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Steven Grieco Rathgeb, LA NAVE DEI GIORNALISTI – Una poesia: Bohor – Il concetto di Disfania nella nuova poesia, Lettera a Adeodato Piazza Nicolai, con uno scritto di Giorgio Linguaglossa sulla Crisi della poesia italiana degli anni Sessanta

Foto donna velata

Le parole vorrebbero immedesimarsi nelle carte da parati, o scappare

LA NAVE DEI GIORNALISTI

Le parole, poverine, vorrebbero immedesimarsi nelle carte da parati, o scappare. Perché è una sorta di eccidio, di strage: fuggono disordinatamente nell’aria, dove rimangono falcidiate, impigliate, condannate alla sparizione. Impagliate. Solo qualcuna si libera, riesce perfino a fuggire, ma senza saper dove.
Forse perché c’era quella affermazione davvero incredibile: fra trent’anni non ci sarà più la proprietà privata… Affermazione che subito si è librata sovrana sopra questi sette importanti personaggi, questa élite del giornalismo d’antan. Ora è visibile nell’intera sala. Dalla ricchissima carta da parati si percepiscono le prime avvisaglie, arrivano dai candelieri che fluttuano: uno scarto, un trasalimento, un brivido – difficile dire: poi il tavolo delle conferenze comincia a inclinarsi sempre più pericolosamente a destra, scricchiolando va a ingavonarsi sempre più giù; il lato sinistro sale pericolosamente, con i giornalisti su questo lato sinistro che si sorprendono di essere così in alto, quasi dominanti. Forse solo perché Stefano, glorioso giornalista di un grande quotidiano napoletano, ha detto quelle cose riguardo agli immigrati che arrivano sulle “nostre sponde”… e ha osato dire quella cosa sulla proprietà privata, chissà: per questa semplicissima ragione, lui e i suoi vicini stanno appollaiati lì in alto, come allocchi, a guardare i colleghi molto più in basso.

Il concetto rigorosamente non-marxista della proprietà privata quale relitto del passato abolita dalla massacrante torsione del tempo elettronico-tecnologico, di un capitalismo quindi ormai spavaldo e libero dai suoi più classici e vincolanti ormeggi, questo concetto sale dalle sette teste posizionate sopra i sette busti tutti in fila, rigidamente verticali, dietro la lunga tavola delle conferenze: sale ancora più in alto e li guarda giù, che strani che siete, ridacchiando, mentre una sua perfetta replica esce dalla porta in fondo alla sala e si insinua… qualcosa esce dalla porta, ma a ben vedere già si trova nell’andito deserto – dove i camerieri si affaccendano a imbandire i tavoli dei rinfreschi – da lì esce smarrita e piangente per la via silenziosa, buia in questa sera di metà marzo. Ma, e non so come diavolo, l’andito è pieno di una folla che parla e chiacchiera allegramente provocando un brusio così fastidioso che più volte qualcuno del pubblico si gira verso di me con un grande punto interrogativo impresso sul volto in grassetto nero: “La prego, cancelli questo paragrafo: dà fastidio, non si riesce a seguire cosa dicono i relatori”.

Quando vedo Stella Riori più avanti, nella terza fila a destra, mi sembra che le vie del pensiero siano davvero tortuose. Sembra che le vie siano tortuose, ma sono perfettamente diritte, e vengono da un passato molto più lontano. Ciò che Stella disse a cena tre anni fa, nella sala da pranzo della sua lussuosa casa, a chi commentò sulla finezza di quella porcellana: “Sì, questo servizio di piatti lo regalò Napoleone III a mia nonna”. In quella occasione lei fu profeticamente capace, con quel semplice passato remoto ‘regalò’, con il suo intrigante sapore arcaico, di evocarmi il presente in questa elegantissima sala conferenze della FUGA, Federazione Unitaria Giornalisti d’Antan. Perché la gente del pubblico, mentre ascolta i giornalisti parlare della catastrofe, maneggia quei piatti quasi come fossero pensieri, li guarda li studia e li ammira. E il tavolo e i giornalisti s’inclinano tutti a destra: e la gente non sembra rendersi conto di cosa potrebbe succedere se l’inclinazione aumentasse ancora. Eppure dovrebbero capirlo da tutti quei preziosi piatti che passano di mano in mano, quei piatti che rischiano di andare in frantumi ma hanno dentro tutta la linea storica discendente da Napoleone III a noi; e sono i giornalisti-marinai che veleggiano sghembi e quotidianamente sopravvivono al proprio naufragio.

Questa linea così dritta rappresenta gli inizi di un presente assoluto che a sua volta è l’inizio prima degli inizi, poiché l’oggi è assoluto e tutti i giornalisti non fanno, con il loro scrollare di testa, che sottolineare questo fatto incontrovertibile: che il passato possiamo solo viverlo in questo eterno istante presente. Allora è come se affiorasse un qualcosa e mi chiede: “Cos’è ‘Disfania’?” … Già, ‘disfania’…: “Non è per caso una semplice afonia, o una cacofonia?”. “No”- ribatto, sicuro di me – “è l’involversi, ripiegarsi, dilaniante attorcersi su se stessi: il cocciuto, perenne, irriducibile interrogativo”. “Non mi basta, sai?”. Allora cerco numi dal voice recorder: ma quello, mascalzone, risponde sempre come piace a lui: “L’Io è in perpetuo movimento, è sempre qualcun altro, qualcos’altro. E’ il tempo strabiliante. Ma a te e alla tua domanda do una buona notizia: abbiamo già scienziati al lavoro per bandire per sempre la notte. Allora tutto sarà chiaro”.

[Steven Grieco Rathgeb, foto di Chiara Catapano]

Ecco che la scena si appronta e tutto ricomincia. Ci fascia la sala elegantissima che brilla di passato. La luce dei candelieri di Murano sopra alle nostre teste brillano di passato. Si dia inizio ai lavori! Tutti insieme sentiamo profonda ammirazione per questi sette uomini, per la loro insopprimibile, umanissima, virile volontà di non farci incorrere nella disgrazia, di non farci soccombere alla sciagura: queste sette figure sedute al gran tavolo delle conferenze. Di colpo spio me stesso rispecchiato laggiù, in un angolino nascosto della parete, che seguo attento l’incontro-scontro fra questi sette grandi luminari dell’informazione. Siamo tutti orecchie.

“E’ sabato”, esordisce Niccolò, autentica star del giornalismo, una vita spesa come corrispondente da New York – la meravigliosa, irripetibile New York di allora-: “Il bicchiere di plastica, in questo pomeriggio molto ventoso di marzo, viene sospinto dalle raffiche e scende via Monzambano saltellando, rotolando e sbatacchiando sull’asfalto. Sì, via Monzambano, proprio dove abiti tu”, ripete Niccolò, e guarda quell‘angolino dove io, nascosto, mi rispecchio. “Quel bicchiere leggero, spensierato, vi faccio notare: leggero e spensierato. Ecco il grande problema dei nostri tempi”. E qui Niccolò alza le sopracciglia significativamente fino a farle raggiungere il soffitto, un soffitto altissimo, come si conviene ad una importante sala convegni come questa.

