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Roma, 12 giugno ore 17.30 sede della FUIS p.za Augusto Imperatore, 4 Presentazione del libro di poesia del poeta albanese Faslli Haliti – Interventi di Gëzim Hajdari, Giorgio Linguaglossa e Marco Onofrio sarà presente l’autore – POESIE SCELTE di Faslli Haliti  Cura e traduzione di Gëzim Hajdari da Poesie scelte (1969-2004) EdiLet pp. 150 € 16 (Parte II)

Faslli Haliti copertinaRoma, 12 giugno ore 17.30 sede della FUIS p.za Augusto Imperatore, 4 Presentazione del libro di poesia del poeta albanese Faslli Haliti – Interventi di Gëzim Hajdari, Giorgio Linguaglossa e Marco Onofrio sarà presente l’autore

Presentazione di Gëzim Hajdari

Il poeta albanese Faslli Haliti credeva come Majakovskij ed Esenin in un socialismo dal volto umano. I due poeti della Russia sovietica hanno cantato e sublimato con grande fervore, seppur per breve tempo, la rivoluzione bolscevica e il compagno Lenin. Sulle orme di Majakovskij e di Esenin iniziò il suo cammino poetico anche il giovane poeta albanese di Lushnje. Erano gli anni ’60 quando Haliti scriveva: «Per voi, Partito ed Enver Hoxha[1], noi dormiamo anche sul ghiaccio / per voi noi ci copriamo con lenzuola di neve». Il poeta di Lushnje ha amato molto nella sua gioventù i cantori della madre Russia e, dopo la tragica fine del comunismo nella sua Albania, Haliti diede la ‘colpa’ proprio ai suoi maestri sovietici perché aveva creduto ciecamente in loro. Così come Majakovskij ed Esenin, anche il poeta Haliti, pur in una dimensione assai diversa, rimase ‘vittima’ dell’utopia marxista, che fece decina di migliaia di morti in Albania seminando in tutto il Paese terrore, morti, sangue e distruzione di massa.

Faslli esordisce nel panorama poetico albanese alla fine degli anni ’60. Proprio nel 1969 venne pubblicata la sua prima raccolta, Sot (Oggi). I suoi versi portano un nuovo respiro poetico nel panorama del realismo socialista, l’originalità, la sobrietà del pensiero, nonché un forte senso critico nei confronti della burocrazia del regime. Il suo linguaggio è lapidario e tagliente. L’intensità del verbo e la particolarità dello stile, fecero attirare l’attenzione dei lettori e della critica ufficiale. Questa silloge vinse il secondo premio nazionale per la poesia. Haliti è di origine contadina, e come tale, portava nei suoi testi la musicalità della campagna, le voci della vita e l’angoscia del vivere quotidiano. Profumi campestri, stagioni, colori, simboli e figure mitologiche percorrono la geografia del suo io poetico, come sfida alla retorica della cultura ufficiale del regime. Fermezza e ribellione convivono nel suo messaggio poetico.

Alcuni suoi testi furono dei veri e propri «manifesti» che colpivano senza pietà il cuore della burocrazia del regime comunista. Si può dire che la parte più interessante della sua produzione, come per la maggior parte dei poeti del blocco sovietico, rimane quella scritta sotto la dittatura comunista, e non è un caso. Basterebbe Njeriu me kobure (L’uomo con la pistola) per capire la forza dei versi e l’impatto che questo testo ebbe sui lettori negli anni ’70. Questi i versi: «Lui aspetta che tiri vento / Non per vedere gli alberi spogli / Non per veder cadere le foglie gialle / Ma per far alzare il lembo della giacca / E far vedere la pistola nella cintola. / Lui aspetta che venga la primavera / Non per mietere e falciare / Ma per togliere la giacca / E far vedere sotto la giacca / La pistola[2]». Questo testo è stato giudicato sovversivo e revisionista, e aspramente criticato durante il IV° famigerato plenum del PCA, nel ’73. Che condannò in prigione decine di intellettuali e scrittori accusandoli di essere influenzati dall’arte borghese dell’Occidente.

Faslli Haliti

Faslli Haliti

Erano gli anni in cui la critica ufficiale insisteva perché nell’arte si rispecchiassero ancora maggiormente gli insegnamenti e le idee del Partito; gli anni della pianificazione della nuova estetica di Stato e dell’affermazione dell’uomo nuovo del socialismo, plasmato dal partito e forgiato sotto l’incudine della classe operaia e contadina; “l’uomo muscoloso e stakanovista” che vigila, giorno e notte, per difendere le vittorie e la patria dai nemici. Nelle opere letterarie, i temi esistenziali e metafisici, come per esempio il sentimento di oppressione e di incertezza quotidiana, erano proibiti. Persino le parole ‘amore’, ‘morte’, ‘buio’, ‘freddo’, ‘angoscia’ venivano considerate pericolose. Coloro che osarono rompere col ‘pesante silenzio’, che aveva cancellato memoria e sogni di libertà, lo pagarono a caro prezzo. Il valore di un’opera si misurava rispetto alla sua forza nel servire il partito, le masse e il socialismo reale. Lo slogan del “realismo socialista” era: «Il poeta dev’essere l’occhio, l’orecchio e la voce della classe», motto che proveniva ovviamente dalla letteratura madre dell’Unione Sovietica.

Il terrore continuo e sistematico del regime nei confronti degli uomini di cultura soffocò gli spazi e l’energia della Parola. Sul palcoscenico insanguinato della poesia albanese si recitava la più fosca tragedia del tempo. Di fronte a questa tragedia umana, a questa oppressione costante, per sopravvivere spiritualmente e artisticamente i poeti rivolsero lo sguardo alle tradizioni e alla poesia del passato. Così la linfa della loro ispirazione diventò la tradizione orale e l’epica. Per sfuggire alla censura, Haliti si rivolge al mito e all’allegoria per esprimersi. La sua parola affonda le radici nel mito classico greco-latino per rileggere la realtà; la sua poesia divenne quasi un gioco fiabesco, in cui s’intrecciano il reale con il surreale. Ma i censori del regime vigilano, non si fanno sorprendere per fermare in tempo il poeta ribelle.

La macchina inquisitoria di Hoxha praticava mille forme diverse di repressione per stritolare i “nemici della nazione” e del comunismo. All’occhio vigile dei guardiani del regime nulla poteva sfuggire. Decine di poeti e scrittori vennero allontanati, mandati nelle periferie o nelle campagne per la rieducazione ideologica. Certi furono imprigionati e i loro libri messi al bando. L’elenco dei poeti perseguitati dal regime è lungo e tragico. Le milizie di Enver Hoxha controllavano ogni angolo della vita culturale del Paese. Per il dittatore, lo scrittore era semplicemente uno strumento nelle mani del partito per l’educazione comunista del popolo, il braccio destro del potere: per questo si affermava che, in Albania, la letteratura era nata nel 1941 con la fondazione del Partito Comunista. Il marxismo divenne l’unico principio estetico della poesia e dell’arte.

Faslli Haliti

Faslli Haliti

Al poeta Haliti venne tolto il diritto di pubblicare per 15 anni consecutivi: fu mandato in campagna per essere «rieducato», in quanto persona indesiderata dal Partito. Per diversi anni, pur essendo professore di italiano e di francese, lavora dietro il carro trainato dai buoi nella cooperativa agricola di Stato, a Fiershegan, provincia di Lushnje. Nessuno degli operai e dei contadini poteva rivolgergli la parola, perché egli era considerato dal Partito un “reazionario”.

