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Dalla ontologia negativa di Heidegger alla ontologia positiva del linguaggio poetico e del pensiero filosofico di Massimo Donà, Poesie di Giuseppe Gallo, Francesco Paolo Intini, Bartolo Cattafi, Nota critica di Giorgio Linguaglossa

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l’Essere è ciò che si dice

L’ontologia negativa di Heidegger era incentrata sull’assioma: «l’Essere è ciò che non si dice». Da qui il passo successivo è il silenzio come impossibilità di dire ed esperire il silenzio. La grande poesia di Eliot, La terra desolata (1922) e gli Ossi di seppia di Montale (1925) ne sono la eloquente esemplificazione; il non detto diventa più importante del detto, il non si dice più importante del si dice. Tutta l’impalcatura della colonna sonora della poesia primo novecentesca viene calibrata sul parametro del silenzio, di ciò che non si dice, di ciò che non può essere detto. Altresì, tutta l’impalcatura indicativo-ostensiva del linguaggio poetico primo novecentesco più maturo tende a periclitare nello spazio del silenzio quale «altro» indicibile per impossibilità del dicibile. L’intenzionalità significante tesa all’estremo tenderà a sconfinare nel silenzio dell’impossibilità del dire.

Il pensiero filosofico e la pratica poetica di questi ultimi anni, invece, pensa una ontologia positiva, per cui si può affermare che l’Essere è ciò che si dice. Ciò che non è detto sconfina non più nel silenzio del dire ma nel nulla dell’essere. Ci troviamo davanti ad una rivoluzione copernicana nella sfera del pensiero filosofico e del linguaggio poetico.

Le poesie della nuova ontologia estetica, sono una calzante esemplificazione di questa rivoluzione copernicana. Il dire che si esaurisce nel detto, il detto nell’esser stato detto, in un passato che non è più. Tutta l’impalcatura fraseologica e la denotazione proposizionale di ogni singolo verso indicano una compiuta ostensività della significazione, chiudono la significazione, e la riaprono nella proposizione seguente. Così, la poesia diventa composizione di singole componenti, di frammenti, frasi assiologicamente non-orientate che periclitano verso il nulla della significazione, che non possono sporgersi nel silenzio per la priorità del nulla che percepiscono, per la estrema vicinanza del nulla di cui hanno percetto.

Aggiungo una postilla. La nuova poesia si muove all’interno di un orizzonte del positivo significare, va alla ricerca del significato come di un positivo assoluto, e così facendo, rischia di venire inghiottita, ad ogni frase, nel significato positivo, nel positivo significare: un darsi che è un togliersi, un positivo che si rivela un negativo. Le fraseologie restano come appese all’appendiabiti di una sospensione trascendentale, sopra l’abisso del nulla dal quale provengono. Paradosso del paradosso: il positivo significare che periclita nel negativo significare, in quanto il discorso poetico si situa proprio sul crinale della differenza tra il così posto e il togliersi del così posto in non-posto.

Scrive Massimo Donà:

«Ecco perché non si può assolutamente dire che l’orizzonte della positività costituisce il presupposto a partire dal quale, solamente, qualcosa come una differenza può essere posto; infatti, non c’è “essere” se non nel darsi di una differenza – essendo proprio quest’ultima, ciò che ‘fa essere’.
Nessuna distinzione, dunque, tra il differire ontico ed il differire ontologico – come avrebbe invece voluto Heidegger: non essendo in alcun modo pensabile un essere, se non come essere dell’essente.
Di cos’altro possiamo dire che ‘è’, infatti, se non di questo o quel determinato? Nessun’altra esperienza dell’essere si dà mai all’uomo – stante che lo stesso essere in quanto essere si dà al pensiero sempre come “così e così determinato”; cioè come diverso dall’albero e dalla casa. Per cui, anche dire, dell’essere, “che è”, è dire l’essere di un determinato».1

La nuova ontologia estetica ha il vivissimo percetto della oppositività di tutte le parole, della belligeranza universale e del contraddittorio universale di tutte le parole in quanto provenienti da quella oppositività originaria che le rende «tutte possibili proprio in forza della sua specialissima natura – costituendosi essa, per l’appunto, come opposizione tra essere e nulla. Ossia, come opposizione tra l’esser positivo del positivo (la positività) e l’esser negativo del negativo (la negatività)».2