“Ma non poi così spensierato”, fa notare Orfeo, suo glorioso collega, nativo di Bergamo, una vita spesa a Milano al servizio della stampa di altissimo livello… Sì proprio lui, che fu il primo ad annunciare per radio, nel lontano ’75, la strepitosa vittoria del generale Võ Nguyên Giáp: “Non così spensierato, voglio dire, quanto la impudente baldanza del bicchiere accartocciato sia la nostra coscienza sporca, metamorfizzata nei mille sorrisi impietriti della plastica di cui lui si è fatto vettore, spensierato, frivolo fanciullo. Ullo ullo”.

La folla di attenti ascoltatori ha un moto di disagio, esterrefatta che un giornalista della sua fatta – del suo peso specifico, si badi bene – intoni un ritornello così significativo. “Ma che, è andato?” sussurra il mio vicino. “Mi permetta, è proprio lei che non ci sta con la testa: perché invece, sotto sotto in quel ritornello si percepisce un senso di perdizione”, dice una signora al mio vicino: “Sì, qualcosa proprio di distopico (e qui guarda me con una certa durezza!!!): e ne sono conturbata. Non me lo sarei aspettato, proprio qui, nella storica sede della FUGA; e poi da uno della levatura di Orfeo, grande firma dei tempi che furono”.

Lo guardo rotolare giù per la mia via e devo dire che, in effetti, pur sembrando indifeso, non è poi così indifeso. Hanno ragione i luminari. L’altro giornalista aggiunge: “Come dicono gli americani, ‘we’ve done nothing wrong, we think – and see, the oceans are full of plastic’”, torcendosi le mani in disperazione. Chiedo in un sussurro al mio vicino chi è il leggendario giornalista che sta parlando in questo momento. “Ma è Umberto, non lo riconosce?”, mi risponde con lo stesso sussurro. “Ah, certo. Grazie”. “Noi giornalisti ci siamo sempre mantenuti nei limiti della ragionevolezza, non abbiamo mai esagerato”, sta dicendo Umberto. “Sempre con quel suo magnifico aplomb – mi sussurra il mio vicino – quel bel contegno da naufraghi dell’albero fiorito. Ma per tutti questi giornalisti il vento è così forte da oscurare con il suo rombo le loro voci, ch’essi registrano”. “Non ho mica capito, sa?”, dico io. Ma subito la nostra attenzione torna al tavolo delle conferenze, perché ci sorprende il “fruscio della carta”, leggendario rumore che fa trasalire ogni bravo giornalista: infatti, dalla testa di Umberto in questo momento sta uscendo un’immagine, la vediamo tutti: le presse piano-cilindriche a vapore, i lavoratori in canottiera e con i volti neri che lavorano giù in tipografia; il trafelato, glorioso, giovanissimo cronista sopraggiunto nel mezzo della notte, un attimo prima che il giornale vada in stampa! Ed ecco, lo scoop!
Il palo della segnaletica!

Foto donna tra i veli

“Siamo arrivati, signori. Siamo arrivati, non c’è dubbio.”

“Siamo arrivati, signori. Siamo arrivati, non c’è dubbio”. Questo Umberto sta dicendo. Già arrivati? Già adesso che ancora siamo all’inizio di questa conferenza dal titolo, “Il futuro del giornalismo stampato: picco o naufragio?”, questa madre di tutte le conferenze? Mi vien quasi da ridere da quanto la tristezza mi avvinghia. “Cinquant’anni di giornalismo – sta dicendo – partendo proprio dalla naia, sì, da quei primissimi anni in cui , correva l’anno 1959, se ricordo bene, facevo l’umile cronista, ma per un grande giornale, si badi bene, una di quelle testate che non esito oggi, oggi che mi trovo accerchiato dalle macerie, ovunque le macerie, a chiamare ‘gloriose’! Scarpinavo per le vie a raccogliere qualsiasi briciola di notizia: ed eran vie, vi faccio notare, molto diverse dalle vie di oggi…”. Ormai è chiaro che Umberto ha rubato la scena sia a Stefano che a Niccolò. Sta per dire qualcosa di memorabile, lo sentiamo tutti… A Umberto, uomo grande e poderoso, sembra incavarsi il torace; si toglie di colpo la parrucca di capelli radi e grigi, perché la testa possa scendergli giù e entrargli in quell’incavo: “Le vie, dicevo, ben ordinate di allora…- ed ecco, infine Umberto sgancia il clou della serata – … Sì, quando tutti i pali della segnaletica stavano bene in piedi, bene in verticale rispetto all’orizzontalità del suolo…”. Già così presto il clou? Ma se abbiamo appena iniziato?

Eppure un brivido attraversa la folla. Un forte mormorio di approvazione. Noi più giovani non abbiamo, ahimè, memoria di quella verticalità: è da mo’ che i pali della segnaletica stanno piegati. Accidenti però, penso io, da tempo avviato per la strada buia, guarda come riesce un grande giornalista, ancora al giorno d’oggi, a fissare la realtà complessa delle cose con una semplicissima immagine!

Interviene Alberico, il moderatore: “E mi permetto di aggiungere qui, che il pericolo più grande oggi – la sfida che tutti, dico tutti, ci troviamo a fronteggiare – è che il flusso random d’informazioni d’un tratto ingavoni il mondo. Pendere giù, come dire, tutto da un lato. Signori miei, qui si rischia il naufragio. Altroché.”
Gianrico, altra significativissima firma del miglior giornalismo, che con simpatica informalità gli amici chiamano Gianni, dice: “Non ci vuole mica poi così tanto, sapete. Può succedere così, di colpo”.

“Sì”, annuisce gravemente Stefano, da sempre a capo della gloriosa e storica scuderia di quell’altro grande quotidiano del Nord, di cui ora non ricordo il nome: “E con tutta la conseguente produzione di hardware nei mercati emergenti, ciò a sua volta determinererebbe un inabissamento ancor più rischioso. Il pericolo è, in effetti, molto, molto alto… Non si parla qui di un semplice tramezzino e un buon sorso di Prosecco”, aggiunge con sorriso indecifrabile.

“…Un grande giornale, badate bene – riprende Umberto – un giornale che mi ha insegnato il mondo”. E mamma mia! Tutto questo brusio, questo continuo viavai fuori: cosa succede là, all’ingresso, alle nostre spalle? …Che poi, in effetti, adesso è il davanti, non il dietro, di questa incantevole palazzina Anni 20, storica sede della FUGA, poiché ne costituisce l’entrata… Ma una volta che noi tutti siamo entrati nella sala delle conferenze, non c’è niente da fare, l’entrata risulta essere l’uscita. Siamo noi in sala ad essere girati dalla parte sbagliata. Non c’è proprio niente da fare. Ci hanno turlupinato, ecco cosa. E quindi cosa succede là nell’entrata, o all’uscita, come dir si voglia? Chi sta parlando, quali impellicciate signore e primordiali gentlemen con in mano lo smart phone così spesso illuminato di novità, di breaking news, di notizie fresche fresche, parlano, vociano bisbigliano di qualche orribile catastrofe?
Intanto Umberto continua: “Signori miei, siamo proprio arrivati”. E subito si corregge: “Eh, voglio dire, siamo arrivati QUI: e quando una società non sta più bene, il segno inconfutabile del suo disagio è costituito dai pali della segnaletica per le vie che stanno piegati di lato”.