Il pretesto per colpire il poeta di Lushnje fu il poema Dielli dhe rrëkerat (Il sole e i ruscelli), pubblicato per la prima volta il 16 dicembre 1972 nel settimanale «Zëri i rinisë» (La Voce della gioventù). La sua apparizione nella rivista suscitò scalpore e indignazione tra gli alti dirigenti del PCA. Costoro organizzarono riunioni e dibattiti pubblici in cui sia il poema che l’autore vennero aspramente criticati. Secondo la censura, “Il sole e i ruscelli” era frutto di una confusione ideologica e politica del poeta che travisava la realtà socialista e il ruolo del Partito, minandone così l’unità con il proprio popolo. I primi versi del poema «Mentre il tetto della mia patria è celeste, ottimista. / Il tetto della mia casa è quello di una stamberga», divennero un pretesto per attaccare e denunciare l’autore. Haliti aveva osato troppo. Con un coraggio inaudito invita il popolo a spezzare “i denti alla burocrazia”. Cito: «Ordine / con il pugno della classe operaia / spezzate i denti / ai compagni. / Per spezzarli ci vogliono pietre / che non abbiamo[3]». I comunisti lo accusano di essere un poeta ribelle e anarchico, mentre i critici di Stato accostano i suoi testi a quelli dell’arte malata e decadente dell’Occidente. Haliti diventa un caso nazionale. Nel Paese si organizzano riunioni per denunciare il poema. I membri della Lega degli Scrittori si dividono in due: quelli che ammirano i versi del poeta e quelli che li disapprovano. Un gruppo di alunni del liceo della sua città natale, Lushnje, pubblica un articolo di denuncia sul giornale «Shkëndija» (La scintilla)[4], organo del PCA. Gli unici studenti che difesero con coraggio “Il sole e i ruscelli” furono Fatbardh Rustemi, Bujar Xhaferri e Tahsin Xh. Demiraj. Tahsin, dal ‘74 all’89, fu regista presso il teatro della città di Lushnje, ma venne licenziato su ordine del Partito. Per 15 anni lavorò in un’azienda di Durazzo che produceva materiali plastici. In una lettera Rustemi si rivolse a Enver Hoxha per protestare contro la condanna del poeta Haliti; Xhaferri, per difendere il suo poema, rischiò l’espulsione dal ginnasio. Per attaccare il poeta trentaseienne di Lushnje si mobilitarono anche le forze dell’ordine pubblico: il questore della città Zija Koçiu pubblicò un articolo sul giornale del partito del dittatore, «Zëri i Popullit» (La voce del popolo), in cui denunciava “l’opera reazionaria” del suo concittadino[5].

L’eco di questa vicenda si diffuse in tutto il Paese. Piovvero critiche e denunce da varie città. Della vicenda si parlò anche al di fuori dell’Albania. A Parigi, nel 1974, il trimestrale albanese «Koha jonë» (Il nostro tempo) riportò il poema “Il sole e i ruscelli” e, nello stesso tempo, condannò la campagna denigratoria del PCA verso il poeta Haliti. Un anno più tardi, a Roma, Ernest Koliqi, nella  rivista che curava, «Shenjzat» (Le Pleiadi), conferma che «la voce di Haliti è stata soffocata dal Partito».

Manifestazione a Tirana

Manifestazione a Tirana

Nonostante tutto questo, il poeta ribelle di Lushnje non smette di scrivere. Con lo stesso coraggio pubblica altri testi contro la burocrazia, e altrettanto feroci: Djali i sekretarit (Il figlio del segretario), Unë dhe burokracia (Io e la burocrazia), Edipi (Edipo), e altri ancora. I testi di Haliti diventano oggetto di discussione persino nell’Olimpo del partito. Nel ‘73 Fiqrete Shehu, moglie del Premier Mehmet Shehu, critica la poesia Vetëshërbim (Fai da te) definendola «una poesia che non ha nulla a che vedere con l’arte rivoluzionaria»[6]. Un anno dopo, nella rivista «Rruga e Partisë» («Il percorso del Partito»), ella si esprime contro la poesia Njeriu me kobure (L’uomo con la pistola)[7]. Negli anni seguenti l’opera di Haliti verrà sempre censurata. Il Partito gli toglierà il diritto di pubblicare e lo spedirà a lavorare nei campi. Nel 1985, dopo 15 anni di silenzio forzato, egli riappare sulla scena culturale con la raccolta Mesazhe fushe (Messaggi di campagna). La lunga condanna al silenzio ha fatto pesare molto sul suo futuro e sul destino della sua poesia. La presentazione del nuovo libro avviene nel teatro della città. Doveva essere una festa, per il poeta, invece fu ancora una volta un processo vero e proprio. Rammento come oggi quel pomeriggio. Alla presentazione partecipava il segretario del Partito Comunista, Rudi Monari, il quale, insieme allo ”pseudo-poeta” M. Nezha, mise alla berlina il poeta e il suo nuovo libro. I testi che abbiamo scelto per il lettore italiano in questa antologia raccolgono il meglio del poeta, che va dal primo libro Sot (Oggi) 1969, fino alla raccolta Iku (Se n’è andato) 2004. La scelta di proporre questo poeta al lettore italiano, non è casuale ma fa parte di una missione culturale ben precisa, quella di costruire la memoria storica e culturale della mia Albania, come parte integrante della memoria della cultura europea. Faslli Haliti e Besnik Mustafaj (Leggenda della mia nascita, Edizioni Ensemble 2012, cura e traduzione dal sottoscritto), fanno parte di quei poeti che, pur vivendo e scrivendo sotto il canone del realismo socialista, sono riusciti a creare valori letterari di portata internazionale, che resistettero anche dopo il crollo la dittatura di Enver Hoxha, uno dei regimi sanguinari più spietati dell’Europa del secolo scorso.

(Gëzim Hajdari )

[1] Enver Hoxha (1908-1985): il dittatore comunista
[2] In «Nëntori 4», pp. 154-159, Tiranë 1972.
[3] Idem.
[4] In «Shkëndija», Lushnje, 25.1.1973.
[5] In «Zëri i popullit», Tiranë, 2. 8. 973.
[6] In «Zëri i popullit», Tiranë, 26. 7. 1973.
[7] In« Revista Rruga e Partisë», Nr. 3. p. 41. Tiranë 1974.

Faslli Haliti con Gezim Hajdari

Faslli Haliti con Gezim Hajdari

NELL’INFANZIA

Quando scorgevo l’allodola tra gli artigli del falco,
che terrore,
che orrore!
Al posto del suo canto primaverile
sentivo i suoi pianti tragici in primavera.

Il mio desiderio era
di spezzare ali di falchi crudelmente
nell’infanzia,
senza ascoltare il consiglio dello zio Hugo:
«Chi guarisce l’ala del falco
è responsabile dei suoi artigli…»

Che terrore!
Che orrore!
Sentire i pianti tragici delle allodole
e non spezzare le ali al falco!

NË FËMIJËRI

Kur shihja laureshën në kthetrat e skifterit,
E lemerisshme,
Tmerr.
Në vend të këngës së saj pranverore
Dëgjoja të qarat e saj tragjike në pranverë.

Dëshira ime është:
Të thyeja krahë skifterësh egërsisht.
Në fëmijëri,
Pa e ditur këshillën e xha Hygoit:
«Kush shëron krahun e skifterit
Përgjigjet për kthetrat e tij…»

Ǒlemeri,
Ǒtmerr,
Të dëgjoje të qarat tragjike të zogjve,
Dhe mos të t‘i thyeja krahët ty, skifter!

QUANDO ERA FANCIULLA

Quando era fanciulla
mia madre partecipava con affetto ai fidanzamenti
e chiedeva alle amiche:
chi è intervenuto a quel fidanzamento?
Chi si è fidanzato?
Chi si è sposato ?

Quando è divenuta sposa,
mia madre partecipava con affetto alle nascite
e chiedeva alle amiche:
Chi ha partorito?
Com’è andato il parto?