(Giorgio Linguaglossa)

1] M. Donà, L’aporia del fondamento, Mimesis, Milano, 2008, p. 32
2] Ibidem p. 33

Una poesia inedita di Marina Petrillo

Un io gestatorio decaduto, morto al concetto di eterno.
Non rimane alcun frammento,

solo cellule amebiche poste ai limiti di un firmamento finito.
Inibita ogni azione,

anche la nascita. Memorie dissolte
in operoso dialogo interiore, lo sguardo volto e avvolto,

a stele di vento acido.
Inquieti i bambini vivono in universi paralleli,

gestatori, di cui smarrita è la memoria.
Non regna ascensione,solo litania prossima al vivere.

Il mistero, nel piangere bianco,
inclinato asse nella acquiescente vita abdicata.

Pericola il cardine posto a suggello di un dio imploso:
catastrofe morta al suo stesso suono.

Una poesia di Donatella Giancaspero

Le strade mai più percorse:
esse stesse hanno interdetto il passo
– alla stazione Bologna della metro blu, una donna. Sospesa.
In anticipo sulla pioggia –.

Qualcuno ha voltato le spalle senza obiettare,
consegnato alla resa gli occhi che tentavano un varco.

Le ragioni mai sapute vanno. Inconfutate
– scampate al giudizio – per i selciati – gli stessi
ritmati di prima – gli stessi –
da martellante fiducia – nell’equivoco di chi c’era.

Per un’aria che non rimorde – l’ombra
sulla scialbatura – avvolte da scaltrito silenzio.

Giuseppe Gallo

25 maggio 2019 alle 9.19

Caro Giorgio, trovo molto interessante l’appunto che esplichi sulla ontologia negativa di Heidegger: «l’Essere è ciò che non si dice» che oggi si rovescerebbe nel suo opposto “l’Essere è ciò che si dice.” e la sua estensione alle poesie di Marina Petrillo e di Donatella Giancaspero. Noto però, che i due assiomi hanno come radice sempre la parola e il linguaggio. Anche il “non si dice” ha bisogno di essere espresso alla stessa stregua di ciò “che si dice”. È sempre il linguaggio che deve parlare…
Leggo in questi giorni che sta per uscire, per le edizioni Le Lettere, Tutte le poesie di Bartolo Cattafi, (1922-1979) poeta meridionale che ha dato il meglio di sé dopo il 1960 con le raccolte L’osso, l’anima (1964) e L’ora secca del fuoco (1972). Che ne pensi della sua supposta “originalità”?
Approfitto dell’occasione per postare l’ultimo componimento che dovrebbe concludere l’esperienza di Zona gaming.

Zona gaming 10

Si va verso la pioggia
che incrudelisce sulle margherite.

Lilli, il tuo niente
versa la rabbia dentro un altro passo.

Non stato io a incontrare me stesso nelle parole.
L’invisibile si spalma sulle superfici.

Ricciolo di burro sul toast che ingromma. Caffè amaro
sopra le papille. Polvere per soffocare nel respiro.

Zona gaming
Entra nella tua mail… entra nella tua mail… trova un passaggio…

Siamo all’epilogo. Flatus vocis oltre l’istante.
La durata forse sei tu che insegui il desiderio.

L’uomo parla. O parlava?
I miei sogni in crisi: vivono un alfabeto

di incisioni e scalfiture.
Dov’è la bella luce delle lucertole?

Zona gaming
…intermittenza e persistenza delle interferenze…

L’ombra: un diaframma di polline.
L’allergia atopica squama ogni ventricolo.

Incunearsi, allora, nelle vene fino al sangue?
Gridare l’ira per quest’altra morte?

Anche Bianca Maria va nella pioggia
che incrudelisce l’aria dell’autostrada.

E Lilli senz’anima gironzola intorno alle siepi
con la carne del corpo inscatolata.