“Qualcuno l’ha fatto di notte”, interloquisce il suo vicino, niente po’ po’ di meno che il grandissimo Alfonso, astro del giornalismo sportivo torinese degli anni ’60 dal sorriso affascinante, sapiente affettatore di notizie fasulle: “Lo fanno sempre di notte”. La notizia – che ciò accada di notte – è totalmente inaspettata, un colpo di frusta che ci lascia sconcertati. “Se mi fai finire, caro Alfonso – interrompe cortesemente Umberto… – sono sempre i vandali della notte che dirottano le nostre società, portandole sull’orlo del baratro. Incappucciati, correndo per le vie, spiccano grandi salti. O allora un ubriaco, un babbeo che non ha capito niente dei nostri modi, della nostra civiltà, istupidito dai fumi dell’alcol dopo un festino in casa di amici, sbatte con la macchina contro quel malaugurato palo: in questo modo piegando la segnaletica, piegando le direzioni e gli stessi sensi delle cose, non soltanto il senso unico delle cose, ma doppi sensi, voglio dire, i dubbi, insomma i leciti interrogativi. In una parola: questi vandali piegano la doppia percorribilità del nostro civile e civico vivere. E il loro stato di incoscienza non gli dà nemmeno modo di capire cosa realmente hanno fatto. Qui sta la tragedia del nostro tempo”.

Noi del pubblico trasaliamo di fronte a tanta dolorosa verità. “Sì”, annuisce Stefano, attempato, alto, anche lui profondamente incavato su se stesso, ma ciononostante perfettamente d’accordo con Umberto: “Certo, certo.. se però, Umberto, mi fai finire… i pali della segnaletica piegati in giù, sì: ma, non a terra, faccio notare: non del tutto a terra. E’ questo il punto: è il loro esser sghembi la nostra prova immarcescibile”.
“Il palo siamo noi!”, grida qualcuno seduto due o tre file dietro di me. Rabbrividiamo, la tensione è altissima: la fine della proprietà privata, i tramezzini, l’entrata che in questo esatto momento è diventata uscita come per deriderci o farci un torto. Molti non reggono, si alzano silenziosamente e si dileguano con eleganza, solo qualche tremito ne tradisce il turbamento.
“Siamo noi”, assentono gravemente tutti i giornalisti in coro, muovendosi lenti e pesanti nelle sedie. La nostra ammirazione per loro si fa sconfinata.

“…Un ubriaco in macchina… – insiste Gherardo – o qualcuno, chissà chi, nottetempo, che si è divertito a sovvertire le nostre direzioni. Due o tre ragazzoni, dopo una serata in discoteca, correndo e sbraitando per la via – lo sapete anche voi come i giovani son pieni di questa insopprimibile vitalità, no? Spiccando un gran salto si sono aggrappati in due, in tre al palo: e il palo si è piegato giù, si è piegato fin quasi giù a terra, per non segnalare più un bel niente, non spiegare più in modo corretto i sensi e le percorribilità delle nostre società…”. “Un vero inferno”, si lascia scappare qualcuno che si è affacciato alla porta, la bocca piena di tramezzino e il bicchiere di Prosecco in mano, proveniente da quella maledetta entrata-uscita dove molti altri imboscati già si affollano ai tavoli, scolando vino e ingollando panini.

Di nuovo si scrollano i pesantissimi giornalisti, come svegliandosi e risvegliandosi da una profonda meditazione sulla vanità delle cose. “Che sbornia. Che immensa sbornia”, dice Umberto. Il tavolo delle conferenze, pericolosamente inclinato sulla destra, scricchiola, imbarca distanza, tempo, spazio. Sprofondando a destra, i giornalisti non sembrano avvedersene: questo il bello del giornalismo di marca, questi gli aristocratici della notizia stampata, portamento eretto, fronte alta, intelligente; non sono niente se non solidali fra di loro, sempre d’accordo su ciò che conta davvero. Tutti e quattordici gli occhi, un solo occhio intensissimo che guarda qualcosa di non visibile: un piano metafisico negato a noi comuni mortali. E’ la lungimiranza, penso, ammirato: perché anch’io, tutto sommato, non vedo quello che pure è perfettamente visibile. Da tempo cammino nella via buia. Tu, in fondo, hai una pensione di cui non mi posso lamentare. Nel voice recorder la mia voce muore: adesso il buio e vastissimo silenzio, sussurrato, attonito, dispiega l’accadere del mondo. Il bus 649 passa veloce e invisibile da Piazza Indipendenza diretto a Termini, a Conte Verde, ai luoghi rimembrati ma inafferrabili e infinitamente tristi.

[S. Grieco Rathgeb nella grafica di Lucio Mayoor Tosi]

Lettera a Adeodato Piazza Nicolai

Caro Adeodato,

ti ringrazio del tuo pensiero, la tua offerta di tradurre la mia poesia “Bohor”, comparsa qualche settimana fa su L’Ombra delle Parole. https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/03/24/chiara-catapano-dalla-disfania-allindicenza-della-parola-poetica-loriginalita-come-nostos-ritorno-allorigine-con-poesie-di-d-h-lawrence-giorgio-linguaglossa-steven-gr/ 

Sarà difficile che io traduca “Bohor” in inglese. E ti dico subito perché. Da quando avevo circa 20 anni, la questione di scrivere poesia per me era già stata superata dalla impellenza che sentivo di lavorare invece su come e perché si scrive una poesia. Tutto per me stava nell’angosciante non-essere della poesia, nella sua atroce futilità. Dopo Eliot, Pound, Auden, Hughes e Sylvia Plath, l’inglese non offriva quasi più nessuna pregnanza in materia di scrittura poetica, ma solo déja-vu, piccoli epigoni che dicevano ad altri come scrivere, e quel loro intendimento su come scrivere era: “mettersi in riga! scrivere un testo gradevole, compiuto, ‘significativo’ (ma non troppo), soprattutto stilisticamente all’altezza della sacra (ma in realtà più riduttiva) ‘tradizione letteraria inglese.” Un prodotto morto all’arrivo. Qualsiasi spericolata manovra per aprire le fessure della lingua e pervenire a nuovi sensi delle cose, nuove suggestioni, non erano in genere ammissibili. Lo stesso Eliot aveva, una volta scritti i suoi capolavori, messo in guardia dalle avanguardie (!!), dall’ardire, dallo spericolato inoltrarsi in luoghi sconosciuti per dire l’Oggi. Certo, allora, negli anni 1960-80, esistevano tentativi di uscire dal cerchio incantato della mediocrità – ce n’erano tantissimi – ma io sentivo che erano quasi tutte navi che andavano alla deriva.

Nel 1970-73, anni per me parigini, avevo iniziato a verificare quanta estraneità ed alterità la lingua mi avrebbe consentito di esprimere, prima di dirmi: “caro ragazzo, penso che tu stia esagerando”. Scoprii che però questi limiti erano generosissimi, E che questo si era sempre fatto anche in passato, altri poeti si erano cimentati in questo senso: ma rientrando loro ormai nell’alveo della ‘sacra tradizione i loro esperimenti non erano più visti come esperimenti, le loro sperimentazioni erano diventate invisibili, facevano ormai parte della tradizione. Ma un tempo non lo erano stati affatto. Questo vale anche per i Romantici nei loro momenti più spericolati, e in questa categoria rientra comodamente anche un gigante inattaccabile come Wordsworth. Io amo Wordsworth!