Ora
in vecchiaia, partecipa alle morti
legge le necrologie
e chiede:
Chi è morto?
Quanti anni aveva…?

(1972)

KUR ISHTE VAJZË

Kur ishte vajzë
Nëna ime interesohej për fejesat,
Pyeste shoq let fshehtas:
Kush ishte në fejesë,
Kush u fejua,
Kush u martua.

Kur u bë nuse,
Kur u martua,
Nëna ime interesohej për lindjet,
Pyeste shoqet rregullisht:
Kush ishte në lindje,
Si ishte lindja,
E vështirë ish?

Tashti
Në pleqëri,
Nëna ime interesohet për vdekjet,
Shikon nëpër shtylla lajmërime vdekjesh,
Pyet
(Sidomos fëmijët)
Biro,
Kush ka vdekur,
Ishte i madh ai qyq
Kur vdiq…?

(1972)

Faslli Haliti

Faslli Haliti

NOTTE DI MAGGIO

La luna come anello nelle mani della notte,
i neon abbagliano con luce di neve.
Noi parliamo sotto una mimosa bionda
come in una luna terrena.

Accanto a noi passano due lucciole
che sembrano fiammiferi.
E si perdono nel buio della notte
gioiose del nostro amore.

(1984)

NATË MAJI

Hëna varet si vath në veshin e natës,
Neonët ndriçojnë me dritë dëbore,
Ne bisedojmë nën një mimoze bjonde
Si nën një hënë tokësore

Pranë nesh kalojnë dy xixëllonja
Dy buqeta dritash na dhuron
Dhe ikën nëpër natë e gëzuar,
E gëzuar nga dashuria jonë.

(1984)

RICORDO CON NOSTALGIA

Ricordo con nostalgia il primo viaggio a Tirana,
era il 1946,
nella capitale sono andato scalzo
e ho dormito all’aperto.

Ricordo il mio gesto
che non ha disonorato
né me, né la città.

Non c’era un motivo preciso,
sono andato solo per vedere la capitale.

Ero piccolo,
avevo dieci anni
nel 1946.

A Tirana sono andato scalzo
e ho dormito all’aperto.
Sogno ancora quel gesto infantile.
E mi commuove la povertà di allora.

(1988)

NJË KUJTIM I PËRMALLSHËM

Unë kam lënë nam dikur në Tiranë.
Ishte viti 1946.
Së pari,
Në kryeqytet vajta zbathur,

Së dyti,
Fjeta jashtë.
Asnjë nam s’kam lënë në të vërtetë në Tiranë.

E kujtoj fare mirë tani,
As mua,
As Tiranën
Nuk e turpëronte ajo zbathëri.

Asnjë punë nuk kisha në Tiranë.
Shkova vetëm për të parë kryeqytetin.

Isha i vogël
Dhjetë vjeç
Në vitin
1946.

Në Tiranë shkova zbathur dhe fjeta jashtë
Ajo zbathëri
Më shfaqet në ëndërr,
Më “turpëron” dhe tani.

(1988)

IL PANE

Mia madre sfornava il pane
e lo riponeva nella madia;
il volto del pane era madido di sudore
come la fronte di mio padre quando lavorava.

Il calore del pane evaporava
il pane era giallo,
la fragranza c’inondava,
io ne volevo rubare un pezzo
mia madre mi fermava dicendomi:
«No,
perché il profumo del pane
non è arrivato in campagna…»

Noi bambini credevamo vera
la fiaba del profumo del pane,
che doveva arrivare in campagna
stranamente,
anche se eravamo affamati
ci fermava la mano come magia.

Con la scusa che il pane doveva raffreddarsi,
mia madre ci ingannava
e con la fiaba
il pane risparmiava.

BUKA

Nxirrej buka nga tepsia,
Vendosej përmbys mbi hambar
Faqja e bukës me pika djerse
Si balli i babait në arë.

Avullim buke.
Bukë e verdhë.
Avuj të bardhë.
Unë shkoja të thyeja një copë.
Zëri i nënës:
“Mos…
Prit të shkojë avulli në arë njëherë
Në arën e Sheqit të sosë…”

Përrallën e avullit të bukës
Që duhej të shkonte patjetër në arë,
Ne e besonim si të vërtetë.
Kjo përrallë
Për çudi
Edhe pse të uritur
Na e ndalte dorën si për magji.

Që të ftohej buka
Nëna na gënjente
Duke na gënjyer me përrallën e avullit
Bukën e shkreta
Kursente

Manifestazione a Tirana, 1990

Manifestazione a Tirana, 1990

ARRIVEDERCI

La direzione:
A sinistra!
Io
dritto.

La direzione:
A destra!
Io
dritto, avanti.

L’ordine:
Dietrofront!

Io
sempre avanti.

Arrivederci miei capitani!

(1994)

LAMTUMIRË

Drejtimi;
Majtas!
Unë
Drejtë.

Drejtimi.
Djathtas!
Unë,
drejtë përpara.

Urdhëri:
Prapakthehu!

Unë
Përpara, përsëri

Lamtumirë kapedanët e mi!

(1994)

LETTERA
a Majakovskij
ed Esenin

Caro Majakovskij,
caro Esenin,
siete stati voi
a farmi entrare nel cuore come genio,
come vero,
come umano,
il compagno Lenin.
Lenin
è diventato un criminale,
un terrorista, un farabutto,
dite qualcosa:
perché tacete?
sto chiedendo:
datemi una risposta,
è stato umano Lenin
o un genio criminale?
uno psicopatico,
un pazzo,
un farabutto?
Voi l’avete guardato negli occhi,
e forse l’avete incontrato,
dandogli la mano,
gli avete parlato
e Lui vi ha ascoltato.
Forse avete parlato del comunismo con Lui:
avete discusso, polemizzato.
Parlami apertamente
Majakovskij,
come sai parlare tu.

LETËR

Majakovskit
dhe Eseninit

I dashur Majakovski,
I dashur Esenin,
Ju ma futët në zemër
Si gjeni,
Si tokësor,
Si human,
Si njerzor, shokun Lenin …
Lenini
Doli kriminel,
Terrorist, horr, venerian.
Flisni:
Pse heshtni,
Ju pyes,
Përgjigjmuni,
Lenini ka qenë njerëzor:
Apo ka qenë kriminel gjeni,
Psikopat
I çmendur
Horr…?ju e keni parë Leninin me sy.
Mbase jeni takuar me të.
I keni dhënë dorën,
Keni biseduar
Ju ka dëgjuar,
E keni dëgjuar:
Mbase keni folur për komunizmin me të:
Mbase keni debatuar, polemizuar…
Folmë
Hapur
Majakovski,
Fare hapur,
Siç di të flasësh ti.

Tirana square

Tirana square

ROVESCIO

Dio
si adirò,
e decise di cambiare il mondo

trasformò il cielo
in mare,

gli uccelli nuotarono nel mare,
i pesci
volarono nei cieli.

Le stelle divennero fiori
e i fiori stelle,

i fiori emanarono luce,
le stelle diffusero profumo.

Il sole diventò
l’occhio di Polifemo
e l’occhio di Polifemo sole,

Ulisse accecò il sole con il tronco infuocato,
mentre l’occhio del Gigante ancora brilla e brucia.

Gli uccelli divennero
aerei
e gli aerei uccelli,

gli uccelli lanciarono bombe,
gli aerei sterchi,

gli animali divennero
uomini
e gli uomini animali.