Zona gaming
…ninna nanna… ninna Nanni… ninna Nanni! (21/05/2019) Continua a leggere

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Nelo Risi (1920 – 2015) LA POESIA – UN BILANCIO ATTUALE NON CONCLUSIVO. Commento di Giorgio Linguaglossa, Risi, Luciano Erba e Bartolo Cattafi, tutti poeti nati nel giro di pochi anni (Risi nel ’20, Erba e Cattafi nel ’22), che pubblicano nello stesso giro di anni i loro libri: Partenza da Greenwich (1954), Il bel paese (1955) e Polso teso (1956); in tutti e tre i poeti nominati si ritrova la stessa aria di «bottega», la stessa impostazione realistica e urbana, la medesima aura prosastica. Era il loro modo di circoscrivere il Montale simbolistico e scavalcare la identificazione tra simbolo ed emblema del poeta ligure 

 

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Minitram anni Cinquanta

Giorgio Linguaglossa: Un Bilancio attuale non conclusivo

Venerdì 18 settembre 2015 si è spento Nelo Risi, l’ultimo rappresentante (Milano 1920 – Roma 2015) di quella ‘terza generazione’, quella di Gatto, Sereni, Caproni, Bigongiari, Fortini, Luzi e Parronchi che era nata negli anni Venti e che portava inscritto nel suo codice genetico la tradizione ‘novecentista’; il poeta milanese aveva indicato già dagli anni Quaranta (L’esperienza era del 1948)  l’ipotesi di una via di uscita dalle poetiche «novecentiste»: la via del realismo, una maggiore e più salda presa sulla realtà come una possibilità a disposizione della poesia italiana per liberarsi dei suoi antichi vizi letterari ed estetizzanti, con quella marca pascoliana e dannunziana che ancora pesava come una ipoteca sul capitale estetico delle nuove generazioni. In particolare, risultarono fruttuosi quella attenzione ai dettagli del quotidiano, agli aspetti esistenziali e sociali, quegli accenti alla decenza, all’etica del fare poesia che non erano sfuggiti ad un critico attento al nuovo conio come Luciano Anceschi che scelse Nelo Risi, insieme allo stesso Sereni e a R. Rebora, Modesti, Orelli ed Erba, quale alfiere di una ‘linea lombarda’ ancora tutta da scoprire e da coltivare.

Risi, Luciano Erba e Bartolo Cattafi, tutti poeti nati nel giro di pochi anni (Risi nel ’20, Erba e Cattafi nel ’22), che pubblicano nello stesso giro di anni i loro libri: Partenza da Greenwich (1954), Il bel paese (1955) e Polso teso (1956); in tutti e tre i poeti nominati si ritrova la stessa aria di «bottega», la stessa impostazione realistica e urbana, la medesima aura prosastica. Era il loro modo di circoscrivere il Montale simbolistico e scavalcare la identificazione tra simbolo ed emblema del poeta ligure per approdare su terreni meno altisonanti e meno scivolosi, più aderenti al «reale». Terreno questo che già Vittorio Sereni stava iniziando a percorrere con prudenza e decisione con testi che intanto apparivano su riviste e che indicavano una linea di sviluppo comune. «Tutti e tre, Erba, Risi e Cattafi, di non improvvisata estrazione borghese, perfettamente in grado di gestire, per esempio, un codice di allusioni familiari o di gruppo, con il suo potenziale di ironia, oppure di cogliere e utilizzare, all’occorrenza, il significato simbolico-oggettuale di un interno, di un arredo… e tutti e tre abituati lungamente a vivere (se non, come risi e come erba, addirittura nati) in una delle pochissime città italiane dove una borghesia è, in altri tempi, davvero esistita, cioè nella fattispecie, Milano».1

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Nelo Risi

È verosimile che la fortuna  della poesia di Nelo Risi sia debitrice della angolazione della lettura critica che ne fece un Raboni, oltre ché della sua inclusione da parte di Luciano Anceschi di Risi nella Linea lombarda. Le istanze «civili» così presenti nella sua poesia, quel timbro un po’ metallico e cosale delle parole messe su carta da Risi, fanno irruzione nella poesia di quegli anni come fossero appunto delle «cose», delle «pietre», scrisse Raboni, un modo di poetare antimetaforico; affermazione che per Raboni deve essere intesa «nel senso che la metafora centrale e condizionante dalla quale essa riceve, per così dire, il proprio regolamento è appunto una metafora di non metaforicità». Insomma, quella linea tutta lombarda che afferiva, a ritroso, ad un Parini, ad un Carlo Porta e al Manzoni della Storia della colonna infame, Raboni la individuava nell’impiego sobrio, ironico e gnomico del dettato poetico di Risi, per quel suo optare per la verità delle «cose», per quella allergia verso le parole altisonanti o emblematiche. Risi veniva così approntando una poesia essenzialmente «etica», nominalmente revulsiva verso ogni pronunzia metaforica, una poesia magari opaca a prima vista, dotata di una tenace letteralità, una praticità, una utilità nella concezione e nell’uso del linguaggio tipicamente borghese milanese ma certamente dotata di una certa quantità di vigore nominale. Era proprio quella «opacità» delle parole a rendere marcata nella sua poesia la predisposizione per una testualità priva di trasparenze e di rifrangenze, tutta interna e internalizzata nella «cosa» e nella «parola» corrispondente. Oggi quello che rimane della poesia di un Risi è proprio questa fede nella possibilità di una completa identificazione tra la «cosa» e la «parola», alla quale il poeta milanese si tenne sempre fedele.