A Parigi scoprii che la lingua era generosissima, dea dal grande ventre e con la vulva esposta, dea che tutti credono puttana ma è in ogni attimo supremamente e inaccessibilmente vergine: era lei il mio Eterno Femminino, il mio das Ewig Weibliche di Goethe. Insomma, la Venere di Willendorf

(http://www.theenglishgroup.co.uk/blog/2012/03/08/venus-of-willendorf/)

Lei mi avrebbe fatto fare tutto quello che volevo, e quando non fosse stata d’accordo mi avrebbe colpito, buttato giù, e lasciato a piangere disperatamente nel fango del non-senso.

E dunque, ho negli anni imparato e mille volte disimparato cosa è il ritmo del verso, cosa la risonanza interna della lingua, questo gigantesco antro uterino, questa cupola così somigliante alla finita-infinita cupola del Duomo di Firenze, che in potenza e visionariamente racchiude in sé tutto lo scibile della civiltà occidentale. Qualsiasi scienziato che ignaro usi la lingua per fare ricerche e comunicarle agli altri, non capisce una realtà profonda: che tutte le sue scoperte, le sue ricerche sono Nulla senza la lingua. E siccome la lingua ab initio è stata usata musicalmente, ritmicamente – il mondo germogliava da sonorità-ritmo-melodia-senso – per questa ragione all’origine della lingua (una origine che non è mai ferma, costantemente sfugge, costantemente cangia e non ti mostra il suo punto iniziale perché sempre diverso) sta una figura davvero particolare: il Protopoietis,  अदिकवि l’Adikavi degli Indiani, il Primo che favella, Colui che pronuncia, ‘dice’; e che quindi nessuno scienziato, nessun businessman, nessun poeta dovrebbe mai dimenticarsi della meraviglia della lingua, che egli usa anche in sogno, lingua che è di fonte ignota ma usata dagli uomini quotidianamente, come se appunto fosse soltanto la loro puttana.

Tutto ciò non sembri una mia esagerazione: sono specificamente questi punti cangianti della realtà nei quali vivo in ogni momento del giorno, e che informano la mia scrittura. Una solitudine meravigliosa, che mi ha fatto capire la gioia di questo mondo, il suo segreto significare. Per questo anche, chissà, parte della mia scrittura non è forse andata a buon fine: perché la mia lingua-padrona è durissima, e non contempla ciò che “può, forse, andare bene”. Io ci provo, io pubblico, io metto un post, ma lei decide, e il suo giudizio sarà inflessibile e inappellabile.

Scusa, Adeodato, ritorno alla questione: in inglese quindi, la mia ricerca linguistico-stilistica è andata avanti in massima parte con un lavoro sulla qualità ritmica del verso: un mio forte tentativo di frenare il lettore nel leggere un testo in modo troppo vorace e banalizzante, per quindi dargli modo di pervenire al miracolo di ciò che viene detto; per questo ho lavorato sulla relativa velocità del verso: il veloce è lento, il lento può essere velocissimo. Questo, in inglese. Negli anni ho anche capito che l’uomo deve streben, struggle, faticare per nessuna ragione. È così, e basta. Il compimento sta nell’averlo fatto, come ha detto Donatella Costantina Giancaspero l’altra sera, illuminandomi.

Ovviamente, lavorando sulla qualità ritmica, trovi su quella strada tutte le questioni relative a sintassi, semantica, etc. etc.

Parlando di ciò: hai visto cosa fa Beckett con la lingua? Hai capito il senso della compressione quasi folle che egli opera sul ritmo del suo dire? Stringe le maglie proprio perché tu non possa fruirlo di colpo, e quindi da solo rovinarti l’eventuale epifania che quelle parole potrebbero riservarti. Io non avevo mai amato Beckett, l’avevo sempre rifiutato. Solo ultimamente ho capito la sua grandezza: ciò che può sembrare minimalismo è in realtà furente compressione, metabasi, attraversamento da uno stato, da un paradigma del mondo, ad un altro. Questa cosa, detta meglio, la leggi nella impeccabile presentazione di Chiara Catapano alle mie sgraziate Disfanie.

Nella lingua italiana, a lungo sono stato un po’ timido. Anche qui però avevo iniziato negli anni ‘70 una sistematica ricerca linguistico-stilistica, perché mi era ovvio che la situazione tapina della poesia inglese era in realtà un problema poetico globale, e sicurissimamente condivisa anche dalla poesia italiana. Ma avevo paura solo di combinare pasticci. La lingua italiana mi fa spesso impazzire: come un cavallo che non vuole muoversi: frusto i suoi fianchi, bestemmio, cado in un deliquio, mi risveglio e impreco (sapendo benissimo che il problema è in massima parte mio); poi d’un tratto quella parte al galoppo e io vengo disarcionato… Insomma, non si vince. Ma questo è comune a tutti i poeti, anche se scrivono in una lingua che è in famiglia da mille anni. 

“BOHOR”

Dalla finestra? sembra piovere una luce densa, bagnata
pozze-gialle, macchie sul tavolo colano giù.
Il corpo è di qualcuno nel quadro: dettaglio non trascurabile,
sebbene sia dipinto:
le due pennellate sotto i glutei, l’opaca intrasparenza
di un’estrema fragilità:
esse e ad ogni suo muoversi disossato, gli indelebili
trauma-segni dei lager,
e lo sfrenato egoismo, le discoteche di generazioni future,
nella inesorabile discesa nel Tempo.
Penso che sia non so se luce a macchiare come un prodigio
capelli e testa di turchese:
il volto scimmiesco che volge lo sguardo verso, se veramente fosse
la finestra, spaventato.
Poi nella testa compare un altro volto, indietreggiato,
che fissa con più concentrata serietà. E per quanto agio
vi sia nel grande appartamento parigino
la figura deve inghiottire terrore,
un uomo o una donna imbarazzati nel proprio corpo:
terreno che sbraita il sacro, la sua spazialità illimitata
dilaga attraverso gli oggetti e l’aria vuoti
perché solo si dipinge.
E il suo corpo appare senza un dentro, trapassato di luce,
i suoi massacri ridotti a solo pigmento, per impedire. Ai glutei azzurri.
Un terzo volto-cane turchese ha il muso sopra, come copricapo:
per quanto agio vi sia nel grande
appartamento, questo che è solo immaginazione nel corpo
ed è fermo nel suo stupore.

Giugno 2017

Allora: io certamente non sono però in grado di tradurre il mio “Bohor” italiano in inglese. Non ho il sufficiente distacco da me stesso per poterlo fare. Già il mio tentativo di tradurre mie poesie inglesi in italiano per la raccolta Entrò in una perla, che ho pubblicato nel 2016 con Mimesis-Hebenon, lo considero un fallimento interessante e in parte riuscito, ma che mi ha anche procurato mille dubbi e sofferenze.

Tornando di nuovo alla mia poesia “Bohor”: qui tutto dipende da microfratture e costruzioni asimmetriche che a prima vista appaiono sgrammaticate (e qualche volta lo sono!) ma che essenzialmente saggiano ciò che ho detto prima: quanto può la lingua accogliere la sua propria estraneità? Microfratture è la parola con cui definisco le costruzioni sintattiche semantiche che uso in una poesia come “Bohor”. La poesia l’avevo abbozzata l’anno scorso a settembre, poi del tutto dimenticata (ne ho altre così: le dimentico, e un giorno saltano fuori come il Cristo nel trittico di Isenheim!). E io che stupidamente pensavo che fosse tutta da riscrivere, “perfezionare”… Ma come faccio? Non ho tempo, maledizione, con tutti i lavori di traduzione che devo fare per sostentarmi e che lentamente mi stanno essiccando come uno stoccafisso. Ti ritrovo “Bohor” qualche settimana fa, e vedo che questa poesia, “svestita” e “spezzettata” com’è, in realtà è finita. Quello che avevo cercato di fare allora – sbarrare il passo alla troppo facile fruizione del lettore – mi è riuscito.