MBRASHT

Zoti
U mërzit,
Vendosi ta rikrijojë botën sërish

Qielli e bëri det
Detin qiell

Zogjtë notojnë në det
Peshqit
Fluturojnë në qiell

Yjet i bëri lule
Lulet yje

Lulet rrezatojnë dritë
Yjet përhapin aromë

Diellin
E bëri sy Polifemi
Syrin e Polifemit, diell

Diellin e verboi Odisea me urën zjarrit
Syri i Polifemit ndriçon edhe djeg

Shpendët
I bëri avionë
Avionët shpendë

Shpendët hedhin bomba
Avionët lëshojnë glasa

Kafshët
I bëri njerëz
Njerëzit kafshë.

 Gëzim Hajdari, è il massimo poeta albanese vivente e uno dei maggiori poeti contemporanei. Ha pubblicato numerose raccolte di poesia. Ha scritto anche libri di viaggio e saggi, inoltre ha tradotto in albanese e in italiano vari autori. E’ vincitore di numerosi premi letterari. E’ presidente del Centro Internazionale Eugenio Montale.

Le sue recenti pubblicazioni sono: I canti dei nizam, Besa 2012; Nur. Eresia e besa, Ensemble, 2012; Evviva il canto del villaggio comunista, Besa, 2013; Poesie scelte, Controluce, 2014 e Delta del tuo fiume, Ensemble, 2015.

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POESIE SCELTE di Faslli Haliti dalla ANTOLOGIA (1969-2004) EdiLet, 2015 a cura di Gëzim Hajdari Presentazione di  Gëzim Hajdari

Tirana scorcio urbano

Tirana scorcio urbano

dalla Introduzione di Gëzim Hajdari

Il poeta Faslli Haliti credeva come Majakovskij ed Esenin in un socialismo dal volto umano. I due poeti della Russia sovietica hanno cantato e sublimato con grande fervore, seppur per breve tempo, la rivoluzione bolscevica e il compagno Lenin. Sulle orme di Majakovskij e di Esenin iniziò il suo cammino poetico anche il giovane poeta albanese di Lushnje. Erano gli anni ’60 quando Haliti scriveva: «Per voi, Partito ed Enver Hoxha[1], noi dormiamo anche sul ghiaccio / per voi noi ci copriamo con lenzuola di neve». Il poeta di Lushnje ha amato molto nella sua gioventù i cantori della madre Russia e, dopo la tragica fine del comunismo nella sua Albania, Haliti diede la ‘colpa’ proprio ai suoi maestri sovietici perché aveva creduto ciecamente in loro. Così come Majakovskij ed Esenin, anche il poeta Haliti, pur in una dimensione assai diversa, rimase ‘vittima’ dell’utopia marxista, che fece decina di migliaia di morti in Albania seminando in tutto il Paese terrore, morti, sangue e distruzione di massa.

 Faslli esordisce nel panorama poetico albanese alla fine degli anni ’60. Proprio nel 1969 venne pubblicata la sua prima raccolta, Sot (Oggi). I suoi versi portano un nuovo respiro poetico nel panorama del realismo socialista, l’originalità, la sobrietà del pensiero, nonché un forte senso critico nei confronti della burocrazia del regime. Il suo linguaggio è lapidario e tagliente. L’intensità del verbo e la particolarità dello stile, fecero attirare l’attenzione dei lettori e della critica ufficiale. Questa silloge vinse il secondo premio nazionale per la poesia. Haliti è di origine contadina, e come tale, portava nei suoi testi la musicalità della campagna, le voci della vita e l’angoscia del vivere quotidiano. Profumi campestri, stagioni, colori, simboli e figure mitologiche percorrono la geografia del suo io poetico, come sfida alla retorica della cultura ufficiale del regime. Fermezza e ribellione convivono nel suo messaggio poetico.

Manifestazione a Tirana, 1990

Manifestazione a Tirana, 1990

 Alcuni suoi testi furono dei veri e propri «manifesti» che colpivano senza pietà il cuore della burocrazia del regime comunista. Si può dire che la parte più interessante della sua produzione, come per la maggior parte dei poeti del blocco sovietico, rimane quella scritta sotto la dittatura comunista, e non è un caso. Basterebbe Njeriu me kobure (L’uomo con la pistola) per capire la forza dei versi e l’impatto che questo testo ebbe sui lettori negli anni ’70. Questi i versi: «Lui aspetta che tiri vento / Non per vedere gli alberi spogli / Non per veder cadere le foglie gialle / Ma per far alzare il lembo della giacca / E far vedere la pistola nella cintola. / Lui aspetta che venga la primavera / Non per mietere e falciare / Ma per togliere la giacca / E far vedere sotto la giacca / La pistola[2]». Questo testo è stato giudicato sovversivo e revisionista, e aspramente criticato durante il IV° famigerato plenum del PCA, nel ’73. Che condannò in prigione decine di intellettuali e scrittori accusandoli di essere influenzati dall’arte borghese dell’Occidente.

Erano gli anni in cui la critica ufficiale insisteva perché nell’arte si rispecchiassero ancora maggiormente gli insegnamenti e le idee del Partito; gli anni della pianificazione della nuova estetica di Stato e dell’affermazione dell’uomo nuovo del socialismo, plasmato dal partito e forgiato sotto l’incudine della classe operaia e contadina; “l’uomo muscoloso e stakanovista” che vigila, giorno e notte, per difendere le vittorie e la patria dai nemici. Nelle opere letterarie, i temi esistenziali e metafisici, come per esempio il sentimento di oppressione e di incertezza quotidiana, erano proibiti. Persino le parole ‘amore’, ‘morte’, ‘buio’, ‘freddo’, ‘angoscia’ venivano considerate pericolose. Coloro che osarono rompere col ‘pesante silenzio’, che aveva cancellato memoria e sogni di libertà, lo pagarono a caro prezzo. Il valore di un’opera si misurava rispetto alla sua forza nel servire il partito, le masse e il socialismo reale. Lo slogan del “realismo socialista” era: «Il poeta dev’essere l’occhio, l’orecchio e la voce della classe», motto che proveniva ovviamente dalla letteratura madre dell’Unione Sovietica.

  Il terrore continuo e sistematico del regime nei confronti degli uomini di cultura soffocò gli spazi e l’energia della Parola. Sul palcoscenico insanguinato della poesia albanese si recitava la più fosca tragedia del tempo. Di fronte a questa tragedia umana, a questa oppressione costante, per sopravvivere spiritualmente e artisticamente i poeti rivolsero lo sguardo alle tradizioni e alla poesia del passato. Così la linfa della loro ispirazione diventò la tradizione orale e l’epica. Per sfuggire alla censura, Haliti si rivolge al mito e all’allegoria per esprimersi. La sua parola affonda le radici nel mito classico greco-latino per rileggere la realtà; la sua poesia divenne quasi un gioco fiabesco, in cui s’intrecciano il reale con il surreale. Ma i censori del regime vigilano, non si fanno sorprendere per fermare in tempo il poeta ribelle.

  La macchina inquisitoria di Hoxha praticava mille forme diverse di repressione per stritolare i “nemici della nazione” e del comunismo. All’occhio vigile dei guardiani del regime nulla poteva sfuggire. Decine di poeti e scrittori vennero allontanati, mandati nelle periferie o nelle campagne per la rieducazione ideologica. Certi furono imprigionati e i loro libri messi al bando. L’elenco dei poeti perseguitati dal regime è lungo e tragico. Le milizie di Enver Hoxha controllavano ogni angolo della vita culturale del Paese. Per il dittatore, lo scrittore era semplicemente uno strumento nelle mani del partito per l’educazione comunista del popolo, il braccio destro del potere: per questo si affermava che, in Albania, la letteratura era nata nel 1941 con la fondazione del Partito Comunista. Il marxismo divenne l’unico principio estetico della poesia e dell’arte.

besnik Mustafaj HoxaAl poeta Haliti venne tolto il diritto di pubblicare per 15 anni consecutivi: fu mandato in campagna per essere «rieducato», in quanto persona indesiderata dal Partito.

