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Analizzando il rapporto che lega Dante alla Città Eterna, occorre anzitutto distinguere fra il Dante reale, nella sua concreta esperienza biografica, e il Dante ideale, proiettato in esperienza di pensiero. Nel primo caso parleremo di “Dante a Roma”; nel secondo (che il primo racchiude) di “Dante e Roma”. E sì, perché Dante a Roma c’è stato, almeno una volta: un soggiorno che gli cambia la vita, in tutti i sensi, e lascia tracce indelebili nel corpo stesso della sua opera. Tracce così vive e precise che sembra difficile dubitare della visione diretta di ciò che nomina e descrive. Gli studiosi si sono da sempre sguinzagliati sulle orme del Dante visitatore, per raccogliere i suoi “souvenir” romani. Fra i quali ricordiamo i più celebri, probabilmente nati dall’esperienza del Giubileo del 1300: lo smistamento dei pellegrini in due colonne a doppio senso su Ponte S. Angelo:
Come i Roman per l’esercito molto,
l’anno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo colto
che dall’un lato tutti hanno la fronte
verso ‘l castello e vanno a Santo Pietro
dall’altra sponda vanno verso il monte
(Inf. XVIII, vv. 28-33);
la pina bronzea di S. Pietro cui viene paragonata la faccia “lunga e grossa” del gigante Nembrotte (Inf. XXXI, vv. 57-58); Montemario (Montemalo), messo dall’avo Cacciaguida in relazione con il colle Uccellatoio di Firenze (Par. XV, vv. 109-110); e la “Veronica nostra”, reliquia già famosissima, esposta per l’occasione a S. Pietro: era l’immagine di Cristo stampata nel panno che la leggendaria Veronica gli aveva offerto perché si asciugasse il viso, durante la salita al Calvario (Par. XXXI, vv. 103-111). Nel nome di Montemalo può riassumersi la suggestiva visione dall’alto che, della Città Eterna, si apriva a quanti arrivassero da nord.

Panorama di Roma attuale, visto da Montemario
Uno sguardo che poteva allungarsi fino al mare, nelle distese del cielo infiammato dal sole quando «quel da Roma» (cioè colui che guarda da Roma) «il vede quando cade» (cioè lo vede tramontare) «tra Sardi e Corsi» (cioè tra Sardegna e Corsica, nel mar Tirreno): sono i vv. 79-81 del XVIII del Purgatorio, e Dante sta probabilmente rievocando l’esperienza di uno degli ineffabili, struggenti tramonti romani, visto da Montemario. Ma i cercatori di tracce spesso esagerano: come il Bassermann, che invocava l’esplorazione dell’interno del Colosseo per la concezione dantesca della struttura infernale. È anche da escludere la tradizione della locanda dell’Orso, che mai poté ospitare Dante poiché quattrocentesca.
Che Roma vide Dante al suo arrivo? Come apparve ai suoi occhi? Rovinata, desolata, decaduta. Una campagna, intorno, arida e giallastra d’argilla e di secchi pascoli, sparsi di armenti e di greggi. Radi casali, circondati di orti e vigne. E un minaccioso sorgere, a sbarrare le strade irregolari, pietrose e sconnesse, di rozze torri e castelletti. Il centro della città era fortificato: non per comune difesa, ma per contrasto prepotente di famiglie (Savelli, Pierleoni, Orsini, Colonna, Frangipani, Annibaldi). Isolate, in mezzo alla campagna, le basiliche di S. Paolo e S. Lorenzo. La Roma medievale aveva soppiantato e in parte distrutto quella classica, ristrettasi a un quarto. Trentacinquemila abitanti contro i novantamila della florida Firenze. E, tuttavia, la presenza del papa garantisce Roma nella sua funzione di città-santuario, meta costante di pellegrinaggi (con buona pace dei romani che ci campano: bottegai, locandieri, artigiani, contadini, cambiavalute, etc.). Parleremo tra breve della grande occasione che, anche e specialmente in senso economico, rappresentò per tutti il Giubileo del 1300.