In modo leggermente diverso, questa stessa “tecnica non-tecnica” – intendo un metodo di composizione lentissimo, estenuante, con il minimo intervento razionale (ma un po’ ci vorrà sempre, non se ne può prescindere), grazie a cui il dettato poetico esce lentamente dal pensiero, ma con la sicurezza della seta che esce dalla bocca del ragno, – questa cosa l’avevo usata in diverse poesie 2015-2016, ma particolarmente in due poesie che ho scritto nell’estate del 2016: “Quando il treno rallenta a Settebagni” e “Supersimmetria del verso 22 di ‘Quando il treno rallenta a Settebagni’”. 

https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/07/26/steven-grieco-rathgeb-dieci-poesie-dimensioni-di-un-cerchio-e-supersimmetrie-un-prosimetrum-inedito-di-steven-grieco-rathgeb-poesie-come-installazioni-di-inchiost/

Il sistema di microfratture, dicevo, idealmente vorrebbe frenare il lettore dalla troppo facile fruizione della poesia, lasciando però intatta la sua capacità di esperienza epifanica, che gli giunge fra senso e nonsenso. Per parafrasare Mani Kaul, l’epifania, o meglio il significare, non sta nel dettato poetico, ma nelle giunture fra due pezzi di “significazione”. Sta in quel vuoto, capisci Adeodato? Capisci la meraviglia della poesia? Mani Kaul l’aveva capito nel cinema: l’attimo fra un fotogramma e il successivo. Io l’avevo capito dalla fusione a cera persa, così come l’ho vista fare una volta in India: un attimo prima che il bronzo inizi a colare nello stampo, e la cera si è già disciolta, in quell’attimo lo stampo è vuoto, e allora l’opera inesiste, ma è colma di ogni futura potenzialità! Capisci la bellezza del nostro fare, Adeodato? Del resto, basta leggere l’autobiografia del genialissimo e gradassone Benvenuto Cellini, per godersi l’impareggiabile descrizione di come andò con la fusione del suo “Perseo”. Me l’ha fatto capire anche Giorgio Linguaglossa, dicendomi più volte: “non curarti di niente! Vai avanti, fai quello che puoi.”

E non penso che molti fra i massimi musicisti di musica classica contemporanea abbiano fatto alcunché di diverso. Studiando per lunghi anni questa musica, chi ci ho ritrovato dentro? Me stesso! E tutto il mio mondo! Insomma, quello che facevano loro, lo facevo da tempo anch’io. Quando viviamo nello stesso tempo, e cerchiamo di esprimere il nostro mondo, le sottili affinità fra noi sono tantissime, seppure rimangano invisibili fino a quando non andiamo a scoprirle. Questo ritrovarsi intellettualmente ed esteticamente con quei musicisti mi ha però dato conforto negli anni: non sono solo in questo universo!

Un carissimo saluto, Steven

P.S.

In realtà “Bohor” è forse un titolo provvisorio per questa mia poesia. È invece il titolo di un pezzo elettroacustico di Xenakis, possibilmente il pezzo di musica classica contemporanea più rigoroso, più alto, e più disarmonicamente armonioso che io conosca. Sì, è proprio quel suo rigore compositivo che porta il pezzo a trasformarsi da rumore in sovrana armonia. Insomma, ho dato questo titolo alla mia poesia, perché doveva essere un innocuo tranello per il lettore intraprendente, che così, leggendo la mia poesia sarebbe andato a cercare il significato del nome e avrebbe incontrato l’omonimo pezzo di Xenakis su Youtube, corredato di quel magnifico quadro neo-espressionista di non so chi, non riesco a trovare l’autore. E avrebbe anche, chissà, deciso di ascoltarsi il pezzo di Xenakis. Comunque questi due pezzi – il quadro e la musica – sono inestricabilmente intrecciati con il mio pezzo. Giuseppe Panetta l’ha capito bene.

Foto in metro vuoto

Di fatto, la crisi della poesia italiana esplode alla metà degli anni Sessanta

Giorgio Linguaglossa

Breve retrospezione della Crisi della poesia italiana del novecento. La Crisi del discorso poetico è la Crisi delle Parole

Di fatto, la crisi della poesia italiana esplode alla metà degli anni Sessanta. oggi occorre capire perché la crisi esploda in quegli anni e capire che cosa hanno fatto i più grandi poeti dell’epoca per combattere quella crisi, cioè Montale e Pasolini; per trovare una soluzione a quella crisi. Quello che a me interessa è questo punto, tutto il resto è secondario. Ebbene, la mia stigmatizzazione è che i due più grandi poeti dell’epoca, Montale e Pasolini, abbiano scelto di abbandonare l’idea di un Grande Progetto, abbiano dichiarato che l’invasione della cultura di massa era inarrestabile

e ne hanno tratto le conseguenze sul piano del loro impegno poetico e sul piano stilistico: hanno confezionato finta poesia, pseudo poesia, antipoesia (chiamatela come volete) con Satura (1971), ancor più con il Diario del 71 e del 72 e con Trasumanar e organizzar (1971).

Questo dovevo dirlo anche per chiarezza verso i giovani, affinché chi voglia capire, capisca. a quel punto, cioè nel 1968, anno della pubblicazione de La Beltà di Zanzotto, si situa la Crisi dello sperimentalismo come visione del mondo e concezione delle procedure artistiche.

Cito Adorno: «Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo… è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o non sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concrezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale (…) indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo. anche questa svolta non è completamente nuova. Il concetto di costruzione, che è fra gli elementi basilari dell’arte moderna, ha sempre implicato il primato dei procedimenti costruttivi sull’immaginario».1]

Quello che oggi non si vuole vedere è che nella poesia italiana di quegli anni si è verificato un «sisma» del diciottesimo grado della scala Mercalli: l’invasione della società di massa, la rivoluzione mediatica e la rivoluzione delle emittenti mediatiche…

Davanti a questa rivoluzione che si è svolta in tre stadi temporali e nella quale siamo oggi immersi fino al collo, la poesia italiana si è rifugiata in discorsi poetici di nicchia, ha scelto di non prendere atto del terribile «sisma» che ha investito la poesia italiana, di fare finta che esso «scisma» non sia avvenuto, che tutto era come prima, che la poesia non è cambiata e che si poteva continuare a perorare e a fare poesia di nicchia e di super nicchia, poesia autoreferenziale, poesia della cronaca e chat-poetry.

Lo voglio dire con estrema chiarezza: tutto ciò non è affatto poesia ma «ciarla», «chiacchiera», battuta di spirito nel migliore dei casi. Qualcuno mi ha chiesto, un po’ ingenuamente, «Cosa fare per uscire da questa situazione?». Ho risposto: un «Grande Progetto».

A chi mi chiede di che si tratta, dico che il «Grande Progetto» non è una cosa che può essere convocata in una formuletta valida per tutti i luoghi e per tutti i tempi. Per chi sappia leggere, esso c’è già in nuce nel mio articolo sulla «Grande Crisi della Poesia Italiana del Novecento».