 Per diversi anni, pur essendo professore di italiano e di francese, lavora dietro il carro trainato dai buoi nella cooperativa agricola di Stato, a Fiershegan, provincia di Lushnje. Nessuno degli operai e dei contadini poteva rivolgergli la parola, perché egli era considerato dal Partito un “reazionario”.

      Il pretesto per colpire il poeta di Lushnje fu il poema Dielli dhe rrëkerat (Il sole e i ruscelli), pubblicato per la prima volta il 16 dicembre 1972 nel settimanale «Zëri i rinisë» (La Voce della gioventù). La sua apparizione nella rivista suscitò scalpore e indignazione tra gli alti dirigenti del PCA. Costoro organizzarono riunioni e dibattiti pubblici in cui sia il poema che l’autore vennero aspramente criticati. Secondo la censura, “Il sole e i ruscelli” era frutto di una confusione ideologica e politica del poeta che travisava la realtà socialista e il ruolo del Partito, minandone così l’unità con il proprio popolo. I primi versi del poema «Mentre il tetto della mia patria è celeste, ottimista. / Il tetto della mia casa è quello di una stamberga», divennero un pretesto per attaccare e denunciare l’autore. Haliti aveva osato troppo. Con un coraggio inaudito invita il popolo a spezzare “i denti alla burocrazia”. Cito: «Ordine / con il pugno della classe operaia / spezzate i denti / ai compagni. / Per spezzarli ci vogliono pietre / che non abbiamo[3]». I comunisti lo accusano di essere un poeta ribelle e anarchico, mentre i critici di Stato accostano i suoi testi a quelli dell’arte malata e decadente dell’Occidente. Haliti diventa un caso nazionale. Nel Paese si organizzano riunioni per denunciare il poema. I membri della Lega degli Scrittori si dividono in due: quelli che ammirano i versi del poeta e quelli che li disapprovano. Un gruppo di alunni del liceo della sua città natale, Lushnje, pubblica un articolo di denuncia sul giornale «Shkëndija» (La scintilla)[4], organo del PCA. Gli unici studenti che difesero con coraggio “Il sole e i ruscelli” furono Fatbardh Rustemi, Bujar Xhaferri e Tahsin Xh. Demiraj. Tahsin, dal ‘74 all’89, fu regista presso il teatro della città di Lushnje, ma venne licenziato su ordine del Partito. Per 15 anni lavorò in un’azienda di Durazzo che produceva materiali plastici. In una lettera Rustemi si rivolse a Enver Hoxha per protestare contro la condanna del poeta Haliti; Xhaferri, per difendere il suo poema, rischiò l’espulsione dal ginnasio. Per attaccare il poeta trentaseienne di Lushnje si mobilitarono anche le forze dell’ordine pubblico: il questore della città Zija Koçiu pubblicò un articolo sul giornale del partito del dittatore, «Zëri i Popullit» (La voce del popolo), in cui denunciava “l’opera reazionaria” del suo concittadino[5].

      L’eco di questa vicenda si diffuse in tutto il Paese. Piovvero critiche e denunce da varie città. Della vicenda si parlò anche al di fuori dell’Albania. A Parigi, nel 1974, il trimestrale albanese «Koha jonë» (Il nostro tempo) riportò il poema “Il sole e i ruscelli” e, nello stesso tempo, condannò la campagna denigratoria del PCA verso il poeta Haliti. Un anno più tardi, a Roma, Ernest Koliqi, nella  rivista che curava, «Shenjzat» (Le Pleiadi), conferma che «la voce di Haliti è stata soffocata dal Partito».

Tirana square

Tirana square

Nonostante tutto questo, il poeta ribelle di Lushnje non smette di scrivere. Con lo stesso coraggio pubblica altri testi contro la burocrazia, e altrettanto feroci: Djali i sekretarit (Il figlio del segretario), Unë dhe burokracia (Io e la burocrazia), Edipi (Edipo), e altri ancora. I testi di Haliti diventano oggetto di discussione persino nell’Olimpo del partito. Nel ‘73 Fiqrete Shehu, moglie del Premier Mehmet Shehu, critica la poesia Vetëshërbim (Fai da te) definendola «una poesia che non ha nulla a che vedere con l’arte rivoluzionaria»[6]. Un anno dopo, nella rivista «Rruga e Partisë» («Il percorso del Partito»), ella si esprime contro la poesia Njeriu me kobure (L’uomo con la pistola)[7]. Negli anni seguenti l’opera di Haliti verrà sempre censurata. Il Partito gli toglierà il diritto di pubblicare e lo spedirà a lavorare nei campi. Nel 1985, dopo 15 anni di silenzio forzato, egli riappare sulla scena culturale con la raccolta Mesazhe fushe (Messaggi di campagna). La lunga condanna al silenzio ha fatto pesare molto sul suo futuro e sul destino della sua poesia. La presentazione del nuovo libro avviene nel teatro della città. Doveva essere una festa, per il poeta, invece fu ancora una volta un processo vero e proprio. Rammento come oggi quel pomeriggio. Alla presentazione partecipava il segretario del Partito Comunista, Rudi Monari, il quale, insieme allo ”pseudo-poeta” M. Nezha, mise alla berlina il poeta e il suo nuovo libro. I testi che abbiamo scelto per il lettore italiano raccolgono il meglio del poeta, che va dal primo libro Sot (Oggi) 1969, fino alla raccolta Iku (Se n’è andato) 2004. La scelta di proporre questo poeta al lettore italiano, non è casuale ma fa parte di una missione culturale ben precisa, quella di costruire la memoria storica e culturale della mia Albania, come parte integrante della memoria della cultura europea. Faslli Haliti e Besnik Mustafaj (Leggenda della mia nascita, Edizione Ensemble 2012, cura e traduzione del sottoscritto), fanno parte di quei poeti che, pur vivendo e scrivendo sotto il canone del realismo socialista, sono riusciti a creare valori letterari di portata internazionale, che resistettero anche dopo il crollo della dittatura di Enver Hoxha, uno dei regimi sanguinari più spietati dell’Europa del secolo scorso.

[1] Enver Hoxha (1908-1985): il dittatore comunista

[2] In «Nëntori 4», pp. 154-159, Tiranë 1972.

[3] Idem.

[4] In «Shkëndija», Lushnje, 25.1.1973.

[5] In «Zëri i popullit», Tiranë, 2. 8. 973.

[6] In «Zëri i popullit», Tiranë, 26. 7. 1973.

[7] In« Revista Rruga e Partisë», Nr. 3. p. 41. Tiranë 1974.

Faslli Haliti copertinada OGGI / SOT  (1969)

UNË, MËSUESI I FSHATIT

Çaj baltrat e rrugës.
Çizmet mbyten e zhyten në baltë.
prapa, në llucë,
mbeten gjurmët e mia,
si mbresa të thella në trurin e rrugës,
mbeten gjurmët e çizmeve
të NISH-gomave-Durrës.

Eci.
Në kokë formula,
Konvencione,
Kryengritje fshatare,
Esklamacione dhe vargje poetësh
Dhe imazhi i vajzës brune,
Që prapa mbeti,
Kur mua më përcolli
Herët nga qyteti.

Futem në klasë.
Era shtyn xhamat me gjoks.
Nxënësit shikojnë çizmet e mia me baltë,
Pantallonat e mia zhytur në çizme,
Flokët e mi të qullur,
Që kullojnë,
Që varen teposhtë,
Si flokët e Senekës,
Shikojnë ditarin e lagur
Dhe supet qull të xhaketës.

