘o puozze
che ‘na lèttre lôrde, ráchele de sánghe
e rendrunave rête ‘e iárevere ‘a carròzze,
ma ‘u bbêne nôn vêne crè e pscrè nemmánghe.
Traduzione
Giugno era una nave di contrabbandieri
che dalle pozzanghere arrivava dritta al porto
uscivano le ragazze ad aspettare i forestieri
e usciva la zingara che leggeva la sorte.
Luglio profumava di gelsi e di limone
e di promesse nel favonio della controra;
c’erano cento rose sul balcone
e il cuore dal petto ti saltava in gola.
Ad Agosto gettasti un soldo nel pozzo
con una lettera, rantolo di sangue
e riecheggiava dietro l’albero la carrozza,
ma l’amore tuo non arriverà domani e neanche dopodomani.
Il volo
Gli occhi tornano sempre
dove si sono posati.
Così ogni notte
liberato il mio inquieto colombo,
raccolgo
come contrabbandiere di confine
il povero bagaglio dei miei ricordi
ed attraverso i sentieri tracciati.
Sono ampi spazi
disseminati nel bianco fragore di case
col volto dei millenni,
e suoni
riecheggianti nelle stanze
dalle strade mute,
voci di bambini
sospinti dal vento
per le valli.
Sono mani dure
ed occhi rugosi di contadini
asserragliati nelle loro memorie
squarciate dagli inverni,
e donne che cuciono
la trama sottile di un tempo impari,
inebriate di sole
che esonda dai muri d’ombra
le loro ali di cera.
Sono stazioni scomparse
tra anfratti di treni a vapore,
che rifrangono accenti di giorni passati
mescolati
agli odori del mezzogiorno
ed alle grida dei venditori.
Sono sfumature di bianco e nero
e contorni di terra e sangue
che la storia
non cancellerà.
Gli occhi tornano sempre
dove si sono posati.
Penso che appaiano fin troppo evidenti i richiami ad immagini evocative della cultura contadina ed i riferimenti ad una poesia popolareggiante liricamente ridondante.
Se c’è un elemento che ritengo essere stata invece un’intuizione interessante è la modalità con cui ho fin da subito esperito l’uso delle lingue locali: paradossalmente, nonostante la pervasione di questo lirismo popolareggiante, cui apparentemente il dialetto è subordinato, l’idea del ricorso alle lingue locali è invece stato immediatamente associato più alla ricerca di una koinè universale, al punto che scritti che potrebbero sembrare nati da episodi di vissuto locale, affondano la loro genesi in esperienze o vissuti connessi ad una formazione che mi ha sempre fatto vedere nelle radici un trampolino da cui spaziare verso il mondo, per cui quest’attitudine antropologica è corrisposto anche ad un continuo ampliamento del bacino geografico dei miei interessi. In effetti, tale afflato si è accompagnato anche ad una robusta conoscenza linguistica (mi sono dilettato anche nella composizione – estemporanea in verità – in alcune lingue estere di mia conoscenza) e conseguentemente nella possibilità di viaggiare molto, cosa che ha influenzato le mie suggestioni poetiche, ma prediligendo stilisticamente farle convergere in una sorta di declinazione universalistica che mi permettesse l'”accorciamento delle distanze”, attraverso un processo di contaminazione e di traduzione, una una sorta di Bringing it all back home, per la quale necessitavo di una lingua affettivamente vicina al mio vissuto personale, ma al tempo stesso neutra: disegno al quale le lingue locali della mia area si prestano perfettamente per il fatto di non possedere una tradizione poetica radicata e di essere dunque sganciate da dettami “di scuola”. Risulta però evidente a posteriori come anche questa potenzialità del registro linguistico, rimanesse compressa in un quadro eccessivamente lirico – folkorico.
Alla fine degli anni ’90, ho cominciato a percepire una distanza sempre più stridente da questo modo di fare poesia, avviando un percorso palingenetico, abbinato non solo ad una necessità di rinnovamento personale della mia versificazione, ma anche – in un contesto in cui nel frattempo avevo cominciato ad ampliare i miei orizzonti di conoscenza poetica e del panorama della produzione poetica contemporanea – dell’inderogabilità per ogni poeta, anche il più modesto, di cercare di offrire un contributo al progresso delle attività artistiche e del sapere, per testimoniare nella propria opera il proprio tempo.
La “prima pietra” di questo percorso di rinnovamento è stato l’incontro con la poesia di Paul Muldoon, poeta nord-irlandese considerato la voce vivente più alta della poesia in lingua inglese con il suo stile fortemente allusivo e talvolta criptico, l’ironia ed autoironia, con i giochi di parole ed una musicalità “atipica”; un poeta di transizione se vogliamo, tra una poesia ancora “oggettiva”, ma con una complessità architettonica già straniante e ri-strutturante. Un poeta, Muldoon, che adotta in alcuni capitoli della sua produzione, anche la poesia narrativa, ma secondo la consuetudine “alta” tipica in questo senso della poesia anglo-sassone, che quasi contemporaneamente mi ha dischiuso le porte all’approfondimento anche di altri poeti, in particolare quella di altri due poeti irlandesi: Seamus Heaney e Patrik Kavanagh, sebbene tra loro molto diversi.
Tra i miei scritti di quel periodo (siamo ormai all’inizio degli anni 2000) ce n’è forse solo una che può avere un barlume di dignità, anche in questo caso composta in barlettano:
U Spusalizzie
Atténəmə jêrə də Cérəgnolə
manəsciavə i parolə accomə e curtiddə;
mamminəmə jêrə andrəsànə,
propriə u pajeisə d’i zappatourə e di bbàbunə
ndò i dibbətə pəsèvenə
accomə a na zochə ngánnə.
Na sciurnàtə appêsə də Márzə,
nonònnə facèttə mbáccə ‘a figghjə:
“Nan nə tənéimə daggè abbastánzə de uájə,
ng’i vuléimə scì a truà a fòrzə? Cə jə, tə fêtə
l’árjə ca tə nə vu scì da ddò?”, chə l’ucchjərə appəcciàtə.
‘A sêrə, doppə ca fərnavə də cusì,
mamminəmə assavə i fotograféje
da ìində o tərèttə,
adunénnə i pənzìirə nzìimə o ppànə da sope a távələ;
méndrə atténəmə sə sciavə a còlchə e sə sciuscelavə
ch’i rraggiunamìinde sou; u prèstətə da cercà a bánghə, a máchən-a novə,
i bastárdə ch’ i mannèvənə a schəmmunəchə.
Il matrimonio
Mio padre era di Cerignola
maneggiava le parole come coltelli;
mia madre era andriese,
proprio la città dei contadini e dei “signorsì”
dove i debiti pesavano
come una corda intorno al collo.
Un giorno incerto di Marzo
mio nonno disse rivolgendosi a sua figlia:
“Non abbiamo già abbastanza guai,
da andarceli a cercare a tutti i costi? Cosa c’è, ti puzza
l’aria, che vuoi andar via da qua?”, con gli occhi accesi.
Alla sera, dopo che finiva di cucire,
mia madre tirava fuori le fotografie
dal cassetto,
raccogliendo i pensieri insieme al pane sul tavolo;
mentre mio padre andava a dormire e si gingillava
con i suoi ragionamenti; il prestito da richiedere in banca, la macchina [nuova,
i bastardi che gli portavano sfortuna. Continua a leggere