Il problema della crisi dei linguaggi del tardo Novecento post-montaliani, non l’ho inventata io ma è qui, sotto i nostri occhi, chi non è in grado di vederla probabilmente non lo vedrà mai, non ci sono occhiali di rinforzo per questo tipo di miopia. Il problema è quindi vasto, storico e ontologico, si diceva una volta di «ontologia estetica», ma io direi di ontologia tout court. Dobbiamo andare avanti. Ma io non sono pessimista, ci sono in Italia degli elementi che mi fanno ben sperare, dei poeti che si muovono nel solco post-novecentesco in questa direzione.

Farò solo tre nomi: Mario Gabriele, Steven Grieco-Rathgeb e Roberto Bertoldo, altri poeti si muovono anch’essi in questa direzione. La rivista sta studiando tutte le faglie e gli smottamenti della poesia italiana di oggi, fa quello che può ma si muove anch’essa con decisione nella direzione del «Grande Progetto»: rifondare il linguaggio poetico italiano. Certo, non è un compito da poco, non lo può fare un poeta singolo e isolato a meno che non si chiami Giacomo Leopardi, ma mi sembra che ci sono in Italia alcuni poeti che si muovono con decisione in questa direzione.

Rilke alla fine dell’ottocento scrisse che pensava ad una poesia «fur ewig», che fosse «per sempre». Ecco, io penso a qualcosa di simile, ad una poesia che possa durare non solo per il presente ma anche per i secoli a venire.

Per tutto ciò che ha residenza nei Nuovi Grandi Musei contemporanei e nelle Gallerie di Tendenza, per il manico di scopa, per le scatolette di birra, insieme a stracci ammucchiati, sacchi di juta per la spazzatura, bidoni squassati, escrementi inscatolati, scarti industriali etichettati, resti di animali imbalsamati e impagliati, per tutti i prodotti battuti per milioni di dollari, nelle aste internazionali, possiamo trovare termini nuovi. Non ci fa difetto la fantasia. Che so, possiamo usare bond d’arte, per esempio, o derivati estetici.

Attraversare il deserto di ghiaccio del secolo sperimentale Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, credo. Come sistemare nel secondo Novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1945-1951), che sarà pubblicato negli Stati Uniti nel 1993 e, in Italia nel volume Paradigma (2001) e Sessioni con l’analista (1967) Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale (una sorta di terra di nessuno?); ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La bufera e altro (1956) – (in verità, con Satura del 1971, Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile narrativo intellettuale alto-borghese), vivrà una seconda vita ma come fantasma, allo stato larvale, misconosciuta e disconosciuta. Ma se consideriamo un grande poeta di stampo modernista, Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti. Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista? La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, Paura di Dio con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane; nel 1976 il suo miglior lavoro, La Terra Santa. Ma qui siamo sulla linea di un modernismo conservativo.

Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985). La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta si muove nella linea del modernismo rivoluzionario: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista.

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POESIE SCELTE di Maria Grazia Calandrone dal libro “Come per mezzo di una briglia ardente” (2005) con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Born in Mexico City in 1963, Moises Levy, Architettura nella luce

Born in Mexico City in 1963, Moises Levy, Architettura nella luce

 Maria Grazia Calandrone (Milano, 1964, vive a Roma): poetessa, drammaturga, artista visiva, performer, organizzatrice culturale, autrice e conduttrice di programmi culturali per Radio 3, critica letteraria per il quotidiano “il manifesto”, scrive per “la 27ora” del “Corriere della Sera” e cura la rubrica di inediti “Cantiere Poesia” per il mensile internazionale “Poesia”, collabora con il quadrimestrale di cinema “Rifrazioni” e con la rivista di arte e psicoanalisi “Il Corpo” e codirige la collana di poesia “i domani” per Aragno Editore. Tiene laboratori di poesia nelle scuole, nelle carceri e con i malati di Alzheimer. Sta lavorando a Ti chiamavo col pianto, libro-inchiesta sulle vittime della giustizia minorile in Italia.

Libri: Pietra di paragone (Tracce, 1998 – edizione-premio Nuove Scrittrici 1997), La scimmia randagia (Crocetti, 2003 – premio Pasolini Opera Prima), Come per mezzo di una briglia ardente (Atelier, 2005) La macchina responsabile (Crocetti, 2007), Sulla bocca di tutti (Crocetti, 2010 – premio Napoli), Atto di vita nascente (LietoColle, 2010), L’infinito mélo, pseudoromanzo con Vivavox, cd di sue letture dei propri testi (luca sossella, 2011), La vita chiara (transeuropa, 2011) e Serie fossile (Crocetti, 2015); è in Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi, 2012); la sua prosa Salvare Caino è in Nell’occhio di chi guarda (Donzelli, 2014).

Ha composto, con Michele Caccamo, Dalla sua bocca. Riscritture da undici appunti inediti di Alda Merini (Zona, 2013) e, con Amarji, Rosa dell’Animale (At-Takwin, Damasco e Zona, 2014 – prefazione di Adonis), ha scritto tre monologhi per Sonia Bergamasco (La scimmia bianca dei miracoli, Pochi avvenimenti, felicità assoluta e Elle) e Gernika, frammenti poematici intorno alla Guerra Civile Spagnola, per la compagnia internazionale “Théatre en vol”. Sue sillogi compaiono in antologie e riviste di numerosi Paesi Europei e delle due Americhe: segnaliamo le antologie La realidad en la palabra (Editorial Brujas, 2005), Caminos del agua (Monte Avila Latinoamericanas, 2008) e Antologia italikes poieses (Odós Panós, 2011); ha curato per Adonis, l’antologia Voci della Poesia Italiana Contemporanea: Un’Antologia Breve (L’Altro, 2012 – Beirut e Damasco), nella quale è inserita. Con la silloge Illustrazioni ha vinto, nel 1993, l’XI edizione del premio Montale per l’inedito e, dallo stesso anno, viene invitata nei più rilevanti festival nazionali e internazionali; nel 2007 ha interpretato Il Desiderio preso per la coda di Pablo Picasso per Radio 3 (regia di Giorgio Marini, con Silvia Bre, Anna Cascella, Iolanda Insana, Laura Pugno, Maria Luisa Spaziani e Sara Ventroni); dal 2009 porta in scena in Italia e in Europa il videoconcerto Senza bagaglio (finalista “RomaEuropa webfactory” 2009), realizzato con Stefano Savi Scarponi; nel 2010 il suo testo My language is the rose, scelto dal compositore malese Chie Tsang, è finalista in “Unique Forms of Continuity in Space” in Melbourne, Australia; sempre nel 2010 è scelta come rappresentante della poesia italiana e diretta da Lucie Kralova in “Evropa jedna báseň”, documentario andato in onda il 28.8.12 in Česká Televize; nel 2012 fa parte del progetto RAI TV “UnoMattina Poesia”, collabora con Rai Letteratura e con il musicista Canio Loguercio ed è vincitrice del Premio Haiku dell’Istituto Giapponese di Cultura; comincia nel 2013 una collaborazione con Cult Book (Rai 3) ed è nella video installazione Ritratto continuo di Francesca Montinaro, esposta alla Galleria d’Arte Moderna di Roma.