Ora però non è più possibile differire l’urgenza di un passo a ritroso, che consenta di illuminare lo scenario storico, italiano ed europeo, in cui ci stiamo muovendo. L’Italia è lacerata dal contrasto fra Guelfi e Ghibellini, sul modello originario della Germania (discendenti gli uni dal duca Welff, fondatore della casa di Baviera; gli altri dagli Hohenstaufen, duchi di Svevia e signori del castello di Weibling): i primi aperti verso il potere di Roma; i secondi rigidi difensori dell’indipendenza da ogni ingerenza pontificia. Papa e Imperatore, dunque: le massime autorità medievali.
È tuttavia un contrasto da adattare al “particulare” italiano, irto di faziosità localistiche, in coincidenza di certi interessi: contrassegnato dunque dal trasformismo, da un furbesco ondeggiare tra papato e impero a seconda delle circostanze. Perché, ad esempio, Firenze è guelfa? Perché i banchieri fiorentini (che prestano fiorini ai principi di tutta Europa) amministrano gli affari della Chiesa, riscuotendo in suo nome le “decime” in tutto l’orbe cattolico. I finanzieri del papa sono potentissimi giacché protetti da una garanzia metafisica: il papa può scomunicare i debitori insolventi. Così i fiorentini si infilano ovunque: Bonifacio VIII li definisce «quinto elemento del mondo». Getta così il suo occhio goloso sulla Toscana per farne un suo feudo. E com’è la Firenze guelfa di quegli anni? Una città in pieno sviluppo economico, dominata dal ceto borghese e imprenditoriale. Con gli “Ordinamenti di Giustizia” di Giano della Bella (1293), le leve del potere sono nelle mani dei mercanti. Gli aristocratici vengono esclusi dalle cariche pubbliche; poi, con i “Temperamenti” del 1295, possono accedervi purché iscritti ad una corporazione. Dopo la vittoria sui ghibellini di Arezzo a Campaldino, l’11 giugno 1289 – battaglia cui partecipa pure Dante, ventiquattrenne, tra i 150 feditori a cavallo – i guelfi fiorentini si dividono in due correnti, fieramente nemiche: guelfi bianchi, afferenti alla famiglia dei Cerchi (capitanata da Vieri dei Cerchi); e guelfi neri, afferenti alla famiglia dei Donati (capitanata da Corso). I neri sono filopontifici a oltranza: Bonifacio VIII ha assegnato agli Spini, di parte nera, il monopolio degli affari della Curia. Quindi – non illudiamoci – i bianchi sono contro Roma soprattutto per la delusione di essere esclusi da quegli affari. Ma Dante, iscrittosi all’Arte dei Medici e degli Speziali, scende nell’arengo politico per impegno etico e civile, non per accordi o compromissioni nelle anticamere dei guelfi. Imparentato coi Donati per mezzo della moglie Gemma (cugina secondaria di Corso), amico di Forese, è tuttavia dalla parte dei Bianchi, vicino loro per temperamento, ideali, simpatia. Dopo qualche incarico diplomatico (in qualità di ambasciatore di Firenze e mediatore politico), viene eletto priore, il 15 giugno 1300. È proprio al bimestre priorale che più tardi farà risalire la causa di tutte le sue sventure. Oltre che a Bonifacio VIII.