Risi esordisce come scrittore con un testo in prosa, Le opere e i giorni nel 1941, e di seguito i libri di poesia Polso teso (1956), Di certe cose che dette in versi suonano meglio che in prosa (1970), Amica mia nemica (1976); I fabbricanti del “ bello ” (1982); Le risonanze (1987) Mutazioni (1991); Il mondo in una mano (auto-antologia per temi) (1994); Altro da dire (2000); Ruggine (2004); Di certe cose – poesie 1953-2005 – (2006); Né il giorno né l’ora (2008).

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In-nome-del-popolo-italiano con Vittorio Gasman

Eugenio Montale  sul “Corriere della Sera” nel 1957, scrive: «il detto prevale sempre e comunque sul non detto, il nero sul bianco, la chiarezza sull’ambiguità, il piano sullo spessore, l’univocità sulla polivalenza, e dove la musica non viene usata, simbolisticamente, per torcere il collo all’eloquenza ma, al contrario, per crearle intorno un nuovo spazio acustico, per incrementare l’indice d’ascolto». «Scrivere è un atto politico», ha scritto Risi in Dentro la sostanza (1965), libro nel quale il poeta milanese raggiunge il diapason dell’impegno che, da civico diventa politico.

Oltre che di cinema, Risi si occupa di traduzioni, proponendo in Italia i poeti Pierre Jean JouveKostantino Kavafis e il fondamentale libro di Jule Laforgue Moralità leggendarie.

Di frequente Risi assume lessico e toni severi e ammonitori (“dopo la grande/ dopo la mondiale è nell’aria/ una terza universale…”), stigmatizza la instabilità degli equilibri politici del mondo a lui contemporaneo.

A rileggerlo oggi, si avverte lo stridore di un progetto immobilizzato sulla letteralità, un tipo di scrittura messa a nudo da un eccesso di volontà referenziaria. Per un bilancio attuale della poesia di Nelo Risi si dovrebbe tenere conto e valutare il portato positivo di una produzione poetica antiretorica e antiestetizzante, ma dovrebbe anche essere valutata l’incidenza non positiva che un dettato poetico legato ad un eccesso di letteralità ha avuto sullo sviluppo della poesia del Novecento e dei giorni nostri già visibilmente inficiata dalla presenza di un facile regesto referenziario e da un certo abuso della narratività irriflessa. I Novissimi entrano nelle antologie scolastiche subito dopo la loro apparizione (1961). Il Nuovo, il Moderno diventano un feticcio, la legittimazione dell’arte. Rispetto alla neoavanguardia Nelo Risi appare invecchiato, arretrato su posizioni referendarie su questioni come il «reale» e su questioni di «etica». Il punto di maggiore livello della sua produzione, Risi lo raggiunge proprio in questi anni, con Dentro la sostanza (1965); ma proprio qui si rilevano le criticità di un tipo di scrittura che non consente un allargamento del concetto di «reale» che Risi perseguiva: la metafora sembra che stia lì lì per scoccare, senza che mai giunga la sua ora. Ai lettori l’ardua sentenza.

1 Introduzione di Giovanni Raboni  a Nelo Risi Poesie scelte  1943-1974, Mondadori, 1977 pp. XIX e XX

2 Cfr. Introduzione

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in_nome_del_popolo_italiano_ugo_tognazzi film di dino risi

ho colto la vita dall’albero
di ogni frutto ho fatto conserva
quello che è stato è stato

Il curriculum è aperto: facile
dire che tutto è uno scialbo
museo maniacale comodo dire
che ho perso la faccia che ho
accomodato a mio modo la storia
in giro se ne parla per parlare

accomodato a mio modo la storia
in giro se ne parla per parlare

Da uomo d’ordine
che dell’ordine del mondo
ha fatto una sua fondata opinione
devo tener conto che dopo la grande
dopo la mondiale è nell’aria
una terza universale tanta
energia compressa dovrà pure espandersi!