La sua poesia è tradotta in: arabo, ceco, francese, giapponese, greco, inglese, iraniano, olandese, portoghese, romeno, russo, serbo, sloveno, spagnolo (Spagna, Argentina, Cile, Ecuador, Messico, Venezuela), svedese, tedesco e turco. Il suo sito è www.mariagraziacalandrone.it

Jason Langer, 2001

Jason Langer, 2001

Commento di Giorgio Linguaglossa

Maria Grazia Calandrone ha preso atto che la «Forma» è diventata «gelatinosa». La  «Forma» si fa carico di molteplici significati che si sono destrutturati, che non si sono ancora realizzati e che mai si realizzeranno, che rimangono invisibili, non dati, non leggibili. La «Forma» è ormai diventata non abitabile. Dopo Kafka e Beckett la frammentarietà della forma parla per se stessa, di se stessa, e indica, per via indiretta, la impossibilità di leggere il reale, di parlare al reale. La forma della poesia è diventata un contenitore di significanti de-strutturati, cioè priva di legislazione, senza regole, e quindi libera e liberata, anche da se stessa, e dall’onere improprio di porsi come rappresentazione di un oggetto, dalla servitù di designare un «reale». La «Forma» (tra virgolette) ha qui esaurito il mandato della secondarietà per porsi come unico baluardo al senso che non c’è, alla reificazione del senso.
Non è un caso che le prime parole del libro della Calandrone inizino con il rimando alla «selva oscura» della Commedia dantesca:

La selva automatica e squillante, l’anonimato azzurro
ma non etereo: scrupoloso
piuttosto, di un cantiere che muova tutta insieme sotto sforzo la meccanica
munita di contrappesi di mercurio, trivelle
di affondamento e bracci…

Siamo in un mondo non più rappresentabile (che non sta più davanti ad un soggetto che osserva), e quindi non orientabile in una «Forma», tantomeno chiusa o algebrica o aperta che sia. Non c’è nessuna matematica o lessematica applicabile a questa «Forma», se non una matematica per sottrazione, per diversione topologica (ma non toponomastica, perché è assente in questa poesia qualsiasi toponomastica, qualsiasi mappa per l’orientamento delle direzioni). E non c’è nemmeno un «viaggio» che sia rappresentabile e presentabile in termini di una edulcorata presentabilità borghese. Insomma, la realtà non è più citabile nemmeno per via e per mezzo di citazioni illustri o meno; c’è una machinerie che gioca con macchine desuete e celibi alla Duchamp dove scorrono e si scontrano biglie rumorose e indisciplinate in «una luce semicieca» in «una infinitesima porzione della nostra unanime sostanza terrestre» e «la evanescenza del cielo / e la sua effervescenza di ali…». Il «viaggio» borghese qui conosce la sua fine, o meglio, la sua implosione, è un viaggio bombardato, segmentato e ridotto a lessemi e a relitti non codificabili e non organizzabili in un discorso di senso compiuto, perché c’è un discorso laddove c’è ancora un senso rinvenibile, per quanto disarticolato e frantumato.

La realtà è diventata muta, l’universo è dissonante, e la «Forma» è qualcosa che è divenuta estranea sia al concetto di rappresentazione che a quello di testimonianza; non deve testimoniare nulla a nessuno, perché non c’è nulla di cui render testimonianza, la «Forma» non è un luogo tranquillamente abitabile né facilmente accessibile se non come luogo sottoposto a continui scossoni e deragliamenti direzionali. Un luogo terremotato e terremotabile. Il fatto è che soltanto attraverso questa «Forma» può parlare il non-identico, cioè il reale, ma come un di-fuori, un di-lato, un esterno di cui noi siamo semplici e passivi spettatori di un reale che non può comunicarci altro che la sua lingua straniera.

«La materia ha il peso e l’esattezza che ci serve / a dividerci come nuotando, come arcieri che scoccano. Abbiamo convincimenti da laboratorio angelico: nell’acuto, nel perno / del cronografo, nel / fulgido…».

Qui non è  il soggetto che parla, che riproduce, rappresenta qualcosa di esterno a sé, è una entità indifferenziata che si esprime attraverso i verbi all’infinito e declinati al passivo e attraverso un linguaggio ridotto al gradiente minimale:

Ecco.
Davanti. Non possiamo che essere
davanti. La schermaglia caprina degli aceri echeggia, rimacina…

In questo tipo di poesia le particelle neutre del discorso sono spesso impiegate alla fine (oltre che all’inizio come si conviene) del verso, come a tentare di disciplinare il traffico lessematico ormai impazzito in un sistema semaforico neutro e neutralizzato da agenti di un altro sistema solare che sono scesi sulla terra e la abbiamo colonizzata ad insaputa dei terrestri. «L’espressione è il volto addolorato delle opere» scrive Adorno. Appunto, in questa poesia l’espressione viene stravolta da un dolore anestetizzato, posto sotto controllo; è un dolore insonoro, non percepibile mediante il sistema nervoso centrale e periferico, è questo il motivo della insonorità di fondo di questa poesia, o meglio, della sua sonorità ma come di una lingua straniera; è un dolore in-significante, per questo i lessemi corrispondono a fonemi anestetizzati, svirilizzati, svuotati di significazione.

Maria Grazia Calandrone non ha nulla da rappresentare o da testimoniare circa la presentabilità della sua epoca, circa la degradazione e la catastrofe avvenuta, e non ha da dire neanche alcunché circa il non-senso della realtà (posto che vi sia una realtà degna di questo nome). Di qui il suo asintattismo, la dis-locazione sistematica dei versi secondo un dis-ordine sistematico, di qui la dis-locazione di frasari anestetizzati (comunque privati di capacità comunicativa), non più visti come un sistema vascolare di lessemi che concordano o discordano in qualche modo pur scomposto e dissonante. Il fatto è che la Calandrone ha fatto propria la tesi secondo cui il «reale» sia un qualcosa non più comunicabile e non più leggibile mediante gli strumenti linguistici tradizionali, e che per questo compito non resta altro che percorrere l’ultimo passo che resta da fare: la sistematica liquidazione della unità metrica di base, l’endecasillabo e la sua sostituzione con unità frastiche articolate e disarticolate a secondo delle necessità.

Marcel Duchamp Duchamp devoted seven years - 1915 to 1923 - to planning and executing one of his two major works, The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even, ...

Marcel Duchamp Duchamp devoted seven years – 1915 to 1923 – to planning and executing one of his two major works, The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even, …

da Maria Grazia Calandrone Come per mezzo di una briglia ardente (Atelier, 2005) pp. 72 € 7

La selva automatica e squillante, l’anonimato azzurro
ma non etereo: scrupoloso
piuttosto, di un cantiere che muova tutta insieme sotto sforzo la meccanica
munita di contrappesi di mercurio, trivelle
di affondamento e bracci
che individuano una infinitesima porzione della nostra unanime sostanza terrestre
e la sollevano (con il lamento
dei giunti ridotto a un fiato dalle cromosfere
dei cuscinetti): la collocano
dove si prende senza consenso alla terra
data la grossolana efficacia
del peso. Così la evanescenza del cielo
e la sua effervescenza di ali
fermissime stanno ancorate al suolo come una milizia. Nessuno
vola. Non sono
reparti contraffatti dalla controluce. Non sono
i frantumi tonanti delle nostre anime
posti nel mezzo di una domanda
vuota e rovente, la strumentazione di un volo che non si può rifare
per venire
immatricolati in un corpo la cui tendenza insurrezionale
dimostra tutto, tutto il dolore taciuto.