Dhe lodhja më ikën, më zhduket pas kësaj,
Si balta që rrugëve thahet,
Si balta që zhduket në maj…

IO, INSEGNANTE DI CAMPAGNA

Affronto il fango della strada.
I miei stivali vi sprofondano.
dietro
restano le mie orme,
impresse nella memoria della strada,
orme di stivali di gomma di Durazzo.

Cammino.
Nella mente formule,
convenzioni,
ribellione di contadini,
esclamazioni e versi di poeti
e l’immagine di una fanciulla bruna,
che mi accompagnava
di buon’ora.

Entro in classe.
Il vento con furia colpisce i vetri
gli alunni scrutano i miei pantaloni,
e gli stivali infangati,
i miei capelli bagnati
che gocciolano
come i capelli di Seneca,
scrutano i miei quaderni,
e la giacca bagnata.

La stanchezza sparisce
come il fango dalle strade
nel mese di maggio.

Faslli Haliti con Gezim Hajdari

a destra: Faslli Haliti e Gezim Hajdari

ARDHJA E VJESHTËS

Mbi koka jeshile pemësh
Natyra derdhi bojë të verdhë,
Vjeshta krahët e artë
Mbi fusha i hodhi
Dhe kodrave lart.

Fytyrën pa vjeshta mbi pellgjet me ujë,
Flokrat bionde pakrehur, rrëmujë.
Shirat ardhjen e saj
E shpallën me gaz e me bujë.

Qielli si lodër vigane gjëmoi,
Krisën pushkë rrufetë,
Si pushkë gazmore në ditën e dasmës,
Në pritje të nuses që zbret.

ARRIVO DELL’AUTUNNO

Sulla fronte dei verdi alberi
la natura getta il mantello dorato,
con le ali d’oro copre l’autunno
la campagna
e la collina.

Sulle pozzanghere il volto dell’autunno
con i capelli biondi spettinati.
Le piogge con i tamburi proclamano
il suo arrivo.

Come in un gigante grancassa tuona il cielo,
i fulmini sparano come fucili gioiosi
nel giorno del matrimonio,
in attesa della sposa.

MIRAZHE HËNE

Hëna pluskonte në bardhësinë e një reje
si e verdhë veze.

Dhe unë fëmija i dikurshëm që kisha uri
zgjasja duart drejt vezës hënore,
reflekse hëne haja ndër gishtat e mi
netve të dëborta dimërore.

Hëna piqej në prushin e yjeve
si misërnike e verdhë,
djersë të verdha djersinte,
avuj buke përhapte në qiell.

Dhe unë fëmija që kisha uri
zgjasja duart, të thyeja një copë,
por hënën e hanin netët
dhe unë s’e haja dot!

MIRAGGI DI LUNA

La luna galleggia nel bianco di una nuvola
come il giallo dell’uovo.

Ed io bambino affamato di allora
tendevo le mani verso l’uovo lunare,
mangiavo riflessi lunari stretti tra le mie dita
nelle notti nevose invernali.

La luna lievitava nella brace delle stelle
come focaccia gialla di mais,
e profumo di pane,
diffondeva nel cielo.

Avevo fame,
tendevo le mani per spezzarne un boccone,
ma la luna veniva mangiata dalle notti
ed io non riuscivo ad averla!

Faslli Haliti

Faslli Haliti

LULE DHE FRUTA

Të gjitha lulet,
Të egra,
Të buta,
Luet i kanë të bukura.

Mos ubesoni lueve të bukura pa fruta!

TUTTI GLI ALBERI

Tutti gli alberi,
selvatici,
e domestici,
fioriscono.

Non credete ai bei fiori senza frutta!

TRASPARENCË

Nuk lulëzojnë lule të zeza
Mbi pemë,
Mbi pjeshkë,
Mbi lëndina.

Nuk i fut të zezë pranverës natyra.

(1982)

NON FIORISCONO FIORI NERI

Non fioriscono fiori neri
sugli alberi,
nei prati,
sui peschi,
nella pianura.

La primavera non mette il nero alla natura.

(1982)

UNË NUHAS PRANVERËN

Nyja, nyjen thërret.
Me rrezet paralele zgjaten kërcellët,
Blerimi hap syrin e gjelbër gjithë qejf.
Ujrat pranverorë buzëqeshnin të qeta,
Pemishteve pjeshka fustanin e purpur
Nis zbukuron me lulet e veta.

Nyja, nyjen thërret,
Zgjaten kërcellët,
Rrinë përpjetë.

ATTENDO LA PRIMAVERA

Le gemme chiamano l’un l’altra.
Come raggi paralleli crescono i ramoscelli,
il verde inverdisce sempre di più,
le acque primaverili scorrono tra le ombre,
nel giardino il pesco abbellisce di porpora,
il parto dei suoi fiori.

Le gemme chiamano l’un l’altra,
crescono i giunchi rigogliosi
verso l’alto.

Faslli Haliti

Faslli Haliti

da NON SO TACERE / S’DI TË HESHT (1997)

MIRAZHE HËNE

Hëna pluskonte në bardhësinë e një reje
si e verdhë veze.

Dhe unë fëmija i dikurshëm që kisha uri
zgjasja duart drejt vezës hënore,
reflekse hëne haja ndër gishtat e mi
netve të dëborta dimërore.

Hëna piqej në prushin e yjeve
si misërnike e verdhë,
djersë të verdha djersinte,
avuj buke përhapte në qiell.

Dhe unë fëmija që kisha uri
zgjasja duart, të thyeja një copë,
por hënën e hanin netët
dhe unë s’e haja dot!

MIRAGGI DI LUNA

La luna galleggia nel bianco di una nuvola
come il giallo dell’uovo.

Ed io bambino affamato di allora
tendevo le mani verso l’uovo lunare,
mangiavo riflessi lunari stretti tra le mie dita
nelle notti nevose invernali.

La luna lievitava nella brace delle stelle
come focaccia gialla di mais,
e profumo di pane,
diffondeva nel cielo.

Avevo fame,
tendevo le mani per spezzarne un boccone,
ma la luna veniva mangiata dalle notti
ed io non riuscivo ad averla!

da NON SO TACERE / S’DI TË HESHT  (1997)

NË FËMIJËRI

Kur shihja laureshën në kthetrat e skifterit,
E lemerisshme,
Tmerr.
Në vend të këngës së saj pranverore
Dëgjoja të qarat e saj tragjike në pranverë.

Dëshira ime është:
Të thyeja krahë skifterësh egërsisht.
Në fëmijëri,
Pa e ditur këshillën e xha Hygoit:
«Kush shëron krahun e skifterit
Përgjigjet për kthetrat e tij…»

Ǒlemeri,
Ǒtmerr,
Të dëgjoje të qarat tragjike të zogjve,
Dhe mos të t‘i thyeja krahët ty, skifter!

NELL’INFANZIA

Quando scorgevo l’allodola tra gli artigli del falco,
che terrore,
che orrore!
Al posto del suo canto primaverile
sentivo i suoi pianti tragici in primavera.

Il mio desiderio era
di spezzare ali di falchi crudelmente
nell’infanzia,
senza ascoltare il consiglio dello zio Hugo:
«Chi guarisce l’ala del falco
è responsabile dei suoi artigli…»

Che terrore!
Che orrore!
Sentire i pianti tragici delle allodole
e non spezzare le ali al falco!

Faslli Haliti

Faslli Haliti

NUSJA

Gjyshja pret që nusja të lindi djalë,
Gjyshi përfytyron një nip me emër trimi,
Babai dëshiron një bir të talentuar,
Inteligjent, mundësisht
Gjeni.

Nusja thur triko për një njeri.

(1984)

LA SPOSA

La nonna attende che la sposa partorisca un maschio
e sogna un nipote dal nome coraggioso,
il padre desidera un figlio di talento,
intelligente,
genio.