Bonifacio VIII
Chi è questo Benedetto Caetani di Anagni, papa Bonifacio VIII? Un uomo che, in forza e a dispetto del proprio ruolo, è pienamente implicato nelle vicende che insanguinano di fiera discordia la lotta tra le famiglie patrizie romane. Odia i Colonna per la loro tendenza ghibellina, ma anche perché appoggiano i francescani spirituali; i quali non riescono a consolarsi per la caduta del loro idolo (Celestino V), e considerano Bonifacio VIII un papa illegittimo, usurpatore, simoniaco, incarnazione stessa della chiesa temporale che condannano e che, annunciando il prossimo avvento del regno dello Spirito Santo, ambiscono riformare (ma anche perché Bonifacio VIII ha abrogato gli atti sottoscritti da Celestino a loro favore). Bonifacio odia i Colonna al punto di bandirgli contro addirittura una crociata, di cui naturalmente approfittano gli Orsini per annientare i loro avversari, e che porta all’assedio di Palestrina, roccaforte colonnese, di cui Bonifacio ordina la distruzione. Pontefice discutibile ma abilissimo uomo politico, Bonifacio costringe vescovi, arcivescovi e abati ad accettare prestiti forzosi, col tasso del 60%, dalla banca degli Spini di Firenze, cui è interessato il nipote Jacopo. Gli Spini lo riforniscono anche di pellicce e velluti. Veste con paludamenti orientaleggianti, più da satrapo che da pastore d’anime. Incede nei cortei con la spada in una mano, nell’altra la croce: preceduto da un araldo che lo proclama a pieni polmoni “sovrano universale”. Pieno di albagia e di fasto; iracondo, beffardo, privo di simpatia umana: «amato da pochi, odiato da moltissimi, temuto da tutti», scrive il Muratori. Autoritario, non tollera obiezioni. È ammalato di grandeur teocratica. Ed ecco il suo trionfale colpo di genio: il Giubileo. Già preannunciato nel Natale del 1299, viene promulgato ufficialmente con la bolla papale del 22 febbraio 1300: verrà concessa indulgenza plenaria a tutti i fedeli, purché giungano a Roma, entro l’anno, a pregare sulle tombe di S. Pietro e S. Paolo. Visita da prolungarsi per almeno 15 giorni, per i forestieri, e 30 giorni, per i residenti. Esclusi soltanto i “nemici della Chiesa”: gli odiati Colonna, re Federico d’Aragona e i cristiani trafficanti con i Saraceni.

I pellegrini del Giubileo del 1300 giungono a Roma
L’affluenza è senza precedenti: Roma diventa una Babele di lingue e costumi. A decine di migliaia, da tutta Europa, ci si fa romei. Dall’alto dei colli, così, si può godere la scena grandiosa: uno spettacolo di moltitudini affluenti da tutti i punti cardinali: a piedi, a cavallo, sui carri, carichi di bagagli: anziani sulle spalle dei giovani, come Anchise su Enea. Arrivati in vista della Città Eterna, come naufraghi che scorgono la terra, i pellegrini cantano: «O Roma nobilis… : O Roma nobile, regina del mondo, la più eccellente di tutte le città, rossa per il rosso sangue dei martiri, candida per i bianchi gigli delle vergini, noi ti salutiamo e ti benediciamo per tutti i secoli: salve». Nella calca, più d’uno muore schiacciato. I romani si organizzano per l’accoglienza. Vettovaglie abbondanti e a buon mercato, ma alberghi piuttosto costosi. In tutta Roma è grande il commercio di reliquie, immagini sacre e reperti antichi. I pellegrini si fanno anche turisti: si soffermano estatici a contemplare le rovine, col libro dei Mirabilia in mano. Un sentimento di stupore che provò anche Dante, «veggendo Roma e l’ardua sua opra», se lo utilizza nel XXXI del Paradiso per dipingere quello, tanto maggiore, che lo pervade dinanzi alla mistica rosa dei beati. Bonifacio può assaporare in pieno il senso della propria autorità.
E poi, che non guastava affatto, furono floridi i conti dell’Anno Santo: sulle tombe dei due apostoli, dall’alba al tramonto, monete di tutte le nazioni venivano rastrellate da due instancabili chierici: «rastellantes pecuniam infinitam», scrive un cronista dell’epoca. Nella concezione bonifaciana, coerentemente espressa in decreti e bolle (di cui il vertice è rappresentato dalla Unam Sanctam del 1303), la sfera del potere ecclesiastico è dilatata al punto di assorbire e sottomettere quello temporale. La potestà papale non conosce praticamente più limiti: è “plenitudo potestatis”, di origine divina: ogni umana creatura deve essere perciò interamente sottomessa al papa. Ma Bonifacio si dimostra miope nell’avvertire i limiti della sua autorità. E forse alza i toni nella misura in cui sente che il terreno comincia a mancargli sotto i piedi. Anche lo strumento della scomunica, a forza di usarlo, ha perso di efficacia. Gli imperatori di Germania (come Adolfo di Nassau o Alberto d’Austria) si disinteressano dell’Italia, il «giardin de lo ‘mperio», ma la Chiesa sembra incapace di riempire il vuoto di potere, legando a sé le genti e realizzando il principio guelfo: «i rematori che guidano la navicella di Pietro sonnecchiano», scrive Dante nella VI Epistola.