*

La materia ha il peso e l’esattezza che ci serve
a dividerci come nuotando, come arcieri che scoccano. Abbiamo
convincimenti da laboratorio angelico: nell’acuto, nel perno
del cronografo, nel
fulgido. La sfoglia calda della superficie sostiene
una comune interezza, l’incedere
lauto e canoro delle pallonate – spezzoni: curve, torsioni della vela
dell’esistenza tutta che non si vorrebbe
pronta. O sangue malinconico o vascello legato
a cose come – la schiuma
– l’ombra – la consistenza agrosalina del sangue, la miseria climatica
dell’unghia, la midolla
radiografica dell’osso
quasi scoperto – o
l’argilla che rode
il tubo
gommato – il vulnere
ingoiato
nella ferma
poderosa. Questo volto rifatto sconosciuto è una cosa
che rimbomba e approssima a niente
l’automatismo del respiro. Entra
nella memoria
nella fermezza della caccia
e nella discriminazione senza profitto
dell’amore. Datele
coscienza:
la pietà che apre gli occhi. Sempre, sopra
ogni fortuna, avrei chiesto che tu non fossi morta.

*

Maria Grazia Calandrone 28.4.15 foto Omri Lior

Maria Grazia Calandrone 28.4.15 foto Omri Lior

Ecco.
Davanti. Non possiamo che essere
davanti. La schermaglia caprina degli aceri echeggia, rimacina
rosso doloso,
pneuma
di tende su un biancore di mote di paeselli – al di là
del bollore invernale dell’interno
sul palinsesto delle ringhiere
che paiono un ancoraggio del nulla
alla terrazza planare, e quel vetro
premuto in basso con la bocca
è appannato e smagliante, dove tocca
il respiro il vetro
comincia a esistere, unto
dalla neve e dal profumo d’alga
del tuo respiro – cosa
che appare a un tratto fondamentale, cose come la nebbia e i paraventi
o gettare le reti
nelle occasioni felici, spingere avanti il peso
caucasico e sbendato e senza peso di un corpo
già qualunque – una zona
franca che chiede di essere
liberata
dalla stele di intelligenza chirurgica, lasciata a un semivuoto
passo di uccello con tutto il respiro
preso da una lentezza subumana
come la forza esercitata dal vento sui bancali
in travertino, l’imprevisto tumulto di una lanugine. Di essi, nessuno.

*

Lo scoppio nelle camere
di combustione (la combustione
della grafia legata all’emisfera nella quale il corpo fu incominciato
– incomincia ogni giorno –
ad esistere prima per iscritto e dolcemente poi
a desistere
a cedere un calore di sottana alle sponde
di acciaio cromato) con l’elevato grado di fermezza prodotta
dal cobalto
della schiuma marina. Nel letto
vinilico i residui del nòcciolo
radioattivo: cuore vicino al flusso della lava, vene senza esercizio – un fulmine
globulare – le feritoie di olio e di bitume – perché il letto ha grandezza e superfici
– navate – o è un Reno gelato
e plebeo – piccole fruste che sbandano le truppe (e nei reparti
vige una generale ritirata
verso il santuario, la porta occidentale). Siete navi
condotte dal vento come per mezzo di una lunga briglia
a figure interne che tendono alla sequenza e alla stasi.
Siete corpi iniziati dal nome e da quel nome
– mamma – evaporate
con quegli occhi iniziali
scacciati
dal dolore e dal freddo come bestie.

*
Maria Grazia Calandrone Come per mezzo di una briglia ardente (Atelier, 2005)

La domesticità insorta e molto altro
disordine: abitacoli in ferro verniciato sugli spalti di malva rifatta
costa d’inverno e cerea
neve contumaciale: spalmata in buchi
semplici, fosse
cellulari, scardinamenti: terra
crepata dalla insostenibile
vibrazione del vero. Ma altre volte arriva come un editto
annunciandosi al branco che ciondola su materassi d’erba accrescitiva
del cielo sui depositi vulcanici: spazi rimossi dai merli che cantano
primitivi e coerenti, senza traccia
nel becco
del lago amniotico – subliminale
amnesia, inclinazione all’eresia degli astri
che dondolano appesi per le chiome alle volte
e alle volte irradiano dimenticando.

*

Il dolore disinfetta, ha una disciplina e una inclinazione
grammaticale – soprattutto
ai lati delle strade dove l’asfalto come noi è incline
alla luccicante consecutio
segnaletica – e il carburo sfibrato del respiro
ha un odore essenziale: segatura bagnata nel calcio
di edifici scolastici
o cielo che cospira su teste grandi come frontiere marittime con l’acqua limpida e orefice che lavora – il cielo
svaligiato dalle sue ampie nuvole di pioggia – di uccelli
depurati, soffocati dal vapore nativo. Per deduzione
da quelle teste – e per associazione con i pesci soffianti e candenti del fondo – emerge
il vero: il mastodontico, la segretezza. L’ospite
viene senza disturbare
ed è stato vagliato.

*

Il quadrilatero senza spessore
che contiene la spina perimetrale e bianca
del posteggio forma nella materia
un disegno morale, il termine effettivo di una pulsione
conciliativa tra il diffondimento integrale
delle nostre pròtesi
e la organizzazione del possesso: questo smalto
– questa linea brillante amaranto che costeggia i ciuffi migliorati dal sole dei campi
ribatte interiormente
luce refrigerata – mercuriale.

*

Abbandoniamo l’incuria volontaria dei nostri estatici allusi frammenti su molti guanciali: i solchi
delle vite nelle biancherie degli alberghi sono i lacci degli anni
nel tornio
del tronco: quadri del suo infinito accrescimento. Nessuno
è estraneo: legifera dal buio del nostro sangue
una sola lingua: tiene il posto
di questo impasto
di carne nella propria sopravvivenza
idroelettrica, di questo ingorgo pieno di nobiltà e desiderio tra gli scuri
sostrati di giustizia e i portici – distesi su un banco di dormiveglia. Il poco
che uno a uno lasciamo da ricordare: un giardino
una piastra malata di vanità e di vero
dove è in sospeso la bacca della nostra semiincoscienza
provvisoria, pertanto perdutamente
necessaria. I bambini (i bambini!)
fanno giri di vite nel destino.

*

foto Elsa Martinelli, 1967

foto Elsa Martinelli, 1967

V
Il corpo deposto come un attrezzo

E’ più arduo indovinare il passaggio di quello che non ci modifica.
Da quale disaffezione della memoria provenga il commiato, il pentimento degli abbandonati e dei morenti
lungo l’ultimo intenso vorticare di foglie
che se ne va per le finestre. Ciò che entra di sabato in quel brusìo di farfalle ha sordità
del rotolìo di un carro tra le felci, l’autonomia della stagionatura
di corpi non comuni, incamminati
su raggi di sole. Come una primizia – o il rimpianto nel fondo
delle coppe: i morti sprofondati
acutamente nella grazia delle loro stalle.
O terra intrisa dal corpo lento e testuale del sole, uscito
tra boschine lacustri.

*

La pelle bianca dei morti – la croce quieta delle costole nell’acqua oleosa: un bollore appartato – le diatomee
fin dove la luce
tocca lo scalmo argenteo del palato.

*

Io sono nella mia morte – sono dove nessuno più mi cerca:
infelice come una bambina – felice come una bambina.

*

E tu violenta e rassegnata nella vestìna smalvita: una reliquia
nel suo fiammeggiare
preparata a una muta capienza. Ti poso sulla seggiola
come un vestito vuoto
e bianco. Mio piccolo legno di tabernacolo.

 

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