La sposa tesse una maglia per il figlio.

PRANVERË

Sythi shkrin dëborën me zjarrin e lules,
Lulja pohon pranverën,
Lidh frutin
Dhe bie me nderim.

Toka e pret me blerim.

(1984)

PRIMAVERA

La gemma fa sciogliere la neve con il fuoco del fiore,
il fiore annuncia la primavera,
si trasforma in frutto
e cade a terra con onore.

La terra inverdita lo accoglie.

(1984)

Gezim Hajdari

Gezim Hajdari

Gëzim Hajdari, è nato nel 1957, ad Hajdaraj (Lushnje), Albania, in una famiglia di ex proprietari terrieri, i cui beni sono stati confiscati durante la dittatura comunista di Enver Hoxha. Nel paese natale ha terminato le elementari, mentre ha frequentato le medie, il ginnasio e l’istituto superiore per ragionieri nella città di Lushnje. Si è laureato in Lettere Albanesi all’Università “A. Xhuvani” di Elbasan e in Lettere Moderne a “La Sapienza” di Roma.

In Albania ha svolto vari mestieri lavorando come operaio, guardia di campagna, magazziniere, ragioniere, operaio di bonifica, due anni come militare con gli ex-detenuti, insegnante di letteratura alle superiori dopo il crollo del regime comunista; mentre in Italia ha lavorato come pulitore di stalle, zappatore, manovale, aiuto tipografo. Attualmente vive di conferenze e lezioni presso l’università in Italia e all’estero dove si studia la sua opera.

Nell’inverno del 1991, Hajdari è tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano della città di Lushnje, partiti d’opposizione, e viene eletto segretario provinciale per i repubblicani nella suddetta città. È cofondatore del settimanale di opposizione Ora e Fjalës, nel quale svolge la funzione di vice direttore. Allo stesso tempo scrive sul quotidiano nazionale Republika. Più tardi, nelle elezioni politiche del 1992, si presenta come candidato al parlamento nelle liste del PRA.

Nel corso della sua intensa attività di esponente politico e di giornalista d’opposizione, ha denunciato pubblicamente e ripetutamente i crimini, gli abusi, la corruzione e le speculazioni della vecchia nomenclatura di Hoxha e della più recente fase post-comunista. Anche per queste ragioni, a seguito di ripetute minacce subite, è stato costretto, nell’aprile del 1992, a fuggire dal proprio paese.

La sua attività letteraria si svolge all’insegna del bilinguismo, in albanese e in italiano. Ha tradotto vari autori. La sua poesia è stata tradotta in diverse lingue. È stato invitato a presentare la sua opera in vari paesi del mondo, ma non in Albania. Anzi, la sua opera, è stata ignorata cinicamente dalla mafia politica e culturale di Tirana.

È presidente del Centro Internazionale Eugenio Montale e cittadino onorario per meriti letterari della città di Frosinone.

Dirige la collana di poesia “Erranze” per l’editore Ensemble di Roma. È presidente onorarario della rivista internazionale on line “Patria Letteratura” (Roma), nonché membro del comitato internazionale della Revue électronique “Notos” dell’Université Paul-Valery, Montpellier 3. Considerato tra i maggiori poeti viventi, ha vinto numerosi premi letterari. Dal 1992, vive come esule in Italia. Le sue recenti pubblicazioni sono: I canti dei nizam, Besa 2012; Nur. Eresia e besa, Ensemble, 2012; Evviva il canto del villaggio comunista, Besa, 2013; Poesie scelte, Controluce, 2014 e Delta del tuo fiume, Ensemble, 2015.

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Archiviato in antologia di poesia contemporanea, critica della poesia, Poesia albanese del Novecento

BESNIK MUSTAFAJ “LEGGENDA DELLA MIA NASCITA” LEGJENDA E LINDJES SIME (1976 – 1986) Antologia. Cura e traduzione di Gëzim Hajdari

Besnik Mustafaj Hoxa

Besnik Mustafaj “Leggenda della mia nascita” Legjenda e lindjes (1976 – 1986) Edizioni Ensemble, Roma, 2012 – A cura e traduzione in italiano di Gëzim Hajdari

Besnik Mustafaj è nato il 23 settembre del 1958 in Albania. Si è laureato in Lingua e Letteratura Francese all’università di Tirana e ha lavorato come professore, traduttore e giornalista. E’ tra i fondatori del Partito Democratico d’Albania; con Azem Hajdari organizzò la prima manifestazione democratica contro il regime comunista di Enver Hoxha. Ambasciatore in Francia dal 1992 al 1997, è stato Ministro degli Esteri dal 2005 al 2007, per poi dimettersi causa dissenso con il premier Berisha e dedicarsi definitivamente alla scrittura.
Tra i più importanti scrittori contemporanei albanesi, Mustafaj è autore di numerosi romanzi, saggi, raccolte e traduzioni. Le sue opere sono state tradotte in molte lingue, ricevendo un largo consenso di critica. In Italia ha pubblicato Albania tra crimini e miraggi (Garzanti, 1993). Nel 1997 ha vinto il premio Méditerranée per il romanzo Daullja prej letre (Tamburo di carta).

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tirana

tirana

 La poesia di Mustafaj nasce nelle Bjeshkët e Nëmuna (Montagne Maledette), nel nord dell’Albania, nel pieno inverno della dittatura comunista albanese. Il giovane poeta delle Alpi entrerà molto presto in contatto con il mondo letterario pubblicando la prima raccolta in età giovanissima, a soli diciannove anni. Dopo gli studi superiori nella città natale, si trasferisce nella capitale per frequentare gli studi universitari di lingua e letteratura francese A quel tempo, Tirana, era la capitale della cultura del realismo socialista che alimentava la macchina del terrore rosso. Nel cuore del regime le vicende scorrevano come in una scena delle tragedie shakespeariane. Erano i tempi del famigerato del IV Plenum 1973 che colpì duramente la vita culturale. Nella grande città, il giovane poeta spaesato, viene preso dalla vita studentesca e dagli studi, osservando da lontano la vita culturale e gli ambienti letterari. Portava con sé un’aria di libertà, che le alpi avevano imposto alla sua stirpe fiera e guerriera di Tropojë, città natale. Vivendo al di fuori dei circoli dei poeti, ancora non si rende conto del meccanismo sanguinario e del terrore esercitato contro gli uomini di cultura e non solo.

Manifestazione a-Tirana 1990

Manifestazione a-Tirana 1990

 In quegli anni, la Lega degli Scrittori riprende la caccia alle streghe e iniziano processi inauditi contro scrittori e artisti che, secondo il regime, erano stati influenzati dall’“ideologia borghese” occidentale. Molti di loro furono arrestati e internati, oppure fucilati e le loro opere messe al bando. Numerosi furono anche quelli mandati nelle campagne per essere rieducati ideologicamente. ”Essendo fuori da tutto ciò che accadeva dentro le mura della censura, non conoscevo il senso della paura”, ricorderà, più tardi, il poeta Besnik. Questo lo aiutò a riflettere sui temi esistenziali della sua poesia e non limitandosi solo a quelli celebrativi imposti dal manifesto dell’arte di partito. Quando inizia a lavorare come giornalista presso il quotidiano del partito Zeri i popullit (La voce del popolo), il poeta si renderà conto di tutto quel che accadeva nei palazzi del potere.