A Firenze, frattanto, le ostilità fra Bianchi e Neri si aggravano: ormai è guerra aperta. Bonifacio ha nominato Matteo d’Acquasparta legato papale per la Toscana: dovrebbe in teoria pacificare le opposte fazioni, in realtà si adopera segretamente a rafforzare i Neri. Ma poi, subìto un attentato da un popolano, abbandona la città. Bonifacio chiama allora il conte Carlo di Valois, fratello di Filippo IV il Bello. Gli chiede di assoggettare i ghibellini italiani. Lo alletta con grandi promesse: il titolo di senatore e la mano di Caterina di Courtenay. Il Valois, truppe mercenarie al seguito, si reca direttamente ad Anagni. Presi gli accordi necessari, Bonifacio – il 3 settembre 1301 – lo nomina capitano generale dello Stato della Chiesa, e gli affida il compito di riportare la pace in Toscana. Il papa è certo di poterlo utilizzare per i suoi fini egemonici: lo manda alla “fonte dell’oro”. Carlo di Valois muove da Anagni prima del 20 settembre e alla metà di ottobre è a Siena. Dante è fra i più accesi nel subodorare l’imminenza del pericolo; fra i più tenaci nel capeggiare una minoranza oltranzista filo-popolare, di irriducibile opposizione alle mire del papa. Viene decisa un’estrema e tardiva mossa: inviare un’ambasceria presso Bonifacio. Uomini fiorentini – fra cui Dante – e forse anche messi di Bologna, partono ai primi di ottobre: troppo tardi.
«Giunti li ambasciatori in Roma, il Papa gli ebbe soli in camera, e disse loro in segreto: Perché siete voi così ostinati? Umiliatevi a me: e io vi dico in verità, che io non ho altra intenzione che di vostra pace. Tornate indietro due di voi; e abiano la mia benedizione, se procurano che sia ubbidita la mia volontà». (Cronache del Compagni).
Tra i due mandati indietro, sicuramente non c’è Dante (personaggio ormai molto in vista). Resta invece a Roma, in attesa di nuove istruzioni: almeno fino ai primi di novembre, quando gli giunge notizia (ma forse a Siena, sulla via del ritorno) che a Firenze la situazione è precipitata, e quindi avverte la vanità del suo incarico. I Bianchi sono caduti, messi in fuga dal nuovo governo nero. È il caos: violenze, repressioni, distruzioni, incendi e saccheggi di case (compresa quella di Dante).

Hieronymus Bosch
Torna pure Matteo d’Acquasparta. Dante, condannato in contumacia prima a un’ammenda di 5000 fiorini, poi alla pena di morte, non metterà più piede a Firenze. Glielo preannuncia l’avo Cacciaguida in Paradiso:
Qual si partì Ippolito d’Atene
per la spietata e perfida noverca
tal di Fiorenza partir ti conviene.
Sull’ambasceria romana sono state sollevate varie ipotesi: se ad esempio sia stata ricevuta da Bonifacio nel palazzo di Anagni o a Roma in Vaticano; se dunque Dante si sia spinto fino alla città natale del Caetani, dove questi era solito trattenersi fino all’autunno inoltrato. Ovvero (altra ipotesi): il Compagni, scrivendo che Dante «era anbasciatore in Roma», potrebbe riferirsi a una precedente ambasceria fiorentina (11 novembre 1300). In tal caso Dante a Roma ci sarebbe stato una volta sola: come romeo e, al tempo stesso, come ambasciatore. Un unico soggiorno, nell’autunno dell’Anno Santo. Risulterebbe peraltro strana, e provocatoria verso la terrificante suscettibilità di Bonifacio, la partecipazione all’ambasceria da parte di un uomo che, nel corso del 1301, come mai prima di allora, aveva potentemente tuonato contro le ingerenze pontificie.