Voli di bandiere stragi araldiche
le pulsioni più coatte
scaricate sugli inermi in ogni dove
nel Laos nel caos
magari un’isoletta un quarto turca
il resto greca un disegno autoritario

Biogeneticamente pare
non ho di che vantarmi
(e i traslati e le metafore?
Bello come un giglio
sant’Antonio lis de France
il vergine il pudico scala
al bianco

Mi gestisco mi appartengo
ora tendo al bordello ora
dipendo dalla famiglia amo
la donna serva (oh! il turchinetto
da bucato un rifarsi in sogno
amabilmente candido

Ho un carattere dominante
e dovrei cambiare? so so
che la mutazione è legge
fondamentale per averla
studiata sui conigli le piante
(metti nero su bianca
verrà fuori un meticcio)

Una buona dentiera cannibalesca
e la carriera è aperta
titoli & azioni / burro & cannoni
nel lavoro sempre prima il profitto
(il privato è diverso dal sociale
anche se crea disagio in fabbrica

Un domenicano lunedì mi ha detto
“A ben guardare badi bene mi dia retta
il marxismo non è che un’eresia cristiana”
io ho provato a sciacquarmi la bocca
ma è un detersivo che ti mangia il tartaro
e dalle gengive gronda rosso (tutto sommato
un’esperienza deviante volevo fare contenta mia figlia

Notti in bianco
in solitudine davanti un bicchiere
in un pallore di luna funesto
albeggiare di tracce mnestiche
tra ornamenti e maschere)
(ti viene da piangere

Se ho un rimpianto è per le colonie
il mercato delle schiave un paio di moretti a letto
l’incontro con Livingstone i ladri con le mani mozze
il Congo di Leopoldo la Libia di Graziani le missioni
il mondo a nostra immagine ah l’Africa!
non c’è più in giro un mercenario
molto è perduto anche il guadagno facile

(Ho notato che la gente di colore
non suda affatto Io me ne sto sdraiato
ciononostante traspiro sempre Che sia
una questione di pelle?
di una cosa vado fiero
della mia razza

Da quanto veleggio meno e vivo ritirato
mi lustro l’onore mi lavo il cervello
depongo fiori d’arancio in devozione
ai piedi del mio busto d’alabastro
somigliantissimo (dentro l’albume
di quegli occhi smorti
vegeta un sesso cagliato

Finirò con la benda sotto il mento
avvolto in un sudario rigido oltre il dovuto
l’ostia rappresa tra la lingua e il palato
e le mie ossa biancheggeranno
come frammenti di marmo pario
mentre l’Europa invasa)

Quello che è stato è stato

da Amica mia nemica (1976)

cinema Una vita difficile - Dino Risi (1961)

Una vita difficile – Dino Risi (1961)

L’Arte della guerra

Il faraone avanza sotto un cielo di ventagli
l’esercito va sempre a piedi su dodici file
dal deserto di sabbia alle pietre nere di Siria,
un leone senza laccio segue il carro reale.

Dove l’erba è fitta una città d’oriente
manda barbagli. Gli ambasciatori si consultano
fissano il luogo e il giorno dello scontro,
se una delle parti non è pronta la si attende.

I presagi

Un falco strambo prende la via del tempio
tremila cani invadono l’orizzonte
un gallo nero cova due uova d’anitra,
da lavandaie (o démoni?) sotto i panni stesi
tutti i vessilli devono inchinarsi –
con sotterfugi e incubi ma che potenza
all’atto di decidere mi tiene succube?
La vanità perdendomi ne fu lusingata.

Il veterano

Chi ha disfatto? chi ha ucciso? ha catturato?
certo, un fendente m’alleggerì lo scroto
e sotto l’elmo sono tutto un guasto
ma basta uno squillo per rimettermi in sesto.

E poi c’è la pensione, un orticello libero
da tasse e un levriero che mi fa da bastone
quando vado a spasso. ho un dente solo? Avanza!
mastico quello che mi passa lo Stato.

da Dentro la sostanza (1965)

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