Macchina della Polizia di Tirana

Macchina della Polizia di Tirana

 Ormai “il migrante” del nord era divenuto più maturo e più cosciente e cerca di resistere e difendersi, per non essere schiacciato dal peso dell’oppressione del regime. In queste condizioni riesce a sopravvivere la sua parola, pur all’interno dell’estetica di Stato; il che dimostra che il suo verso ha resistito ai tempi, anche dopo il crollo della dittatura e della letteratura declamatoria e demagogica del realismo socialista. E’ per questo che la sua opera ha un doppio valore: umano e letterario.
Il verso di Mustafaj sembra pacato a una prima lettura, epico come nei racconti degli antichi, senza grida né enfasi. Ma è solo un inganno, perché rileggendo con l’attenzione dovuta, si scopre che sotto l’essere del suo verbo abitano echi, suoni, ritmi interiori intensi che penetrano nella memoria del lettore accorto, rimanendovi per sempre. E’ un verso vero e vissuto profondamente, carico di umanità e di universalità. Mustafaj sa colloquiare con le cose, dando loro voce e volto, attraverso una prosa poetica che colpisce per la forza e per la bellezza antica ed ancestrale. A volte tumultuosa e carica dell’inquietudine quotidiana, la sua poesia si fa carico del dolore e della sofferenza dell’uomo, in attesa di un raggio di luce durante le notti nere, che sembrano non avere mai fine: “Non arriverà mai l’alba”. Fare il poeta nel cuore della dittatura più feroce del vecchio continente, in cui s’intrecciavano i vivi con i morti, poteva essere una scelta fortunata per i poeti di corte, ma pericolosa per gli ‘eretici’. Attraverso le metafore e simboli ambigui, i poeti tentavano di ricuperare la libertà quotidiana perduta. Chi ha osato spingersi oltre il limite proibito, fissato dalla censura, ha pagato con la propria vita, uccidendosi con la propria poesia.

Tirana squarebesnik mustafaj copertina Leggenda

Tirana square

 Il territorio poetico di Mustafaj è un territorio minacciato, abitato da streghe, notti nere, boschi oscuri, lupi mannari, sangue versato… Sono simboli negativi che, come presagi, preavvisano un lugubre destino per il poeta e per la poesia stessa. Scene makbethiane, in cui ognuno tenta, disperatamente, di difendersi e salvarsi, come dimostrano i versi «Nella casa costruita con gli alberi del bosco, / durante le notti nere, ti difesero dalle streghe». Per il poeta, la vita quotidiana ha perso il proprio senso, è per questo che ha deciso di vivere diversamente, trasformarsi in un sogno irreale, perché il presente emana solo gemiti. Non rimane altro che continuare a sperare, stringendosi l’uno all’ altro ed amarsi: «Come fanciulli, amore mio, / come fanciulli siamo noi». L’amore come anima del mondo; è la poesia stessa che sopravvive, sfidando qualsiasi oppressione e i recinti di filo spinato. Toccanti sono i versi dedicati alla propria donna, alla madre, che pur essendo assente, è sempre presente e accanto al proprio figlio, pronta a proteggerlo, insegnandogli le leggi antiche degli avi malsor (montanari).

Besnik Mustafaj

Besnik Mustafaj

 Immagini surreali percorrono il palcoscenico della sua poesia. Il poeta soffre, è inquieto, decide di affidare il suo segreto d’uomo al proprio corpo, scendendo nel profondo del suo io, aggrappandosi forte ai ricordi, al paese natale, alle sue leggende e ai suoi miti. L’unico patrimonio prezioso che dà un senso al suo esistere, per Mustafaj, diventa l’infanzia, fatta di pietre, di pugni di terra, di manti di neve, del respiro delle montagne; tutto questo per non morire come uomo. «Mia infanzia – sei una Rozafë* rinchiusa nelle fondamenta della nuova città. / Ma non hai lasciato fuori / delle mura / né la mano / né il seno / né gli occhi». E’ l’unico cordone che lo terrà in vita, d’ora in poi a Tirana, capitale del crimine.
Nella “nuova città staliniana”, egli e la sua parola soffrono, non si riconosceranno più e il poeta si sente come la Rozafa, murato vivo nelle sue mura, quindi in quelle della propria opera. E’ un gesto estremo, quello di scegliere di vivere, d’ora in poi, trasformando il suo corpo in versi. Allora, è questa la vera missione del poeta e della poesia stessa. Ma le notti buie ingombrano ovunque, schiacciando uomini e pensieri. Partecipe alla sofferenza del suo popolo e all’angoscia quotidiana del poeta, diventa anche la natura che lo circonda. Infatti, stanno per scoppiare fiumi e fulmini e la terra inclinata si regge alle braccia degli uomini, per non cadere nei propri abissi. Il sole pallido sulle alpi non riscalda più; tutto sta per congelarsi. Scene apocalittiche, in cui l’uomo e la natura si consolano disperatamente a vicenda. La paura e il terrore della dittatura albanese è presente e penetra dappertutto, persino nei grembi delle madri e dei bambini. «Figliolo mio /Da dove ti viene questa paura». Mentre i fiori, «/ donano ai vivi / odori morti». Si vive in un incubo perenne, in cui ognuno teme per la propria sorte.

Man mano che scorrono i versi di Mustafaj, davanti agli occhi

Besnik Mustafaj

Besnik Mustafaj

 del lettore, si affacciano immagini e situazioni sconvolgenti, per arrivare al culmine con “O corvi che mi divorate, oi, oi!”. Versi che rammentano i lamenti delle grandi tragedie antiche. Un’accusa al cielo aperto che sanguina. Al poeta non resta che uscire allo scoperto, questa volta tramite una poesia emblematica «Cammino per la mia strada». Una poesia blasfema per il tempo, pubblicata nella raccolta Volto di uomo 1987. Una sfida aperta al potere e alla sua ideologia culturale. I suoi versi suoneranno come un anatema contro l’oppressione e i suoi censori: «Cammino per la mia strada./[…]/ Il mantello non riesce ad essere la maschera del mio corpo / […] / Voi che mi conoscete, vi prego, se mi volete veramente, / non chiedetemi di essere sempre lo stesso!
E’ questa la leggenda della nascita del poeta e della sua poesia imponente, dai toni epici ed elegiaci, che assomigliano ad una “leggenda” vivente sorta nel gelido el lungo inverno della dittatura albanese.
G. H.

Scontri-a-Tirana 2001

Scontri-a-Tirana 2001

FATA

Tutto questo, grazie ai miei avi
che ti hanno insegnato ad amare la vita.
Nella casa costruita con gli alberi del bosco, durante le notti nere,
ti difesero dalle streghe.

Ti convinsero a stare qui, nella loro terra,
sul suolo scuro
quando in quel tempo
ogni cosa si rifletteva violentemente
sui vetri dei finti Palazzi e nei cieli.

Ti raccolsero dal nulla,
ti donarono il proprio caldo respiro d’uomo
e ti santificarono come donna.
E tutto questo, grazie a loro!

Altrimenti non ci saremmo mai incontrati
ed amati
e al posto del tuo nome,
ti avrei chiamata
Fata del mare e del cielo.

Besnik Mustafaj

Besnik Mustafaj

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MADRE

Vecchia madre, taciturna,
la tua vita, un andare e venire, sei sempre la stessa,
nell’aria d’intorno e nell’assenza,
nelle vene del sangue, nell’anima.

Sulle strade che percorro, siano esse minacciose o lontane,
ovunque io vada,
o cammini,
riconosco le tue orme
che mi guidano
e mi proteggono.

Se avverto il richiamo delle sirene,
sei tu ad affievolirmi l’udito,
rendi forti le mie braccia quando tiro con l’arco,
e mi rimproveri quando dimentico le leggi antiche
della mia stirpe.

Ulisse, mio fratello balcanico di tremila anni,
in segno di riconoscenza di fronte ad Atene,
pregasti davanti all’Olimpo vuoto.
Che peccato, non riuscisti a capire che fu tua madre,
che ti fece tornare a Itaca,
sei vissuto e morto senza posare neanche un fiore appassito
sulla sua tomba. Continua a leggere

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